Servizio sociale

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Servizio sociale

  Lessico e parole-chiave: carità, beneficenza, assistenza, sicurezza sociale.

Per il tempo che le parole sono nella tua bocca sei  il  loro signore; una volta pronunciate, sei il loro schiavo” ( da Una nuvola come tappeto  libro di Erri De Luca, Feltrinelli pag. 109).

                                       

                Le parole vanno prese sul serio, vanno considerate nei loro molteplici significati e  i loro molteplici significati vanno visti nei contesti storici, sociali e culturali e anche professionali nei quali esse vengono utilizzate. Le parole sono strumento principe di comunicazione e di relazione e, come tali, vanno valorizzate e usate scientemente, analizzate nei loro significati; accade spesso che il significato delle parole, la loro forza intrinseca e la loro capacità di  “ nominare” e di definire si annebbiano. Le parole si ottundono, diventano come ottenebrate e indebolite, banalizzate dall'uso quotidiano e abitudinario, vengono per così dire  “abusate”. Ciò accade alle parole di tendenza, di moda, alle parole obbligate dai rituali, dalle appartenenze, dalla ricerca del consenso o del successo.
Ma vi sono parole che non si piegano, che non accettano significati banali o sovrapposti e  non si inchinano davanti a un uso qualunque.
Diventare consapevoli di ciò è l'anticamera di qualsiasi professione.
Volendosi avvicinare a una professione , la prima cosa da fare è conoscerne il lessico, le parole chiave e impadronirsene. Per esempio,  emarginazione, devianza e criminalità non sono sinonimi o parole equivalenti, bensì:
EMARGINAZIONE: è lo status di chi di fatto, anche non  intenzionalmente o contro la sua volontà, si trova situato all’esterno di gruppi socialmente apprezzati (per cultura, nazionalità, lavoro, famiglia);
DEVIANZA:  definisce la situazione sociale  di chi   pone  in essere una condotta di infrazione della norma sociale,  un comportamento non conforme ai modelli e alle aspettative istituzionalizzate, chi attua una o più violazioni delle regole sociali. La devianza presuppone la conoscenza e consapevolezza della norma sociale e stigmatizzazione del comportamento deviante da parte dei membri della comunità sociale di appartenenza, comportamento deviante  avvertito come disfunzionale o pericoloso ( es. abbandono scolastico, fuga da casa etc.);
                CRIMINALITA’: si ha un comportamento criminale quando vi è violazione intenzionale e consapevole ( in altri termini si ha la capacità di intendere e di volere) di una norma incriminatrice di diritto penale ( in senso tecnico: reato).

Prendiamo in esame, sempre a titolo di esempio, un' altra  parola che, nell'uso corrente, non ha nulla di speciale ma che, traslata nell'ambito della disciplina  e del lessico del servizio sociale, acquista grande peso e vari pregnanti significati, anche in riferimento all'operatività. Si tratta del termine TERRITORIO (cfr. Dizionario di servizio sociale, Ed.Carocci Faber ,Roma 2005 pag. 709,  voce redatta a cura di  Maria Rosa Guerrini). In tale contesto la parola esprime un concetto più ampio del solo senso geografico, perché  riassume in sé altri significati quali ambiente, contesto, comunità. Inoltre, per il servizio sociale il territorio può essere preso in considerazione  o come insieme circoscritto e determinato di bisogni e/ di problemi sociali, come rete di risorse, come ambito di prossimità etc. In altri termini, per il servizio sociale il/un  territorio può essere preso in considerazione come problema oppure come risorsa. Vedrete questi diversi possibili approcci nel corso del tirocinio di questo primo anno e  all'interno del corso di Metodologia della Ricerca, dove  vi sarà dato modo di tornare sul tema “ TERRITORIO” e approfondirne i significati, le potenzialità e la valenza per il servizio sociale.

            Nell’area del Servizio Sociale, parole come carità, beneficenza, filantropia, assistenza, sicurezza socialenon hanno il significato che attribuiamo loro nel linguaggio comune e quotidiano di oggi  e nemmeno sono sinonimi, ma rimandano a precisi significati e a precisi periodi storici, a partire dagli albori della nostra storia ( cfr, testo di Bruno BORTOLI   “Teoria e storia del servizio sociale” Ed. NIS La Nuova Italia Scientifica Roma 1997, Parte prima pagg.29-91).                 Ancora un esempio, su cui chiedo un'attenta riflessione. Si tratta della parola RESPONSABILITA': una parola complessa, dai molti possibili significati  (morale, civile, amministrativo, penale), la cui origine é dal latino responsum , un intensivo del verbo respondere. Il responso è la risposta pubblica  che nell'antichità  personaggi sacri quali  l'oracolo, i vati o le sibille davano a chi li interrogava, e nel dare  tali risposte prendevano su di sé, si assumevano pubblicamente,  cioé davanti al popolo o alla comunità intera, la responsabilità ( ovverossia  l'onere delle conseguenze) di quel che dicevano, perché quel che dicevano poteva cambiare la storia e la vita di quel popolo e di quelle persone ( pensate al mito di Edipo). Ebbene, la parola  RESPONSABILITA'  nel  linguaggio del Servizio sociale ha un significato di grande rilevanza deontologica e professionale:  il Codice deontologico  degli  assistenti sociali è basato su un vero e proprio sistema di diversi livelli di responsabilità  ( cfr. Titolo I art.1) come avremo modo di approfondire  in seguito.
Chiudo questa riflessione sul significato  specifico e profondo , talvolta programmatico, che parole comuni assumono quando sono introdotte  all'interno del linguaggio professionale  citandone due insieme: BISOGNO e PROBLEMA. Ebbene, questi due termini che nell'uso quotidiano vengono usati quasi fossero sinonimi o interscambiabili, nell'ambito del servizio sociale  rimandano a significati ( e a possibili interventi professionali ) molto diversi,  tant'é che concludo con una domanda: come si fa a trasformare un bisogno in problema? Perché questo deve saper fare l'assistente sociale.

                Evoluzione   dei termini carità, beneficenza, assistenza  in rapporto al contesto storico-sociale:

 Il termine   CARITA’ nel  suo senso originario esprime una buona disposizione d’animo, un atteggiamento positivo, una relazione di affetto, amicizia  o solidarietà  ma anche di gentilezza che si instaura tra familiari ( agape in greco ) o appartenenti a una piccola comunità di persone, in ambito esterno alla famiglia ( tale è il senso del termine caritas latino);  sedaquah in ebraico, elemosyne  in greco, è il termine usato per indicare l’azione compiuta o il dono reso per un senso di dovere religioso.  In ogni caso il  concetto di carità, nel suo senso storico originario, non aveva un valore “ commerciale” o un senso istituzionale,  bensì   aveva il   significato di legame fra persone   basato sul concetto di eguaglianza  ( in senso orizzontale-circolare) e caratterizzava le  comunità cristiane primitive, che erano  piccole comunità. In tale contesto, il termine “carità” era abbinato al termine “giustizia”.
Esprimevano bene questo concetto la comunione dei beni fra i membri della comunità e i  pasti consumati in comune  ( cfr. IL CENACOLO di Leonardo da Vinci). In queste piccole comunità, la povertà era esaltata come forma di vita , come valore spirituale e aveva carattere volontario; in altri termini, l’avvento del cristianesimo elevò la carità a virtù che doveva informare  tutta la vita cristiana nel suo contesto: giuridico, economico e sociale.
Il concetto di carità nel corso del tempo   è stato associato con beneficenza, assistenza e filantropia, tutti termini che  contraddistinguono azioni di soccorso ai poveri da parte della società che -agendo  attraverso idonee strutture - fornisce soccorso ai poveri,  ai deboli, alle vedove, agli orfani e agli ammalati. Questo può accadere perché, dopo l’editto di  Costantino ( IV sec. d.C.) e con Teodosio (VI sec.d.C.) la religione cristiana divenne religione di stato, con una  propria organizzazione gerarchica (vescovi, diaconi). Anche il diritto positivo si informò al precetti cristiani, così sorsero istituzioni religiose  (chiese, monasteri, ordini religiosi, confraternite ) che da un piano meramente di culto e di modus vivendi   passarono  ad assumere  evidenza, ruolo e potere nella società.
E’ questo il punto in cui parlare del  DECRETUM GRATIANI.  Graziano era un monaco camaldolese, insegnante di teologia in un monastero di Bologna vissuto nel  secolo II°. E’ l’autore della prima raccolta di diritto canonico compilata tra il 1140 ei 1142, il cui titolo ufficiale è Concordia discordantium canonum ma che divenne nota col suo nome, Decretum Gratiani . Si tratta di una raccolta  sistematica  di tutte le leggi ecclesiastiche, la quale costituisce il fondamento della giurisprudenza ecclesiastica e che  dimostra la concordanza fra  legge civile ed ecclesiastica. Con il  DECRETUM GRATIANI  del II secolo prende forma la giurisprudenza canonica:  le strutture religiose  (monasteri, chiese, ordini religiosi ) assumono personalità giuridica e capacità di diritti, ossia  possono sia detenere che alienare beni mobili e immobili. Le fondazioni religiose diventano soggetti titolari di diritti patrimoniali con potere di autonoma  disposizione del patrimonio e possibilità di ereditare  (dottrina definitivamente elaborata da Papa Innocenzo IV° ).
                Prende forma così il concetto di  BENEFICENZA: la ricchezza, insegnano i Padri della chiesa ( cfr. S.Basilio ne “ Il ricco insensato” ) non è un male in sé ma un male quando viene tenuta ferma, accumulata; se viene fatta circolare, è un bene e   si giustifica se serve a fare beneficenza. In questo senso, la beneficenza è un atto verticale  dall’alto verso il basso: chi ha dà a chi non ha, c’è chi dà e chi riceve secondo una logica che ammette la differenza fra le persone, cioè giustifica la disuguaglianza.
In un contesto cristiano, la ricchezza è ammessa e “buona cosa” se  serve a fare beneficenza  e a guadagnarsi così  un posto in paradiso.
Con il Medioevo e al tempo del feudalesimo,  la beneficenza si evolve in ASSISTENZA, cioè in attività caritative poste a carico dell’ istituzione ecclesiastica che la esercita attraverso le Confraternite, attraverso le istituzioni ospedaliere sorte presso i monasteri, attraverso i lebbrosari  o i   lazzaretti e le fondazioni dovute a pii benefattori, in quanto  l’intervento pubblico è sconosciuto al mondo medievale ( cfr. il quadro di  CARAVAGGIO  Le sette opere di misericordia ).

                        

Il 1492 è un anno cruciale perché la scoperta dell’America  segna  per l’Europa l’inizio della trasformazione  dell’economia da  economia rurale ( feudalesimo),  mercantile e artigiana  ( l’epoca dei comuni) a economia basata sui traffici commerciali ( cfr. la nascita e le attività commerciali svolte dalle compagnie inglesi e olandesi) e sulla produzione industriale( cfr. la rivoluzione industriale inglese). Con l’ascesa delle classi mercantili nasce la borghesia insieme con il capitalismo ( VI secolo ) e l’assolutismo regio ( VII secolo). La trasformazione economica “libera” enormi masse  di persone il cui sostentamento era legato alla terra: si assiste in Europa a   fenomeni sociali quali il   PAUPERISMO e il VAGABONDAGGIO cioè  la circolazione sregolata  di enormi masse  errabonde  prive di sostentamento e portatrici di malattie. Con il VI° secolo, la povertà  acquista un significato negativo: il povero diventa  sospetto,pericoloso, ( (cfr. testo del Bortoli citato, pag.34) o perché  malato o perché  ruba ( per mangiare). 

 Testo  di approfondimento: Jacques Le Goff Lo sterco del diavolo. Il denaro nel Medioevo Editori Laterza, Bari 2010.

