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PSICOLOGIA DEL LAVORO E DELLE ORGANIZZAZIONI (dr. Prof. Nicola Leone Dirigente Psicologo ASL FG)
1. INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA DEL LAVORO E DELLE ORGANIZZAZIONI
Definizione
La psicologia del lavoro o psicologia delle organizzazioni è lo studio dei comportamenti delle persone nel contesto lavorativo e nello svolgimento della loro attività professionale in rapporto alle relazioni interpersonali, ai compiti da svolgere, alle regole e al funzionamento dell'organizzazione.
In altre parole, la psicologia delle organizzazioni prende i modelli e le teorie della psicologia e li applica all'ambiente di lavoro, cercando di:
La Psicologia del lavoro e la psicologia delle Organizzazioni sono due discipline unite nel loro complesso, ma distinte da alcune peculiarità.
Campi di applicazione della Psicologia delle Organizzazioni
I campi d'applicazione della psicologia delle organizzazioni sono soprattutto: la gestione del personale, la leadership, la selezione, la valutazione, la formazione professionale, la comunicazione e i rapporti, le dinamiche di gruppo, la motivazione al lavoro, il sistema premi-punizioni, lo sviluppo della carriera.
Compiti dello Psicologo del Lavoro
Gli psicologi del lavoro svolgono attività di consulenza all'interno delle aziende relativamente:
La psicologia delle organizzazioni nasce come psicologia industriale. La denominazione psicologia industriale apparve per la prima volta nel 1904, in un articolo di Bryan, come un errore tipografico al posto di psicologia individuale; negli Stati Uniti questo termine venne usato fino agli anni '70. Negli anni ’50 per indicare la psicologia del lavoro, nella letteratura anglosassone, entrò in uso l’espressione Occupational Psychology, che negli Stati Uniti era invece riferita solo allo studio dell’orientamento professionale. Fu in Italia, in un convegno del 1951, che Alberto Marzi propose di utilizzare l'espressione Psicologia del lavoro invece di psicologia industriale.
2. ORIGINI DELLA PSICOLOGIA DEL LAVORO NEI DIFFERENTI CONTESTI CULTURALI
Cenni storici
Come già accennato, la psicologia delle organizzazioni nacque come psicologia industriale, che poi fu trasformata in "Psicologia industriale e organizzativa". La sua comparsa ufficiale si fa risalire alla pubblicazione, nel 1913, dell'opera "La psicologia e l'efficienza industriale" di Hugo Munsterberg, anche se il primo atto riconosciuto di intervento in azienda è del 1910, quando Jean Michel Lahy utilizzò per la prima volta dei test psicoattitudinali per la selezione del personale operaio.
Munsterberg era interessato all’applicazione dei tradizionali metodi psicologici ai problemi concreti dell’industria, in particolare all’organizzazione del lavoro e alla selezione del personale. Fece studi sulla monotonia, l’affaticamento, sull’adattamento all’ambiente di lavoro e le prime analisi sulla motivazione al consumo e delle tecniche di vendita.
Siamo negli anni in cui si discuteva di organizzazione scientifica del lavoro al fine di migliorare la produttività e la componente psicologica aveva solo un ruolo accessorio. Lo sviluppo del taylorismo, infatti, contribuì a sviluppare l’attenzione verso lo studio dei procedimenti industriali e dei comportamenti delle persone sul lavoro, ma solo da un punto di vista prettamente tecnico e razionale.
Furono gli studi e le ricerche di Elton George Mayo nel 1920 a dare alla psicologia industriale un ruolo fondamentale nell'ambito delle scienze sociali ed organizzative. Mayo, fondatore della scuola delle Human Relations, attraverso gli esperimenti condotti presso lo stabilimento di Hawthorne della Western Electric, fu il primo a documentare scientificamente il collegamento tra elementi sociali, come le relazioni nel gruppo e il gioco di squadra, con elementi tangibili come la produttività e i risultati. In particolare scoprì quello che viene definito effetto Hawthorne, fenomeno per cui lavoratori chiamati ad impegnarsi in una nuova esperienza interessante lavorano di più e meglio.
Da altre sue ricerche Mayo concluse che:
Queste nuove concezioni e idee vanno ad opporsi alla vecchia immagine di Homo oeconomicus, la quale sosteneva che l’uomo è motivato anzitutto da interessi economici e che ogni sentimento o altro interesse deve essere eliminato in modo che non interferiscano con il calcolo razionale dell’interesse economico.
Al concetto di uomo economico si contrappose quello di uomo psicologico. Questa nuova visione legittimava il lavoratore ad avere sentimenti ed emozioni, che fanno parte della sua prestazione lavorativa.
L’Influenza delle Scuole Psicologiche
Il nuovo concetto di lavoro subisce l’influenza di due scuole: -da quella psicoanalitica deriva l’idea di uomo come possessore di una parte inconscia e, quindi, come attore di comunicazioni non solo razionali ma anche simboliche; -dalla psicologia sociale eredita la concezione di pensiero collettivo, che introduce definitivamente nella definizione di lavoro la dimensione sociale e gruppale.
Un punto critico della svolta metodologica della psicologia del lavoro si colloca sicuramente negli studi e nelle sperimentazioni svolti dalla scuola socio-analitica che a Londra, nell'immediato Dopoguerra, al Tavistock Institute of Human Relations, mise a punto un metodo di ricerca per applicare al comportamento sociale i fondamenti della psicoanalisi freudiana. Con questo modello metodologico fu realizzato un intervento per la Glacier Metal Company (1948), sotto la guida di Elliot Jaques, per la sperimentazione di nuovi metodi di gestione nell'ambito dell'organizzazione aziendale. Nello stesso periodo, l'Istituto Londinese attuò una ricerca sui metodi produttivi nelle miniere di carbone. Questi studi e sperimentazioni portarono alla definizione del modello organizzativo dell'azienda come sistema aperto, una rappresentazione dell'organizzazione semplice e ricca di sviluppi e di applicazioni sia teoriche sia pratiche.
In Italia, la psicologia del lavoro nasce tra la fine del XIX secolo e i primi anni del XX, in concomitanza con la rivoluzione industriale. Le ricerche di psicologia del lavoro vennero effettuate da Agostino Gemelli, che, durante la prima guerra mondiale, si dedicò alla selezione attitudinale degli aviatori e di altri specialisti e, nel 1917, pubblicò il volume Il nostro soldato.
Alcuni dei costrutti teorici cui la psicologia delle organizzazioni fa riferimento sono: la teoria dei sistemi, i principi della termodinamica e l'entropia, la nascente scienza della complessità.
3. AREE DELLA PSICOLOGIA DEL LAVORO E DELLE ORGANIZZAZIONI
I campi d'applicazione della psicologia delle organizzazioni sono soprattutto: la gestione del personale, la leadership, la selezione, la valutazione, la formazione professionale, la comunicazione e i rapporti, le dinamiche di gruppo, la motivazione al lavoro, il sistema premi-punizioni, lo sviluppo della carriera.
Il processo di leadership consiste nell'interazione di coloro che in una struttura di stato occupano la posizione più elevata, altrimenti detti leaders, col resto del gruppo. Una delle caratteristiche fondamentali dei membri di un gruppo di stato elevato è quella di proporre idee e attività nel gruppo utilizzando in questo modo dei mezzi per influenzare i membri del gruppo a modificare il loro comportamento.
Ma, dal momento che l'influenza sociale è comunque sempre un processo reciproco, quello che caratterizza i leader è che possono influenzare gli altri nel gruppo più di quanto siano influenzati loro stessi. Per questo motivo nelle più recenti teorie sulla leadership ci propone di ritenere la leadership una relazione, anche perché come afferma Peter Drucker il leader è colui che ha dei seguaci, senza seguaci non ci possono essere leader.
