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I MODULO – Quasi una introduzione
LA PEDAGOGIA DEL LAVORO
1) Cosa studia 2) Cosa propone 3) Cosa intende promuovere
Studieremo l’intricata problematica del lavoro con una angolatura squisitamente pedagogica. I titoli dei testi adottati (e alcuni consigliati o comunque di sostegno) sono inequivocabili: tutti puntano esclusivamente su un sapere (la pedagogia) che tematizza il problema della formazione del soggetto-persona nel mondo dell’organizzazione che apprende (l’impresa) e coglie in questa dimensione il fattore di crescita non solo dell’impresa, ma della persona che vi lavora (per l’arco della vita). Cos’è una «organizzazione che apprende»? E’ l’impresa considerata come un ‘sistema’ o appunto una ‘organizzazione’ (G. Morgan, Le metafore dell’organizzazione) che si dà volta per volta delle regole (interne). Regole materiali e immateriali: le prime volte a stabilire tempi, modalità e quantità della produzione; le seconde rivolte all’ambiente degli attori partecipanti e possono essere la sicurezza sul lavoro, la salubrità dei luoghi; le relazioni interpersonali; la formazione dei protagonisti.
2. Cosa intende promuovere.
La piena consapevolezza del soggetto-persona attraverso un percorso di formazione senza fine. Forse anche quello di delineare il profilo di un professionista della formazione (è un nuovo profilo professionale che a che fare spesso con la consulenza filosofica), una figura professionale (già riconosciuta e attiva) che ha conoscenze in economia, in sociologia, in epistemologia, in psicologia, in filosofia del diritto e in politica sindacale, ma conoscenze, queste, curvate in senso pedagogico: orientare gli attori dell’azienda (o della istituzione scolastica o formativa) ad assumere stili di pensiero e di condotta aperti al possibile. Ma qualunque sia il lavoro che si andrà svolgere non si perda mai di vista che solo attraverso l’autoformazione (G. P. Quaglino) durante il percorso lavorativo il soggetto prende coscienza della propria «identità» e «appartenenza» alla comunità in cui vive. Insomma l’autoformazione in termini di continua crescita dell’apprendimento del soggetto. Questo significa anche rivisitare alcuni luoghi comuni circa l’età adulta e l’educazione degli adulti.
3. La pedagogia del lavoro.
Ci inseriamo in quel settore della riflessione e della pratica pedagogica che si si definisce la Pedagogia del lavoro con una precisa impronta problematicista (il rimando è a Antonio Banfi e G. M. Bertin), ipotizzando una “meta-teoria pedagogica” capace di tracciare nuove direzioni e soprattutto di porre in relazione dinamica, dialogica e interconnessa “problemi, persone, progetti” che entrano in gioco nel rapporto tra lavoro e soggetto-persona-lavoratore, consentendo di interpretare criticamente le trasformazioni che accompagnano il mondo del lavoro e attraversare con maggiore fiducia e consapevolezza la complessità e la fluidità che caratterizzano lo scenario della post-modernità. I testi e gli Autori che verranno presi in esame, per la loro inclinazione squisitamente pedagogica, si offrono come strumento di orientamento di riflessione rispetto al configurarsi di una società dei lavori che reca in sé due anime: l’alienazione e l’emancipazione. E la via verso l’emancipazione (dall’alienazione) si raggiunge attraverso la formazione o, se preferite, l’autoformazione.
Il compito della Pedagogia del lavoro, in quanto scienza teorico-prassica, prende ispirazione da un’analisi critica delle problematiche, spesso endemiche, del capitalismo flessibile e della post o seconda modernità, per andare oltre, rimettendo in discussione i tradizionali paradigmi del lavoro, impegnandosi nel “tracciare nuove vie” o soluzioni in grado di porre finalmente il lavoratore al “centro” delle politiche di sviluppo delle moderne organizzazioni del lavoro. Secondo la prospettiva pedagogica, il lavoro non è più solo atto materiale di «sostentamento», occupazione finalizzata alla produzione di «cose utili immediatamente tangibili», ma diventa soprattutto campo di educabilità, ovvero contesto educativo e relazionale privilegiato grazie al quale avviare un processo di negoziazione e attribuzione di nuovi significati al percorso esistenziale e quindi in grado di contribuire allo sviluppo democratico della personalità (Dewey) e alla piena realizzazione della persona.
La scelta delle opere cinematografiche e dei documentari, non è stata affatto casuale. Essa rientra in quest’ordine di idee sul lavoro: il lavoro aliena, il lavoro forma, il lavoro libera.
Nella prima sezione possiamo collocare queste opere: We want sex di Nigel Cole; La classe operaia va in paradiso di Elio Petri; La signorina effe di Wilma Labate. Possiamo anche aggiungere spezzoni del bellissimo documentario su Adriano Olivetti di Michele Soavi, La forza di un sogno. Vi consiglio la visione di queste opere per una lettura storica delle trasformazioni nel mondo del lavoro, in specie quello legato al mondo dell’industria e per le sollecitazioni di carattere politico e sociologico: la rivendicazione di un giusto salario, la divisione dei ruoli, la dimensione delle relazioni umane, il rattrappimento della dimensione sentimentale.
Nella seconda sezione: Il figlio dei fratelli Dardenne (potremmo anche aggiungere altre opere di Ken Loach, di Martin Ritt ecc.) e sempre alcune suggestioni che si ricavano dal documentario su Adriano Olivetti.
Infine nella terza sezione: Si può fare di Giulio Manfredonia; Lettere d’amore di Martin Ritt; Full Monthy di Peter Cattaneo. In Si può fare, una esperienza accaduta, il lavoro diventa forma di superamento dell’alienazione. In Lettere d’amore si può cogliere la dimensione dell’autoformazione della persona, motivato ad apprendere, con l’aiuto di una persona. In Full Monthy, provocatorio, irriverente, una metafora sulla condizione dell’uomo che ha perso il lavoro e quindi la sua identità … Quando della nostra identità è legata, o faticosamente costruita, al lavoro che facciamo?
Molte delle tematiche che sono state affrontate hanno preso spunto anche da queste opere.