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                ASSISTENZA PUBBLICA  ( origine e definizione):
Sulla scorta di:

-        cambiamenti economico-sociali (VI secolo);
-        il pensiero e l’opera “De subventione pauperum”  dell’ umanista Juan Louis Vives
       ( 1492-1540);
-        il pensieri protestante calvinista  e  la sua nuova etica del lavoro;
      ( sec.VI a Ginevra e in Scozia,  sec.VII in gran parte dei  Paesi Bassi e in Nuova
       Inghilterra).

                Nasce la nuova strategia assistenziale nei confronti dei poveri, che ora vengono distinti in “buoni” (e pertanto meritevoli di assistenza) e “ cattivi” (  e pertanto non meritevoli di assistenza).
Numerose città tedesche e fiamminghe (Norimberga 1522, Kitzingen 1523, Strasburgo 1523, Ratisbona 1523, Ypres 1525) introdussero nuovi sistemi di assistenza ai poveri. Il modello adottato da YPRES  ( accentramento municipale autonomo  dei fondi per i poveri in una cassa comune, parrocchia ente gestore dei fondi ) fu applicato in mezza Europa. Le finalità del nuovo sistema di assistenza erano due: garantire l’ordine pubblico e garantire la sanità pubblica. Così al clero venne tolto il monopolio dell’assistenza per darlo al Governo, che in quelle città era il Consiglio Municipale. Cardini del nuovo modello erano: centralizzazione e municipalizzazione.
I poveri vengono stigmatizzati  e costretti  a  portare un contrassegno visibile. I mezzi usati  nei loro confronti sono l’ istruzione -  a partire dai bambini  abbandonati -  e rieducazione mediante l’obbligo al lavoro.  (Per saperne di più vedi il testo G.Alasia G. Freccero M.Gallina F.Santanera ASSISTENZA EMARGINAZIONE E LOTTA DI CLASSE Ieri e oggi Ed Feltrinelli, Milano 1975) (Ma Weber L’ETICA PROTESTANTE E LO SPIRITO DEL CAPITALISMO Ed.BUR RCS Milano 1994)

                1600: ASCESA DELLE CLASSI MERCANTILI  E ASSOLUTISMO REGIO:

                Il concetto di SICUREZZA SOCIALE  si afferma nel VII secolo con il sorgere  e consolidarsi degli stati assoluti ( Francia, Spagna, la Russia di Pietro il Grande, l’Olanda, l’ Inghilterra): è in quel periodo storico-sociale che garantire l’assistenza diventa un obbligo dello Stato, a tutela della collettività dei sudditi  (aristocrazia e borghesia).  Infatti, anche attraverso l’assistenza lo Stato garantisce l’ordine pubblico. Così si assiste a un progressivo abbandono delle forme tradizionali di  beneficenza e assistenza a favore di un  intervento statale sempre più massiccio, specie per contenere il dilagante pauperismo urbano. Ne è un esempio la fondazione, nel 1656 a  Parigi, da parte di Luigi IV°, dell’Ospedale Generale  quale luogo di detenzione per ogni sorta di esclusi, mendicanti o handicappati.
                Il 16OO è il secolo del FENOMENO DELL’INTERNAMENTO   in parallelo – e in risposta -al crescere del fenomeno del pauperismo ( 1550-1650). La reclusione in hospitales (ospedali) delle classi misere assume una portata tale da potersi parlare di  “universo concentrazionale”.
                In Francia, la Salpetrière è il più grande ghetto d’Europa, mentre la Bastiglia raccoglie i devianti delle classi agiate, i nobili impoveriti o decaduti.
Il VII secolo conosce però anche un rinnovato slancio della carità con Vincenzo De’ Paoli  (Vincenzo de Paul, 1576-1660) che alla beneficenza contrappone ( in un’ottica di rinnovamento nel modo di concepire l’assistenza)  il rapporto assistente-degente e avvia le prime forme di assistenza domiciliare. La sua prima realizzazione organizzativa, nel 1617, è quella delle  Confraternite della carità, composta dalle “ dame della carità” : le associate, donne sposate, vedove o nubili, si chiamavano “serve dei poveri”. Le varie opere avviate da S.Vincenzo de’ Paoli appaiono  via via come tanti centri concentrici: prima i malati da assistere a domicilio, poi i bambini abbandonati, poi ancora i condannati ai lavori forzati e infine i vecchi malati e coloro che hanno smarrito la ragione. Per tutte queste categorie di poveri divenne preziosa l’opera delle Dame e delle   Figlie della Carità, congregazioni fondate da S.Vincenzo  nel 1633 insieme a  Madame Le Gras  e Luisa di Marillac; quest’ultima è stata proclamata santa dalla Chiesa cattolica e  nel 1960 da  Papa Giovanni III è stata eletta  a patrona degli assistenti sociali. ( cfr. il testo di Bruno Bortoli I giganti del lavoro sociale  Ed. Erickson, 2006 pag.111-115).
                Sempre nel VII secolo, In Inghilterra prosperano le  Work Houses, le case-lavoro  dove vengono ristretti i poveri vagabondi e il lavoro, visto come mezzo di redenzione sociale,  è obbligatorio.
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 Per saperne di più sulla figura e l'opera di Vincenzo De' Paoli consultare il testo  di Luigi Mezzadri VINCENZO DE' PAOLI  Il santo della carità, Città Nuova Editrice, Roma 2009.
Dall'introduzione al testo: “Quando Vincenzo De' Paoli (181-1660) fece i primi passi nella vita, era uno dei tanti contadini. Non aveva sangue blu nelle vene, la sua era una cultura che non gli permetteva di scrivere grandi opere, ogni carriera gli era preclusa.. Eppure, mentre tanti si domandavano il perché delle cose, egli capovolse tutti i valori moderni chiedendosi: “Perché no?” Perché non si può cambiare, innovare, migliorare? Fu questa la domanda del coraggio, della missione, del carisma della carità”.
                       

Inghilterra: la Poor Law di Elisabetta 1a ( Old Poor Law, 1601) e i successivi  interventi  legislativi.

                Elisabetta Tudor, figlia di Enrico VIII e Anna Bolena- la  seconda moglie di Enrico VIII ( che di mogli ne ebbe ben sei)-  Elisabetta 1a, regina d'Inghilterra dal 1558 al 1603, che durante i suoi 44 anni di regno rese l'Inghilterra grande e famosa, la regina “astuta come la volpe e tenera come l'agnello”, come lei stessa si definiva, la sovrana  che ha favorito la nascita del teatro shakespeariano. Per chi vuole approfondire  c'é il bel libro-romanzo di Nadia Fusini Lo specchio di Elisabetta , Ed.Oscar Mondadori, Milano 2002 ( che consiglio di leggere a chi vuole conoscere  da vicino il personaggio).
In questo contesto a noi interessa la sua opera di legislatore  e a tal fine citiamo La Poor Law  ( Old Poor Law) del 1601, altrimenti detta la  Poor Law di Elisabetta 1a, che  rappresenta la codificazione di tutta la precedente  legislazione sul soccorso ai poveri ( cfr. testo di Bruno Bortoli  Teoria e storia del servizio sociale Ed. NIS, Roma 1997, pagg. 52/53).
Sempre in Inghilterra: nel 1662 viene promulgata la  legge sulla residenza ( e, per contro, sull' espulsione), che rappresenta il tentativo post feudale di obbligare i contadini a  rimanere nei loro villaggi;  il 1696 è l'anno della promulgazione del Work  House ACT, provvedimento legislativo che prevedeva per i poveri disoccupati  la reclusione nelle case-lavoro (in realtà, una sorta di prigioni) strutture ove il lavoro, inteso come mezzo di redenzione sociale, era obbligatorio;  vi si insegnava soprattutto il lavoro di manifattura tessile, fornendo in tal modo manodopera alle industrie tessili della  rivoluzione industriale  che ebbe luogo in Inghilterra anche grazie all’invenzione della macchina a vapore da parte di Giacomo Watt, oltre che allo sviluppo dell’industria mineraria e dell’agricoltura; 1795, Speenhamland ACT: la legge autorizzava a versare assegni assistenziali al domicilio ai poveri; istituzione della scala del pane (una sorta di “scala mobile” economica dell’epoca); 1834, New Poor Law, in conseguenza della quale furono costruite 200 case  di lavoro e si ridussero, è vero, le spese assistenziali a carico dello Stato ma si  rese la vita nelle case di lavoro pressoché intollerabile per coloro che vi venivano rinchiusi.
1844: sorge, in Inghilterra, la prima cooperativa.

 

SECOLI VII-VIII-I
                Francia: sec.VII: assolutismo regio e fenomeno dell’internamento  parallelo al crescere del pauperismo  (1550-1650) che proprio  con l’internamento dei poveri si voleva contrastare e contenere; a tal fine vennero “riconvertiti” i lazzaretti ( ve n’erano 19.000 in Europa!). Secolo VIII e  avvento dell’ILLUMINISMO, che afferma il principio della separazione dei poteri ( Montesquieu) e il principio secondo cui la legge è uguale per tutti ( Voltaire, Montesquieu), cioè parità di tutti i cittadini di fronte all’autorità dello Stato, simbolizzato dalla giustizia.
1789: è  l’anno della Rivoluzione francese, che nella storia dell’assistenza rileva perché con essa si afferma il principio  dell’assistenza come diritto dei citoyens (i cittadini, i borghesi) e dovere dello Stato .
 N.B. : questo  principio  è giunto fino a noi e vige tuttora.
                1790: in Francia viene creato un Ente di Assistenza pubblica, incaricato di risolvere i problemi della mendicità.

In Italia: nel rinnovato slancio della carità simboleggiato da Vincenzo De’ Paoli ( 1576-1660),  la Chiesa partecipa al  processo di rinnovamento dell’assistenza.
Sempre in Italia,si assiste altresì alla  modernizzazione del diritto penale in senso liberale   avviata  da Cesare Beccaria ( 1738-1794) con la sua opera Dei delitti e delle pene ( 1764).
               Solo nel 1890 con l’emanazione della legge Crispi ( legge del 17 Luglio 1890) in Italia  si manifesta un orientamento politico verso un sistema di sicurezza sociale sancendo, con tale legge, la necessità di un controllo statale sulle tante istituzioni, prevalentemente  a carattere religioso, di assistenza e di beneficenza. Tale legge trasformava le opere pie in  istituzioni pubbliche di beneficenza, fissava alcuni diritti del povero, istituiva il “ domicilio di soccorso” in base al quale il Comune deve provvedere al ricovero ospedaliero e alle altre forme di assistenza. Si definiva osì la figura giuridica del povero, regolarmente schedato in appositi elenchi annuali.
Attorno al 1890, su iniziativa del Partito Operaio Italiano ( sorto nel 1882 e   detto il “partito delle mani callose” perché vi si potevano iscrivere solo  lavoratori manuali), sorgono in Italia le prime CAMERE DEL LAVORO ( quella di Milano sorse nel 1891), la cui funzione preminente è  legata al collocamento per disciplinare il mercato del lavoro. Nella C.d.L. di Milano operò la prima lavoratrice sociale assunta a tale scopo,  Santa Volontieri.
            Il compito delle C.d.L. si esplicò con efficacia nel prevenire il pericolo di agitazioni sociali, coordinando le ragioni degli operai con quelle dei  padroni.
1892: nascita del Partito Socialista; 1906 nascita della CGIL , Confederazione Generale Italiana   del Lavoro.
               
