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MAX WEBER
Max Weber (1864-1920) nasce in una famiglia borghese appartenente al mondo della cultura e della politica. Nel 1890 inizia la sua attività politica nel partito cristiano sociale ma la sua carriera in questo ambito rimase senza successo. Egli fu favorevole alle imprese imperialistiche ma auspicò un sistema democratico all’interno della nazione tedesca.
All’inizio della sua attività di studioso Weber fu in contatto con il c.d “circolo dei socialisti di cattedra” e per esso svolse una ricerca sulle condizioni di vita dei contadini della Prussica orientale: così ebbe modo di confrontare la proprietà agricola con quella capitalistica. Intorno a lui si formò un circolo di intellettuali cui facevano parte Simmel, Lacaks ed altri. Nel 1928 tornò all’insegnamento all’Università di Monaco di Baviera ed aderì al partito repubblicano collaborando alla stesura della costituzione della Repubblica di Weimar. Morì nel 1920 quando ancora la sua opera più impegnativa Economia e società non era ancora terminata.
Uno dei tentativi più noti di Weber è quello di scindere la scienza sociale dalla politica, eppure la politica è sempre presente nei suoi scritti tanto che affrontare lo studio del suo pensiero senza correlalo con i problemi politici del suo tempo si rischia di non comprenderlo completamente. D’altra parte non è possibile comprendere a fondo questo autore senza in quadrarlo nell’ambito di quel dibattito sul metodo delle scienze storico sociali che aveva avuto inizio con Dilthey, Windelband e Rickert.
Il metodo delle scienze sociali - La relazione con i valori e i giudizi di valore – Il tipo ideale
Dilthey aveva distinto le scienze della natura dalle scienze dello spirito in quanto le prime studiano il mondo esterno all’uomo e i nessi causali tra i fenomeni fisici e le seconde devono comprendere l’uomo dall’interno, per immedesimazione.
Windelband, aveva invece distinto le scienze nomotetiche da quelle idiografiche nel senso che le prime studiano il ripetersi di fenomeni nel tempo secondo leggi determinate mentre le seconde studiano i fenomeni nella loro singolarità e irripetibilità spostando dunque il problema dall’oggetto al metodo.
Rickert da parte sua aveva affermato che era necessario far riferimento ad una scala di valori universali per orientarsi nella molteplicità infinita degli eventi storico-sociali e per poter scegliere quelli più significativi.
Mex Weber riprende il discorso di Windelband e Ricker correggendolo con la considerazione che senza una selezione dall’infinità priva di senso di tutto ciò che accade nel mondo la conoscenza è semplicemente impossibile. La realtà oggettiva è un caos per cui la conoscenza (anche quella scientifica) è possibile soltanto in relazione ad una scala di valori che indichi ciò che merita di essere considerato e quale valore attribuire a tale evento. Per Weber, però, tale scala di valori non è composta da valori universali (come per Wind. E Rick.) perché questi valori cui far riferimento sono storicamente, socialmente ed anche individualmente relativi.
Poi, Weber aggiunge che non solo il riferimento a valori è essenziale per la conoscenza ma anche che esistono tanti modi di conoscere la realtà, cioè che uno stesso evento può essere considerato da più punti di vista diversi.
Quindi, la realtà può essere conosciuta solo in quanto si attribuiscono a settori particolari di essa significati e valori particolari ed essa è sempre mediata culturalmente in quanto è la “cultura” che permette di selezionare alcune aspetti dalla realtà infinita priva di senso attraverso l’attribuzione a essi di significati specifici.
Dato che i valori cui far riferimento non sono universali essi non possono essere indicati da alcuna legge scientifica. Nelle scienze storico-sociali le leggi sono ipotetiche e il loro compito è quello di chiarire determinati aspetti in studio del fenomeno ma non possono esaurirlo: si possono cercare connessioni causali espresse in forme di regole ma va sempre tenuto presente che mentre per le scienze esatte della natura le leggi hanno tanta più validità quanto più sono generali, per le scienze storico sociali tanto più le leggi sono generali quanto più perdono di valore. Pertanto, il principio delle scienze nomotetiche (che studiano il fenomeno nella loro tendenza a ripetersi secondo leggi determinate) è valido anche per le scienze storicio-sociali in quanto l’inquadrare il fenomeno da studiare in una legge, sempre ipotetica, può essere utile per la comprensione del fenomeno stesso.
Certamente, secondo Weber, si possono inquadrare soltanto alcune cause di un fenomeno perché esse in realtà sono infinite così non c’è possibilità di esaurire la comprensione di un fenomeno storico-sociale con l’individuazione delle sue cause: si possono solo mettere in evidenza alcuni fattori che, secondo il punto di vista particolare da cui muove la ricerca, hanno condizionato l’emergere della situazione specifica in studio.
Le scienze storico-sociali, poi, trattano di fenomeni culturali nelle loro configurazioni storiche ed individuali specifiche (quindi uniche ed irripetibili) di conseguenza non è sufficiente individuare le relazioni quantitative ma è necessario immedesimarsi, rivivere, intendere (Verstehen): è evidentissima l’influenza di Dilthey. E’ bene chiarire subito, però, che il verstehen di Weber (l’intendere), è diverso da quello di Dilthey perché per quest’ultimo l’intendere significa immedesimazione con i motivi fondamentalmente irrazionali (e che come tali possono solo essere intuiti) mentre per Weber l’intendere non comporta un’immedesimazione di tipo psicologico ma si basa sul fatto che l’azione può essere razionale in quanto tende a raggiungere scopi con mezzi considerati validi (razionalità rispetto allo scopo).
