Mercato del lavoro

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LE TRASFORMAZIONI DEL MERCATO DEL LAVORO ITALIANO NEL PERIODO 1993-2001

 

Audizione del Presidente dell'Istituto nazionale di statistica, Luigi Biggeri

Roma, 15 luglio 2002


Le trasformazioni del mercato del lavoro italiano nel periodo 1993-2001

Il periodo 1993-2001 è stato caratterizzato inizialmente da una fase di difficoltà del mercato del lavoro che ha determinato una diminuzione dell’occupazione di 458 mila unità nei primi due anni. Successivamente, si è assistito ad una ripresa altrettanto decisa: già nel 1998 si ritorna ai valori occupazionali di inizio periodo e nel 2001 si registra un numero di occupati pari a 21.514 mila unità, con un saldo positivo di 1.030 mila unità rispetto al 1993 (Tavola 1).

 


L’andamento della disoccupazione è speculare rispetto a quello dell’occupazione, ma con un significativo ritardo temporale: la disoccupazione aumenta subito, ma stenta a essere riassorbita quando inizia la ripresa economica. Rispetto al livello iniziale di 2.299 mila disoccupati, il valore massimo si raggiunge nel 1998, con 2.745 mila persone in cerca di occupazione. Da allora inizia però un riassorbimento progressivo e nel 2001 il numero dei disoccupati si attesta a 2.267 mila unità, il valore più basso dell’intero periodo nonostante la continua crescita delle forze di lavoro, che sono aumentate di un milione di unità (quasi esclusivamente donne: 987 mila su 998 mila).
Nell’arco temporale considerato il tasso di attività aumenta di 2,6 punti percentuali, quello di occupazione di 2,7 punti. Anche per la disoccupazione la situazione migliora e nel 2001 il tasso scende al di sotto delle due cifre, attestandosi al 9,5%.
In questi nove anni, dunque, si consolida la base occupazionale del Paese, ma aumenta anche la propensione al lavoro della popolazione. Per andare oltre una valutazione aggregata dei fenomeni e individuare le trasformazioni di fondo del mercato del lavoro, occorre però analizzare le differenze cominciando da quella emergente, la differenza di genere, per poi coniugarla con l’altra grande differenza, quella territoriale.
Come mostra la Tavola 1, in soli due anni (dal 1993 al 1995) l’occupazione maschile diminuisce di 396 mila unità: oltre l’85% della flessione iniziale dell’occupazione è dunque dovuta alla componente maschile. Solo dopo altri due anni di stagnazione inizia una ripresa e alla fine del periodo i maschi occupati sono 13.455 mila, livello dello 0,3% superiore al valore iniziale.
Per le donne la caduta iniziale dell’occupazione è relativamente minore e soprattutto dura meno: già nel 1996 inizia una sostenuta ripresa, che fa registrare alla fine del periodo 991 mila occupate in più (+14%). Quasi tutti i posti di lavoro aggiuntivi che si sono creati sono dunque femminili. Ciò ha determinato un sensibile aumento della quota femminile dell’occupazione, tendenza peraltro ancora in atto ma che non è ancora riuscita ad intaccare il sensibile divario di occupazione femminile che separa l’Italia dalla media europea.
Su questi processi influisce senza dubbio il progressivo sviluppo, soprattutto nel corso della seconda metà degli anni Novanta, delle forme di lavoro flessibili. La quota della componente “atipica” dell'occupazione si è infatti incrementata nell'arco temporale considerato per entrambi i sessi, in misura appena più accentuata per le donne. Tra i maschi, infatti, l'incidenza dell'occupazione a carattere temporaneo sul totale dei dipendenti si attesta nel 2001 all'8,3% (era 5,0% nel 1993), mentre tra le donne passa dall'8,2% all'attuale 11,9%.
Ancora più evidente il maggiore utilizzo del lavoro a tempo parziale da parte delle donne. Nel 2001 l'incidenza di tale regime orario per la componente femminile è del 16,6% e manifesta una crescita di 5,4 punti percentuali nell'arco temporale di riferimento; per la componente maschile l’incidenza si  attesta al 3,5%, livello piuttosto modesto e di un solo punto percentuale al di sopra di quanto registrato nella media del 1993.