L’impegno dei Partiti di cui sopra e delle Camere del Lavoro per l’elevamento morale e culturale, per l’assistenza ai lavoratori e ai disoccupati saranno da stimolo alla creazione di una LEGISLAZIONE PUBBLICA in materia di assistenza allora del tutto mancante in Italia. Per esempio: nel 1923 nascono le IPAB ( istituzioni pubbliche di assistenza e di beneficenza); nel 1928 a Roma viene  istituita  dal Partito Nazionale Fascista  la prima scuola di servizio sociale ( in quel contesto ideologico- cfr. legge Serpellon- all’assistenza sociale si attribuiva una funzione riparatrice); con la legge del 3 Giugno 1937 n. 847 le “congregazioni di carità” vengono  sciolte e  sostituite dall’ECA, che assume   tutte le attribuzione prima assegnate alle congregazioni di carità. Scopo dell’ECA era quello di  “assistere gli individui e  le famiglie che si trovino in condizioni di particolare necessità” ( art.1). ( Per saperne di più consulta il testo di G.Alasia,G. Freccero,M.Gallina,F. Santanera  Assistenza emarginazione e lotta di classe  Ed. Feltrinelli,  Milano 1975, pagg.103/117).

Torneremo si questi aspetti della storia italiana più avanti quando parleremo delle prime scuole di assistenza sociale  e della  nascita del Servizio Sociale in Italia.

                                                

 

VERSO UN SISTEMA DI SICUREZZA SOCIALE

Il movimento filantropico nell'Inghilterra del I° secolo.
    
                La filantropia e gli albori del case-work.
FILANTROPIA:   comporta gratificazione per colui o colei che la esercita; si concretizza in un intervento indifferenziato verso chi lo chiede ( elemosina indiscriminata).
Nella prima metà del secolo in Inghilterra si hanno   fenomeni e movimenti sociali  di grande rilievo quali il sorgere di cooperative e scuole di istruzione per adulti, a opera dei cristiano-socialisti, l'esercizio della filantropia da parte delle donne dell'aristocrazia e della borghesia quale strumento , per loro, di emancipazione ( Elisabeth Fry, 1780-1845, Florence Nightingale, 1820-1910, Beatrice Potter, 1858-1903), lo svilupparsi della filosofia positivista ( Auguste ComteCatechismo della religione positiva”, opera nella quale Comte sostituiva l'umanità a Dio), la nascita del movimento  politico-sindacale delle Trade Unions, la nascita delle cooperative ( la prima nel 1844 a  Rochdale, a opera dei cartisti).
Verso la metà del I secolo, in Inghilterra operano numerose associazioni caritative, in un intreccio talvolta caotico, un patchwork è stato detto ( cfr. il testo di P.Benvenuti e D.A. Gristina  La donna e il servizio sociale Ed. F. Angeli 1998, pag 73/85).. Per mettere ordine al loro interno e  coordinare  le donazioni dei privati, nel 1869 si costituisc la Society of Organising Charitable Relef and Repressing Mendicity, successivamente trasformata in  Charity Organisation Society, la cui azione si protrarrà nel tempo tanto da essere attiva ancora oggi con il nome di Famili Welfare Association. Scrive in proposito B.Bortoli a pag.74 del suo testo  TEORIA E STORIA DEL SERVIZIO SOCIALE: “ Fu il reverendo Henry Solly  (1813-1903) a raccomandare, nel 1868, l’istituzione di un ufficio preposto al coordinamento delle attività dell’assistenza pubblica e privata, ma lo spirito guida della Società fu sir Charles Stewart  Loch, che operò dal 1875 al 1915 come suo  segretario. Tra gli altri membri più noti della Società spiccarono Octavia Hill e il reverendo Samuel Barnett, che fu anche  ispiratore del movimento dei Settlement.” ( di quest’ultimo movimento parleremo più avanti).
Le Charity Organisation Society ( C.O.S.) si mossero su basi filantropiche , operando per alleviare i disagi ai poveri ma distinguendo, secondo la cultura e l'ideologia dell'epoca, fra  i “ meritevoli” di aiuto e gli “immeritevoli”, coloro cioé che si riteneva approfittassero dell'aiuto per restare passivi e vivere da irresponsabili.
Le C.O.S. e soprattutto  le operatrici che le animano pongono le basi del CASE-WORK e modellano la figura del nascente social worker ( operatore sociale ) come colui - o forse meglio colei-  che deve porre attenzione ai problemi ma anche alle cause individuali di essi , che deve  darsi come obbiettivo il rispetto del povero e della sua dignità e  che a tal fine , per meglio adempire il suo compito,  ha necessità di tecniche operative  e di formazione.
Si avviano allora forme di addestramento per volontari e già nel 1883 le segretarie dei comitati sono pagate per svolgere compiti di istruzione e di supervisione in merito a visite domiciliari, registrazione dei casi e compiti amministrativi. Si prospetta anche una forma di specializzazione nell'intervento sociale con la figura dell'almoner, l'elemosiniere,  che da originario distributore di elemosine e da operatore  della  carità si trasforma in  una sorta di assistente sanitario che segue il malato perché tragga vantaggio, il maggior vantaggio possibile, dalle cure mediche. A ricoprire per prima questo ruolo è Mary Stuart, chiamata nel 1895 presso il London Royal Free Hospital di Londra a controllare che non si verifichino abusi nelle cure ospedaliere. Nei fatti, Mary Stuart seppe dare al suo lavoro di “elemosiniera”  più ampi e positivi contenuti al suo lavoro quotidiano, interessandosi ai bisogni socio-famigliari  - e non  solo sanitari – dei suoi assistiti, contribuendo all'avvio del, così diremmo oggi, servizio sociale ospedaliero.

                                                         

                E già ancora prima, nel 1879, si erano poste le basi di  una forma di intervento che  più o meno 50 anni dopo, nel 1933 per l'esattezza, diventerà il PROBATION SERVICE, un servizio  reso a coloro che avevano commesso reati  di modesta entità  e, anziché venire incarcerati, venivano sottoposti a una forma di libertà vigilata e affidati ai membri dell'a Anglican Temperance Society. Tale  società, nata per lottare contro l'alcolismo, successivamente ampliò il suo campo di intervento a diverse forme di disagio sociale e di devianza.  Ai membri della società i Tribunali affidavano quelle che oggi definiamo indagini sociali e ambientali e la predisposizione di  programmi individuali e piani di intervento per il rientro a casa dei carcerati, mansioni su cui successivamente si modellerà la figura del probation officier.
Oltre che all'individuo,  il lavoro sociale inglese delle origini dedica la sua attenzione e i suoi interventi anche alla dimensione del vivere sociale e dei rapporti con gli altri, ponendo le premesse di future metodologie quali il group-work e il community -work.
A questa attenzione per la dimensione sociale del vivere si ispira, nei primi anni del I secolo, il movimento dei Settlements, insediamenti abitativi di  persone della borghesia (spesso giovani studenti universitari ) nei quartieri poveri di Londra o di altre città industriali ( Glasgow, Liverpool), con lo scopo di creare rapporti di convivenza e buon vicinato fra  i vari strati  della popolazione mediante attività di  alfabetizzazione,  di studio, di gruppo etc.
Il primo settlement ( denominato Toynbee Hall e situato  nell' East End di Londra), fu fondato dal parroco Charles Barnett nel 1884 con l'intenzione di creare un “ponte” fra ricchi e poveri, studenti e operai, per imparare gli uni dagli altri. L'esperienza o meglio l'esperimento suscitò molte critiche ma anche un  vasto successo; la sua eco rimbalzò fin negli Stati Uniti dove nel 1889 a Chicago Jane Addams ( 1860-1932 ) sociologa americana, prima donna a ricevere nel 1931 il Nobel per la pace, figura importante nella storia del servizio sociale- come vedremo più avanti- fonda la Hull House, dopo aver visitato Toynbee Hall. 
Nel movimento dei Settlements spicca altresì, in qualità di promotrice, la figura della filantropa e operatrice delle C.O.S. Octavia Hill ( 1838-1912) che molto si impegnò per il miglioramento delle abitazioni delle classi povere, sostenendo che “ non ci si può occupare delle persone e delle loro case separatamente”. Manifestando di possedere  un notevole spirito imprenditoriale,  con l'aiuto di donazioni di benefattori acquistò case in rovina, le fece riparare e le diede in affitto alle famiglie povere, coniugando l'aiuto ai singoli, di cui cercava di promuovere l'autonomia, con quel che oggi definiremmo lavoro di comunità.
Alle C.O.S. e alle loro modalità operative  si fanno risalire le origini pragmatiche e metodologiche dell'intervento professionale: stiamo parlando del case-work, la prima tecnica di lavoro sociale che si sia data un impianto teorico nella storia della professione grazie a una delle figure fondamentali della storia del servizio sociale americano ( ma forse anche di tutto il servizio sociale ) vale a dire  Mary Richmond che in materia pubblicò due testi: The social diagnosis nel 1917 e  What is  social case-work? nel 1922. In  questo secondo testo Mary Rchmond dimostrò  di aver raccolto, sotto stimolo della nascente psicoanalisi, l'importanza delle motivazioni psicologiche accanto a quelle  razionali della volontà e   individuò lo scopo del case-work nello sviluppo della personalità e il metodo del case-work nello “insieme dei procedimenti che sviluppano la personalità attraverso un adattamento realizzato coscientemente, individuo per individuo, tra gli uomini e il loro ambiente sociale”.
                                     Dunque, il 1869 nella storia del servizio sociale va evidenziato come  l'anno di nascita delle C.O.S., ispirate dal reverendo Henry Solly.  Si trattò di  uffici preposti al coordinamento delle attività di assistenza pubblica e privata .Figure di grande rilievo all’interno della Società furono- come già detto sopra- sir Charles Stewart Loch, primo segretario e    Octavia Hill.
Il sistema assistenziale promosso dalle C.O.S., sorto per contrastare   la filantropia  indiscriminata che elargiva a chiunque  con l'effetto paradosso di dar luogo a sprechi e incentivare il pauperismo, prevedeva uffici  al cui interno  lavorava  un operatore (agent) di distretto stipendiato dalla C.O.S.  e operatori volontari benestanti. Siamo agli albori del servizio sociale, perché dall'attività delle C.O.S. ha avuto empiricamente  origine il metodo del case-work (teorizzato all'inizio del '900 da Mary Richmond in America e da Alice  Salomon in Germania), modello di intervento sociale basato sul principio della individualizzazione degli interventi unitamente alla mobilitazione delle risorse individuali e  caratterizzato da:

  • formazione degli operatori
  • metodo di lavoro articolato in  indagine preventiva  all'erogazione di sussidi,discussione del caso in commissione, colloquio, visita domiciliare.

In sintesi, il tipo di assistenza ritenuto idoneo- secondo le C.O.S.- alla fine dell'iter conoscitivo doveva avere i seguenti requisiti e obbiettivi:

  • essere prestato su base individuale
  • essere attribuito su base personale
  • essere temporaneo
  • avere finalità correttive.

 In Inghilterra, agli inizi del  secolo quasi in contemporanea con la nascita della prima scuola  di Sociologia ( 1903), la formazione professionale dei social workers comincia a cercare collocazione all'interno delle strutture universitarie: nel 1904 è l'università di Liverpool che apre il primo Dipartimento di Scienze sociali, nel 1908 sarà la volta della università di Birmingham. Infine nel 1912 la Scuola di sociologia di Londra viene incorporata dalla London School of Economics e si trasforma in Dipartimento universitario di Scienze sociali e amministrative. A questi esperimenti si affiancano le attività formative di organismi privati collegati con le C.O.S., che rilasciano attestati riconosciuti..
Dunque già intorno al 1914 la differenziazione tra servizio sociale e la carità che l'aveva generato può dirsi compiuta.

Bibliografia:  per saperne di più sulla nascita  e l'importanza delle C.O.S. vedasi il testo di Bruno  Bortoli Teoria e storia del Servizio Sociale pagg. 77/78. e il testo  di P.Benvenuti e D.A. Gristina La donna e il servizio sociale Ed.F.Angeli 1998 pagg. 73/85.