Ecco che non c’è nessuna analisi scientifica puramente oggettiva e che non sia quindi unilaterale nel senso di non poter prescindere da una relazione con i valori e che tali valori siano insindacabili in quanto “questione di fede” implica che la scienza sociale non può dare alcuna indicazione pratica circa le scelte da compiere in sede politica. La scienza non può dare giudizi di valore in quanto essi si basano su determinati ideali e sono perciò di origine soggettiva.
La scienza può, invece, conferire consapevolezza a chi agisce che ogni agire, ma anche il non agire, ha delle conseguenze e significa dunque prendere posizione in favore di determinati valori rispetto ad altri: compiere la scelta, però, è cosa che riguarda esclusivamente il soggetto agente. La scienza può indicarci quali mezzi sono più idonei per raggiungere il fine che ci siamo proposti in relazione alla loro efficacia, e può insegnarci a considerare i fini che ci siamo proposti criticamente (solo nel senso di assenza di contraddizione interna di ciò che vogliamo).
La scienza, dunque, deve far suo il principio della avalutatività nel senso che tutto ciò che essa può fare è giudicare l’efficienza delle scelte rispetto alle mete che si vogliono raggiungere ma la scelta di queste mete esula dalla scienza e diventa questione di fede risolvibile solo dalle religioni positive.
Queste affermazioni di Weber hanno un significato anche politico, infatti, sulla loro base, egli è in grado di porsi criticamente nei confronti del positivismo classico come del materialismo storico. Partendo da questi presupposti, Weber afferma che essendo la realtà storico-sociale infinita e non esauribile da un unico punto di vista, l’errore della concezione materialistica della storia non consiste nell’analisi, scientificamente legittima, dei condizionamenti economici ma nell’aver presupposto che tale analisi sia l’unica valida da un punto di vista scientifico, cadendo tutte le altre nell’ideologia. Se la concezione materialistica della storia come studio del condizionamento economico dei processi culturali è un metodo prezioso, come pretesa dogmatica va recisamente rifiutato. Non è dunque l’analisi ad essere errata ma la presunzione che il punto di vista assunto e il conseguente metodo adottato siano gli unici validi quando invece la medesima realtà storico sociale può essere validamente studiata con pari legittimità e scientificità da punti di vista diversi. Il significato politico della concezione di Weber è evidente: riducendo il marxismo a un punto di vista tra i tanti possibili, toglie ad esso quella forza attiva che dall’inizio ne voleva essere un tratto distintivo essenziale. Weber si definiva esplicitamente un borghese (… contento di esserlo).
Naturalmente, Weber (dopo aver affermato che scienza e conoscenza non sono possibili senza una selezione fondata su una relazione con i valori, di un tratto specifico della realtà che si considera come significativo a scapito di altri) si trova nella necessità di indicare quali possibilità ha la scienza sociale di essere oggettiva. Weber afferma a questo proposito che l’oggettività delle scienze sociali è garantita dal metodo. Egli afferma che ogni fenomeno storico-sociale è determinato da una serie di concause ma è possibile accentuare unilateralmente un suo fattore specifico, che in concreto non si trova mai allo stato puro e isolato, e costruire sulla sua base un modello che serva all’interpretazione della realtà in questione dal particolare punto di vista unilaterale da cui essa è osservata. E’ questo il “tipo ideale”: esso è cioè uno strumento euristico per l’interpretazione della realtà che, una volta accettato, conduce chi lo accetta a determinate conclusioni e quindi garantisce l’oggettività della ricerca scientifica. Il tipo ideale è dunque l’estrapolazione dalla realtà storico-sociale di un suo tratto (che concretamente si trova inserito in tale realtà) che viene appositamente accentuato concettualmente in modo da formare un modello tramite il quale interpretare la realtà. Esso è un’utopia nel senso che, nella sua purezza concettuale, non può mai essere rintracciato empiricamente nella realtà. Esso serve come schema di riferimento rispetto al quale la realtà deve essere misurate e comparata al fine di illustrare determinati elementi significativi del suo contenuto empirico. Ecco che l’artigianato, il capitalismo, il cristianesimo, la chiesa, la setta, lo stato, sono tutti esempi di “tipo ideale” portati da Weber.
Negli stessi anni nei quali elabora la sua metodologia (agli inizi del ‘900), Weber cerca di applicarla alla ricerca concreta, di questo periodo è, infatti, il suo famoso saggio su L’etica protestante e lo spirito del capitalismo (1905).
Se da un lato questa ricerca costituisce il terreno concreto sul quale Weber applica la sua metodologia, dall’altro non si può nascondere anche la valenza politica di quest’opera in quanto con essa Weber cerca di dare una spiegazione alle origini del capitalismo diversa da quella di Marx ed Engels.
Il capitalismo, afferma Weber, non è né sete di potere né sopraffazione economica in quanto tali fenomeni si sono sempre manifestati in tutte le epoche e in tutti i luoghi. Esso è un “calcolo razionale al fine di un guadagno sempre rinnovato”. Tale calcolo è proprio dell’impresa capitalistica e richiede, affinché possa realizzarsi, il libero scambio, il lavoro formalmente libero e probabilità di guadagno formalmente pacifiche. Esso può essere inteso, dunque, come un freno razionale all’impulso irrazionale del guadagno smodato, della bramosia di lucro.