In una prospettiva territoriale, si evidenzia che il Mezzogiorno registra in tutto il periodo un livello di utilizzo dei contratti a termine pressoché doppio rispetto alle altre aree del Paese, accomunando in questo sia la componente maschile sia la femminile. Per quanto attiene ai rapporti di lavoro a tempo parziale, la situazione è meno delineata: tra le donne sono quelle residenti nelle regioni settentrionali a usufruirne in maniera più consistente, tra gli uomini sono in particolare quelli del Mezzogiorno.
Nonostante il recente sviluppo delle forme di lavoro atipiche, i divari rispetto ai principali partner comunitari permangono piuttosto ampi. In particolare, se si considera l'incidenza del lavoro a tempo parziale femminile, utilizzando il 2000 come anno di riferimento, il dato italiano risulta ancora inferiore di oltre 16 punti percentuali se confrontato con la media dei paesi dell'Unione e, sebbene in linea con i livelli registrati in Spagna, ancora distante dalle incidenze che caratterizzano paesi come la Francia e la Germania (entrambe ben oltre la soglia del 30%). Se si guarda invece all'incidenza femminile del lavoro temporaneo, le differenze tendono ad attenuarsi: sempre con riferimento al 2000, il dato relativo alle donne italiane risulta di soli 2,3 punti percentuali inferiore alla media dei 15 paesi Ue, e non lontano dai livelli di Francia e Germania (15,7% e 13,1%, rispettivamente). In questo caso, delle quattro grandi economie continentali, solo il dato spagnolo si differenzia in modo netto (34,6%), ma ciò appare frutto di una legislazione incentivante che non trova riscontri all'interno dell'area Ue.
Si deve segnalare, peraltro, che nel corso degli ultimi due anni la dinamica espansiva delle forme di lavoro flessibile si è attenuata, riducendo in modo consistente rispetto al recente passato il suo contributo alla crescita dell'occupazione.
Nonostante il forte aumento dell’occupazione femminile, l’andamento della disoccupazione è invece più omogeneo e ricalca, anche nella successione temporale, le tendenze medie descritte in precedenza. Alla fine del periodo il numero delle disoccupate è lo stesso del 1993, mentre quello dei disoccupati è di poco diminuito. Il differenziale nei tassi di disoccupazione tra maschi e femmine è stato intaccato solo leggermente (da 7,1 a 5,7 punti) e rimane a tutto svantaggio delle donne: 7,3% per i primi contro 13,0% per le seconde.
Il vantaggio maschile è evidente anche nel confronto con il contesto comunitario. La situazione al 2001, infatti, vede il tasso di disoccupazione maschile solo di poco oltre la media dei 15 paesi dell'Unione (7,3% contro 6,6%); ben diverso è invece il divario nel caso del tasso di disoccupazione femminile: 13,0% rispetto al 9,0%. Inoltre, mentre il tasso maschile risulta inferiore a quello tedesco e spagnolo (7,7% e 9,1%, rispettivamente) e sostanzialmente sugli stessi livelli della Francia, il tasso femminile risulta inferiore solo al dato spagnolo (18,8%), e distante dal dato relativo alle donne francesi (10,5%) e, soprattutto, a quelle tedesche (8,1%).
Le dinamiche di questi nove anni confermano dunque una tendenza che risale ormai alla metà degli anni Settanta: l’occupazione femminile aumenta ma la disoccupazione non ne risulta sostanzialmente intaccata poiché parallelamente, nel succedersi delle generazioni, sempre più donne entrano nel mercato del lavoro, con una tendenza alla crescita che ancora non mostra segni di attenuazione.
È difficile quindi inquadrare correttamente ciò che si verifica nel mercato del lavoro prescindendo da una prospettiva generazionale, sia per i maschi sia per le femmine. Le trasformazioni sono efficacemente inquadrate nella Figura 1, che riporta i tassi di occupazione per classi di età in anni diversi. Come si vede, per gli uomini il volume di occupazione negli ultimi cinque anni è leggermente diminuito nelle classi giovanili e soprattutto in quelle di età avanzate.
 