                                         
                       

                                                         
                              
                                          L’EUROPA DEL  SECOLO: la nascita del WELFARE STATE

                Antecedente: il modello bismarckiano.
Alla fine del 1800  il Primo Ministro tedesco Ottone di BISMARCK, nel solco della tradizione liberale, introduce le assicurazioni obbligatorie contro i maggiori rischi di povertà ( povertà materiale), come, per esempio, le assicurazioni su malattia (1883), gli infortuni  sul lavoro (1884) e la vecchiaia ( 1889).
Con l'invenzione del moderno principio assicurativo nasce un tipo di WELFARE ( detto modello bismarckiano) decisamente diverso da quello  paternalistico  precedente ( e qual era per esempio  ancora quello inglese) rappresentato dallo  Stato assoluto “ illuminato” del 1700/1800 che perseguiva fini di sorveglianza e di  sicurezza sociale mediante un'assistenza selettiva agli indigenti.
Tanto premesso, a riprova che nulla nasce dal nulla, l'impianto dei sistemi moderni di Welfare si fa risalire alle idee  innovatrici di Lord Beveridge nell'Inghilterra del secondo dopoguerra del  secolo.
Il sistema  attuale di Welfare nasce dall'incontro fra la “ tradizione liberale” ( a cui si rifacevano Lord Beveridge e i laburisti inglesi) e la “ tradizione socialista”.
Lord Beveridge, assertore del modello interventista di Welfare,  affermava che lo Stato deve garantire una soglia minima di sicurezza ( safety net) a   tutti i cittadini sulla base di una loro  attiva ed effettiva occupazione. In altri termini, in sintonia con il pensiero liberale, sosteneva  che lo Stato dovesse “garantire uno standard di vita come diritto sociale inerente alla semplice cittadinanza posseduta dal cittadino lavoratore”.
L'obbiettivo di questo modello di Welfare era sconfiggere la povertà materiale  e lo strumento fondamentale per raggiungere questo obbiettivo  era rappresentato da un sistema di assicurazioni sociali integrate da una serie di interventi statali, quali:
- l'istituzione di un servizio sanitario nazionale per tutti ( che in Inghilterra è stato istituito nel  1948. N.B. In Italia è stato istituito nel 1978, cioé 30 anni dopo);

  • - l'attribuzione universalizzata di assegni famigliari;
  • - una politica che garantisse la piena occupazione;
  • - assistenza sociale come forma residuale e solo per coloro che non fossero in grado di usufruire del sistema assicurativo.
  •  La fine di questo modello in Inghilterra è stata decretata dal Primo Ministro Margaret Tatcher   (anni '80) e negli U.S.A. dal Presidente  Ronald Reagan.

                La tradizione socialista ( propria dei Paesi socialdemocratici scandinavi), a differenza del modello inglese,  insisteva maggiormente sul principio di eguaglianza fra i cittadini, sicché il modello interventista scandinavo   fa leva sul principio della redistribuzione del reddito e delle pari opportunità ( per tutti).

                IN SINTESI:
Modello residuale ( Stati Uniti, Paesi dell'Europa continentale e meridionale, Italia compresa, Inghilterra): è il modello di assistenza sociale  secondo cui lo Stato interviene e-post dove e quando i servizi messi in atto dal mercato o dalle reti naturali di solidarietà non sono in grado di far fronte ai bisogni.
Modello istituzionale-redistributivo ( Paesi del Nord Europa):é il modello che offre assistenza sociale sulla base del puro bisogno del cittadino  come tale; il modello, inizialmente rivolto a tutti i cittadini,, conosce attualmente la  tendenza a recedere da politiche sociali di tipo universalistico.
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                Bibliografia di riferimento:
Per saperne di più consulta il testo di Pierpaolo Donati (  cura di) Lo Stato sociale in Italia. Bilanci e prospettive Ed. Mondadori, Milano 1999.
E inoltre  consulta la  voce  WELFARE STATE  a cura di Fiorenzo Girotti in Dizionario di Servizio Sociale Ed. Carocci Faber, Roma 2005.

STORIA DEL SERVIZIO SOCIALE IN UNA LOGICA INTERNAZIONALE:
I PIONIERI NELL'EUROPA CONTINENTALE

Germania:  ALICE SALOMON, antesignana, femminista e assistente sociale.

 

                Alice Salomon è stata una delle figure più significative del servizio sociale europeo e mondiale. Ha saputo anticipare idee e concetti che sono stati tradotti in politiche e leggi solo un secolo dopo.
Tutta la sua biografia deve essere letta in chiave critica poiché ciascun evento che ha vissuto non è accaduto fine a sé stesso ma ha contribuito ad alimentare e sviluppare il suo pensiero.

                La filosofia del suo lavoro può essere riassunta nella volontà di eliminare le differenze di classe e di opportunità: in caso contrario, come ebbe a dire  lei  stessa, non ci potranno essere pace e fratellanza (Salomon, 1944).

                La Salomon è stata spesso criticata per il fatto che dalla sua riflessione sembra emergere che il lavoro di assistente sociale debba essere svolto solo da donne e possa essere riservato solo alle donne. In realtà l’Autrice ha sempre avuto un’attenzione particolare per il ruolo delle donne nella professione a ragione delle molte doti che queste possiedono nella relazione di aiuto all’altro in difficoltà, ma non per questo ha escluso che il campo possa essere aperto anche al genere maschile.

                È pur vero tuttavia che nel pensiero e nella produzione della Salomon le donne hanno avuto  sempre una posizione centrale e vi è un chiaro riferimento alla necessità di una loro emancipazione:

                “ C’è qualcosa da fare al di fuori della famiglia; dal momento che Stato, economia e società sono fatti dagli uomini non funzionano bene. Guerra, sfruttamento, lavoro minorile, salario femminile ingiusto –tutto questo può accadere quando le donne non hanno influenza politica”. (Salomon, 1944).

                E ancora:

                “ Le donne vivono una doppia oppressione a ragione della loro facoltà di dare la vita, una nei confronti dello Stato e una nei confronti dei propri mariti: la prima perché risultano svantaggiate nel mercato del lavoro e la seconda perché devono servire gli uomini i quali sono in grado di lavorare per mantenere i figli. Doppio sfruttamento” (Salomon, 1944).

                La situazione femminile nella Germania dei primi decenni del ‘900 non era certo priva di ostacoli e contraddizioni e l’Autrice non si tirava  indietro nel denunciarla.
                Per prima cosa si occupò dell’alta mortalità infantile: il fatto che la contraccezione non fosse conosciuta e che le donne non potessero esimersi dai doveri coniugali comportava la nascita di bambini che non potevano essere mantenuti, vista la preoccupante povertà che incombeva, ragion per cui  le madri spesso erano costrette a lasciar morire di fame i propri bambini o a giungere a soluzioni  ancora più estreme.
Oltre a ciò, accadeva che molti uomini lasciassero la famiglia o spendessero i propri guadagni   a loro esclusivo piacimento o decisione, perché non c’era nessuna legge che tutelasse la maternità o definisse i doveri dei genitori verso la prole.

La società del tempo lanciava messaggi contraddittori alle donne: da un lato si aspettava che esse accudissero i figli ma nel contempo non dava loro supporti necessari, costringendole di conseguenza  a cercarsi un lavoro, distogliendosi con ciò dalla cura dei figli.
La Salomon, acuta e lungimirante, comprese che in un contesto socio-politico di tal genere lo Stato doveva intervenire con politiche di supporto alla maternità. La cura non doveva rimanere un fatto privato ma essere supportata con politiche pubbliche che prendessero ispirazione da quel lavoro di cura interno alle famiglie  e che quotidianamente veniva agito dalle donne.

                La  capacità di prendersi cura dell’altro, circostanza in cui le donne manifestavano tutta la loro abilità,  a detta della Salomon non doveva restare un fatto privato ma  doveva essere resa pubblica e incarnata in una professione precisa: il servizio sociale.
Per formalizzare ciò organizzò scuole di servizio sociale che, all'inizio, prendevano donne volontarie, cioè  a costo zero, che consentivano  il fluire - dall'una all'altra - delle  esperienze
ed  eredità diverse e  che potevano, a differenza delle  donne dipendenti, criticare pubblicamente lo status quo; il progetto ultimo  della Salomon, però,  era di superare, l’aspetto volontario e rendere il lavoro professionale. Questo comportava la necessità di una focalizzazione e di una formazione sui seguenti aspetti :

  • il metodo (considerare la persona nella sua interezzaà 1928)
  • i compiti: interventi  di carattere economico, abitativo, educativo
  • la creazione di  un network fra gli interventi
  • l' ”adattamento”  degli interventi ai bisogni dell’utente: sviluppo sociale
  • le caratteristiche personali dei professionisti coniugate con metodi di lavoro
    • empatia
    • distanza professionale
    • empowerment
  • il partire dall’analisi del problema in base alle rappresentazioni e alle risorse

           dell’utente.

                Venne maturando  presto la consapevolezza che per la realizzazione di interventi efficaci la conoscenza da sola non è sufficiente, ma d’altro canto neppure è sufficiente la sola pratica: se si va a intervenire e a incidere   nella  sfera più intime delle persone, è necessario un bagaglio teorico in aggiunta a  una metodologia.
Un altro punto importante riguardava  lo sviluppo di un'etica professionale  e, in parallelo, l’importanza di una conoscenza multidisciplinare (psicologia, sociologia, pedagogia, politica sociale) .
Un' ulteriore attenzione era riservata alla sfera internazionale: il lavoro dell’assistente sociale non doveva restare isolato nei singoli contesti  nazionali, perché uno scambio con  delle realtà estere non poteva che portare un arricchimento e uno sviluppo reciproci. Profondamente convinta di ciò, la stessa Salomon si occupò dell’organizzazione e della promozione di eventi e momenti di incontro internazionali.

               

 

       BIOGRAFIA DI ALICE SALOMON (1872-1948), la fondatrice de lavoro sociale tedesco.

  • Alice Salomon nasce  nel 1872 a Berlino da una famiglia media  benestante di ebrei non praticanti. Il padre era commerciante di pellami.
  • Frequenta una scuola cristiana vicino a dove vive (il bisnonno era un cristiano  convertitosi all’ebraismo) ma dove le donne potevano studiare solo fino a 15 anni e l'unica  opzione possibile era diventare  esperte di lavoro di cucito.
  • Sei anni dopo, a 21 anni, si iscrive a un' associazione giovanile denominata  “Associazione delle giovani e delle donne di lavoro in assistenza sociale”, un gruppo di ragazze che svolgeva  attività non retribuita in campo filantropico e, in più, lavora in un alloggio per allieve e in una COS
  • Sua “madre intellettuale” diviene Jeanette Schwerin [foto] che portò Salomon in contatto con le idee del socialismo e dell’emancipazione femminile e che alla sua morte le lasciò il posto di membro di consigliere del Concilio Nazionale delle donne e la carica presso l’Associazione giovanile dove concluse l’anno accademico in cattedra
  • Poiché comprese che i suoi studi erano insufficienti allo sviluppo del suo pensiero, chiese ed ebbe un permesso speciale per  frequentare l’Università (dove scelse materie a metà strada tra economia politica e scienze sociali); nel  1906 ottiene il  dottorato con una tesi sulla diseguaglianza dei salari fra uomini e donne
  • 1908: trasforma l’Associazione di cui era consigliere  in una vera e propria scuola di servizio sociale e vi insegna
  • 1909:  è segretaria corrispondente del Concilio Internazionale delle Donne (ICW) ed entra in contatto con importanti personalità all’estero ( tra cui Jane Addams)
  • Dopo la prima guerra mondiale fonda - e ne diviene presidentessa -  l’Associazione nazionale delle scuola di servizio sociale e della accademia di lavoro sociale e pedagogico delle donne
  • Scrive moltissime opere di servizio sociale: Social diagnosis (1926) Social therapy (1926) Education for social work (1927) ma tocca, nella sua opera,anche temi di economia
  • 1928: prende parte a una sessione del Congresso internazionale di servizio sociale a Parigi, al termine del quale i responsabili di 10 scuole europee e USA decidono  di fondare una nuova associazione (IASSW), di cui Salomon è  presidentessa dal 1928 al 1946 (e che esiste ancora oggi)
  • 1937: inizia in Germania la persecuzione degli ebrei; Salomon sceglie di andare a lavorare  negli Usa dove morirà nel 1948, in solitudine  e profondamente provata dall'ansia per i propri cari rimasti in Germania e dalla amara constatazione di  come in Germania  fossero state distrutte le sue idee e le sue realizzazioni.