Elementi caratteristici del capitalismo (che solo isolatamente possono trovarsi anche in altre formazioni storiche ma che tutti insieme sono un fenomeno storicamente specifico) sono che:
Weber muove dunque alla ricerca dello “spirito del capitalismo”, cioè di quei presupposti culturali senza i quali il capitalismo occidentale non avrebbe potuto svilupparsi: egli lo trova nell’etica protestante e, in particolare, nel puritanesimo (con la sua dottrina della predestinazione). La dottrina puritana comporta la totale sottomissione dell’individuo a Dio: l’uomo ha il proprio destino già segnato fin dalla nascita (salvezza o dannazione) e, pertanto, ogni sua attività non serve a modificarlo. Le condizioni di vita (ricchezza o povertà) sono indicazione di ciò che Dio ha riservato agli uomini perciò per il puritano la capacità di guadagno ai fini del reinvestimento diventa l’unico segno esteriore della propria predestinazione alla salvezza che può essere riscontrato nella vita terrena. Di qui la grande importanza assunta dal denaro nella cultura capitalistica (il tempo è denaro, il credito è denaro, il denaro è per sua natura fecondo e produttivo). A questo uso del denaro per il rinvestimento e nuovi guadagni è legato il principio del dovere professionale, della professione come vocazione.
Anche quando poi, nel tempo, i connotati più strettamente religiosi scompariranno l’influenza esercitata dall’etica protestante sullo spirito capitalismo rimarrà vincolante.
Weber dunque contrappone all’origine del capitalismo così come descritta dal materialismo storico l’accentuazione (secondo i principi del tipo ideale) dell’influenza religiosa
Ricordiamo che Weber non vuole rovesciare in posizione “spiritualistica” quella “materialistica” di Marx: egli afferma soltanto che l’errore della concezione materialistica della storia non consiste nell’analisi, scientificamente legittima, dei condizionamenti economici ma nell’aver presupposto che tale analisi sia l’unica valida da un punto di vista scientifico, cadendo tutte le altre nell’ideologia. Se la concezione materialistica della storia come studio del condizionamento economico dei processi culturali è un metodo prezioso, come pretesa dogmatica va recisamente rifiutato. Non è dunque l’analisi ad essere errata ma la presunzione che il punto di vista assunto e il conseguente metodo adottato siano gli unici validi quando invece la medesima realtà storico sociale può essere validamente studiata con pari legittimità e scientificità da punti di vista diversi.
Weber continuerà a mettere in luce il nesso dialettico che intercorre tra religione ed economia nelle varie società storiche, nella consapevolezza che la priorità di un fattore rispetto all’altro non può essere decisa una volta per tutte.
L’azione dotata di senso, l’azione sociale e la relazione sociale.
Weber continuerà ad occuparsi costantemente del problema della “relazione di valore” –(inevitabile in quanto dirige la selezione e la formulazione dell’oggetto di un’indagine empirica) e dell’avalutatività (altrettanto inevitabile in quanto le scienze storico-sociale non possono dare giudizi di valore destinati a guidare l’azione) e, di pari passo, si occuperà sia di problemi metodologici sia di ricerca storico-sociale mettendo in luce i condizionamenti reciproci che intercorrono tra società, religione, economia.
In questa ottica egli affronta L’etica economia delle religioni mondiali (con studi su Confucianesimo, Taoismo, Induismo, Buddismo e Giudaismo antico) ed anche nella sua opera più importante (anche se incompiuta e pubblicata postuma) Economia e Società sono presenti problemi di carattere metodologico che sostanziale (questi ultimi relativi anche al mondo contemporaneo).
Egli inizia questa sua grande opera chiarendo il suo parere a proposito dell’ambito della sociologia: La sociologia deve designare una scienza la quale si propone di intendere, in virtù di un procedimento di interpretazione, l’agire sociale e quindi spiegarlo casualmente nel suo corso e nei suoi effetti.
Ecco che, una volte definito che oggetto della sociologia è “l’agire sociale”, Weber passa a chiarire che cosa debba intendersi per agire, agire sociale e interazione sociale.
L’agire è tale soltanto se è dotato di senso quando, cioè, l’agire viene prodotto contestualmente ad un’attribuzione di significato da parte dell’attore all’azione (= quando l’azione ha un motivazione individuale). Così, non è agire un’azione di tipo puramente reattivo (quando non c’è motivazione non si ha azione ma “comportamento” anche se empiricamente può essere difficile distinguere tra comportamento e azione orientata tradizionalmente).
Si ha senso di fatto, quando il senso è attribuito da un soggetto agente (che può essere inteso come individuo o anche come gruppo o media di soggetti agenti); senso intenzionato soggettivamente quando ad attribuire senso all’azione è un soggetto assunto come “tipo ideale” (cioè un modello).
L’agire, in senso lato, comprende un agire interno ed un agire esterno. L’agire esterno è quell’agire in cui l’attore ha come riferimento (= è orientato) il mondo esterno, cioè gli altri; l’agire interno è un agire di tipo riflessivo (autoreferenziale) in cui l’attore ha come riferimento se stesso.