Per il concetto di leadership esistono diverse definizioni qualificabili differentemente in base all’approccio teorico adottato. In base ai diversi significati che i diversi approcci attribuiscono alla figura del leader e a seconda dei parametri presi in considerazione dai ricercatori, si avranno tre categorie di definizioni, ognuna delle quali focalizza l’attenzione su alcuni elementi che ne influenzeranno lo sviluppo di una definizione.
La prima categoria di definizioni è caratterizzata dall’attenzione ai tratti e alle capacità caratteristiche dei leader o alla funzione di conduzione. Questo insieme di definizioni esamina solo le qualità intrinseche del leader, trascurando il contesto.
Il secondo insieme di definizioni focalizza l’attenzione sul controllo, sulla spinta, sulla direzione delle azioni o degli atteggiamenti che un soggetto riesce ad imprimere ad altri soggetti o ad un gruppo, con la più o meno acquiescenza dei seguaci, senza usare la coercizione. Con queste definizioni non si riconosce una categoria speciale di persone che sono leader, ne che particolari azioni o qualità conferiscano la leadership. Si tratta di un complesso di definizioni denominate anche funzionaliste.
La terza categoria di definizioni si dedica all’azione di influenza, qualunque essa sia, che determina un cambiamento utile al raggiungimento degli obiettivi del gruppo. Questo terzo significato appare come valutativo: esso sembra sottintendere che una leadership auto-centrata non è leadership autentica e che tutto si debba o si possa comunque ridurre ad un problema di influenzamento, per di più ad una sola via. Si tratta in ogni caso di un tipo di definizione che possiamo qualificare come riduttivisticamente e comportamentisticamente situazionalista.
Bernard Bass nel manuale sulla leadership propone 11 categorie di significati attribuiti alla leadership nel corso dell'ultimo secolo:
Quando si parla di leadership ci si rende conto che spesso l’influenza scaturita dai grandi leader non deriva dal diretto contatto con esso, ma avviene attraverso alcuni intermediari. È necessario dunque porre una chiara distinzione tra leadership diretta, che comprende le relazioni e le interazioni fra un leader riconosciuto e i suoi immediati collaboratori e la leadership indiretta detta anche leadership ‘a distanza’, che consiste nell’influenza di un leader riconosciuto su persone che non sono subordinate direttamente a lui/lei.
Nell’ambito delle Risorse Umane, la Selezione del personale è la funzione che si occupa del reperimento, delle selezione e dell’inserimento in azienda dei nuovi dipendenti.
La quantità e la qualità delle risorse da ricercare dovrebbero derivare principalmente dal processo di pianificazione del personale, in base alle caratteristiche delle posizioni da ricoprire.
I mezzi più comunemente utilizzati per la ricerca sono:
La selezione avviene in linea di massima tramite l’analisi dei curricula, i colloqui con il responsabile della selezione (che può essere anche esterno), ed il colloquio finale con il responsabile di linea interessato alla nuova risorsa.
La ricerca del personale adatto può richiedere anche un periodo molto lungo, per cui è bene partire il prima possibile quando la necessità è appurata. La facilità o meno di trovare le risorse ricercate dipende infatti dal mercato del lavoro in quel momento, dalla specificità delle caratteristiche richieste e dalla notorietà/attrattività dell’azienda richiedente..
La selezione del personale è una funzione rilevante, in quanto è quella che determina la qualità delle persone che vengono immesse in azienda, e quindi alla fine la qualità stessa delle risorse umane di un’azienda.
Con Formazione professionale si intende il percorso di formazione che si deve intraprendere per accostarsi ad una professione e per essere pronti ad entrare (o rientrare) nel mondo del lavoro.
Si parla di formazione professionale iniziale se questa è rivolta ai giovani che si accostano per la prima volta al mondo del lavoro.
Si parla di formazione professionale continua se è rivolta ad adulti che sono stati esclusi dal mondo del lavoro (disoccupato) e/o che intendono riqualificarsi in vista di un nuovo o di un migliore inserimento.
Essa indica un percorso scolastico professionalizzante per giovani che vogliono entrare subito nel mondo del lavoro, ovvero senza dover compiere lunghi studi per arrivare ad un diploma oppure ad una laurea.
Il percorso di studi è variegato e dipende dalla tipologia di istituto frequentato.
In Italia attuano la formazione professionale iniziale:
In particolare gli Istituti professionali statali prevedono un piano di studi che può arrivare a 5 anni consecutivi con specializzazioni intermedie. Si inizia con un biennio di base, comune ad altri istituti superiori, seguito da un anno (il terzo) di qualifica professionale in un specifico settore professionale.
Scopo del biennio iniziale è quello di orientare e rendere più consapevole l'alunno, nella scelta della specializzazione di indirizzo professionale, prevista nel terzo anno di frequenza.
Il ciclo di studi può concludersi alla fine del terzo anno con l'acquisizione di un diploma di qualifica oppure, acquisita la qualifica professionale, esiste la possibilità di accedere ad un successivo corso biennale, definito post-qualifica, che si conclude con l’Esame di Stato.
Nel mondo del lavoro odierno in rapida trasformazione sempre più sovente un lavoratore è costretto a metter mano alla propria formazione professionale o perché si è trovato escluso dal mondo del lavoro (disoccupato) oppure perché desidera riqualificarsi in vista di un nuovo o di un migliore inserimento. Si parla quindi di formazione professionale continua oppure di formazione lungo tutto il corso della vita.
In Italia si identifica il concetto di Formazione Continua con quella concordata fra le Parti Sociali, definita in un Piano Formativo di tipo individuale, aziendale, territoriale o settoriale e tradotta in progetti formativi finanziabili dai Fondi Interprofessionali per la Formazione Continua. A tale formazione accedono i lavoratori occupati di aziende iscritte ad un Fondo Interprofessionale a cui vengono così indirizzate, volontariamente, le quote che obbligatoriamente devono essere versate, ogni anno, all'INPS (0,30% della retribuzione lorda annua di ogni dipendente). Al gennaio 2007 operano 13 Fondi Interprofessionali in Italia, autorizzati a gestire la propria raccolta di quote "zero trenta" che le singole aziende decidono di indirizzare loro. Gli obiettivi della formazione continua finanziabile dai Fondi Interprofessionali sono definiti nei bandi pubblici che ogni Fondo emette sulla base delle risorse raccolte. Tali obiettivi possono essere di tipo professionale e riconosciuti nell'organizzazione del lavoro dell'azienda, oppure essere finalizzati all'acquisizione di informazioni e/o competenze di tipo obbligatorio (salute e sicurezza nei luoghi di lavoro) o per competenze/interessi di tipo individuale cui il lavoratore può accedere anche singolarmente. Qualunque obiettivo formativo riconoscibile e finanziabile da un Fondo Interprofessionale deve comunque essere oggetto di un Accordo fra le Parti Sociali.
La comunicazione (dal lat. cum = con, e munire = legare, costruire e dal lat. communico = mettere in comune, far partecipe) non è soltanto un processo di trasmissione di informazioni (secondo il modello Shannon e Weaver). In italiano, comunicazione ha il significato semantico di "far conoscere", "render noto". In tedesco, il termine Mitteilung mantiene la radice latina mettere in comune, condividere. La comunicazione è un processo costituito da un soggetto che ha intenzione di far sì che il ricevente pensi o faccia qualcosa (Grice, 1975).
Poiché il termine viene impiegato in contesti assai diversi,dalla filosofia alla sociologia alla psicologia, alla biologia, alla teoria dell'informazione, si rivela difficile offrire una definizione che sia da un lato significativa, dall'altro valida in ogni contesto.