Un suggerimento di carattere metodologico. Questo l’ordine delle letture:
1. G. Zago Il lavoro nell'educazione moderna e contemporanea Cluep 2003
2. M. Costa Pedagogia del lavoro e contesti di innovazione Franco Angeli 2009
3. G. P. Quaglino Autoformazione Raffaello Cortina 2010
4. M. Barnasconi (a cura di) Coltiva le tue passioni. Dalla narrazione autobiografica ai progetti formativi per riscoprire il piacere di imparare e di educare Franco Angeli, 2008
Esercitazione:
scegliere una delle opere cinematografiche della prima sezione ed indicare:
II MODULO – La dimensione storica
LA DIALETTICA TRA LAVORO, EDUCAZIONE E PEDAGOGIA.
Il lavoro, colto nella sua dimensione esistenziale, è il polo di gravità di tante questioni: da quelle di carattere economico e sociale a quelle di carattere filosofico (morale); da quelle di carattere epistemologico (in quanto l’esperienza lavorativa struttura il nostro modello di conoscenza della realtà e di agire in essa) a quelle, non meno importanti, di carattere educativo e formativo. Si potrebbe già citare, in queste battute introduttive, la pensatrice Hannah Arendt che nel suo poderoso volume Vita activa (1958; tr. it. Milano, Bompiani, 1989) distingue tre diverse forme fondamentali di rapporto con l’uomo con gli oggetti e l’ambiente circostante: il lavoro, l’operare e l’azione. Non a caso, il lavoro è definito dalla pensatrice come comportamento strumentale, meccanico, privo di comunicazione; l’operare richiama già una maggiore autonomia rispetto al lavoro poiché mette in gioco l’immaginazione di chi opera e usa gli arnesi e strumenti di lavoro per creare; l’azione, infine, caratteristica fondamentale dell’essere umano che può comunicare, agire in libertà, scegliere autonomamente. Anche il lavoro, dunque, è parte necessaria del complesso di esperienza di vita del soggetto. E, in tal senso, esso partecipa delle qualità complessive della sua esistenza richiamano in gioco l’attività meramente strumentale, le sue conoscenze, i suoi potenziali creativi, cognitivi ed emotivi.
Attingendo alle riflessioni della Arendt, in questa sede ci si pone l’obiettivo di far assurgere il lavoro alla coscienza storica e all’azione umana.
La ricostruzione storica in chiave diacronica dell’evoluzione del rapporto tra oggetto e lavoro in ambito storico, tematizzato dalle dottrine e dai movimenti pedagogici, e la dimensione metateorica costituiranno gli assi di riferimento per rivendicare il ruolo della formazione al lavoro in chiave antropologica.
La disamina storico-critica sarà fatta estrapolando passaggi significativi della produzione filosofica centrata sul lavoro sulla quale sarà possibile esercitare riflessione:
«Noi siamo operosi per avere tempo libero da dedicare alla contemplazione» Aristotele, Etica Nicomachea, X, 7. In che modo potrebbe essere spiegata questa affermazione alla luce della ripartizione aristotelica di contemplazione, prassi e produzione; della dialettica tra padrone e servo, della dialettica tra il diritto alla cittadinanza attiva (quindi della politica) e la classe degli umili? Infine, in quale posizione sono confinati il lavoro (praxis) e la realizzazione dell’opera (poiesis)?
«La vita dell’uomo è simile al ferro che, adoperandolo, si logora. Ma se non lo adoperi, la ruggine lo consuma. Così degli uomini vediamo che, facendoli lavorare, si logorano; ma se non li fai lavorare, l’ozio e il torpore fanno più male che non il lavoro» Marco Porcio Catone, Carmen de moribus.
Dunque il lavoro è «necessario» per tutti gli uomini? O per una parte di essi? Quale concezione avevano i romani, e soprattutto i filosofi, del lavoro?
«Una cosa è lavorare manualmente (corpore laborare) con animo sgombro, come l’operaio (opifex) ove non sia fraudolento e avaro e avido di possedere in proprio (privatae rei); un’altra cosa è tenere l’animo occupato dall’affanno di accumulare soldi senza lavoro manuale (sine corporis labore), come fanno gli affaristi (negotiatores) o gli amministratori (procuratores) o gli imprenditori (conductores); infatti, si danno affannosamente da fare, ma non lavorano manualmente (non manibus operantur) e perciò ingombrano il proprio animo del tormentoso desiderio di possedere (habendi sollecitudine)» Sant’Agostino, De opere monachorum, XVI. In questo orizzonte agostiniano, il lavoro manuale ha un valore in sé? E non sancisce, suo malgrado, la suddivisione tra gli uomini?
«Si noti che per lavoro manuale si intendono tutte le occupazioni con le quali gli uomini guadagna facilmente da vivere, sia che esse si compiano con le mani, o con i piedi o con la lingua» Tommaso d’Aquino, Summa Theologica, II-II, q. 187, a. 3) Dunque sembrerebbe che il lavoro manuale abbia un valore formativo nella crescita della persona.
Nell’Età Umanistico-Rinascimentale quale valore viene assegnato al lavoro nella crescita individuale e sociale? Viene valorizzato il lavoro artigianale e quello dell’apprendistato? Ma soprattutto quale nesso o legame si stabilisce tra l’apprendimento non formale (quello del mondo del lavoro) e l’apprendimento formale (quello legato all’apprendimento scolastico)? Inoltre, la particolare esperienza di apprendimento che si compie attraverso il lavoro può essere introdotta anche nella scuola?
L’incontro fra la pedagogia e la scuola da una parte, e il lavoro dall’altra, comincia a svilupparsi nell’età moderna. E’ un itinerario di avvicinamento graduale, capace comunque di animare, sia pure in diverso grado, concrete esperienze (prassi educative) quanto elaborazioni pedagogiche (teorie). Seguendo la periodizzazione di Aldo Agazzi, potremmo delineare le tappe di questo processo (durato quasi tre secoli) nel modo seguente:
Dal XVI-XVII secolo si registra un primo accostamento di lavoro-educazione, in modo particolare nell’istruzione popolare, giustificato soprattutto con ragioni pratiche (si pensi a Giuseppe Calasanzio, a Filippo Neri)
Più tardi, il lavoro entra nei progetti educativi come attività surrogatoria, con funzioni di evasione o di ricreazione, e, in ogni caso, come risorsa utile nei rovesci di fortuna (Montaigne, Rabelais)
Finalmente viene accolto come aspetto essenziale dell’educazione integrale dell’uomo: J. A. Comenio, J. Locke, J. J. Rousseau.