Si ha agire sociale quando il senso attribuito all’azione è orientato verso altri soggetti individuali (= quando la motivazione individuale dell’attore è diretta verso altri soggetti individuali).
Esaminando l’agire sociale, Weber elaboro i famosissimi quattro fondamenti determinanti dell’agire sociale:
Ci rendiamo conto come Weber intende queste azioni non in rapporto all’osservatore (come fa Pareto) ma in rapporto al significato che il soggetto agente attribuisce al proprio agire.
Weber poi passa a specificare cosa debba intendersi per relazione sociale.
Si ha relazione sociale quando il comportamento di più individui è instaurato reciprocamente secondo il suo contenuto di senso e orientato in conformità. Affinché si abbia relazione sociale è necessario che entrambe le parti che agiscono attribuiscano un minimo di senso comune al loro agire. Non si tratta necessariamente di solidarietà (es. nella lotta) ma ciò che è necessario è che il senso attribuito all’azione dalle parti deve essere comune (= devono dare lo stesso significato).
La sociologia, dunque, ha come ambito problematico l’azione sociale e la relazione sociale.
Il concetto di agire dotato di senso, con particolare riferimento all’agire sociale, porta alla centralità del verstehen (=comprendere) cioè dell’elemento della comprensione. Se l’agire è legato ad un significato interno, occorre comprendere questo significato interno: quindi, primo compito della sociologia è quello del verstehen, cioè ricostruire gli estremi del significato interno della condotta attraverso tecniche di tipo più lato possibile. Per esempio, la scuola storica romantica da cui viene Weber, che è rappresentata da Rickert e Windelband (che sono stati maestri di Weber) intende il concetto di verstehen come una specie di compenetrazione nel senso che dice “il sociologo (l’osservatore) vive nello stesso mondo culturale in cui vive l’attore e quindi il compito della sociologia non può che essere questa specie di compenetrazione simpatetica che l’osservatore deve avere nei confronti dell’attore in quanto essi appartengono allo stesso mondo culturali ed in quanto hanno le stesse coordinate culturali. Quindi il pensiero romantico (Weber romperà con esso pur rifacendosi ad esso) intende la comprensione come esaustiva (nel senso che esaurisce il compito della sociologia: la sociologia deve essere sostanzialmente una tecnica di identificazione comprendente gli attori sociali in base alla loro comunanza culturale che mette insieme l’osservatore con l’attore). Weber afferma e ribadisce l’importanza della comprensione ma, secondo lui, il verstehen non esaurisce il compito della sociologia ma costituisce solo il primo momento; il secondo momento è costituito dall’analisi causale del comportamento. Per questo, il grande contributo di Weber è stato quello di mettere insieme comprensione (cioè l’analisi e l’intelligibilità del vissuto) e spiegazione (cioè ricostruzione) di un’imputazione di tipo causale.
Pertanto, la grande svolta metodologica di Weber da quanto punto di vista è stata quella di mettere insieme la comprensione (cioè l’interpretazione che è costituita da un atteggiamento di tipo intuizionista dell’osservatore nei confronti dell’attore) e di trasferire questo componente in un secondo spazio del lavoro sociologico che è quello della spiegazione causale. Perciò, se diciamo che l’uomo è guidato dai sentimenti (credenze, pregiudizi, ecc.) occorre riuscire a trasformare questi sentimenti in variabili che mi mettano nelle condizioni metodologiche di dire che quando l’uomo ha certi sentimenti da questi sentimenti ne scaturisce un certo comportamento. Se noi trasformiamo in variabili ciò che è alla base della soggettività dell’uomo, potremo poi fare un’analisi causale di questo dominio empirico identica all’analisi causale che si fa nelle scienze esatte.
Le forme di potere
Weber in riferimento al potere, distingue innanzitutto il potere (o autorità) dalla potenza (o potere, a seconda delle traduzioni).
Potere (o autorità) è la possibilità che un comando determinato trovi obbedienza presso certe persone e solitamente, ma non necessariamente, questo tipo di potere comporta un apparato amministrativo.
Potenza (o potere) è la possibilità di far valere la propria volontà anche di fronte ad un’opposizione.
Il potere si distingue dalla potenza in quanto legittimo.
Ciò che interessa dal punto di vista sociologico è esclusivamente l’autorità (o potere).
Secondo Weber esistono tre tipi puri di potere (autorità) in riferimento alla validità della loro legittimità:
Questa distinzione tra i tre tipi di potere prescinde da circostanze storiche specifiche: si tratta di tipi puri, ideali, di uno schema di riferimento per lo studio delle diverse configurazioni in cui di fatto il potere si presenta.
Weber osserva che nella società capitalistico-industriale prevale la razionalità rispetto allo scopo cioè un tipo di razionalità formale che guarda all’efficienza dei mezzi più che alla bontà del fine, così come prevale il potere razionale-legale. In tali società la razionalità viene ad identificarsi con l’organizzazione burocratica ed efficientistica in cui non possono entrare considerazioni di carattere personale. Nella burocrazia non esistono uomini ma funzioni e funzionari che devono svolgere un compito ben preciso, nel migliore e più efficiente dei modi, senza chiedersi altro. Questo tipo di organizzazione è propria del capitalismo e riguarda tanto l’organizzazione amministrativa dello Stato quanto l’impresa. In questo tipo di organizzazione, la spersonalizzazione, l’oggettivazione dei rapporti è un tratto caratteristico e nello stesso tempo essenziale (burocrazia = massima efficienza).