Comunicazione significa sia il quotidiano parlare assieme delle persone, sia pubblicitá o pubbliche relazioni. Gli agenti della comunicazione possono essere persone umane, esseri viventi o qualsiasi altra "cosa". Infatti è colui che "riceve" la comunicazione ad assegnare a questa un significato (Friedemann Schulz von Thun, Ludovica Scarpa), per cui è la potenzialitá creativa dell'essere umano ad assegnare significati ad ogni cosa, creando il "sistema comunicazione" con le sue due caratteristiche: l' immaginazione e la creazione di simboli.
È tuttavia argomento di discussione se la comunicazione presupponga l'esistenza di coscienza, o se si tratti di un processo che può avvenire anche tra macchine. Se infatti è colui che riceve la comunicazione ad assegnare un significato ogni "cosa" puó comunicare.
Il concetto di comunicazione comporta la presenza di un'interazione tra soggetti diversi: si tratta in altri termini di una attività che presuppone un certo grado di cooperazione. Ogni processo comunicativo avviene in entrambe le direzioni e, secondo alcuni, non si può parlare di comunicazione là dove il flusso di segni e di informazioni sia unidirezionale. Se un soggetto può parlare a molti senza la necessità di ascoltare, siamo in presenza di una semplice trasmissione di segni o informazioni.
Nel processo comunicativo che vede coinvolti gli esseri umani ci troviamo cosí di fronte a due polarità: da un lato la comunicazione come atto di pura cooperazione, in cui due o più individui "costruiscono insieme" una realtà e una verità condivisa (la "struttura maieutica" proposta da Danilo Dolci); dall'altro la pura e semplice trasmissione, unidirezionale, senza possibilità di replica, nelle varianti dell'imbonimento televisivo o dei rapporti di caserma. Nel mezzo, naturalmente, vi sono le mille diverse occasioni comunicative che tutti viviamo ogni giorno, in famiglia, a scuola, in ufficio, in città.
Il concetto di feedback, o retroazione, centrale nella cibernetica, ha un ruolo fondamentale nei processi comunicativi. Possiamo individuare nella qualità della retroazione, e nel modo in cui il feedback viene usato nel processo comunicativo, un segnale per una "buona comunicazione". In tal caso si puó dire che il significato di una comunicazione sta nel suo risultato - ed è indipendente quindi dalle intenzioni dei partecipanti (come accade di dover sperimentare amaramente nella vita quotidiana).
Generalmente si distinguono diversi elementi che concorrono a realizzare un singolo atto comunicativo:
Come si è detto, il processo comunicativo ha una intrinseca natura bidirezionale, quindi il modello va interpretato nel senso che si ha comunicazione quando gli individui coinvolti sono a un tempo emittenti e riceventi messaggi. In realtà, anche in un monologo chi parla ottiene dalla controparte un feedback continuo, foss'anche il messaggio non verbale "parla quanto vuoi, io non ti ascolto". Questo fenomeno è stato riassunto con l'assioma (di Paul Watzlawick) secondo il quale, in una situazione in presenza di persone, "non si può non comunicare": perfino in una situazione anonima come in un vagone della metropolitana noi emettiamo per i nostri vicini continuamente segnali non verbali (che significano pressappoco "anche se sono a pochi centimetri da te, non ti minaccio e non intendo immischiarmi nella tua sfera intima"), e i nostri compagni di viaggio accolgono il messaggio, lo confermano e lo rinforzano ("bene; lo stesso vale per me nei tuoi confronti").
Già da questo semplice modello possiamo individuare diversi aspetti potenzialmente problematici del processo comunicativo:
a) Il processo di comunicazione, pur essendo formalmente cosa separata dal mezzo attraverso il quale avviene, ne è altamente influenzato: se utilizzo il codice Morse, cercherò di limitare il messaggio allo stretto necessario, se utilizzo una lettera userò un tono tendenzialmente più formale rispetto ad una telefonata. Il mezzo influenza la comunicazione, ciascuno in un modo diverso, e quindi si potranno individuare dei mezzi di comunicazione particolarmente adatti a trattare un certo argomento, ma inadatti ad un altro.
b) Non è detto che il gran numero di singoli messaggi, verbali e non verbali, emessi in un dato momento (vedi oltre), siano sempre congruenti tra loro. Posso dire due cose diverse con le parole e con i gesti (ad esempio dire al mio rivale in amore "lieto di conoscerti" con un'espressione del volto assai contrariata).
c) Non è detto che l'interpretazione del contesto all'interno del quale avviene lo scambio comunicativo sia sempre identica o congruente. Nell'aula di una scuola, il docente potrà pensare di avere uno stile partecipativo e "democratico", mentre lo studente potrà sentirsi parte di una relazione asimmetrica e autoritaria.
Da quanto appena detto emerge chiaramente che la comunicazione non sempre "funziona"; questo dato viene confermato innumerevoli volte dalla nostra esperienza quotidiana. In situazioni particolari come i conflitti interpersonali, o anche quando sono in gioco patologie mentali la comunicazione diventa particolarmente difficile e puó produrre ulteriore disagio.
Paul Watzlawick e colleghi (1967) hanno introdotto una differenza di fondamentale importanza nello studio della comunicazione umana: ogni processo comunicativo tra esseri umani possiede due dimensioni distinte: da un lato il contenuto, ciò che le parole dicono, dall'altro la relazione, ovvero quello che i parlanti lasciano intendere, a livello verbale e più spesso non verbale, sulla qualità della relazione che intercorre tra loro. In epoca recente, lo psicologo di Amburgo Friedemann Schulz von Thun (1981) ha proposto un modello di comunicazione interpersonale che distingue quattro dimensioni diverse, nel cosiddetto "quadrato della comunicazione":
Queste quattro dimensioni si possono tener presenti sia nel formulare messaggi che nell'ascolto e nell'interpretazione dei messaggi di altri. In questo secondo caso la "scuola di Amburgo" parla delle "quattro orecchie" (corrispondenti ai "quattro lati del quadrato della comunicazione") su cui ci si puó sintonizzare. Ad esempio, per riuscire a "prendermela", ad offendermi nell'ascoltare la comunicazione x, dovró assegnare ad essa significato sintonizzandomi sull'orecchio "giallo", quello che tende a vedere nella comunicazione degli altri il loro soppesarci, il segno cioè di quanto questi ci rispettino. Questo modello visualizza come noi si sia sempre liberi di assegnare a qualsiasi comunicazione un significato oppure un altro, evidenzia cosí il potere di chi ascolta nel contribuire a definire la qualitá di una interazione. Con un poco di allenamento è possibile, ad esempio, sintonizzarci sull'orecchio verde, invece che su quello giallo, e chiederci, dentro di noi, di fronte ad una comunicazione che ci pare irritante (e lo fará solo se siamo sintonizzati sull'orecchio giallo!): "come si sente, la persona che parla, per sentire il bisogno di parlarmi in questo modo?"
Atteggiamenti verso il lavoro
Le aziende moderne dimostrano grande interesse per gli atteggiamenti dei dipendenti, le loro idee e il loro umore, infatti si diffonde sempre più l’opinione che gli atteggiamenti favorevoli verso l’azienda provochino una maggiore produttività.