 


Per le donne la crescita del tasso di occupazione si è concentrata nelle classi centrali. Continua dunque un fenomeno che ha radici lontane, come mostra il confronto con la curva dell’occupazione per età del 1977: in passato il picco dell’occupazione e della partecipazione femminile si raggiungeva prima dei trent’anni e cominciava poi un progressivo declino dell’attività, soprattutto in connessione con la maternità. Oggi avviene esattamente l’opposto e le curve della partecipazione maschile e femminile sono simili nella forma e si vanno avvicinando.
È dunque mutato il modello di partecipazione al lavoro delle donne. Mentre in passato iniziavano a lavorare in giovane età, e il lavoro veniva visto per lo più come un’esperienza transitoria, oggi le donne iniziano a lavorare in età più avanzata, nel momento in cui le generazioni precedenti già cominciavano a uscire dal mercato, e manifestano una maggiore determinazione a non abbandonare il lavoro in futuro.
Ciò non significa che non vi siano, nel ciclo di vita femminile, uscite più o meno consistenti, ma i dati mostrano che sono comunque inferiori ai rientri. Lo dimostra un semplice esercizio di confronto del tempo e delle età sui dati del grafico: ad esempio, nel 1996 nella classe di età compresa tra i 35 ed i 39 anni era occupato il 52,3% delle donne; nel 2001 nella classe tra i 40 ed i 44 anni, che rappresenta la stessa generazione a cinque anni di distanza, troviamo occupate il 56,8% delle donne. Ancora dopo i 40 anni abbiamo dunque un saldo netto di entrate nell’occupazione pari a 4,5 punti percentuali; solo dopo i 45 anni cominciano le uscite nette.
In un’ottica generale, dunque, negli otto anni che ci separano dal 1993 nelle famiglie italiane, accanto alla tradizionale occupazione del maschio capofamiglia, troviamo un milione di occupate adulte in più. Cambiano dunque gli equilibri e le prospettive delle famiglie.
Prima di assumere questa diversa ottica è però opportuno vedere qual è stata l’evoluzione della disoccupazione per classi di età. L’ultimo decennio è stato infatti cruciale per l’assetto del mercato del lavoro, poiché ha in parte modificato le fondamenta di quello che è stato definito il “modello familista” di mercato del lavoro.
 

 



È forse il caso di ricordare che, rispetto agli altri paesi europei, la disoccupazione in Italia ha sempre presentato una peculiarità dal punto di vista della distribuzione, ed è sempre stata un sinonimo di inoccupazione giovanile. Dai primi anni Sessanta e fino all’inizio degli anni Novanta, infatti, indipendentemente dalle fasi congiunturali dell’economia, il 75-80% delle persone in cerca di occupazione era concentrato in Italia nella fascia 15-29 anni. Negli altri paesi europei la distribuzione era tendenzialmente opposta e tale si è mantenuta.
Questo modello, legato a fattori sia culturali e comportamentali, sia istituzionali, si è in parte modificato nell’ultimo decennio. Come mostra la Tavola 2, già nel 1993 le persone in cerca di occupazione con meno di 29 anni erano scese al 65,4% del totale ed oggi sono il 51,4%.
Ciò non significa che il problema della disoccupazione giovanile si sia attenuato in gravità: il tasso di disoccupazione dei giovani tra i 25 ed i 29 anni, infatti, è ancora quasi il doppio rispetto a quello degli adulti tra i 30 ed i 39 anni (e quello dei 20-24enni è oltre il triplo); se ne è ridotta tuttavia l’estensione a scapito della componente adulta: di fronte ad un numero di persone in cerca di occupazione rimasto pressoché immutato, in questi nove anni i disoccupati adulti sono passati da 804 mila a 1.103 mila.
Questa traslazione dell’età della disoccupazione segue in parte le modifiche della composizione per età della popolazione, ma non ne è completamente spiegata. A quel fenomeno si aggiunge anche quello già richiamato della diffusione del lavoro atipico, e di quello temporaneo in particolare. Nel periodo in esame, il lavoro temporaneo passa infatti da 900 mila a un milione e 504 mila unità. Circa il 60% dell’occupazione aggiuntiva che creata in otto anni è costituita da lavoro temporaneo; inoltre, al pari della disoccupazione, anche questa tipologia di lavoro si è andata spostando verso le età centrali: nel 1993 gli occupati temporanei con più di 29 anni erano il 47,8% del totale, oggi sono il 66,1%.