Partiti politici e classi sociali
Anche il modo in cui Weber affronta il problema dei partici politici e delle classi sociali denota a un tempo l’influenza di Marx e la volontà di contrapporsi a lui
Ricordiamo come il concetto di classe in Marx abbia basi esclusivamente economiche: nella società capitalista esistono due sole classi – borghesia e proletariato – e la differenza tra l’una e l’altra è determinata dalla proprietà privata o meno dei mezzi di produzione.
L’analisi di Weber invece integra quella marxiana considerando affianco alla “classe” il “ceto”:
Weber invece afferma che nella società capitalista esistono diversi tipi di partito (uno solo dei quali è caratterizzato da comuni interessi materiali dei suoi membri mentre gli altri si caratterizzano per avere una comune concezione del mondo) ed una pluralità di classi.
Weber distingue le classi in possidente (quando le differenze di possesso determinano in modo primario la situazione di classe) ed acquisitiva (quando le possibilità di utilizzazione sul mercato dei beni o delle prestazioni determinano in modo primario la situazione di classe)
Weber, fino alla fine della sua vita, insiste sull’avalutatività della scienza nel senso che essa può avere solo funzioni strumentali rispetto ai fini che i politici vogliono raggiungere ma non può esprimere per essi giudizi di valore. I fini non possono essere mai messi in discussione perché la scelta dei fini è questione di fede. La vita è concepita come una lotta tra una pluralità di valori irriducibili l’uno all’altro. E’ questo il principio del politeismo dei valori.
LA RAZIONALITA’ IN WEBER
Un primo e generale livello di razionalità circa l’agire umano Weber lo definisce quando egli afferma che “azione razionale appare quell’azione che mira a determinati fini scelti liberamente dall’attore, senza condizionamenti affettivi o coazioni, e per raggiungimento dei quali egli sceglie mezzi adeguati” (che poi questi mezzi siano adeguati può anche essere una convinzione soggettiva dell’attore).
Questo discorso è poi ripreso ed ampliato in un saggio del 1913 Alcune categorie della sociologia comprendente. Weber afferma, e qui è evidentissima l’influenza di Dilthey, che dato che le scienze storico-sociali, trattano di fenomeni culturali nelle loro configurazioni storiche ed individuali specifiche (quindi uniche ed irripetibili) non è sufficiente individuare le relazioni quantitative ma è anche necessario immedesimarsi, rivivere, intendere (Verstehen) per rendere l’azione “evidente”. E’ bene chiarire subito, però, che il verstehen di Weber (l’intendere), è diverso da quello di Dilthey perché per quest’ultimo l’intendere significa immedesimazione con i motivi fondamentalmente irrazionali (e che come tali possono solo essere intuiti) mentre per Weber l’intendere non comporta un’immedesimazione di tipo psicologico ma si basa sul fatto che l’azione può essere razionale in quanto tende a raggiungere scopi con mezzi considerati validi cioè è razionale rispetto allo scopo.
Razionalità rispetto allo scopo soggettiva (= razionalità soggettiva) significa che l’attore tiene un comportamento orientato esclusivamente in base ai mezzi ritenuti (soggettivamente) adeguati per raggiungere gli scopi che l’attore stesso si era proposti (concependoli soggettivamente con precisione e chiarezza). Ciò che caratterizza questo tipo di razionalità non è l’effettiva adeguatezza dei mezzi per il raggiungimento dei fini ma la convinzione soggettiva di tale adeguatezza.
Weber poi contrappone alla razionalità rispetto allo scopo soggettiva la razionalità normale oggettiva (= razionalità oggettiva) della quale rende alcune definizione non sempre chiare e conciliabili l’una con l’altra. Una volta Weber afferma che “le aspettative riposte nell’azione risultano valide in base a precedenti esperienze” e dunque sembra far riferimento all’efficienza oggettiva dei mezzi; un’altra volta parla di “agire orientato correttamente in vista di ciò che vale oggettivamente” egli sembra far riferimento la valore, alla meta che si vuole raggiungere. Weber poi aggiunge che tanto la razionalità soggettiva quanto la razionalità oggettiva sono assolutamente irriducibili l’una all’altra perché un conto è la razionalità oggettiva nel senso di un’effettiva correlazione tra mezzi e scopi messa in evidenza empiricamente, altro è la convinzione soggettiva dell’adeguatezza tra mezzi e scopi.
Comunque, tanto la razionalità rispetto allo scopo soggettiva quanto la razionalità normale oggettiva sono “tipi ideali” cioè modelli costruiti dal ricercatore al fine di orientarsi nella realtà storico-sociale che intende studiare.
Non tutte le azioni sono razionali rispetto allo scopo ma Weber afferma che anche le azioni irrazionali possono essere comprese e lo schema di riferimento per comprendere tali azioni è dato proprio dal modello di azione razionale rispetto allo scopo soggettiva. Del resto, nella realtà, nessuna azione è totalmente razionale o totalmente irrazionale.
Weber, però, lascia cadere questa prima distinzione della razionalità (soggettiva-oggettiva) molto probabilmente in seguito all’ambiguità del termine “oggettivo” in relazione a questo tema.