 

                               PUNTI NODALI DEL SUO PENSIERO (ancora oggi di grande attualità):

  • Precondizione del servizio sociale per dirsi tale: identificare i problemi sociali e riconoscere la sofferenza delle persone svantaggiate. Se questo per noi è scontato, scontato  non  era affatto allora al tempo in cui visse e operò la Salomon: le studentesse di servizio sociale provenivano per lo più dalla classe media e non potevano comprendere facilmente la sofferenza di chi ha un bisogno/disagio
  • Importanza dell’intelligenza emotiva (empatia) – cfr. il pensiero di  Goleman in materia
  • Per contro, necessità di mantenere un  “ distacco” e non immedesimarsi nei problemi altrui
  • Consapevolezza che obiettivo del servizio sociale è  la giustizia sociale, che  non si può raggiungere in modo utopico, ideologico ma deve essere garantita di fatto. Il punto è che gli uomini partono da condizioni iniziali differenti e per garantire giustizia sociale bisogna prevedere interventi a monte che le equiparino (es. uguaglianza di diritti tra uomini e donne,  minoranze etniche e   gruppi svantaggiati,  1926)
  • Necessità di un intervento dello Stato (dal punto di vista economico e politico) perché il sistema capitalistico liberale crea disuguaglianza (vi incidono le leggi del libero mercato)
  • Il servizio sociale non deve essere carità ma un'attività a tutela dei diritti di ogni uomo
  • il servizio sociale non deve essere un punto di arrivo ma un impulso per lo sviluppo sociale e per il “modellamento” del welfare  in relazione allo sviluppo dei bisogni
  • analisi della povertà come un fenomeno  che riguarda prioritariamente la condizione  delle donne.

 

 


     Belgio: RENE’ SAND ( 1877-1953) e  la medicina sociale.
Il  suo contributo alla costruzione di un servizio  sociale internazionale
    
            Alice Salomon, René Sand, Alice Masarykova si posero come obiettivo quello di promuovere e di creare una pratica di servizio sociale a livello internazionale e di farne un movimento vero e proprio che potesse vivere con risorse autonome e che avesse possibilità di essere tramandato alle generazioni future. Erano personaggi che avevano una visione anticipatoria: in un’epoca nella quale la globalizzazione era di là da venire, loro si poneva nell’ottica dell’integrazione del sapere e delle professioni a livello internazionale.
Dopo Alce Salomon, perché ricordare René Sand che è così poco presente nella storia del servizio sociale e che non può essere definito un assistente sociale in senso stretto?
Perché Sand , con i suoi studi e il suo punto di vista, orientò i riflettori su un tema che è oggi estremamente attuale -  anche se il confronto internazionale è ancora poco usuale nella professione. Si tratta della  connessione tra globale e locale, (tema su cui torneremo durante il corso), un tema di spiccata attualità in un mondo da una parte sempre più globalizzato e dall’altra  reso sempre fragile  dalle incertezze esistenziali e materiali e dalle ‘invasioni’  degli uni negli spazi degli altri; un mondo nel quale valorizzare la diversità e saperla trattare diventa un dovere etico; un mondo nel quale il servizio sociale ha il dovere di tenere insieme livelli differenti: globale e locale, politico e deontologico, dilemmi morali ed etica. Guardare   fuori da noi, oltre i confini professionali e nazionali, è necessario per affrontare con consapevolezza sfide sempre più  difficili  pur se attraenti. In questa cornice, René Sand è  un prezioso esempio di innovazione, per il suo  sguardo aperto e attento a cogliere i cambiamenti sociali.

                L’uomo: alcune note biografiche
Esistono scarse tracce di René Sand nella letteratura riferita al servizio sociale. Come formazione accademica egli fu   un medico; fondò la medicina sociale e, soprattutto in Belgio, fu promotore del servizio sociale e  uno dei più importanti promotori del servizio sociale internazionale, della cooperazione, del dialogo professionale e tra le professioni. Lui stesso è un esempio di integrazione: medico che si interessa ai temi sociali, che valorizza e fa crescere una professione come il servizio sociale in stretto dialogo con la medicina, senza antagonismi. Il suo contributo fu fondamentale all’emergere del servizio sociale nell'Europa degli  anni '20.
Se si trovano poche tracce del Sand promotore del servizio sociale se ne trovano ancor meno della sua vita privata, come d’altronde accade per la maggior parte delle pioniere del servizio sociale dedite completamente alla loro passione e alla missione che si sono prefissate nella vita. Sand però a differenza di altri/e si crea una propria famiglia: si sposa e ha tre figli.

 

        
                BIOGRAFIA  di René Sand:

  • Nasce nel 1877 in Belgio da padre lussemburghese e madre francese;
  • ottiene il Bachelor in medicina nel 1900;
  • ottiene la Graduation in neurologia nel 1903;
  • durante la prima Guerra mondiale lavora per la Croce Rossa belga ed entra in contatto per la prima volta con le C.O.S. (Charity Organization Society) britanniche che avevano come scopo l’elevamento degli standard di vita della popolazione;
  • dopo la fine della Guerra visita gli Stati Uniti, inviato dal suo Governo per studiare il taylorismo, ed entra in contatto con il Settlement Movement e il servizio sociale americano;
  • nel 1944 viene arrestato dalla Gestapo;
  • muore durante un intervento chirurgico nel 1953.

 

                René Sand  e il Servizio Sociale.
                René Sand credeva nell’uguaglianza di tutti gli uomini, nella democrazia e nella giustizia a tutti I livelli: nazionale ed internazionale. Sentiva che il social work, con i suoi valori, poteva essere uno strumento essenziale per il processo di sviluppo del principio dell’uguaglianza.
Sand, come le “insigni colleghe” d’oltre oceano, riteneva che il servizio sociale dovesse essere analizzato su basi scientifiche al fine di sviluppare metodi e tecniche che negli Stati Uniti erano già in uso attraverso il casework e i metodi del community work nei Settlement.
Dopo essere entrato in contatto con il mondo delle Charity Organizations, Sand fonda nel 1919 in Belgio la prima scuola per la formazione degli assistenti sociali (l’Ecole Centrale d’Application de Service Sociale). La sua reputazione come esperto di lavoro sociale sia in ambito nazionale che internazionale gli vale l’invito di Julia Lathorp, direttrice del Children’s Bureau di Washington, nel 1919 per partecipare alla conferenza nazionale degli assistenti sociali. Alla stessa conferenza fu invitata anche Alice Salomon che fu con Sand una delle più importanti promotrici dello sviluppo del sapere del servizio sociale a livello internazionale. Sand entrò quindi in contatto con l’esperienza maturata dalle Conferenze degli Assistenti Sociali negli Stati Uniti – ancora oggi l’Associazione Nazionale degli Assistenti Sociali Americana (NASW) organizza annualmente conferenze molto interessanti e di respiro internazionale seppur con uno sguardo sugli Stati Uniti.
Gradualmente, Sand mise in pratica l’idea di sviluppare un network internazionale attraverso conferenze mondiali. Chiese l’aiuto e il sostegno della Larthorp per supportare il suo progetto di internazionalizzazione e lo presentò alla 50° Conferenza Annuale degli Assistenti Sociali Americani. Trovò larga approvazione e fondi per realizzare la sua idea di una conferenza svincolata dai Governi locali e che potesse sopravvivere con fondi autonomi.

                Nel 1928 ebbe luogo la Prima Conferenza Internazionale di Servizio Sociale a Parigi: René Sand fu il Segretario Generale, mentre un altro importante personaggio del servizio sociale, Alice Masarykova, fu nominata Presidente.
Nel suo testo “ I giganti del servizio sociale” (2006) Bruno Bortoli  sostiene che l’importanza di René Sand risiede nella sua posizione centrale di mediatore, promotore e coordinatore del lavoro sociale a livello internazionale nel periodo fra le due grandi guerre.
Sand riteneva che l’organizzazione razionale della produzione dovesse appoggiarsi sulle scienze mediche, pedagogiche e sociali. Fu in grado di integrare diverse discipline e di creare consenso intorno ad una nuova professione che si stava affrancando dalle altre e che stava cercando una sua autonomia pur nella condivisione con le altre professioni.
La Conferenza di Parigi fu chiamata “Quindicina Sociale” per la sua durata di due settimane, nelle quali  si tennero il Congresso Internazionale per la Protezione dell’Infanzia, il Congresso Internazionale per l’Abitazione e l’Organizzazione Urbana, il Congresso Internazionale d’Assistenza Pubblica e Privata, la Conferenza Internazionale di Servizio Sociale. Non è difficile intuire che la “Quindicina Sociale “ fu  un'occasione e un  modo per coinvolgere  e far interagire fra loro  un gran numero di persone interessate ai temi social). ). I partecipanti alla Conferenza furono quasi 2.500, provenienti da 42 Stati; la delegazione italiana presieduta da Corrado Gini, direttore dell’ISTAT, era presente con 65 partecipanti tra i quali   il sociologo Alfredo  Niceforo, Luigi Devoto  e  le prime due assistenti sociali italiane, Paolina Tarugi e Virginia Delmati.
Nello statuto della Conferenza Sand precisava che la stessa non aveva alcun carattere governativo, politico e religioso e che il suo scopo era quello di ‘facilitare l’istituzione di relazioni personali, di contribuire alla diffusione di informazioni, di permettere gli scambi di opinioni tra gli operatori sociali e gli organismi del servizio sociale del mondo intero’ (Première Conférence International du Service Social, 1929, Atti pag.25
Il successo straordinario per l’epoca – pensiamo solo alle difficoltà di viaggiare per lunghe distanze e agli investimenti richiesti per inviare le delegazioni - e l’eco della Conferenza consentirono la continuazione dell’esperienza: si tennero altre due Conferenze Internazionali (1932 a Francoforte e 1936 a Londra) mentre la quarta Conferenza che si sarebbe dovuta svolgere a Praga fu cancellata a causa dell’inizio della Seconda Guerra Mondiale. Già alla Conferenza di Londra era presente una delegazione del Partito Nazista al quale Sand rivolse  un duro attacco sostenendo che le politiche attivate in Germania non avevano nulla a che fare con lo spirito e i principi del servizio sociale.
Sand fu arrestato nel 1944 dalla Gestapo e liberato nel 1945 dagli Alleati. Né la guerra né le vicissitudini personali gli fecero però perdere l’entusiasmo per l’impegno di internazionalizzazione del sapere e subito dopo la fine del conflitto si attivò per riorganizzare il movimento che aveva portato alle Conferenze precedenti. Un primo appuntamento si tenne nel 1946 a Bruelles e poi nel 1947 in Olanda. La svolta fu il connettere con maggior enfasi rispetto al passato Europa e Nord America: la quarta Conferenza Internazionale si tenne nel 1948 ad Atlantic City in combinazione con il 75° anniversario della Associazione Nazionale degli Assistenti Sociali (NASW). Il focus centrale della Conferenza fu posto sulle attività internazionali del servizio sociale.
Sand diede anche nuova vita al Comitato delle Scuole di Servizio Sociale (ICSSW) attivato dopo la Conferenza del 1928 da Alice Salomon, la quale aveva dovuto abbandonarne le attività a seguito del suo esilio negli Stati Uniti, ove  si trasferì nel 1937 per evitare le persecuzioni naziste.       Questo Comitato è ancora oggi molto attivo a livello internazionale con il nome di International Association of School of Social Work (IASSW). Sand ne fu il secondo presidente, dopo la Salomon, e stette in carica fino alla sua morte nel 1953.
Sand comprese che in quegli anni era sopravvenuto un cambiamento di ‘potere’ nell’ambito del servizio sociale e che gli Stati Uniti erano in quel momento il fulcro dell’effervescenza intellettuale e accademica, mentre ’Europa stava ricostruendo una propria identità ed era materialmente impegnata a riorganizzare la propria esistenza. Il quartier generale dell ICSSW si spostò quindi a New York. 