Un altro elemento di profonda trasformazione viene dall’aumento dell’istruzione - una trasformazione che ancora una volta coinvolge in particolare le donne, cambiando il loro atteggiamento rispetto al lavoro. Nei nove anni che stiamo esaminando, la quota di persone con un titolo di studio superiore all’obbligo passa dal 27,6% al 33,3%. Questo aumento interessa in particolare il mercato del lavoro femminile. Per un maschio, infatti, la scelta di continuare o meno gli studi prefigura il “tipo” di lavoro verso il quale si orienterà, visto che comunque egli rimarrà nel mercato del lavoro. Per una donna, invece, intraprendere un percorso di studio significa anticipare una volontà di partecipazione al lavoro assumendo il rischio che essa possa concretizzarsi solo ad anni di distanza, omagari non concretizzarsi affatto.
La Tavola 3 mostra con evidenza la relazione diretta tra titolo di studio e tasso di attività femminile. Dopo i 30 anni di età sono sul mercato del lavoro l’80% delle donne con laurea, i 2/3 delle donne diplomate ed il 64% di quante hanno conseguito una qualifica professionale. Il punto di rottura è la scuola dell’obbligo: è attivo solo il 43% delle donne con la sola licenza media e meno del 20% delle donne con licenza elementare.
 

 


Il generale processo di crescita del livello di istruzione comporta dunque una crescita del tasso di attività femminile. Inoltre, dalla Tavola 3 emerge anche un altro elemento rilevante: il livello di attività cresce anche a parità di titolo di studio, tanto che una diplomata di oggi è più attiva di una diplomata di otto anni fa. E la stessa cosa è vera, anche se con minore evidenza, per le non diplomate; mentre costituiscono un’eccezione le donne con scolarità bassa o nulla. In altri termini, la crescita dell’offerta femminile sembra davvero ricollegabile ad un processo più vasto, che coinvolge tutte le donne anche indipendentemente dal livello di istruzione.

Le differenze territoriali si sovrappongono alle tendenze appena evidenziate. Il divario tra Nord e Sud è cresciuto nel periodo che stiamo esaminando, come illustra con evidenza la Tavola 4. Quasi tutto l’incremento di occupazione che si è registrato nel periodo (il 90,5%) è stato infatti assorbito dalle regioni centro-settentrionali, mentre il numero delle persone in cerca di occupazione è diminuito del 23,9% al Centro-Nord ed è aumentato del 18,1% nel Mezzogiorno.
 



Solo negli ultimi due anni le tendenze nel Mezzogiorno sembrano essersi allineate al resto del Paese: l’occupazione ha ripreso a crescere allo stesso ritmo e la disoccupazione a diminuire, ma la differenza è ancora lontana dall’essere colmata. Nel 2001 si registra nel Centro-Nord un tasso di occupazione del 61% ed un tasso di disoccupazione del 5%. Nel Mezzogiorno il tasso di occupazione è appena del 43,1%, mentre il tasso di disoccupazione è del 19,3%.
Se introduciamo la distinzione per sesso, le differenze tra le due grandi aree del Paese emergono in modo ancora più marcato. Nel Centro-Nord esiste ormai una vera e propria saturazione dell’offerta di lavoro maschile: il tasso di disoccupazione è sceso nel 2001 al 3,5%, un livello di pieno impiego. Anche l’occupazione femminile ha avuto una crescita davvero notevole: il tasso di occupazione è aumentato dal 42% del 1993 al 49,6% del 2001. Il tasso di disoccupazione femminile già nel 1999 era sceso al di sotto delle due cifre ed è ora del 7,2%, cioè meno della metà del tasso di disoccupazione maschile nel Mezzogiorno.
Basterebbe quest’ultimo dato per sottolineare il divario fra le due aree che, per la componente femminile, è ancor più evidente. In effetti, il tasso di occupazione maschile nel Mezzogiorno si è sempre mantenuto su livelli di circa dieci punti percentuali inferiori a quello del Centro-Nord. Ma le differenze del tasso di occupazione femminile si sono accentuate nel corso del periodo considerato, toccando nel 2001 i 23,5 punti percentuali (Tavola 4).
Pur nell’ambito di differenze cosi nette, sembrano emergere alcuni elementi di novità nelle tendenze della domanda e dell’offerta femminile. Anche nel Mezzogiorno l’occupazione femminile è andata meglio di quella maschile: a fine periodo troviamo 29 mila occupati in meno ma 127 mila occupate in più. Per questo, è proprio la componente dell’occupazione femminile meridionale a dover costituire in futuro, più di ogni altra,  il banco di prova delle iniziative tese ad ampliare il mercato del lavoro italiano.

 

Fonte: http://www3.istat.it/istat/audizioni/150702/Dossier2.doc

Sito web da visitare: http://www3.istat.it/

Autore del testo: http://www3.istat.it/

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