Nel pensiero classico, da Aristotele a Locke fino ad Hegel, nella scienza economica della nascente borghesia liberale e capitalista, il lavoro è stato ridotto o a mera esecutività (strumentale) o ad una necessaria oggettivazione/estrinsecazione della soggettività dell’uomo. Nell’economia capitalista il valore del lavoro viene oggettivato nella quantità e nell’uso.
L’oggettivazione dell’uomo attraverso il lavoro viene stabilita:
La riflessione di Marx: dai Manoscritti economico-filosofici 1844-1848; all’Ideologia tedesca, dal Manifesto alla Miseria della filosofia e nel 3° libro del Capitale. L’importanza dell’istruzione politecnica nella formazione della classe lavoratrice. Intendendo per istruzione u combinato di ‘formazione spirituale’, di ‘educazione fisica’ e di ‘istruzione politecnica’ che sappia trasmettere i fondamenti scientifici generali di tutti i processi di produzione e che contemporaneamente introduca il fanciullo (abolizione del lavoro infantile nelle fabbriche) e l’adolescente nell’uso pratico e nella capacità di maneggiare gli strumenti elementari di tutti i mestieri.
E’ nel solco delle indicazioni marxiste (tecnica e tecnologia, lavoro produttivo e tecnologia) che vanno collocate le esperienze di Robert Owen e di Anton Makarenko (1889-1938). L’anima della pedagogia makarenkiana è la rivalutazione del lavoro nel processo di formazione e la forza del collettivo. Le esperienze delle Colonie fondate dal pedagogista.
L’industrializzazione e l’alienazione e come contro faccia a questi fenomeni di vasta scala si assiste al recupero e alla rivendicazione della funzione dimensione oggettivante dell’uomo nel lavoro (alla quale si richiameranno le correnti anarchiche, democratico-radicali e quelle che si richiamano ai principi del marxismo) il cui valore formativo entra per la prima volta nell’educazione rinnovando istituzioni e pratiche educative. Si sviluppano nei Paesi in via di industrializzazione forme e movimenti di «educazione nuova» che trovano la loro espressione nelle «scuole attive» o «scuole nuove» e nell’«attivismo pedagogico » che si presenta come la formulazione filosofica e scientifica più compiuta dell’educazione nuova.
La proposta di una scansione temporale: tardo Ottocento; primo Novecento; periodo tra le due Guerre; dalla seconda guerra mondiale agli anni Settanta del XX secolo.
Le «scuole nuove» (che nascono in Inghilterra, in Germania, in Francia, in Italia, in America) destano il nostro interesse perché innanzi tutto rappresentano una prima larvata forma di protesta al sistema industriale; secondo motivo, preludono all’autogestione contro la nascente scuola di Stato; terzo motivo, perché agiscono in esse tre principi fondamentali: l’attività del fanciullo; la valorizzazione dell’ambiente esterno; la manipolazione; infine, la valorizzazione del lavoro che da una parte assurge come sostentamento alla scuola e dall’altra come principio didattico.
L’esperimento delle «scuole nuove» fu avviato in Inghilterra da Cecil Reddie (1858-1932) che nel 1889 aprì ad Abbotsholme una scuola per ragazzi dagli 11 ai 18 anni che diresse fino al 1927. Legare sistematicamente l’intelligenza, l’energia, la volontà, l’energia fisica, l’abilità manuale e l’agilità.
All’esperimento di Cecil Reddie si richiamò esplicitamente il francese Edomd Demolins (1852-1907) nella sua Ecole des Roches che sorse in Normandia nel 1899.
L’obiettivo della scuola fondata da Demolins e proseguita poi da Georges Bertier (1877-1909) è quello di attuare una formazione globale del fanciullo, tanto intellettuale che fisica, morale e sociale. Partecipazione dei ragazzi alla organizzazione della vita in comune (si rammenti l’esperienza di Makarenko).
Anche in Germania Hermann Lietz (1868-1910) con le sue Case di educazione in campagna, che si ispirano alle esperienze di Reddie e di Paul Gehheb (1870-1961), con la sua scuola legata all’ideale di un umanesimo goethiano (il concetto romantico di Bildung), avviano esperimenti significativi di scuole nuove. Furono però soprattutto Gustav Wyneken (1875-1964) e Georg Kerschensteiner (1854-1932) che svilupparono in forme più originali e coerenti gli ideali di un rinnovamento educativo e scolastico.
G. Wyneken (maestro niente meno di Walter Benjamin): modello educativo antiborghese e libertario che esercitò un largo fascino presso la generazione tedesca fino alla Prima Guerra Mondiale. Carattere essenzialmente anarchico; contro la famiglia e la tirannia degli adulti; formazione centrata sulle lingue moderne e alle conoscenze scientifiche.
G. Kerschensteiner: la scuola del lavoro. Rinnovare il curricolo tradizionale degli studi, in specie quello elementare, con l’introduzione del lavoro. Esso è infatti l’attività fondamentale dell’uomo e come tale deve essere messo al centro dell’educazione infantile. Il lavoro risulta educativo quando è pienamente consapevole delle proprie finalità complessive.
La didattica del lavoro proposta da G. K. intende sviluppare l’attività intellettuale e morale che è sempre collegata con ogni lavoro pratico (dimensione del lavoro artigianale … richiami a P. G. Proudhon). Il lavoro è formazione all’obiettività: impone la sottomissione alle norme tecniche di ogni processo produttivo come condizione della sua riuscita.
L’abilità e la virtù sono due facce della stessa medaglia.
La professionalità come tratto costitutivo della formazione pratica.
Il lavoro si è imposto come acquisizione di professionalità; Si impone come carattere tipico dell’uomo come ‘specie’ che nell’operari tocca il suo aspetto distintivo rispetto alle altre specie; Si qualifica come una integrazione dei curricola di istruzione.