In Economia e società, l’opera uscita postuma nel 1922, ripropone, nel capitolo dedicato ai concetti sociologici fondamentali in rapporto ai tipi di agire sociale, due nuove distinzioni (tra esse collegate)
Weber afferma che l’agire è tale solo quando è dotato di senso (= quanto l’attore attribuisce alla sua azione in significato) e si ha agire sociale quando il senso attribuito all’azione è orientato verso altri soggetti individuali (= quando la motivazione individuale dell’attore è diretta verso altri soggetti individuali).
Indicando i fondamenti determinanti dell’agire sociale, Weber afferma che come ogni agire anche l’agire sociale può essere determinato:
La distinzione che Weber fa tra razionalità formale e razionalità materiale è effettuata in relazione all’economia.
La razionalità formale ha bisogno di alcune condizioni materiali per potersi esprimere:
Per quanto riguarda la razionalità in riferimento all’economia, Weber afferma che c’è differenza tra razionalità economica formale (basata sul calcolo) non è concettualmente identica alla razionalità formale basata sul calcolo monteraio.
In altri casi si può avere un conflitto tra razionalità formale e razionalità materiale: sono i casi in cui considerazioni o convinzioni politiche ostacolano lo svolgimento dell’attività economica secondo quei criteri del calcolo e dell’efficienza di cui sopra.
La dicotomia tra razionalità formale e razionalità materiale è riportata da Weber anche alla legislazione e alla giurisdizione.
Tanto la legislazione quanto la giurisdizione possono essere razionali o irrazionali.
Sono formalmente irrazionali quando vengono impiegati mezzi diversi da quelli razionalmente controllabili (es. il ricorso ad oracoli e divinazioni). Per quanto riguarda la giurisdizione, ad esempio, l’applicazione di regole formali generali (es. l’applicazione di particolari procedure) garantisce la razionalità formale. Weber elenca una serie di postulati dai quali la razionalità giuridica formale non può prescindere:
La legislazione e la giurisdizione sono materialmente irrazionali quando per la decisione assumono importanza valutazioni concrete del singolo caso anziché norme generali. Per le questioni giuridiche, esse sono materialmente irrazionali quando le decisioni sono influenzate da norme di dignità qualitativa diversa dalle generalizzazioni logiche di interpretazioni astratte.
Abbiamo visto come fino ad ora Weber abbia posto e proposto dei concetti, distinzioni e classificazioni essenzialmente in termini generali ed astorici è da considerare, però, che il suo discorso ha origine da un problema storico che è poi anche il tema principale del pensiero weberiano: quello del processo di razionalizzazione della moderna società occidentale.
Egli prende in considerazione il tema della razionalizzazione da moltissimi punti di vista (del diritto, della giurisdizione, dell’economia, ecc) ed a suo parere il problema principale che si pone in relazione alle moderna società occidentale è questo “Per quale concatenazione di circostanze, proprio in Occidente, e soltanto qui, si sono prodotti dei fenomeni culturali i quali si sono trovati in una direttrice di sviluppo di significato e di validità universali?”
Questo significato universale è la razionalità.
Il fenomeno del capitalismo si inquadra in questa generale tendenza verso una totale razionalizzazione della vita. Il capitalismo, come organizzazione razionale della vita economica, come investimento del capitale sulla base di un calcolo razionale al fine di un possibile maggiore guadagno da investire in un processo sempre rinnovato, è fenomeno tipico dell’Occidente moderno e si inquadra nella più ampia tendenza verso la totale razionalizzazione.
Il razionalismo economico (= aumento di produttività del lavoro che si realizza tramite l’organizzazione del processo produttivo da un punto di vista scientifico che ha abolito il legame di tale processo coi limiti fisiologici della persona) proprio del capitalismo occidentale moderno condiziona ogni aspetto della vita sociale e gli stessi ideali di vita della moderna società borghese. La razionalizzazione comporta il dominio sulla natura e sull’uomo stesso, il controllo di ciò che in epoche e società diverse da quelle del capitalismo moderno era considerato come non controllabile dall’uomo, dovuto a forze magiche o trascendenti e, in questo senso, comporta il disincantamento del mondo. Non occorre più la magia per propiziare gli spiriti, ora c’ è la ragione e la scienza.
La razionalità non è effettiva conoscenza delle condizioni di vita che ci circondano ma consapevolezza che l’uomo ha la capacità di raggiungere le mete che vuole con il suo controllo razionale della realtà.
Anche se il processo di disincantemento del mondo ha un ambito più vasto di quello relativo al capitalismo, esso trova la sua realizzazione più ampia nell’Occidente modenro e nell’organizzazione economica capitalistica.
Naturalmente il controllo della realtà reso possibile dalla razionalizzazione, comporta un’organizzazione della società a esso adeguata. Tale organizzazione coincide sempre più con la burocratizzazione, con la razionalità formale, efficientistica, con l’adeguatezza dei mezzi al raggiungimento dei fini, con la riduzione dell’uomo a funzione, al ruolo che egli deve esercitare all’interno dell’organizzazione ai fini del suo funzionamento.
Tale razionalità formale è però sorta storicamente sulla base di un elemento irrazionale. Weber, nel suo famoso studio sull’Etica protestante e lo spirito del capitalismo, coniuga il razionalismo moderno con il concetto di professione come vocazione (Beruf) che sorge con la religione protestante e con il calvinismo in particolare. L’adempimento del proprio dovere, nelle professioni mondane, è valutato come il più alto contenuto che potessa assumere l’attività etica. Attraverso la professione si operava a maggior gloria di Dio e in essa si riscontrava un segno della propria salvezza ultraterrena.