                N.B. E’ da sottolineare che  il termine- concetto social work  della lingua inglese è traducibile  in italiano  con il termine “lavoro sociale”  e non  servizio sociale, ma  generalmente nella traduzione italiana  “ social work “ viene inteso   indifferentemente sia   come lavoro sociale che  come servizio sociale. In realtà, i  due termini  (lavoro sociale o servizio sociale) non sono sinonimi e nemmeno concettualmente assimilabili, ma su questo avremo modo di tornare a discutere perché, come dicono i latini, “nomina sunt consequentia rerum” ( i nomi sono una conseguenza delle cose).

                 Bibliografia  di riferimento:
Bortoli, B. (2009) Per un servizio sociale internazionale. Renè Sand, Lavoro Sociale, 1, pp.129-140.
Bortoli, B. (2006) I giganti del lavoro sociale, Erickson, Trento,2009
http://www.socwork.net/2007/1/historicalportraits/eilers


                                                      
AMERICAN SOCIAL WORK

 I PIONIERI  NEGLI STAT UNITI al servizio di individui e famiglie, animatori di comunità e fautori della promozione sociale .

            Il presente contributo è un’introduzione alla storia del Social Work negli Stati Uniti attraverso la storia delle due donne che hanno segnato la nascita della professione: Mary Richmond e Jane Addams.
Tra  queste  due fondatrici del social work  americano ci sono affinità e differenze.
Affinità:

        • nascono entrambe in Illinois;
        • sfidano entrambe le convenzioni e i limiti sociali posti alle donne nella società a cavallo tra 1800 e 1900:  le donne non hanno diritto di voto,  hanno scarsissime possibilità di accedere a cariche pubbliche e a ruoli di prestigio, appannaggio degli uomini, a scuole etc….

Differenze:
1.provengono da  contesti socio-culturali molto diversi: la Richmond dalla working class
e la Addams dalla classe borghese;

          • la Richmond perde i genitori da piccola e va a vivere a Baltimora con la nonna e la zia; é un’autodidatta, non frequenta l’università: studia e lavora. Il suo approccio al lavoro sociale avviene  tramite le Charity Organization Society;
          • la Addams studia nelle scuole elitarie, viaggia in Europa e conosce culture diverse che la avvicinano alle persone, alle loro difficoltà: il focus  è sulla possibilità che le persone possano mantenere le loro origini integrandole con quelle della società di accoglienza. Ha un interesse particolare per gli immigrati, lo sviluppo integrato delle società multietniche.

Entrambe insegnano in università e contribuiscono all’ingresso della professione nell’ambito accademico.
La Richmond sostiene la fondazione della prima scuola di servizio sociale a New York;
La Addams è integrata nella più famosa facoltà di sociologia dell’epoca anche se non è mai ricordata tra i sociologi, un oscuramento  da parte dell’università, un ambito ancora maschilista. Ciò nonostante, i Settlement ( movimento fondato dalla Addams) parteciparono alle più interessanti surveys dell’epoca. Addams, Beckerindge, Lathorp insegnarono  in università e  fecero conferenze e interventi pubblici.

           

 

            E’ importante contestualizzare storicamente il lavoro delle due fondatrici della professione in America.
I due movimenti di cui fecero  parte la Richmond, le COS, e Addams, i Settlement House Movement, da lei fondati  con l’amica Starr, hanno modellato la professione e gli scopi sociali della professione nonchè la visione di cosa sia il bisogno per il servizio sociale.

            Ira Goldberg ( un medico sociale americano) sostiene che le professioni sono modellate dalla realtà sociale e politica del tempo di cui fanno parte. Orientamenti e pratiche sono allora il riflesso delle ideologie prevalenti e dei valori generalmente condivisi dalla società di cui sono espressione.
Generalmente, durante il ‘700 e l’’800 la povertà è  stata vista come un problema del singolo, problema  del quale la società non si faceva carico in alcun modo: “Andate all’Ovest se non riuscite a far fortuna all’Est” era l'indicazione diffusa.  La transizione dalla società agricola a quella industriale portò molti cambiamenti, che ebbero come conseguenza il fatto che la povertà divenne un problema che riguardava gran parte della popolazione. Gli immigrati impiegati nelle industrie vivevano in condizioni di estrema povertà e di scarsa igiene: proliferazione degli slums (molte furono le ricerche della scuola di Chicago su questi argomenti) e della delinquenza,  emarginazione e malattie.
Le ideologie imperanti in quel periodo e che influenzarono le logiche dell’aiuto furono il Calvinismo, il Protestantesimo e e il Pragmatismo:

  • Il sociologo Ma Weber  nei suoi studi (cfr. il testo “ L'etica protestante e lo spirito del capitalismo” Ed. BUR RCS Libri Milano 1997) sostiene che la tradizione cristiana è stata vitale per lo sviluppo del capitalismo che dominò l’industrializzazione;
  • Il Calvinismo e la connessa fede protestante erano il fulcro di questa tradizione (acquisizione di un certo grado di certezza rispetto alla salvezza attraverso l’incessante lavoro che era fonte di successo e benessere materiale). Ordine e razionalità dovevano costituire i principi guida nella vita degli individui. Il progetto della modernità implicava ordine ( cfr. l’opera di Durkheim);
  • il Liberalismo fu un’altra ideologia che esercitò grande influenza: l’uomo si deve “  fare da sé “. L’etica protestante pone l’accento sui diritti individuali, sul diritto di proprietà, sulla libertà personale. Solo l’accumulazione può essere incentivo per il duro lavoro. Per I liberali la società è un gruppo di individui che perseguono interessi individuali e che operano in regime di   libera economia. Le teorie evoluzioniste (Darwin e Spencer) sostengono che la vita è una competizione per la sopravvivenza del più forte, ovvero di chi si adatta meglio.

 

 

Capitalismo e liberalismo hanno due aspetti in comune:

        • il governo non deve interferire nel mercato;
        • il benessere si fonda su attitudini e capacità  personali  e senso di responsabilità.

                                      

            Tutto ciò sottende la necessità di una prospettiva di certezza morale  e  indirizza  l’attenzione sui problemi della singola persona  da intendersi come fallimento della stessa e della sua capacità di essere responsabile piuttosto che sulla società e sui suoi aspetti strutturali.
Anche il pragmatismo influenzò la professione  supportandone  l’impegno scientifico, insieme con   l’empirismo, secondo cui la conoscenza deriva dall’esperienza, non esistono  idee innate ( come sostenevano i filosofi europei Locke, Hume) e   in contrapposizione al razionalismo cartesiano, teoria filosofica  secondo la quale  la conoscenza è possibile   deduttivamente a priori.            ll termine “empirico” nella scienza può essere sinonimo di sperimentale. In questo senso, un risultato empirico è un'osservazione sperimentale. DEWEY si ribellò alle istanze portate dal liberalismo, ponendo l’accento sul concetto di esperienza. Il pensiero filosofico e pedagogico di Dewey si basa su una concezione dell'esperienza come rapporto tra uomo e ambiente, dove l'uomo non è uno spettatore involontario ma interagisce con ciò che lo circonda. Il pensiero dell'individuo nasce dall'esperienza, quest'ultima intesa come esperienza sociale. L'educazione deve aprire la via a nuove esperienze e al potenziamento di tutte le opportunità per uno sviluppo e una crescita  ulteriori. L'individuo è in contatto stretto con il suo ambiente, vi reagisce ma anche  agisce su di esso. L'esperienza educativa deve quindi partire dalla quotidianità nella quale il soggetto vive. In un secondo momento, ciò che è stato sperimentato deve progressivamente assumere una forma più piena e organizzata. L'esperienza è realmente educativa nel momento in cui produce l'espansione e l'arricchimento dell'individuo, conducendolo verso il perfezionamento di sé e dell'ambiente in cui vive. Un ambiente in cui vengono accettate le pluralità di opinioni di diversi gruppi in contrasto tra loro, favorisce lo sviluppo progressivo delle caratteristiche dell'individuo. La conoscenza non è mai completa, è piuttosto un processo circolare che muove da ipotesi a esperimento e da qui  a ulteriori ipotesi, e così via, in un movimento, appunto, circolare.
Questa teoria  porta alla conseguenza concettuale e sociale  secondo cui  la povertà non è necessariamente una condizione negativa e moralmente reprensibile, ma è influenzata da un macrosistema che influisce sui meccanismi del funzionamento sociale.

            Queste ideologie intellettuali e religiose furono  alla  base  del sorgere e svilupparsi dei movimenti  delle C.O.S. e dei Settlements.
Questi movimenti si occuparono degli stessi problemi sociali, sia pure con  metodi di intervento differenti, in quanto:

- Per le C.O.S. la povertà era da “curare” attraverso la riabilitazione delle persone in stato di bisogno,  andava eliminata tramite l’investigazione e lo studio del carattere di chi chiede aiuto e attraverso l’educazione e lo sviluppo dei poveri. Case conferences and friendly visitingsono i metodi utilizzati dalle COS, che “inventarono” il modello del CASE WORK.  I Friendly visitors rischiavano però l’indifferenza di fronte al povero, la relazione non empatica; la loro  provenienza  sociale differente da quella delle persone bisognose in una società che ammetteva  la segregazione etnica e di classe portava al rischio di una distanza sociale ed emotiva. Da qui l’idea originale  delle C.O.S. della divisione territoriale in distretti, attuata per facilitare la vicinanza da parte dei friendly visitors alla comunità  dove operavano.

- I fondatori dei Settlements decisero di vivere all’interno delle comunità, in mezzo ai poveri, agli immigrati e ai bisognosi per portare le proprie conoscenze ed educazione nella comunità. Definivano i problemi in termini ambientali e strutturali e operavano credendo nella possibilità di un   miglioramento sociale. Jane  Addams, per esempio,  si rifiutava di chiamare le persone clienti o utenti o casi e faceva fatica ad accettare  l’atteggiamento delle giovani assistenti sociali per le quali il lavoro significava 8 ore al giorno e il ritorno in una casa lontana dagli slums. Perciò la Addams decise di “imparare dai suoi vicini” e di correggere gli “errori” delle assistenti sociali dovuti, secondo lei,  all’insensibilità culturale e all' inserimento in un contesto di comunità per loro nuovo ed  estraneo.  Addams teorizzò ( e mise in pratica) la necessità di concentrarsi  su tutte le problematiche che riguardavano una determinate area geografica,  pur senza perdere di vista le necessità del singolo individuo. Il focus era sull’esperienza, il pensiero, l’azione delle popolazioni locali, con la convinzione che  da qui dovevano partire   ampie riforme sociali ed economiche.

            Le due organizzazioni erano molto vicine anche nel sostenere la filantropia scientifica (NCCC – National Conference of Charieties and Corrections), per filantropia scientifica  intendendo il  promuovere la cooperazione tra gli organismi sociali e gli individui con lo stabilire  una relazione democratica, un ponte tra  privilegiati e  diseredati, tra ricchi e poveri attraverso  l’aiuto  e l'opera dei friendly visitors.