La pedagogia del primo Novecento tra attivismo e marxismo, prima della rivoluzione cognitivista (che esalta invece la formazione della mente come contrassegnata dalla logica e dalla scienza in una scuola che trasmette saperi in forma organica, formalizzato e rigoroso e quindi che istruisce e forma), ha enfatizzato questa scoperta antropologica del lavoro, additando in essa nuovi principio educativi (Gramsci): Puerocentrismo; Valorizzazione del fare; Motivazione; Centralità dello studio di ambiente; Socializzazione; Antiautoritarismo; Antiintellettulismo.
Concludiamo questa fase storica dell’attivismo, ricordando: William K. Kilpatrick (1871-1954): il metodo dei progetti (1918). L’accento sulla motivazione pratica del momento intellettuale; valorizzazione dell’interesse; importanza alle esperienze concrete e problematiche; Helen Parkhurst (1887-1973): Dalton Plan. Individualizzazione dell’insegnamento e libera scelta nel lavoro scolastico; Carleton W. Washburne (1889-1968): le scuole di Winnetka, la scuola come laboratorio.
Roger Cousinet (1882-1973): il lavoro storico; C. Freinet (1896-1966): cooperazione e il lavoro della stamperia nella scuola. Una concezione dell’esperienza infantile come tatonnement (andare a tentoni) mossa dai bisogni stessi del fanciullo. La concezione della scuola come cantiere.
L'opera che delinea in maniera esemplare la sua teoria politica venne pubblicata nel 1958 con il titolo Vita Activa. La Condizione umana in cui intende recuperare tutta la portata del politico nella dimensione umana nel tentativo di restituire "una teoria libertaria dell'azione nell'epoca del conformismo sociale", come rileva Alessandro Dal Lago nella sua Introduzione all’edizione italiana. La condizione umana è caratterizzata da quella che Arendt definisce le tre fondamentali e distinte attività umane che sono: l’attività lavorativa; l’operare e l’agire.
Il lavorare corrisponde allo sviluppo biologico del corpo umano … è il lavoro della sopravvivenza; La seconda dimensione della vita activa è quella dell’opera (work) e dell’operare, che corrisponde alla dimensione non naturale dell’esistenza umana, il produrre oggetti artificiali. L’homo faber, come costruttore del mondo, permanenza, stabilità, durevolezza. La contraddizione dell’opera è la indistinzione tra mezzi e fini, la caduta nell’utilitarismo che ignora la distinzione tra utilità e significato. L’agire, invece, è legato al mondo della libertà
L’action, pertanto, non è legata alla necessità né tanto meno all’utilitarismo dell’opera, essa corrisponde alla condizione umana della pluralità … è legata alla politica, alla memoria e alla storia. La Arendt riprende la distinzione tipica del mondo greco tra il fare e l’agire, tra il poiein e la praxis. Il fare coincide con la tecnica e l’agire alla politica.
4. Prime conclusioni.
La cultura del lavoro è connessa alle visioni del mondo e alle rappresentazioni simboliche della storia del pensiero occidentale nel suo evolversi. La cultura del lavoro si sottopone ad un processo di razionalizzazione nel senso che svela la sua ragion d’essere e razionalizzandosi il suo valore diviene educabile: perché mostra in che modo ha lasciato, lascia e può ancora lasciare un segno nella storia e nella libertà degli uomini.
Vogliamo qui presentare quattro possibili direzioni di senso, stimolati per questo dal nuovo orizzonte che si delinea con sufficiente chiarezza negli studi di R. Sennet, di A. Sen, di Z. Baumann, di A. Bonomi; di M. Costa:
Il senso del lavoro acquista valore nella relazione con l’altro.
Il lavoro non può essere letto solamente come semplice fare, operari, abilità, competenza, ma come agire in relazione con l’altro.
La formatività è trama della nella multi-razionalità nel lavoro.
Il nuovo paradigma epistemico della multi-razionalità concepisce la nostra società come «sistema aperto» in una dimensione continuamente oscillante fra «scoperta» e «significazione». Questa visione interpreta il lavoro, analogamente al processo di conoscenza, come un processo attivo di significazione.
Il valore dell’innovazione è legato alla capacità di generare apprendimento organizzativo.
Le forme e le istanze del ‘capitalismo cognitivo’: la capacità di produrre novità, ovvero il capitale intellettuale; e la capacità di catturare l’attenzione, di comunicare, in altre parole il capitale sociale. La materia dunque ha sempre meno importanza di per sé: è l’immaterialità che le dà forma e ne costituisce l’essenza originale. Schumpeter: non è la concorrenza del prezzo che conta, ma la concorrenza da parte di nuovi beni, nuove tecnologie, nuove fonti di offerta, nuovi tipi di organizzazione.
III MODULO – Leggere le organizzazioni che apprendono
PER UN NUOVO CONTESTO ORGANIZZATIVO
Bruno Rossi, tra gli studiosi che vengono citati nei testi adottati, nel saggio Pedagogia delle organizzazioni. Il lavoro come formazione, sostiene che le organizzazioni del lavoro diventano contesti educativi nei quali il lavoratore può «prender forma e trasformarsi apprendendo, costruendo conoscenza, strutturando l’identità, facendosi attore di reti relazionali complesse e integrandosi in processi complessi». Si tratta, in sostanza, di trasformare il lavoro da luogo di “alienazione”, l’altrove in cui non riconoscersi e trovarsi lontano dalla propria essenza (direbbe Umberto Galimberti) in contesto di emancipazione e autorealizzazione in cui poter “ritrovare se stessi”, in cui “prodursi” (Gorz), campo educativo in grado di favorire il passaggio dall’uomo “oggetto” del lavoro all’uomo “soggetto” del contesto lavorativo.
Ma cos’è una organizzazione? Cosa si intende per contesti organizzativi? Sono contesti in cui l’apprendimento legato alla produzione di un bene o di un servizio (siamo parlando ovviamente di una azienda) viene regolato da principi e norme esplicite e tacite. Quando più una organizzazione, sostenuta da una politica manageriale o, come si preferisce dire, dalla knwoldge management, riesce ad esplicitare questi principi che regolano l’apprendimento (non solo legato all’uso di un utensile o di una macchina), tanto più sarà innovativa.