Anche in altre concezioni religiose e nei principi etici che da esse derivano, si possono ravvisare, secondo Weber, elementi di razionalizzazione. Lo si vede, ad esempio anche nell’organizzazione della Chiesa che guarda all’efficienza, all’obbedienza, a darsi una struttura burocratica rigidissima.
Weber ricorda comunque che il concetto stesso di razionalità non è assoluto: il razionalismo è un concetto storico che racchiude in sé un mondo di contraddizioni.
Il processo di razionalizzazione proprio dell’occidente moderno è strettamente connesso con la il concetto di potere legale.
Ricordiamo che, secondo Weber esistono tre tipi puri di potere (autorità) in riferimento alla validità della loro legittimità:
Questa distinzione tra i tre tipi di potere prescinde da circostanze storiche specifiche: si tratta di tipi puri, ideali, di uno schema di riferimento per lo studio delle diverse configurazioni in cui di fatto il potere si presenta.
Il processo di razionalizzazione, infatti, comporta la spersonalizzazione dei rapporti e il potere razionale legale è per suo intrinseco carattere impersonale e vi è pure una connessione tra razionalità formale, secondo lo scopo, e potere razionale: la prima guarda all’efficienza dei mezzi a prescindere dai contenuti, la seconda alla correttezza formale del comando in rapporto con chi lo esprime a prescindere dai contenuti.
Weber definisce lo Stato come “un’impresa istituzionale di carattere politico nella quale l’apparato amministrativo avanza con successo una pretesa di monopolio della coercizione fisica legittima in vista dell’attuazione degli ordinamenti”.
Lo Stato moderno è fondato sul potere legale in quanto l’obbedienza è dovuta esclusivamente al fatto che la norma è posta in termini formalmente corretti: in esso non si obbedisce alla persona bensì alla regola statuita la quale decide a chi e in che cosa si deve obbedire.
Lo Stato moderno è basato su una organizzazione efficiente e, in questo senso, è burocrazia. Esso comporta la generalità e l’astrattezza della norma e pertanto la spersonalizzazione.
La burocrazia non è una caratteristica della sfera politica ma si ritrova anche nell’impresa capitalistica privata: entrambe procedono di par passo. Per Weber, alla base dello stato moderno e del capitalismo moderno vi è la medesima dimensione di razionalità formale che permette da un lato al cittadino di prevedere il funzionamento dell’ordinamento giuridico e, dall’altro, all’imprenditore di comportarsi in base alle possibilità offerte dal mercato.
Impresa capitalistica e stato moderno sono aspetti del processo globale di razionalizzazione verificatosi nell’Occidente moderno.
Weber mette anche in evidenza che il capitalismo si è potuto realizzare anche in contesti giuridici diversi da quelli in cui prevale il formalismo: è il caso del diritto consuetudinario inglese in cui la razionalità materiale sembra prevalere su quella formale. Possiamo dunque concludere che un diritto razionale orientato in senso materiale può accompagnarsi con le più svariate forme di economia capitalistica e non capitalistica; il diritto razionale formale è compatibile soltanto con il capitalismo peculiare dell’Occidente moderno.
CRITICA
1) Lucaks
Giorgy Lucaks, critica duramente Weber in termini di marxismo ortodosso. Egli afferma che Weber nel suo continuo tentativo di confutare la concezione materialistica della storia, riporta sempre e tutto il suo discorso all’importanza dei fenomeni religiosi tant’è che da essi fa dipendere anche l’origine del capitalismo (all’etica protestante, quindi ad un principio di ordine spirituale).
Lucaks continua affermando che Weber, con lo strumento metodologico del “tipo ideale” soggettivizza ogni genere di analisi della società e della storia ed inoltre affermando che la scienza non può dare giudizi di valore in merito ai fini che, invece, devono essere liberamente scelti dall’attore, rimette le scelte medesime all’irrazionale e al punto di vista, relativo ed arbitrario del soggetto. Weber toglie alla scienza la possibilità di dare un orientamento pratico alle scelte politiche che non sia meramente tecnico lasciando dunque la politica in balia dell’irrazionale.
Le accuse di Lucaks non sono sempre fondate: innanzitutto egli contrappone una concezione dialettica della storia in cui la razionalità coincide con il progresso mosso dalle contraddizioni economiche: più che una critica si tratta di una diversa concezione della storia, certamente con conciliabile con quella di Weber.
Poi Lucaks sbaglia quando accusa Weber di spiritualismo perché Weber non vuole confutare le argomentazioni proprie della concezione materialistica della storia ma semplicemente integrarle considerandole come “uno dei tanti punti di vista validi e legittimi”. Dunque, è corretto segnalare in Weber la presenza del “soggettivismo” ma ciò non dimostra affatto l’erroneità di quanto Weber ha affermato.
2) Marcuse
Al tema della razionalizzazione propria della società occidentale come destino inevitabile, dedica grande attenzione Herbert Marcuse.