Mary Richmond nel 1890 ebbe modo di ascoltare un intervento di Lowell che indicava le cause della povertà nel carattere della persona. Nell’intervento della Lowell si affermava  l’emergenza di una prospettiva di certezza morale nella pratica del servizio sociale (visione darwinista). Si riscontra  una influenza del pensiero di Lowell su  quello della Richmond. Peraltro, successivamente  la stessa Lowell  modificò le sue idee  la Lega dei consumatori.
Nel 1895 l’approccio basato sul principio calvinista della  certezza morale si indebolì alquanto dopo che   Charles Booth (un conservatore liberale) indagando in una ricerca  le cause della povertà trovò che incidenti, malattie, disoccupazione possono causare la povertà. C. Booth introdusse in ambito sociologico il concetto  della “soglia di povertà e si provò a  stabilire parametri e criteri  per identificare scientificamente  tale soglia.

           
            Jane  Addams identificava le differenze tra le due organizzazioni ( C.O.S. e Settlement) in questo modo: “visitors are bound to tell a man he must be thrifty in order to keep his family….you must tell him that he is righteous and a good citizen when he is self supporting that is un righteous and not good citizen when he receives aid…settlement see that a man can be a bit lazy and be a good man and an interesting person….it does not lay  so much stress on the virtues, but views the man inhis social aspects” (1897). Mary Richmond considerava invece i Settlement come delle ‘missioni vecchio stile, che pretendevano di essere scientifici quando non lo erano minimamente’.            Questo diverso modo di vedere diede origine a  un dibattito acceso, in relazione al quale  Julia Lathrop  (1858-1932), donna impegnata socialmente e studiosa che molto si  adoperava  per migliorare l'assistenza ai minori e ai malati di mente, iniziò ricerche con l’Università di Chicago attingendo dati dai residenti e dal lavoro dei settlements. Infatti  la scientificità della Richmond risiedeva nella declinazione di un metodo di lavoro, mentre quella dei Settlements della Addams  consisteva  nella possibilità di essere una fucina di dati per ricerche che tenessero in considerazione la comunità e le singole persone.

            Note Biografiche su  Mary Richmond (1861-1928).

  • a 17 anni si trasferisce  a New York e trova lavoro in una casa editrice come segretaria; nel frattempo studia stenografia, ma contrae la malaria e ritorna a Baltimora dove continua gli studi come autodidattain materie coma la  filosofia e la  musica;
  • viene assunta dalla C.O.S. di Baltimora come segretaria: questo è il suo primo approccio al Social Work. In particolare, qui  conosce Zilpha  Drew Smith (1851-1926) che diventerà la sua ispiratrice e consigliera. La COS di Baltimora, fondata nel 1881, era un’organizzazione giovane, nella quale Amos Warner (un giovane operatore) aveva sviluppato l’assistenza a domicilio erogata in maniera intelligente ossia basata su un’approfondita inchiesta finalizzata a individuare le richieste fraudolente (questi interventi si possono considerare  gli albori del case work).
  • la Richmond intuisce  la necessità di maggior preparazione sia dei friendly visitors sia del volunteer social service. Così diventa  molto attenta alla formazione dei professionisti e nel 1898 contribuisce alla creazione della prima scuola a  New York, avendo sostenuto che   i social workers non avrebbero mai avuto uno standard professionale fintanto che non avessero avuto una scuola;
  • nel 1899 predispone il primo manuale ‘Friendly visiting among the poor’: qui appaiono le espressioni social worker e social case worker;
  • mal sopportando  il paternalismo dei friendly visitors e l’idea di “scovare i truffatori” dell'assistenza, mal sopportava anche la spersonalizzazione  e la formalità legate ai progetti filantropici non professionali;
  • il pensiero della Richmond includeva: aiutare le persone a vedere le proprie responsabilità e opportunità; cliente e visitors devono essere entrambi importanti nel processo di aiuto: il termine cliente faceva intendere che nella relazione tra visitors e persone queste ultime fossero  importanti come nel rapporto tra avvocato e cliente. La definizione di persona bisognosa come “caso” era, secondo la Richmond, troppo legato alla medicina, ovvero a una  situazione oggettiva di malattia più che alla sofferenza del singolo individuo;
  • Richmond diceva no alla dipendenza, sì all' aumento dell’autostima e dell’autonomia attraverso comprensione di sè  e delle proprie capacità secondo la modalità dell' auto-aiuto;
  • vedeva come legittima e necessaria la riforma sociale, ma riteneva altrettanto necessario il lavoro sulla singola persona: l’azione sociale ha a che fare con l’insieme, il casework con il dettaglio;
  • esercitò ( oltre ad averla teorizzata) la pratica il casework per dimostrarne la validità e ne applicò i principi organizzativi. Propose  alle amministrazioni locali miglioramenti normativi;
  • nel 1907 iniziò  la sua  collaborazione con la Russel Sage Foundation lavorando contemporaneamente per le COS; nel 1909 si dedicò totalmente alla Fondazione di ricerca e  attivò il settore della ricerca sociale con una  valutazione degli interventi proposti alle vedove con famiglie a carico e ai loro bambini;
  • la Richmond attuò un lungo e faticoso processo di concettualizzazione, nel corso del quale  insegnò alle sue allieve a considerare il trattamento delle persone come un processo globale, al cui interno  le tecniche possono essere ordinate, descritte, analizzate e trasmesse da una generazione all’altra; tale processo  nel 1917 portò alla   pubblicazione del libro The  Social Diagnosis, dove approfondì e sviluppò la  fase iniziale del modello  “casework”, la fase diagnostica appunto. Al fine di scrivere quel libro,  dal 1902 aveva messo insieme materiale concernente il lavoro dei caseworker che aiutavano le famiglie, documentando ben 2800 situazioni. Dall'analisi di tali casi  ricavò la convinzione che la relazione tra ambiente ( famiglia, scuola, vicinato, quartiere, amicizie, etc…) e persona è il fattore principale che determina il trovarsi in una determinata  situazione o  status sociale;
  • la Richmondd riteneva che fosse necessario focalizzarsi sui punti di forza della famiglia piuttosto che biasimare le persone  per ciò che non andava, e questa era sicuramente un'idea rivoluzionaria per  quell'epoca;
  • Il termine diagnosi per la Richmond definisce un percorso di analisi breve, precisa ed esclusivamente pertinente con la situazione in cui l'individuo si trova;
  • la diagnosi sociale, o raccolta dei dati oggettivi dà avvio al processo a cui va dato seguito con  l’esame critico e la comparazione fra i  dati raccolti. Va precisato che per la Richmond “diagnosi “ è il termine che definisce sia l’intero processo sia una fase di esso;
  • la Richmond aveva una preoccupazione: elaborare un metodo, in quanto l'ansia delle operatrici di darsi un metodo si riverberava sul lavoro, facendo perdere di vista tutte le altre dimensioni valoriali e operative. In tale contesto di  elaborazione, il social-work è molto più del case-work.
  • Mary Richmond collaborò con la Croce Rossa durante il primo conflitto mondiale e i  corsi che preparava  per gli operatori diedero elementi conoscitivi ma anche  enorme risonanza al suo metodo.

In sintesi, Mary Richmond:

  • fu sempre convinta sostenitrice della libertà individuale;
  • grande fu la sua influenza  fino al primo dopoguerra, ma nel social work si  venivano affermando  sempre più nei primi decenni del '900 teorie e metodi  di natura  psicologica, che in quanto tali si distaccavano dal modello e dalle  tecniche del casework sociale puro  teorizzato da lei nel suo testo del 1917 The social diagnosis. La Richmond dovette cosìassistere   a una  severa messa in discussione delle sue procedure;
  • la seconda opera della Richmond fu What is Social Work? In essa, recependo gli stimoli della nascente psicoanalisi,  si afferma che  obiettivo della diagnosi è  favorire il funzionamento sociale dell'individuo. In quest'ottica, il  social case-work consiste nell'individuazione e attuazione  dei  processi che sviluppano la personalità attraverso adattamenti consapevolmente effettuati, individuo per individuo tra gli uomini e il loro ambiente sociale. Con il termine “personalità “, Richmond  intendeva  l’individualità biologica unita a  una crescente e dinamica relazionalità, concetto che lei chiamò “ un sè esteso (wider self)”. La vita è una tensione tra la tendenza dei singoli individui verso la loro autorealizzazione e l’iterdipendenza, e in questa tensione l’elemento più critico e importante è la famiglia;
  • nel 1921 le venne assegnato un titolo onorifico  da parte dello Smith College ‘per aver fondato scientificamente una professione’.

            Note biografiche su  Jane Addams(1860-1935).