Gli atteggiamenti verso il lavoro più studiati sono la gratificazione, l’alienazione, la dedizione all’organizzazione e la motivazione alla mansione. Le gratificazioni vengono suddivise in intrinseche ed estrinseche. Le caratteristiche intrinseche sono quelle legate al contenuto del lavoro stesso, quindi ne fanno parte il successo, la competizione, il riconoscimento, la crescita e la responsabilità. Le caratteristiche estrinseche dipendono dall’ambiente di lavoro e comprendono la paga, i vantaggi aggiuntivi, la sicurezza sul lavoro, i criteri di conduzione dell’azienda e le condizioni di lavoro. L’alienazione è un senso di inadeguatezza e di emarginazione, o un sentimento di mancanza di significato del proprio lavoro e delle proprie capacità. La dedizione all’organizzazione è un sentimento complessivo verso l’azienda. Gli aspetti che rappresentano una forte dedizione sono: un’intima adesione agli scopi e agli ideali dell’organizzazione, una buona disposizione a impegnarsi in suo favore e una forte aspirazione a continuare il proprio lavoro al suo interno. Il coinvolgimento dei lavoratori è stato, per lo più, analizzato come sentimento verso la propria mansione. Un atteggiamento positivo verso il lavoro è apprezzato perché favorisce l’autostima, diminuisce lo stress e, generalmente, migliora il rendimento.Lo stimolo economico non è così essenziale per gli atteggiamenti e le motivazioni del lavoratore. Il denaro è necessario per la sopravvivenza e per garantire un adeguato tenore di vita, ma dopo aver appagato i bisogni basilari, le persone aspirano ad altre affermazioni nell’ambiente di lavoro. A questo proposito lo psicologo Abrahm Maslow incluse le motivazioni umane in una scala di bisogni di tipo gerarchico. I fondamentali sono i bisogni fisiologici; seguono i bisogni di sicurezza, poi vi sono i bisogni di appartenenza (amore e socializzazione), poi i bisogni di stima (approvazione da parte degli altri) e, per concludere, i bisogni di autorealizzazione (essere tutto ciò che si è capaci di essere). Il raggiungimento dei bisogni inferiori fa emergere le motivazioni superiori: l’individuo cerca di dare un senso al proprio lavoro quando i bisogni fondamentali sono soddisfatti.
Formazione e Sviluppo
I cambiamenti tecnici e sociali si verificano oggi così rapidamente da richiedere un repentino adeguamento dei sistemi organizzativi del lavoro, pena il loro stesso fallimento. Gli psicologi industriali hanno il compito di studiare e progettare strutture di formazione e addestramento alle nuove tecnologie, sensibilizzando le aziende e gli organismi sociali deputati a questo compito. Per attuare tali progetti, è necessario contemperare le necessità produttive delle aziende con le richieste dei lavoratori, le esigenze sociali (ad esempio, l'inserimento lavorativo dei portatori di handicap o la riqualificazione professionale per i soggetti rimasti senza lavoro) e la quantità di fondi a disposizione. Perché il progetto formativo sia effettivamente adeguato a una certa persona, dotata di determinate capacità e in una specifica situazione professionale, culturale ed esistenziale, assumono dunque molta importanza le conoscenze fornite dalla psicologia dello sviluppo e dalla psicologia dell'educazione.
Le attuali procedure di selezione del personale, pur non essendo sempre in grado di garantire con assoluta certezza che una persona sia adatta a un certo impiego, sono molto più attendibili che in passato. La maggior parte di esse si basa sull'analisi delle capacità richieste per un determinato lavoro e, con un qualche margine di cautela, delle caratteristiche di personalità necessarie per garantire il successo in un certo ruolo. Quando è opportuno, queste procedure includono una valutazione dell'intelligenza e delle abilità specificamente richieste per l'impiego, ottenuta attraverso prove psicologiche. Gli strumenti a disposizione, oltre a test e questionari, sono molteplici e derivano in gran parte dalla psicologia sperimentale e dalla psicologia sociale.
Accrescere la Motivazione del Personale Stimolando la Passione per il Lavoro
Creare motivazione nel personale è uno degli strumenti del coaching, che consiste principalmente nel creare condizioni tali da stimolare alti livelli di prestazioni lavorative. Un modo per ottenere ciò è quello di stimolare le passione per il lavoro nelle persone. A volte risulta difficile associare il concetto di passione con quello di lavoro; un approfondimento di questo tema offre degli spunti d'azione e sviluppo interessanti . La passione può essere definita come un intenso coinvolgimento e un forte desiderio per una determinata attività. Il termine "passione" viene maggiormente usato per riferirsi a ciò che le persone desiderano riguardo alla loro vita sentimentale, ma, certamente, il significato di questa parola si estende ben oltre. Quando si incontrano persone che nutrono una passione per qualche loro interesse o per il lavoro, il loro entusiasmo spesso è così contagioso che ne veniamo attratti e potremmo ascoltarli parlare per ore della loro attività, anche se questa non è di particolare interesse per noi. Spesso, la passione per qualcosa , può condurre le persone ad alti livelli di prestazione.
Molte persone sono appassionate di uno, o più, dei seguenti ambiti lavorativi:
Essere un esperto in materia significa essere quella persona a cui gli altri si rivolgono per un consiglio o che rappresenta l'intero gruppo di lavoro nel corso di eventi particolari, relativi al campo di cui si è esperti. In qualsiasi modo ci si avvalga di questa competenza particolare, essere in grado di imparare e condividere la propria conoscenza con gli altri è ciò che stimola la passione di queste persone. In qualità di manager Lei deve voler utilizzare questa passione.
Le opportunità per usufruire della creatività delle persone sono illimitate nel campo lavorativo. Per Lei che esercita il ruolo di manager, il trucco consiste nell'incoraggiare -e non reprimere- quei membri del Suo staff che sono in grado di ideare e incrementare sforzi lavorativi protesi al nuovo o al diverso, specie se questi possono avere un impatto positivo. Riguardo quelle persone che si entusiasmano di fronte alla possibilità di esprimere la propria creatività, lasci che la esprimano. Stabilisca i parametri necessari e poi conceda agli impiegati piena libertà di agire secondo le loro buone idee, che Lei non deve necessariamente suggerire. Ciò che Lei deve fare è lasciare che i Suoi impiegati procedano con le loro idee e riconoscere i miglioramenti che essi producono grazie alle loro azioni creative.
Talvolta, creare l'opportunità per alimentare una passione, può comportare di incrementarne altre allo stesso tempo. Per esempio, se Lei chiede ad un membro del Suo staff, di contribuire ad uno speciale progetto di squadra ed il suo lavoro è positivo, la squadra avrà successo. Questa persona sarà motivata non solo dal fatto di aver contribuito al lavoro di squadra, ma anche perché il suo supporto ha costituito una differenza significativa.
Definisca con chiarezza i parametri da rispettare con questi impiegati e poi li lasci liberi di agire. Potranno incontrare qualche ostacolo lungo la loro strada, ma la loro passione per il rischio e per il successo che da esso può derivare li aiuterà a non perdersi. Il Suo ruolo, quando sfrutta questa passione, è quello di fornire supporto ed eliminare ostacoli burocratici sul loro cammino.
Si ricordi che Lei, in qualità di manager, ha il ruolo di individuare prima che cosa crea passione per ognuno dei Suoi impiegati, e poi di lavorare per generare opportunità che consentano di utilizzare questa passione e fornire il supporto necessario. Una volta che inizierà a gestire le persone in questo modo si renderà conto quanto la motivazione che viene da dentro sia una leva essenziale per produrre risultati di rilievo.
* Coaching: Cura della crescita professionale e personale degli individui.
La sindrome da burnout
La sindrome da burnout (o più semplicemente burnout) è l'esito patologico di un processo stressogeno che colpisce le persone che esercitano professioni d'aiuto (helping profession), qualora queste non rispondano in maniera adeguata ai carichi eccessivi di stress che il loro lavoro li porta ad assumere.