Marcuse evidenzia che Weber rimane sempre legato al concetto di “avalutatività” della scienza per cui la sua analisi non può portare né a plausi né a condanne né indicare vie per l’azione. Egli, inoltre, appare convinto che la razionalità formale su cui è fondato qualsiasi processo di industrializzazione e modernizzazione costituisca il destino dell’Occidente e quindi una realtà storica non superabile: “l’inevitabile destino della nostra intera esistenza”. Weber non può muovere critiche in quanto il dover essere è sottratto all’analisi scientifica e reso impenetrabile alla critica. Marcuse afferma che a Weber sfugge il fatto che se la realtà dell’industrializzazione è una realtà divenuta storicamente essa è per questo storicamente superabile: non rendersi conto di ciò vuol dire accettare acriticamente lo status quo. L’apparato amministrativo, la burocrazia (che porta alla spersonalizzazione), caratteristiche del capitalismo moderno, sono strumenti del potere costituito. L’efficienza burocratica e tecnologica non trova ragione in se stessa anche se sembra essere diventata fine di per sé. Questa razionalità efficientistica ha un fondamento irrazionale in quanto non è messa al servizio della realizzazione delle potenzialità umane ma solo del dominio che comporta oppressione e negazione di queste stesse potenzialità. Oggi, un’effettiva amministrazione razionale, coinciderebbe con l’uso della ricchezza sociale nell’interesse di un libero sviluppo e soddisfacimento dei bisogni umani ed il progresso tecnico rende questa razionalità una possibilità sempre più reale ma ad essa contraddice la razionalità dell’apparato che è costituita su un’oppressione produttiva.
Marcuse, però, si chiede se questo continuo insistere di Weber sul fatto che la razionalità capitalistica è solo formale, non sia in realtà malcelata critica. L’esame avalutativo della razionalità efficientistica e burocratica, nasconde forse l’ironia, in quanto si sottintende che questa non è vera razionalità?
3) Franco Ferrarotti
Anche Ferrarotti (Max Weber e il destino della ragione, 1965) si pone il problema della razionalità in Weber. Egli sostiene che in Weber c’è una contraddizione, vissuta coscientemente, tra l’esigenza dell’avalutatività della scienza e la preoccupazione per una società in cui efficientismo e burocratizzazione riducono completamente a sé ogni dignità e riporta, a questo proposito, un brano di Weber in cui questa preoccupazione emerge chiarissima “è terribile pensare che il mondo potrebbe un giorno essere pieno di nient’altro che piccoli denti d’ingranaggio ….”.
Weber è dunque recuperato a quella sociologia il sui senso è l’insoddisfazione per lo status quo e per la sua trasformazione razionale.
4) - E’ anche necessario notare che, in riferimento all’avalutatività, che Weber, certi valori li dava per scontati e indiscutibili: sono i valori della tradizione liberale e borghese (la libertà individuale, la dignità, il senso della fairness (rispetto delle regole del gioco). Egli dà per scontato che ognuno avrebbe compreso la differenza tra l’etica dei fini ultimi e il fanatismo e tra l’etica della responsabilità e l’opportunismo ma ciò non è avvenuto.
5) Weber, poi, studia il problema della razionalità sia in rapporto con l’atteggiamento del soggetto agente e dell’interazione (a livello cioè microsociologico) che a livello di intere formazioni sociali (macrosociologico).
6) Si ricorda poi che alcuni interpreti identificano la razionalità con il capitalismo mentre altri considerano il capitalismo un’espressione (certamente la più completa ed importante) della razionalità. Da un punto di vista marxista i mutamenti nella sfera economica sono primari e gli alti aspetti della vita sociale vanno spiegati in correlazione con questi; da altri punti di vista si può presumere un movimento verso la razionalità formale entro il quale si spiega la stessa razionalità capitalistica.
7) Alfred Schutz
Secondo Schutz è corretto partire dal concetto di “azione dotata di senso” perché solo così si giunge ad una corretta impostazione dei problemi delle scienze sociali, però, continua Schutz, Weber non chiarisce se questo “senso” sia il medesimo per l’attore nel corso dell’azione e ad azione compiuta, per i soggetti tra cui si instaura la relazione sociale e per l’osservatore esterno. Sembra che Weber dia per scontato che il senso sia il medesimo per tutti ma ciò, afferma Schutz, può essere accettato soltanto per fini pratici dei rapporti nella vita quotidiana ma non può essere così per la scienza. E poi, Weber non indica che cosa vuol dire “dare significato” all’azione: se prima si agisce e poi si attribuisce significato o se il significato precede o è contemporaneo all’azione.
8) Talcott Parsons – Raymond Aron
Riconosce a Weber (pur rimproverando di non aver portato a compimento un sistema sociologico generale) il merito di aver sottolineato come a fondamento della società vi debbano necessariamente essere significati e valori condivisi. Aron accomuna Weber a Durkheim e Pareto affermando che il tema fondamentale della loro riflessione è quello dei rapporti tra la religione e la scienza e che, giustamente, ritrovano l’idea di Comte secondo la quale le società non possono conservare la loro coerenza se non con le credenze comuni.
9) I chiarimenti metodologici di Weber, anche quando sono relativi all’interazione, non sono mai fini a sé stessi ma costituiscono il presupposto per il compimento più adeguato della ricerca storico-sociologica che, nel caso specifico della società industriale, è il problema della crescente burocratizzazione e dell’oggettivazione dei rapporti.
Fonte: http://www.sociologia.uniroma1.it/users/studenti/Riassunti/Storia%20del%20P.Sociologico/WEBER.doc
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