Sarà dunque utile richiamare alcune definizioni più strutturate, legate a diverse immagini e metafore dell’organizzazione. Un autore importante (G. Morgan, 1985) ha stilato una serie di metafore che hanno un forte potere esplicativo.
Lo schema seguente raccoglie le definizioni connesse diverse visioni dell’organizzazione.
Organizzazione come |
Definizione |
Macchina |
L’organizzazione è una struttura rigorosamente definita in tutte le sue parti, tra loro connesse in base a rapporti precisi e stabili nel tempo. Questo tipo di organizzazione è caratteristico di molte strutture burocratiche. Si attaglia inoltre perfettamente alla fabbrica tayloristica in cui ogni lavoratore deve eseguire mansioni rigidamente pre-determinate e inserite in una catena gerarchica molto ben definita. |
Sistema |
L’organizzazione è un sistema composto da parti (sub-sistemi) ciascuna delle quali svolge una funzione specifica cooperando al raggiungimento della finalità del sistema. |
Sistema aperto |
Le organizzazioni trasformano gli input in output in rapporto alle continue evoluzioni dei altri sistemi (esterni) con cui esse interagiscono. |
Sistema vivente |
Questa visione rappresenta un’evoluzione della precedente in quanto il sistema è visto non come aperto e interdipendente con i suoi ambienti, ma come chiuso, autonomo, attento soprattutto alla propria riproduzione. In questo senso il sistema deve 1. curare soprattutto le sue risorse interne (in particolare le competenze che riconosce come distintive, capaci di assicurarne l’equilibrio dinamico); 2. definire internamente i modi con cui assorbire le variazioni esterne. |
Cultura |
Ogni organizzazione è una micro-società nella quale si stabilizzano nel tempo forme di identità condivise, valori, modelli di giudizio, sistemi etici. Le organizzazioni possono essere osservate attraverso i riti che strutturano i modi di fare le cose da parte dei membri dell’organizzazione, i miti che riguardano le forme di autorità e gli obiettivi collettivi, le storie e i modi di dire attraverso cui i membri tramandano i modi più importanti di fare le cose. |
Insieme di routine |
Le organizzazioni sono insiemi di routines che si strutturano nel tempo in forme consapevoli o inconsapevoli. Le routine sono modi costanti e riconosciuti di fare le cose che si sedimentano nelle procedure formali in uso nell’organizzazione, nel funzionamento delle tecnologie, nelle modalità di acquisizione e esplicazione delle competenze delle persone. Alcune organizzazioni (es. le aziende innovative) riescono a monitorare come le routine si strutturano nel tempo e a governarne gli effetti. Altre organizzazioni (in particolare le burocrazie) sono di fatto prigioniere delle loro stesse routine che le rendono sempre più inefficienti e inefficaci. |
Insieme di pratiche |
Le organizzazioni sono contesti nei quali prendono diverse forme di pratica lavorativa (modi di fare le cose caratterizzati dal punto di vista dell’essere sociali, dotati di senso, specifiche di un particolare contesto). |
Questa lettura dei contesti organizzativi, attraverso l’uso delle metafore, ha il vantaggio, secondo chi scrive, di sottrarci dall’economicismo tipico delle ricerche sul management, sulla scienza dell’amministrazione, sulla cosiddetta letteratura centrata sulla valorizzazione delle risorse umane, ecc. Infatti, il contributo illuminante di Morgan (Images. Metafore dell’organizzazione) spinge soprattutto a farci riflettere intorno a due domande fondamentali: che cosa significa apprendimento e cosa significa formare all’interno di queste visioni dell’organizzazione? Svilupperemo le nostre riflessioni in seguito.
Giova qui rammentare che per l’organizzazione è in questione il compito di favorire la coniugazione tra i valori soggettivi (sviluppo personale, utilizzo delle proprie capacità, creatività) e i valori aziendali (competitività, competenza, innovazione, imprenditorialità). Da Elton Mayo (ideatore e fondatore della Scuola Human Relations) si è compreso che la motivazione al lavoro si origina e si consolida attraverso gratificazioni di tipo relazionale.
In questione è l’attuazione di una cultura della strategia organizzativa (intesa come sistema di simboli, significati, valori accettati pubblicamente, norme, modelli) decisamente intenzionata a lasciarsi alle spalle l’impianto organizzativo fordista. L’organizzazione non deve ridurre il soggetto lavorativo a pura ed esclusività strumentalità, bensì si adopera a comprendere la singolarità del capitale umano. Secondo quanto asseriva E. Wenger (Comunità di pratiche, 2006, pp. 315-316): «In un sistema industriale la produzione di valore dipende dal rispetto dei progetti: se si è in una catena di montaggio, si crea valore nella misura in cui la produzione corrisponde al progetto. La catena di montaggio viene strutturata proprio per questo … Ma in un modello di produzione basato sulla conoscenza tutto questo non è più possibile, in quanto l’identità delle persone è strettamente legata a ciò che sono e sanno. Solo quando impegnano la loro identità nel lavoro producono valore».
Nelle aziende di oggi le persone che realmente producono il valore sono quelle che trovano una relazione tra la conoscenza e la produzione di potenzialità. Si tratta di realizzare «organizzazioni che apprendono» (P.M. Senge, La quinta disciplina. L’arte e la pratica dell’apprendimento organizzativo, 1997, pp. 392-393) ovvero quei contesti dove i soggetti incrementano di continuo la capacità di ottenere i risultati ai quali mirano.
La Pedagogia del lavoro propone (anche sulla base delle esperienze storiche):
la Ripersonalizzazione dell’organizzazione.
il Riconoscimento dei poteri dell’essere umano.
l’Accreditamento dell’originalità cognitiva, affettiva, etica, estetica del soggetto.
Incrementare le possibilità del soggetto di dirigere il proprio itinerario di sviluppo professionale.
Sviluppare l’empowerment, consapevole di valere.
Avere la percezione di potere qualcosa all’interno dell’organizzazione.
Un’organizzazione in grado di motivare senza costringere.