Il burnout interessa educatori, medici di base, insegnanti, poliziotti, vigili del fuoco, infermieri, psicologi, psichiatri, assistenti sociali, fisioterapisti, anestesisti, medici ospedalieri, studenti di medicina, guardie carcerarie, responsabili e addetti a servizi di prevenzione e protezione aziendali, operatori del volontariato, ecc. Queste figure sono caricate da una duplice fonte di stress: il loro stress personale e quello della persona aiutata.
Ne consegue che, se non opportunamente trattati, questi soggetti cominciano a sviluppare un lento processo di "logoramento" o "decadenza" psicofisica dovuta alla mancanza di energie e di capacità per sostenere e scaricare lo stress accumulato ("burnout" in inglese significa proprio "bruciarsi"). In tali condizioni può anche succedere che queste persone si facciano un carico eccessivo delle problematiche delle persone a cui badano, non riuscendo così più a discernere tra la propria vita e la loro. Caratteristici del burnout sono anche l'esaurimento emozionale, la depersonalizzazione, un atteggiamento spesso improntato al cinismo e un sentimento di ridotta auto-realizzazione. Il soggetto tende a sfuggire l'ambiente lavorativo assentandosi sempre più spesso e lavorando con entusiasmo ed interesse sempre minori, a provare frustrazione e insoddisfazione, nonché una ridotta empatia nei confronti delle persone delle quali dovrebbe occuparsi. L'abuso di alcol, di sostanze psicoattive ed il rischio di suicidio sono aumentati nei soggetti affetti da burnout.
Per misurare il burnout ci sono diverse scale ma è da ricordare la scala di Maslach: un questionario di 22 items, ossia domande, atti a stabilire se nell'individuo sono attive dinamiche psicofisiche che rientrano nel burnout. A ogni domanda il soggetto interessato deve rispondere inserendo un valore da 0 a 6 per indicare intensità e frequenza con cui si verificano le sensazioni descritte nella domanda stessa.
La prevalenza della sindrome nelle varie professioni non è ancora stata chiaramente definita, ma sembra essere piuttosto elevata tra operatori sanitari quali medici e infermieri (ad esempio, secondo un recente studio olandese in Psychological Reports, non meno del 40% dei medici di base andrebbe incontro ad elevati livelli di burnout), insegnanti e poliziotti.
Negli operatori sanitari, la sindrome si manifesta generalmente seguendo quattro fasi.
La prima, preparatoria, è quella dell'entusiasmo idealistico che spinge il soggetto a scegliere un lavoro di tipo assistenziale.
Nella seconda (stagnazione) il soggetto, sottoposto a carichi di lavoro e di stress eccessivi, inizia a rendersi conto di come le sue aspettative non coincidano con la realtà lavorativa. L'entusiasmo, l'interesse ed il senso di gratificazione legati alla professione iniziano a diminuire.
Nella terza fase (frustrazione) il soggetto affetto da burnout avverte sentimenti di inutilità, di inadeguatezza, di insoddisfazione, uniti alla percezione di essere sfruttato, oberato di lavoro e poco apprezzato; spesso tende a mettere in atto comportamenti di fuga dall'ambiente lavorativo, ed eventualmente atteggiamenti aggressivi verso gli altri o verso se stesso.
Nel corso della quarta fase (apatia) l'interesse e la passione per il proprio lavoro si spengono completamente e all'empatia subentra l'indifferenza, fino ad una vera e propria "morte professionale".
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Il mobbing
Il mobbing è, nell'accezione più comune in Italia, un insieme di comportamenti violenti (abusi psicologici, angherie, vessazioni, demansionamento, emarginazione, umiliazioni, maldicenze, etc.) perpetrati da parte di superiori e/o colleghi nei confronti di un lavoratore, prolungato nel tempo e lesivo della dignità personale e professionale nonché della salute psicofisica dello stesso. I singoli atteggiamenti molesti (o emulativi) non raggiungono necessariamente la soglia del reato né debbono essere di per sé illegittimi, ma nell'insieme producono danneggiamenti plurioffensivi anche gravi con conseguenze sul patrimonio della vittima, la sua salute, la sua esistenza.
Più in generale, il termine indica i comportamenti violenti che un gruppo (sociale, familiare, animale) rivolge ad un suo membro.
Il termine mobbing è stato coniato agli inizi degli anni settanta dall'etologo Konrad Lorenz per descrivere un particolare comportamento di alcune specie animali che circondano in gruppo un proprio simile e lo assalgono rumorosamente per allontanarlo dal branco. In etologia, particolarmente in ornitologia, mobbing indica anche il comportamento di gruppi di uccelli di piccola taglia nell'atto di respingere un rapace loro predatore.
Mobbing è un gerundio sostantivato inglese derivato da "mob" (coniato nel 1688 secondo il dizionario Merriam-Webster), dall'espressione latina "mobile vulgus", che significa "gentaglia (mobile)", cioè "una folla grande e disordinata", soprattutto "dedita al vandalismo e alle sommosse". Da qui il significato assunse presso le classi sociali più elevate anche una connotazione spregiativa, per cui "mob" era, anche in assenza di azioni violente, equivalente pressapoco all'italiano "plebaglia".
Questa pratica è spesso condotta con il fine di indurre la vittima ad abbandonare da sé il lavoro, senza quindi ricorrere al licenziamento (che potrebbe causare imbarazzo all'azienda) o per ritorsione a seguito di comportamenti non condivisi (ad esempio, denuncia ai superiori o all'esterno di irregolarità sul posto di lavoro), o per il rifiuto della vittima di sottostare a proposte o richieste immorali (sessuali, di eseguire operazioni contrarie a divieti deontologici o etici, etc.) o illegali.
Per potersi parlare di mobbing, l'attività persecutoria deve durare più di 6 mesi e deve essere funzionale alla espulsione del lavoratore, causandogli una serie di ripercussioni psico-fisiche che spesso sfociano in specifiche malattie (disturbo da disadattamento lavorativo, disturbo post-traumatico da stress) ad andamento cronico.
Va peraltro sottolineato che l'attività mobbizzante può anche non essere di per sé illecita o illegittima o immediatamente lesiva, dovendosi invece considerare la sommatoria dei singoli episodi che nel loro insieme tendono a produrre il danno nel tempo. In effetti, l'ingiustizia del danno, vale a dire dell'evento lesivo non previsto né giustificato da alcuna norma dell’Ordinamento giuridico, deve essere sempre ricercata valutando unitariamente e complessivamente i diversi atti, intesi nel senso di comportamenti e/o provvedimenti..
Si distingue, nella prassi, fra mobbing gerarchico e mobbing ambientale; nel primo caso gli abusi sono commessi da superiori gerarchici della vittima, nel secondo caso sono i colleghi della vittima ad isolarla, a privarla apertamente della ordinaria collaborazione, dell'usuale dialogo e del rispetto.
Si parla di mobbing verticale quando un superiore per licenziare un dipendente in particolare perché antipatico, poco competente e produttivo; e di mobbing orizzontale quando in ufficio un collega non è accettato per i diversi interessi sportivi oppure perché diversamente abile. Il mobbing strategico si ha quando l'attività vessatoria e dequalificante tende ad espellere il lavoratore, per far posto ad un altro lavoratore (di solito in posizioni di dirigenza o apicali)
In ogni caso, il mobbing è riferibile ad un complesso, sistematico e duraturo comportamento del datore di lavoro, che deve essere esaminato in tutti i suoi aspetti e nella loro conseguenzialità, per creare un coacervo di stimoli lesivi che non può né deve essere frazionato o spezzettato in tanti singoli episodi, ciascuno dei quali aventi un proprio effetto sanitario ovvero giuridico. Anche perché si è soliti ammantare con solide motivazioni anche gli atti peggiori, sì da dare ad essi una parvenza di legittimità {{Stefano Gennai: Bossing, mobbing, straining nel pubblico impiego, Altalex 6.12.2006|. Gli anzidetti concetti sono importanti per la dimostrazione giudiziale del mobbing.