2. Il nesso tra lavoro, organizzazioni che apprendono e formazione nel post-fordismo.
Avvertenze alla Tab. 1.
L’insieme delle tensioni e contraddizioni presenti nelle organizzazioni del lavoro e nei modelli formativi post-fordisti può trovare una sistematizzazione in uno schema di sintesi proposto di recente da P. Brown e H. Lauder, Education, globalitation and economic development in “Journal of Education Policy”, I, 1996, p. 3 e sgg., uno strumento utile se si prescinde da una certa rigidità analitica di tipo neomarxista. Questi Autori distinsero due modelli idealtipici di sviluppo economico dopo la crisi del fordismo: essi sono definiti neo-fordismo e post-fordismo.
I caratteri fondamentali del neo-fordismo sono costituiti dalla crescita della flessibilità del mercato mediante la riduzione del costo sociale del lavoro e del potere dei sindacati; la crescente privatizzazione dell’istruzione (anche quella obbligatoria); il monopolio sui corsi e le finalità della formazione in età adulta che rispondono ad esigenze di carattere aziendalistico.
Il modello di economia post-fordista è considerato da Brown e Lauder come una risposta da parte delle forze politiche progressiste alle sfide della “nuova destra”. Al centro di questo progetto è l’impegno da parte dello Stato a promuovere investimenti strategici, soprattutto in capitale umano, per creare una economia con grandi abilità a buoni salari.
Il modello di Brown e Lauder mantiene comunque il pregio di aver intravisto le micro-riforme intervenute all’interno del capitalismo, in specie quello dei Paesi del Nord Europa ed in particolare la Germania.
Tabella 1. Le possibilità del post-postfordismo: modelli alternativi di sviluppo.
Fordismo |
Neofordismo |
Postfordismo |
Mercati nazionali protetti Produzione di massa di prodotti standardizzati, bassa professionalità.
Organizzazioni gerarchiche e burocratiche
Mansioni frammentate e standardizzate
Occupazione di massa standardizzata
Divisione fra manager e lavoratori |
Competizione globale attraverso la crescita della produttività e il taglio dei costi.
Produzione di massa di prodotti standardizzati, Bassa professionalità, bassi salari
Organizzazioni piatte con enfasi sulla flessibilità esterna.
Riduzione della definizione sindacale delle mansioni
Frammentazione e polarizzazione della forza lavoro. Nucleo professionale stabile e massa di forza lavoro flessibile (part-time e contratti a termine). Enfasi sul diritto dei manager a dirigere. |
Competizione globale attraverso l’innovazione, la qualità, i beni, i servizi a valore aggiunto.
Sistemi di produzione flessibile; piccoli lotti; mercati di nicchia. Prevalenza di lavori qualificati e con alti salari.
Organizzazioni piatte con enfasi sulla flessibilità funzionale.
Specializzazione flessibile e lavoratori multispecializzati.
Conservazione di condizioni di lavoro dignitose per tutti i dipendenti. Tutti i lavoratori sono destinatari di formazione Relazioni industriali fondate sulla leadership. |
Avvertenze alla Tab. 2.
Una prima grande distinzione può essere fatta fra tipologie che prendono in considerazione le concezioni della formazione e tipologie di modelli formativi (B. Maggi, La formazione: concezioni a confronto, Milano, Etas Libri, 1991). Le concezioni sono le visioni di fondo, le scelte epistemologiche, i differenti orientamenti filosofici che finiscono per influenzare profondamente le attività di formazione. Per modelli si intendono invece le realizzazioni concrete, soprattutto le esperienze nazionali, che vengono assunte come casi esemplari di risposta alle domande provenienti ai sistemi formativi soprattutto dai cambiamenti in atto nei sistemi economico-produttivi contemporanei. La distinzione fra concezioni e modelli va comunque assunta con cautela. E’ evidente come gli orientamenti filosofici prevalenti in una data tradizione culturale possono costituire una variabile da tenere in considerazione, mentre le realizzazioni concrete sono sempre qualcosa di più e di diverso delle concezioni a cui possono ispirarsi.
Tab. 2 – Le concezioni della formazione.
Concezioni |
Teorie di riferimento |
Natura del sistema sociale |
Finalità della formazione |
Metodi didattici |
Logica del sistema meccanico |
Fisica sociale. |
Entità predefinita agli attori. |
Adeguamento del soggetto rispetto agli attori |
Istruzioni per svolgere i compiti assegnati. |
Logica del sistema organico |
Organicismo. |
Entità predefinita rispetto agli attori. |
Orientare i soggetti verso i ruoli adatti. |
Metodi didattici ‘attivi’. |
Logica dell’attore. |
Fenomenologia sociale. |
Entità concreta ben definita in base alle interazioni |
Potenziare la comprensione dei fenomeni di interazione. |
Incontri non direttivi di piccoli gruppi. |
Logica dell’azione |
Teorie dell’azione (M. Weber) |
Corso delle azioni intenzionate e reciprocamente orientate. |
Supportare la riflessione del processo organizzativo su se stesso. |
Fine della distinzione tra fenomeni formativi e processi organizzativi. |
3.Conclusioni pedagogiche
Abbiamo indugiato nell’analisi della letteratura sui contesti organizzativi (G. Morgan; D. Schön; C. Argyris; P. M. Senge e altri) per questa semplice ragione: una nuova visione organizzativa, che potremmo definire più “umanistica”, non può che fondarsi sulla valorizzazione degli asset “intangibili” (capitale umano, capitale relazionale e capitale strutturale), risorse difficilmente quantificabili o traducibili in termini economici ma anche difficilmente imitabili e pertanto in grado di rappresentare il vero surplus di valore per le imprese. Se dunque per le imprese post-moderne investire nel “capitale intangibile” significa considerare le risorse umane - con il loro bagaglio di conoscenze, competenze, relazioni, motivazioni, culture, valori da condividere - non più un costo da ammortizzare nel tempo bensì un “investimento” a lungo termine, l’Intangibile pedagogico – di cui parla Daniela Dato in La pedagogia dell’intangibile – può essere definito come “quell’insieme di risorse intangibili che possono essere coltivate e favorite da una formazione al lavoro e sul lavoro” progettata intenzionalmente per promuovere nelle organizzazioni una cultura della cura e del ben-essere organizzativo, che non può che basarsi su un approccio clinico al lavoro e sul riconoscimento di una pari legittimità, in termini di efficacia strategica, tra competenze tecniche e competenze trasversali.
Spunti di riflessione. Sulla base della vostra esperienza di lavoro in un contesto organizzativo:
IV MODULO
LA VIA VERSO SE STESSI
Epistemologia dell’autoformazione e gli orizzonti della ricerca pedagogica.
Se l’impegno della pedagogia del lavoro è rivolto a controllare il rapporto tra trasformazione del lavoro e disordine esistenziale, tuttavia, per accogliere e metabolizzare al meglio l’incertezza e l’insicurezza post-moderna, il lavoratore flessibile deve “formarsi” ad un pensiero antidogmatico, relazionale, nomade e migrante, problematico, progettuale, acquisendo competenze non solo “tecnico-specialistiche” ma anche e soprattutto “strategico-trasversali” indispensabili per gestire le continue transizioni, i passaggi, le criticità, i punti di svolta e generare, come sostiene Giddens, «identità attive in grado di riappropriarsi del proprio presente per trasformare l’epoca delle incertezze in orizzonte di possibilità».
Questa parte tenterà di delineare l’età adulta e la natura di quella ricerca educativa che si occupa degli adulti; proporrà una ricognizione dei principali modelli dell’apprendimento; inoltre, illustrerà i principi dell’autoformazione come si è delineata e si va delineando nel contesto europeo. Si rende perciò necessario, ai fini della comprensione del presente lavoro, porsi le seguenti domande: è l’adulto? a cosa si fa riferimento quando si parla di educazione degli adulti?
Per quel che riguarda la definizione di età adulta, il compito non è di immediata soluzione, in quanto è difficile stabilire con certezza cosa renda adulti: una particolare età? (diciotto anni riconosciuti dalla legge di molti stati?) l'essere sposati e il lavorare? (e chi è disoccupato? e chi ha scelto di non sposarsi o non è riuscito a sposarsi? E chi si è sposato più di una volta: è più adulto o meno adulto?); l'aver raggiunto la maturità? Il problema diventa più complesso, nei paesi occidentali, a causa della realtà contemporanea di un'adolescenza prolungata o addirittura "interminabile" e di una vecchiaia temuta e spostata sempre più in avanti (grazie anche all'aumento della longevità). Bisogna riconoscere che ancora non molti anni fa, Levinson e collaboratori potevano descrivere l'età adulta come «uno dei segreti meglio conservati nella nostra società» (Levinson, 1978, IX). E‘ solo da circa trent'anni, secondo Demetrio che, sotto l'influsso del pensiero di E. Erikson e a causa dell'affermarsi dell'educazione permanente, «l’età adulta è divenuta oggetto di interesse focale per i ricercatori: solo da trent'anni questioni quali la «efinizione di età adulta e le possibilità a essa date di continuare a formarsi (…) hanno iniziato a prendere forma grazie agli studi sociologici, pedagogici e, soprattutto psicologici» (Demetrio, 2003a, 11).
Il problema diventa più complesso, nei paesi occidentali, a causa della realtà contemporanea di un'adolescenza prolungata o addirittura "interminabile" e di una vecchiaia temuta e spostata sempre più in avanti (grazie anche all'aumento della longevità). Più in generale, è possibile affermare che «le scansioni temporali riferite all'età della vita hanno perso oggi, laddove più sono presenti le dinamiche della modernità, molte delle loro demarcazioni: lavoro, matrimonio, maternità, paternità, oltre a essere dislocate anche in periodi diversi da quelli tradizionali, non sono che momenti di itinerari di vita che possono come non possono darsi; possono riprodursi o possono non aver quasi soluzione di continuità» (Demetrio, 2003a, 25)
Se si escludono alcuni riferimenti da parte di autori del passato, l’interesse per l’adulto (inteso come soggetto passibile di crescita e di cambiamento e non come individuo statico perché giunto alla fase conclusiva del processo di sviluppo) è relativamente recente in letteratura. Uno dei primi studiosi ad occuparsene, all’inizio del secolo scorso, fu Carl Gustav Jung (1933), che definì l’età adulta the middle of life. Interessato ai cambiamenti che intervengono nella personalità con lo scorrere del tempo, Jung individua nei giovani adulti (che colloca nella fascia d’età compresa tra i trenta e i quarant’anni) un impegno costante a liberarsi dai conflitti infantili nell’intento di formarsi una nuova famiglia e di affermarsi professionalmente. È allo scoccare dei quarant’anni, però, che inizia un vero e proprio percorso di crescita e cambiamento a livello psicologico che conduce ad un processo continuo di individuazione di sé. Qualche decennio dopo, Erick H. Erikson si chiedeva se dopo il secolo del bambino, non fosse ormai prossima la realizzazione pedagogica di un “secolo dell’adulto” (1975). Nel momento in cui l’adulto diventa oggetto di studio delle scienze umane attirando su di sé l’attenzione fino a quel momento riservata all’infanzia e all’adolescenza, si impongono infatti degli inevitabili cambiamenti.
Il raggiungimento dell’età adulta comporta l’acquisizione della virtù propria di questo stadio, la generatività. È infatti il compito riproduttivo a dominare questa fase, inteso non necessariamente ‐ o esclusivamente ‐ in senso biologico, ma anche in termini di consapevolezza e di scelta di cosa fare e cosa non fare. Generatività, quindi, come atto creativo che, se represso, condurrebbe alla stagnazione, all’impoverimento personale, ad una eccessiva indulgenza verso se stessi. Altro sostenitore delle teorie dello sviluppo è Daniel Levinson, a cui si deve la prima indagine empirica sulle storie di vita di uomini adulti (Demetrio, 2003a). La ricerca di Levinson (1978) nasce dall’esigenza di dimostrare che non si può studiare la crescita scindendo l’individualità dall’azione sociale: questi due aspetti sono infatti compenetrati poiché il soggetto costruisce la propria esistenza in un mondo già strutturato secondo precise regole sociali, anche se poi sceglie in quali campi di tale mondo mettersi in gioco. Egli introduce perciò il concetto di “struttura di vita”, intendendo la costruzione di una personalità che è il risultato di decisioni, scelte, imposizioni prese o subite all’interno dei confini del mondo precostituito in cui si trova ad esistere¹.