Il primo a parlare di mobbing quale condizione di persecuzione psicologica nell'ambiente di lavoro è stato alla fine degli anni '80 lo psicologo svedese Heinz Leymann che lo definiva come una comunicazione ostile e non etica diretta in maniera sistematica da parte di uno o più individui generalmente contro un singolo, progressivamente spinto in una posizione in cui è privo di appoggio e di difesa.
Secondo un'indagine del 1998, il 16% dei lavoratori inglesi denuncia di essere vittima di mobbing; l'Italia è ultima nella classifica UE con un 4,2%. Alcuni contratti sindacali, come quello dei metalmeccanici in Germania, prevedono un risarcimento di circa 250.000 euro per i lavoratori mobbizzati.
La pratica del mobbing sul posto di lavoro
La pratica del mobbing consiste nel vessare il dipendente o il collega di lavoro con diversi metodi di violenza psicologica o addirittura fisica. Ad esempio: sottrazione ingiustificata di incarichi o della postazione di lavoro, dequalificazione delle mansioni a compiti banali (fare fotocopie, ricevere telefonate, compiti insignificanti, dequalificanti o con scarsa autonomia decisionale) così da rendere umiliante il prosieguo del lavoro; rimproveri e richiami, espressi in privato ed in pubblico anche per banalità; dotare il lavoratore di attrezzature di lavoro di scarsa qualità o obsolete, arredi scomodi, ambienti male illuminati; interrompere il flusso di informazioni necessario per l'attività (chiusura della casella di posta elettronica, restrizioni sull'accesso a Internet); continue visite fiscali in caso malattia (e spesso al ritorno al lavoro, la vittima trova la scrivania sgombra). Insomma, un sistematico processo di "cancellazione" del lavoratore condotto con la progressiva preclusione di mezzi e relazioni interpersonali indispensabili allo svolgimento di una normale attività lavorativa.
Secondo L'INAIL che per prima in Italia ha definito il mobbing lavorativo qualificandolo come costrittività organizzativa le possibili azioni traumatiche possono riguardare la marginalizzazione dalla attività lavorativa, lo svuotamento delle mansioni, la mancata assegnazione dei compiti lavorativi o degli strumenti di lavoro, i ripetuti trasferimenti ingiustificati, la prolungata attribuzione di compiti dequalificanti rispetto al profilo professionale posseduto o di compiti esorbitanti o eccessivi anche in relazione a eventuali condizioni di handicap psico-fisici, l'impedimento sistematico e strutturale all’accesso a notizie, la inadeguatezza strutturale e sistematica delle informazioni inerenti l’ordinaria attività di lavoro, l'esclusione reiterata da iniziative formative, il controllo esasperato ed eccessivo.
E' quindi chiaro che il mobbing non è una malattia ma rappresenta il termine per indicare la complessiva attività ostile posta in essere solitamente da un datore di lavoro (pubblico o privato, da solo o in combutta) per demansionare il lavoratore, isolarlo e obbligarlo al trasferimento o alle dimissioni.
Le azioni rientranti nella categoria della costrittività organizzativa coinvolgono direttamente e in modo esplicito l’organizzazione del lavoro e la posizione lavorativa e possono assumere diverso rilievo ai fini del riconoscimento della natura professionale del danno conseguente Template:Paolo Pappone et Al. Patologia psichica da stress,mobbing e costrittività organizzativa.
In Italia, le tutele al licenziamento o trasferimento in altre sedi dei lavoratori sono maggiori che in altri Paesi ed è abbastanza diffusa la pratica di ricorso al mobbing per indurre nel lavoratore le dimissioni laddove il licenziamento è possibile solo per giusta causa (art.18 dello Statuto dei Lavoratori).
I Processi di Coping nell’Adattamento allo Stress
Prima di descrivere i processi di coping, quali dimensioni psicologiche principalmente coinvolte nel processo di adattamento a situazioni stressanti (Holahan e Moos, 1994; Klapow et. al., 1995), ritengo necessario dare un definizione di ciò che si intende per stress. L’origine del termine è appannaggio dell’ingegneria, dove con stress si denota una forza che viene applicata ad un materiale e che, in tal modo, può produrre in esso una tensione o un cambiamento meccanico. In psicologia viene utilizzato per la prima volta da Cannon nel 1932 come sinonimo di stimolo nocivo. Successivamente Selye (1936) concettualizza lo stress come un insieme di reazioni difensive di natura fisiologica e psicologica attuate per far fronte ad una minaccia o ad una sfida. Selye fu il primo ad aver riconosciuto che lo stress non è una condizione necessariamente patologica e negativa, ma una reazione in primo luogo adattativa, in quanto finalizzata a ristabilire o a mantenere l’equilibrio omeostatico. Infine Lazarus e Folkman (1984) definiscono lo stress come la condizione derivante dall’interazione di variabili ambientali e individuali, che vengono mediate da variabili di tipo cognitivo. Quindi lo stress viene concettualizzato come qualcosa di dinamico, a carattere relazionale e compare per la prima volta il concetto di stress psicologico. Con tale concetto si sottolinea la componente soggettiva dell’evento stressante, ovvero che l’elemento fondamentale che determina l’entità della reazione emozionale-fisiologica è la valutazione cognitiva che l’individuo compie del suddetto evento stressante. In altre parole, nessun evento esistenziale significativo può essere considerato aprioristicamente patogenetico e, allo stesso tempo, ogni evento suscettibile di produrre una reazione emozionale potrebbe essere definito come avvenimento stressante (Pancheri, 1993). Quindi gli eventi sono stressanti nella misura in cui sono percepiti come stressanti, per cui uno stimolo produrrà o meno una reazione di stress a seconda di come viene interpretato e valutato (Lazarus, 1998). Tuttavia lo stress non è un’esperienza esclusivamente soggettiva, ma la sua entità è definita anche dalle caratteristiche oggettive dello stimolo. Perciò la portata stressogena di un evento è determinata, oltre che dalla valutazione cognitiva dello stimolo compiuta dall’individuo, anche dalle caratteristiche oggettive dello stimolo, ovvero dalla qualità dell’evento (come l’impatto emozionale che produce nel soggetto) e dalla sua quantità (come, per esempio, la durata temporale e la “vicinanza” con altri eventi che costituiscono una potenziale minaccia per l’equilibrio psico-fisico dell’individuo). Infine la portata stressogena di un evento è definita, oltre che dalla valutazione cognitiva e dalla percezione emotiva dello stimolo (valutazione primaria), anche dalla cosiddetta valutazione secondaria, ovvero dalla valutazione che un individuo compie delle proprie risorse e capacità di far fronte allo stimolo stressante ( Strategie di Coping). In altre parole un evento sarà tanto più stressante quanto più l’individuo si percepirà inadeguato e incapace di fronteggiarlo (Lazarus, 1993; Lazarus e Folkman, 1984). Le Strategie di Coping sono, dunque, le modalità che definiscono il processo di adattamento ad una situazione stressante. Tuttavia esse non garantiscono il successo di tale adattamento. Infatti il Coping, se è funzionale alla situazione può mitigare e ridurre la portata stressogena dell’evento, ma, se è disfunzionale ad essa, può anche amplificarla.