La “struttura di vita” non è però unica e immutabile. Le storie di vita rivelano infatti un alternarsi di periodi di stabilizzazione (che durano sei‐otto anni) e transizione (della durata di quattro o cinque anni).
Le teorie dello sviluppo possono essere connotate dalla presenza di un’ipotesi lineare di evoluzione nel tempo attraverso stadi definiti, esperienze ed eventi fissati, oppure possono essere costruite intorno ad una concezione stadiale in cui ogni stadio implica delle modificazioni sistematiche, sequenziali, della struttura psichica ed è dotato di una sua completezza e una sua logica. Erikson, ad esempio, pur individuando una sequenza precisa di stadi di crescita, la colloca all’interno di una struttura vitale in movimento che rompe la linearità rigida dello sviluppo stadiale e traccia un vero e proprio corso di vita. Così anche Levinson, che pur intravedendo una rigida relazione tra gli stadi e le sequenze dell’età, non ritiene che il passaggio da uno stadio all’altro comporti necessariamente sviluppo (Alberici, 2002).
Kohlberg e Armon (1984) descrivono due modelli di ricerca sull’adultità:
a) un modello funzionale, riconducibile a quello di Erikson, in cui i compiti che l’adulto è chiamato a svolgere nell’arco della vita si intrecciano con i problemi e le soluzioni adottate. Particolarmente significative, in questo modello, risultano sia le figure adulte con le quali il soggetto, volontariamente o involontariamente, si confronta, sia i momenti di passaggio che contribuiscono a ridefinire l’identità dell’adulto sulla base delle relazioni che vive;
b) un modello strutturale, riconducibile a quello di Levinson, in cui l’attenzione si focalizza sui fattori che impongono una riformulazione delle mete di vita a partire dalle esperienze quotidiane. Secondo questo modello, ogni stadio sarebbe da intendersi come l’inizio di un nuovo periodo in cui l’individuo rifiuta quelli precedenti per riorganizzarsi in modo diverso dal punto di vista emotivo, cognitivo e pratico. In entrambi i modelli, ad ogni stadio emergono nuovi comportamenti che derivano dall’esigenza di attribuire significati nuovi, anche molto distanti da quelli precedenti.
In quest’orizzonte di ricerca, In questo ambito si collocano quegli approcci teorici e quelle linee di ricerca che considerano l’età adulta all’interno di un processo di sviluppo e cambiamento che scorre durante tutta la vita e che fa emergere il ruolo delle scelte e dei comportamenti individuali rispetto ai condizionamenti esterni (nonché a quelli bio‐psicologici). Si parla perciò di life span perspective o ciclo vitale, ma anche del rapporto tra cambiamento e sviluppo, del ruolo e della funzione del cambiamento nella dinamica delle diverse età della vita, del ruolo delle transizioni nella prospettiva dello sviluppo nell’arco vitale. Demetrio (2003a) elenca una serie di descrittori funzionali alla ricostruzione del ciclo di vita: i condizionamenti infantili, che hanno plasmato, limitato o arricchito gli anni adulti; la percezione dei cambiamenti intrapresi o subiti; la rielaborazione progressiva di problemi antichi che si ripresentano in nuove forme; le influenze storico‐sociali che incidono sugli orientamenti valoriali e sui modelli di azione; le differenze di genere riconducibili alla maternità o paternità e alla vita di coppia; la carriera e gli ambienti professionali; le relazioni con le esperienze di morte e con le malattie proprie e/o altrui; il senso di integrità personale, di appartenenza; il rapporto con l’introspezione, la solitudine, la propria interiorità; il rapporto con le esperienze di svago, con l’impegno sociale; il senso della leadership personale, quando ci si riconosce portatori di esperienze, valori, pratiche educative.
Keegan (2006) parla della transizione all’età adulta come di una “realtà emergente” in cui il soggetto, trovandosi all’improvviso adulto, avverte la necessità di trasformare la propria immagine di sé attraverso nuovi apprendimenti. L’identità resta un problema centrale in questa fase di vita. Le relazioni, i rapporti e le esperienze di lavoro, la maternità/paternità fanno emergere nuove necessità e l’esigenza di riorganizzare la vita quotidiana. Inoltre, è questo un periodo in cui le transizioni sono forti e profondamente vissute e i compiti specifici dell’età adulta sono pienamente operativi.
Uno dei limiti degli studi sull’età adulta è il riferirsi ad un modello di maschio adulto, americano o comunque occidentale, senza tener conto delle differenze di genere e di come queste intervengano nel disegnare percorsi di vita estremamente peculiari e specifici. In reazione a ciò, nascono i cosiddetti Women’s studies sulla condizione e sull’identità femminile che si sono sviluppati su una traiettoria evolutasi attraverso più fasi: dal femminismo come conflitto permanente tra i sessi alla pedagogia della differenza (Piussi, 1989), dalle politiche sulle pari opportunità al mainstreaming di genere, fino alla negazione della differenza intesa come rappresentazione sociale di modelli maschili e femminili connessi con i diversi contesti storici, economici e culturali.
Tra le prime contestatrici della scarsa rappresentatività dei modelli di adultità maschile, si collocano Gilligan (1987) e Peck (1986) che evidenziano la preponderanza, nella ricerca empirica, di dimensioni come il lavoro e il successo in termini di dimensioni prettamente maschili e suggeriscono con forza di considerare variabili relative allo sviluppo in cui siano considerati anche aspetti relativi ai rapporti, alle relazioni affettive, alle strategie attraverso le quali le donne costruiscono il proprio senso di sé e ampliano i propri saperi.
Fonte: http://docentiold.unimc.it/docenti/raffaele-tumino/2013/modelli-di-formazione-analisi-teorica-e-2013/la-pedagogia-del-lavoro/at_download/LA%20PEDAGOGIA%20DEL%20LAVORO..docx
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