Ma cosa si intende per coping? Quando si parla di coping ci si riferisce all’insieme degli sforzi cognitivi e comportamentali attuati per controllare specifiche richieste interne e/o esterne che vengono valutate come eccedenti le risorse della persona (Lazarus, 1991). Si evincono da tale definizione quelle che sono le caratteristiche distintive del coping:
· è un processo dinamico, in quanto è costituito da una serie di risposte reciproche, attraverso le quali ambiente e individuo si influenzano a vicenda,
· comprende una serie di azioni, sia cognitive che comportamentali, intenzionali, finalizzate a controllare l’impatto negativo dell’evento stressante.
Il coping, inoltre, svolge diverse funzioni fondamentali in base alle quali può essere suddiviso in diverse tipologie:
1 Emotion-focused coping, che consiste nella regolazione delle reazioni emotive negative conseguenti alla situazione stressante;
2 Problem-focused coping, che consiste nel tentativo di modificare o risolvere la situazione che sta minacciando o danneggiando l’individuo (Lazarus, 1991; Lazarus e Folkman, 1984). Questa distinzione è abbastanza prevalente in letteratura e, sulla base di questa, Lazarus e Folkman nel 1980 (Heinemann, 1995) hanno elaborato un questionario, il Ways of coping checklist (WCC), suddiviso in due sottoscale che misurano, appunto, l’emotion-focused coping e il problem-focused coping. Esso è costituito da 68 affermazioni che rappresentano le diverse modalità che un individuo può o meno utilizzare per far fronte ad un evento stressante. I soggetti devono indicare se usano o meno ognuna delle strategie proposte. Successivamente i due autori hanno rielaborato tale questionario, in quanto diversi studi avevano rilevato l’eccessiva semplicità della formula fattoriale. Così nel 1985 Lazarus e Folkman ne propongono una nuova versione, il Ways of Coping Questionnaire (WCQ), che è costituito da 66 items, ad ognuno dei quali il soggetto deve rispondere in base ad una scala Likert a 4 punti. Questo strumento è suddiviso in otto sottoscale, che rappresentano le diverse modalità di coping che possono essere messe in atto di fronte ad una situazione stressante:
· 1 scala di risoluzione programmata del problema,
· 1 scala di ricerca di sostegno sociale,
· 6 scale focalizzate sulle emozioni.
Infine, partendo dal lavoro di Lazarus e Folkman, nel 1990 Endler e Parker hanno individuato tre tipologie di coping predominanti:
1 coping centrato sul compito (task coping): è rappresentato dalla tendenza ad affrontare il problema in maniera diretta, ricercando soluzioni per fronteggiare la crisi;
2 coping centrato sulle emozioni (emotion coping): rappresentato da abilità specifiche di regolazione affettiva, che consentono di mantenere una prospettiva positiva di speranza e controllo delle proprie emozioni in una condizione di disagio, oppure di abbandono alle emozioni, come la tendenza a sfogarsi o, ancora, la rassegnazione;
3 coping centrato sull’evitamento (avoidance coping): rappresentata dal tentativo dell’individuo di ignorare la minaccia dell’evento stressante o attraverso la ricerca del supporto sociale o impegnandosi in attività che distolgono la sua attenzione dal problema.
Partendo da tale classificazione Endler e Parker hanno costruito e validato uno strumento, oggi, molto utilizzato e che è stato, peraltro, impiegato anche nel presente lavoro di tesi, selezionandone, però, soltanto alcune scale. Si tratta del Coping Inventory for Stressful Situation (CISS, 1990). Esso è composto da 48 items, che indagano le diverse modalità di reagire ad un evento difficile e stressante. Le risposte, da scegliere su una scala Likert a 5 intervalli (da “per niente” a “moltissimo”), vengono raggruppate nelle dimensioni sopra descritte (Task Coping, Emotion Coping e Avoidance Coping). Anche se il CISS non è stato creato specificatamente pensando alla malattia come evento stressante, è facilmente applicabile anche a questo contesto, sia per l’adattabilità delle domande sia perché gli items descrivono modalità di reazione osservabili anche nel corso di una malattia. L’impiego di questi strumenti in ambito clinico ha permesso di rilevare che le modalità con cui una persona affronta la sua malattia influenzano significativamente il suo benessere psicofisico. In particolare gli studi sugli stili di coping nel corso di malattie croniche (Scharloo, Turner, Jensen e Romano, 2000) hanno evidenziato che l’essere attivi, il pensare positivamente e l’esprimere le proprie emozioni correla positivamente con livelli di funzionamento significativamente più alti, con punteggi più positivi nelle misure cliniche della malattia e con migliori livelli di adattamento psicologico. Nell’ambito degli studi sulle strategie di coping nel corso di malattie croniche, si colloca il lavoro di Brown e Nicassio (1987) sulle modalità di coping dei pazienti con dolore cronico. Essi propongono una formulazione delle tipologie di coping alternativa rispetto a quella tradizionale, proposta da Lazarus e Folkman. I due autori, infatti, descrivono due principali strategie di coping:
1 strategie attive di coping: rappresentate dal tentativo del paziente di controllare in qualche modo il proprio dolore (per esempio, facendo gli esercizi consigliati dal terapista) oppure dal tentativo di mantenere un buon livello funzionale, nonostante il permanere del dolore stesso,
2 strategie passive di coping: per cui il paziente lascia il controllo del proprio dolore ad altri o permette che altre aree significative di vita vengano influenzate negativamente dal dolore.
Secondo tale formulazione la differenza fondamentale tra strategie attive e passive si fonda, quindi, sul fatto che il paziente faccia affidamento su risorse interne a sé o esterne nella gestione del proprio dolore. Brown e Nicassio nel 1980 hanno, inoltre, elaborato uno strumento self-report, il Vanderbilt Pain Management Inventory, molto breve e di facile somministrazione, finalizzato ad indagare le dimensioni sopra descritte (strategie di coping attive e passive). Esso è composto da 18 items, ciascuno dei quali propone una strategia di coping che il paziente può o meno mettere in atto per far fronte al dolore (ad esempio, nel coping attivo troviamo la soluzione attiva del problema oppure la distrazione, mentre nel coping passivo ritroviamo la preghiera o la tendenza al catastrofismo). Il paziente deve indicare, scegliendo su una scala Likert a 5 intervalli, la frequenza con la quale mette in atto ognuna delle strategie proposte. Da studi trasversali e longitudinali (Jensen, Turner; Romano e Karoly,1991) è emerso che l’impiego di strategie di coping attive è associato a livelli più bassi di severità del dolore, di depressione e di disabilità funzionale, rispetto all’impiego di strategie passive. Tuttavia il limite di tale strumento sta nell’eccessiva semplicità, che non consente di analizzare adeguatamente la relazione tra coping e adattamento, in quanto accomuna sotto la stessa etichetta strategie che sarebbe, invece, importante distinguere, poiché non è detto che tutte le strategie passive siano ugualmente disadattive (Smith e Wallston, 1993). Ancora nell’ambito della ricerca sul dolore cronico è stato successivamente elaborato un altro strumento, il Coping Strategies Questionnaire (CSQ) (Rosenstiel e Keefe,1983), che comprende una gamma più ampia di strategie di coping. Anche se è stato inizialmente validato su un campione di pazienti con dolore cronico, esso può essere, tuttavia, applicato e adattato a qualsiasi malattia. Questo strumento è composto da 44 items che valutano sette strategie di coping: sviare l’attenzione, reinterpretare le sensazioni di dolore, pregare o sperare, essere catastrofici e incrementare il livello di attività. Due domande addizionali, inoltre, chiedono al soggetto di indicare 1) quanto controllo possiede sul dolore 2) quanto è abile nel diminuirlo. Ad ogni item il paziente deve rispondere scegliendo su una scala Likert a 7 intervalli. Infine recentemente Smith e Wallston (1994), attingendo da questionari di coping generali o specifici per il dolore cronico, hanno costruito un questionario che prevede una gamma ancora più ampia di strategie di coping. Si tratta del Vanderbilt Multidimensional Pain Coping Inventory. Esso prende in considerazione nove strategie di coping:
· soluzione attiva del problema,
· distrazione dal problema,
· uso della religione,
· minimizzazione del problema,
· sfogo di emozioni negative,
· autocolpevolizzazione,
· isolamento,
· catastrofismo,
· pensiero desideroso.
Dall’applicazione di tale questionario gli autori hanno rilevato un dato interessante: le diverse strategie di coping, siano esse attive o passive, interagiscono tra loro nel determinare risultati positivi. In altre parole il successo dell’adattamento alla malattia dipenderà dalla interazione tra i diversi stili di coping e dalla situazione a cui essa viene applicata. Ciò conduce alla considerazione che, in realtà, non esistono stili di coping adattivi o disadattivi a priori, in quanto strategie che possono risultare efficaci in una situazione, potrebbero non esserlo in un’altra e modalità reattive che risultano positive, se usate moderatamente e temporaneamente, possono divenire negative se usate in modo esclusivo (Zeidner e Saklofske, 1996). Si può quindi concludere che l’elemento essenziale per un buon adattamento allo stress, soprattutto nel caso di eventi stressanti duraturi nel tempo, sia la flessibilità nell’uso delle strategie di coping, la capacità, cioè, di non irrigidirsi su un’unica strategia, ma di riuscire a cambiarla qualora si dimostri inefficace e disadattiva.
Empowerment psicologico
La definizione più sintetica e comune di empowerment psicologico (di una persona rispetto ad un certo oggetto od aspetto od area specifica) è "senso di padronanza e controllo su ciò che riguarda la propria vita"
Si tratta quindi, quando si parla di empowerment "psicologico", di "qualcosa" che è intrinseco nel soggetto e che riguarda la sua relazione con parte del mondo; di qualcosa di soggettivo (un sentimento, un vissuto di sé); di qualcosa che si riferisce non alla totalità ma ad un'area specifica della vita della persona; di qualcosa che riguarda l'uso che il soggetto sente di sapere e poter fare delle proprie risorse personali e delle risorse che può acquisire.
Naturalmente l'empowerment in senso completo sarà dato dalla somma e dalla sinergia dell'empowerment "psicologico" e dall'empowerment "oggettivo-ambientale" (le risorse e le possibilità fornite/consentite dall'ambiente).
L'analisi dei contributi sull'empowerment psicologico è utile comunque per capire le "dimensioni o componenti costitutive" dell'empowerment, anche quando viene usato applicativamente in campi diversi, dall'individuo all'organizzazione alla società.
Un modo molto efficace di definire e rendere comprensibile (e, per certi versi, anche misurabile) il concetto di empowerment psicologico, è quello di elencare una serie di sue dimensioni o componenti. Alcune tra le più importanti sono:
Salute organizzativa
La letteratura internazionale e le ricerche effettuate nei contesti organizzativi documentano come sia impellente la necessità di attuare programmi per favorire il benessere all’interno dei contesti lavorativi. Una ricerca, ben documentata nel testo Salute organizzativa che ripercorre l’evoluzione storica della salute nelle organizzazioni, delineando le diverse concezioni, gli ambiti di studio e i possibili interventi. Se nei primi anni del Novecento, la valutazione delle condizioni di lavoro ha comportato una maggiore attenzione ai fattori di rischio o di infortunio per i lavoratori, la nascita del movimento delle Relazioni umane di Mayo ha dato invece più importanza al fattore umano, cercando di analizzare i fattori psicologici e organizzativi che possano ledere la salute dei lavoratori arrecando scompensi alla stessa organizzazione. E’ proprio questa l’attenzione posta dai due psicologi che con il termine salute organizzativa indicano “l’insieme dei nuclei culturali, dei processi e delle pratiche organizzative che animano la convivenza nei contesi di lavoro promovendo, mantenendo e migliorando il benessere fisico, psicologico e sociale delle comunità lavorative”. (pag. 65)
In tale definizione sono presenti sia le condizioni che l’evoluzione del concetto di salute all’interno delle organizzazioni. Il testo infatti, individua attraverso una serie di ricerche quattordici dimensioni, che costituiscono le componenti principali di tale costrutto: allestire ambienti di lavoro salubri, confortevoli e accoglienti; porre obiettivi espliciti e chiari tra enunciati e prassi operative, riconoscere e valorizzare le competenze e gli apporti dei dipendenti e liberare nuove potenzialità, ascoltare attivamente (considerare le richieste e le proposte dei dipendenti come elementi che contribuiscono al miglioramento dei processi organizzativi), fornire informazioni pertinenti al lavoro, gestire la conflittualità, stimolare un ambiente relazionale franco, comunicativo e collaborativo, assicurare rapidità di decisione, scorrevolezza operativa (i problemi vengono affrontati con l’intenzione di superarli); assicurare equità di trattamento a livello retributivo, assegnazione di responsabilità, di promozione del personale; mantenere livelli tollerabili di stress; stimolare nei dipendenti il livello di utilità sociale; adottare le azioni per prevenire gli infortuni e i rischi professionali; definire i compiti dei singoli e dei gruppi; aprirsi all’ ambiente esterno e all’innovazione tecnologica.
Possibili interventi di promozione della salute che comprendono vari fattori (fisici, psicologici, sociali e organizzativi). A tal proposito, il testo propone una distinzione tra interventi sociotecnici“incentrati prevalentemente su cambiamenti di aspetti oggettivi/strutturali dell’ambiente di lavoro (per esempio, orario d lavorativo, livelli gerarchici, fusioni aziendali, organizzazione del lavoro) che hanno implicazioni sullo stress, la salute e la soddisfazione lavorativa) einterventi psicosociali, che“mirano a produrre cambiamenti della percezione che i lavoratori hanno del proprio contesto di lavoro, attraverso strategie quali un aumento del grado di partecipazione e di supporto sociale, miglioramento della comunicazione, riduzione dell’ambiguità e del conflitto di ruolo, aumento del controllo e dell’autonomia lavorativa”.
Interventi tradotti in prassi attraverso la documentazione di programmi come ad esempio l’Employee Assistance Programmes (EAP), Programmi di Assistenza ai Lavoratori introdotti negli Stati Uniti, il Controllo e prevenzione dello stress, svoltosi in Portogallo, l’intervento sul burnout in Olanda. Non manca l’analisi sull’efficacia di questi interventi attraverso gli strumenti d’indagine.
Il testo esamina a tal proposito tra i vari strumenti, il questionario MOHO (questionario multidimensionale della salute organizzativa), che coglie informazioni sulle quattordici dimensioni indicate dagli autori nei capitoli precedenti. Presenta, inoltre, un’indagine sul campo condotta a Roma in collaborazione con la cattedra di Psicologia del lavoro della Facoltà di Psicologia 2 dell’Università “La Sapienza” di Roma e il “Programma Cantieri” del dipartimento della Funzione Pubblica, Ufficio per l’innovazione delle pubbliche amministrazioni, della Presidenza del Consiglio dei ministri.Un’indagine che cerca di incentivare le ricerche in ambito organizzativo, finalizzata “a dare origine ad una spirale virtuosa che possa condurre a un incremento di ciò che facilita la soddisfazione, costruttive relazioni professionali, la salute dei singoli e dell’intera organizzazione”.(pag. 125).
Fonte: http://oldsite.medicina.unifg.it/area_ps/ostetricia/III%20II_0809/PsicdelLavoro_Dispensa_Leone.doc
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