  • Fu assistente sociale e sociologa, studiò e insegnò nella famosa università di Chicago con i più importanti sociologi dell’epoca;
  • manifestò viva curiosità scientifica e interesse per teorie evoluzioniste che si diffondevano in quegli anni e che la portarono  ad avere una fede attenta agli aspetti sociali più che ai dogmi;
  • seppe attuare un collegamento tra femminilità e scienza;
  • alterne vicende di salute la costrinsero più volte a interrompere gli studi di medicina, ma ciò nonostante  nel 1882 ottenne  la laurea;
  • intraprese  due viaggi in Europa dove entrò in contatto con i settlement inglesi,  vide e constatò di persona  le condizioni di vita della  popolazione;
  • Toynbee Hall (Barnett) è il nome del primo settlement inglese; Jane Addams  ed Ellen Gates Starr (1859-1940) decisero  di tentare  di importare il progetto anche a Chicago in un quartiere  multiculturale di immigrati;
  • Hull House prende avvio nel 1889, con  l'obbiettivo primario di contrastare lo sfruttamento del   lavoro minorile.  Jane Addams e  Ellen Gates Starr iniziarono  il loro “esperimento”  parlando con le persone, facendo letture pubbliche in gruppo  e mostre d’arte. Proprio nel   parlare  con le persone, soprattutto donne, e per poter parlare con loro, Addams e Starr si  resero conto che c'era  la necessità di un luogo in cui le madri lavoratrici potessero lasciare i figli.  Così aprirono un asilo nido, con annessa  una stanza nella quale le mamme potevano stare tra loro e parlare.  Di seguito, Addams e Starr organizzarono una scuola di puericultura con un’infermiera appartenete alla Chicago benestante. Avevano una lista di attesa per l’asilo nido. Organizzarono altresì  corsi di cucito, cucina,… Insegnanti universitari, invitati,  tenevano corsi su molti temi, mentre studenti universitari vivevano nel settlement e svolgevano ricerche. Addams e Starr organizzavano serate a tema riguardanti le diverse etnie e tradizioni, nonché serate ricreative per tutta la comunità; gli abitanti della zona avevano  la possibilità di portare il loro contributo alle iniziative;
  • la Addams  risulta che disse che le fu subito chiaro come  oggetto  e scopo del programma del settlement avrebbe dovuto essere  quello aiutare gli immigrati a conservare tutto ciò che c'era  di valido nella loro vita passata e mettere loro, gli immigrati,  in contatto con la miglior classe di americani;
  • Lo staff: Lathrop (avvocato) si occupava dell’organizzazione, Addams e Starr viveno a Hull House. Anche le sorelle Abbott, Alice Hamilton, Mary Mc Dowell (l’angelo degli Stockyard), Sophonisba Beckenridge e Florence Kelley vissero nel settlement (cfr. il testo di BrunoBortoli I giganti del lavoro sociale , cap.settimo pagg. 205/241)
  • influenza del socialismo cristiano: Florence Kelley faceva parte del partito socialista e a lei si deve l' aver portato Hull House a diventare un centro affermato per le riforme sociali;
  • l’impegno assistenziale si coniugò con quello riformistico;
  • le operatrici e gli operatori si occupavano di tutti i bisogni emergenti in una popolazione locale (comunità): sostegno agli immigrati con la Immigrant’s Protective League; Juvenile Protective Association; sostegno per la creazione del primo tribunale per i minorenni; primi interventi di psichiatri infantile; azione sociale a favore di riforme sul lavoro minorile e di una  legislazione a favore delle donne;
  • grazie all’azione del settlement il parlamento dell’Illinios emanò riforme a favore delle donne e dei bambini e nel 1903 emanò un’importante legge sull’istruzione obbligatoria e sul lavoro minorile;
  • nel 1903 alcune donne di Hull House attivarono la Women’s Trade Union League, ma l’aperto appoggio ai sindacati causò la perdita di alcune donazioni private; tale perdita fu compensata   dall’impegno pubblicistico della Addams che si dedicò molto ad azioni di comunicazione non solo scientifiche, ma anche divulgative;
  • nel 1910 J. Addams  pubblica Twenty Years at Hull House, un  successo commerciale;
  • ciò nonostante, Jane  Addams  è stata “dimenticata” dai manuali di sociologia:
        • le sue idee si opponevano alla sociologia accademica, al predominio maschile e all’intellettualismo e  proponevano, per contro,  una sociologia pratica ( siamo nel periodo immediatamente  successivo alla  la prima guerra mondiale);
        • sebbene si considerassero sociologhe, personaggi come Jane  Addams  avevano bisogno di vedersi e misurarsi  in termini operativi, per sviluppare la sociologia in una direzione diversa rispetto a quella “ dogmatica” dominante;
        • Mary Deegan afferma che Jane Addams fu la più grande sociologa-donna del suo tempo  ma  che  proprio il solo fatto di essere donna fu  sufficiente a ostacolarla;
        • dopo la prima guerra mondiale l'impostazione  accademica dell’università porta alla separazione tra il social work, campo di dominio femminile, e la sociologia, campo di dominio maschile. Ne è prova il fatto che quasi tutte le donne formatesi prima del  1918 nel Dipartimento di Sociologia di Chicago confluirono nel social work;
        • altra prova: la American Sociological Association limitava la partecipazione delle donne e la loro  presenza nei suoi uffici.
  • nel 1909 Jane  Addams partecipò alla creazione della National Association for the Advancement of Coloured People e nel 1910 fu la prima donna a essere presidente della National Conference on Charities and Corrections. Fu anche la prima donna ad ottenere una laurea ad honorem alla Yale University. Nel 1911 fondò la Federazione Nazionale dei Settlement. Fu sempre una convinta sostenitrice del suffragio femminile;
  • creò con altre amiche un movimento per sostenere una rapida risoluzione della prima guerra mondiale ( a tal fine 3000 donne si incontrarono a Washington per formare il Partito Femminile per la Pace);
  • fu attaccata dal governo del Presidente americano  Roosvelt ,  governo che  lei stessa  aveva precedentemente appoggiato, in quanto  era vista come una minaccia per il predominio maschile  e per gli interessi dell'America in guerra;
  • successivamente, Henry Ford finanziò una nave che portasse la Addams e alcuni colleghi in Europa per negoziare la fine delle ostilità e per promuovere una conferenza di pace.  Ma alla Addams non non fu possibile   partire, in quanto  gravemente ammalata;
  • in vita, Jane Addams fu “oscurata” per le sue opinioni apertamente pacifiste e in quegli anni fu  Mary Richmond, in virtù del suo impegno a favore della causa patriottica, a essere “eletta” come fondatrice della professione. Probabilmente fu in antitesi a quell' oscuramento che la vide protagonista che Jane Addams nel 1931  fu insignita del Premio Nobel per la pace .  Nella  motivazione del premio era detto :  “ Perché perseguì saldamente l’ideale della pace anche nelle ore più difficili, nelle quali si trovò in conflitto con i suoi compatrioti che la oscuravano con altre considerazioni e altri interessi’;
  • nel 1918 Jane  Addams fu chiamata da Hoover per promuovere il Departement of Food Administration: questo incarico la riportò alla ribalta e la stampa scrisse che finalmente stava servendo il suo Paese. Restò  comunque sempre coerente con le sue idee pacifiste e, di conseguenza,  in disaccordo con le logiche interventiste del suo Paese;
  • nel 1919 iniziò in USA una campagna contro le organizzazione radicali di sinistra (Presidente e Ministro della giustizia erano spaventati dalla rivoluzione  russa del 1917): moltissimi iscritti furono arrestati. Nel 1920 Jane  Addams si unì ad altri per formare l’Unione Americana per I Diritti Civili. In conseguenza di ciò, era additata dai rappresentati conservatori come una donna pericolosa.

            Mary Richmond, da viva, fu quasi  “osannata” e molto riconosciuta per le sue qualità organizzative e per le sue capacità riflessive, con  l'attribuzione d  importanti ruoli dirigenziali e la pubblicazione di un libro che ebbe  una divulgazione mondiale. Poi il servizio sociale diventò “psicologizzato” e  le figure della Richmon e della Addams caddero entrambi nell'ombra. La crisi negli anni ’70  del 1900 del servizio sociale improntato al casework specializzato portò nuovamente in  evidenza le intuizioni delle due capofila: Mary Richmond per il servizio sociale generalista e Jane Addams per il servizio sociale di comunità. La Addams durante la sua vita fu  una protagonista ma  fu anche soggetta a  valutazioni  contrastanti e a oscuramenti politici, tant'é che  solo negli ultimi decenni i suoi meriti di femminista e pacifista sono stati messi in risalto, mentre la Richmond, scrive Bruno Bortoli nel suo testo dedicato ai giganti del lavoro sociale, è  oggi sottovalutata anche se può essere ritenuta a tutti gli effetti la fondatrice della professione per il contributo alla elaborazione di un modello  di intervento,  alla formazione e alla ricerca sociale .
            Considerazioni conclusive:
         Quale contributo ha portato Mary Richmond al Social Work di oggi? ( Pro e contro):
         PRO:
1. promozione dello spirito professionale, enfasi sulle competenze tecniche e sistematizzazione delle procedure di intervento;

  1. interesse per la famiglia come unità sociale e  come fondamento alla base della terapia famigliare;

         CONTRO:
3. ruolo di controllo dei social workers prevalente nella percezione delle persone rispetto a quello dell'aiuto;
4. scarsa connessione tra i metodi e le tecniche che proponeva e una “teoria della pratica”; non attenzione alla questione epistemologica.
            Quale contributo  ha portato Jane  Addams al Social Work di oggi? ( Pro e contro)
            PRO:
1. ruolo della professione come “coscienza della società”;
2. promozione della teoria di Dewey sulla validità e funzione  dell'esperimento, che, uniti all'inchiesta razionale, consentono lo sviluppo di una cultura della ricerca tra i social workers;
3. sviluppo dell'analisi critica ed evitamento di analisi riduttiva dei problemi;

  1. attenzione alla globalità dei contesti di vita;

CONTRO:
5. mancato  sviluppo di un metodo per affrontare i problemi connettendo le questioni strutturali e istituzionali: riflessioni macro-micro, ma pratica comunque solo con focus micro.

         Bibliografia di riferimento:

Addams, J. (1990) Twenty years at Hull House, Prairie State Books, Chicago, USA.
Agnew, E.N. (2004) From charity to social work. Mary E. Richmond and the creation of an American profession, Board of Trustees, USA.
Bortoli, B. (2006) I giganti del lavoro sociale, Erickson, Trento.
Bortoli, B. (1997) Teoria e storia del servizio sociale, NIS, Roma.
Franklin, D.L. (1986) ‘Mary Richmond and Jane Addams: from moral certainty to rational inquiry in social work practice’, Social Service Review, 60, pp. 504-525.

 

                                    

 


 CCARATTERI DISTINTIVI DEL  IL SERVIZIO SOCIALE IN AMERICA
                      SINTESI DEI CARATTERI DISTINTIVI DEL SERVIZIO SOCIALE AMERICANO

                USA,  LE C.O.S. NEI  PRIMI DECENNI DEL  ‘900, LA ELABORAZIONE TEORICA DEL CASE-WORK DA PARTE DI MARY RICHMOND.

                Nel 1924 durante un  viaggio  in America, dovuto ai suoi numerosi impegni internazionali, Alice Salomon conobbe  Mary Richmond e, tornata in Germania, tradusse in tedesco il  libro della Richmond  The Social Diagnosis,  che era stato pubblicato in America nel 1917.

                A) M. Richmond si era posta  un  interrogativo di fondo à Perché, malgrado gli sforzi compiuti dall’operatore, il “recupero” dell’individuo non ha sempre successo?

                Alla domanda aveva dato  la seguente risposta: perché lo sforzo dell’operatore da solo non è sufficiente à accanto, occorre -  e influisce - il ruolo della famiglia, dei vicini,  dei servizi pubblici e privati à  focus sull' ambiente.

                B) M. Richmond riflette sul fatto che si possa procedere con una serie di passi o passaggi procedurali à processo di aiuto attuato secondo il modello del case work ( un  aiuto che è formato da un insieme concettuale e procedurale di interventi, attuato  all’interno di un processo più ampio denominato  social work).

                Fasi fondamentali del case work:

  1. studio dei fatti e della situazione
  2. diagnosi sociale della natura del problema
  3. piano ed esecuzione del trattamento coerenti con la diagnosi

 

à da queste riflessioni scaturì  il libro  pubblicato nel 1917 The social diagnosis.
Manca qualcosa? Sì, in base alle nostre conoscenze di oggi rispondiamo che  manca  il contributo delle scienze e  conoscenza psicologiche e in particolare mancano:

  • la comprensione delle relazioni sociali che hanno determinato una precisa personalità
  • l'abilità di cogliere l’elemento di difficoltà in quelle relazioni
  • l'abilità  di riutilizzare l’azione diretta della mente sulla mente per favorire la soluzione

                Attenzione: non bisogna  favorire la diagnosi rispetto  al trattamento,  esse sono due fasi complementari e inscindibili. Di questo, anche la Richmond era ben consapevole.
Tuttavia, nelle  sue opere  non venne  approfondito  il trattamento mentre  venne  ampiamente  teorizzata  e approfondita la diagnosi sociale, intesa e descritta nei suoi due testi dedicati al tema   come  il  tentativo di fornire una descrizione il più possibile esatta della situazione e della personalità di un individuo che si trova in situazione di bisogno sociale, situazione e personalità da mettersi  in relazione  sia con  quelle degli altri esseri umani rispetto ai quali  l'individuo oggetto della diagnosi sociale si trova in una qualche forma di dipendenza ( oppure  che sono da lui dipendenti), sia  in relazione alle istituzioni sociali presenti e operanti nella sua comunità.

               

 

                Nell’opera della Richmond, il focus  è su:

  1. le varie tipologie possibili di dati e gli strumenti idonei a rilevarli e a  raccoglierli;
  2. il modo di condurre i colloqui;
  3. la vita familiare e le sue eventuali disfunzioni o  patologie;
  4. altre fonti di informazioni (medici, vicini, funzionari delle istituzioni presenti nella comunità).

 

                Il processo del  case-work è costituito dalle fasi che seguono:

  1. INDAGINE COMPLETA
  2. DIAGNOSI ACCURATA
  3. COOPERAZIONE CON TUTTE LE POSSIBILI FONTI DI ASSISTENZA
  4. TRATTAMENTO DEL SOGGETTO IN STATO DI POVERTA' O DI BISOGNO

 

                 E' evidente che si tratta di un processo di intervento mutuato dal modello medico.

                Secondo le intenzioni di M.Richmond, la fase del del trattamento fu  da lei teorizzata in un’opera successiva a quella sua del 1917, per la precisione in The what is social case work? del 1922, ove  il trattamento è concepito come processo che sviluppa la personalità attraverso una serie di adattamenti effettuati in modo consapevole dal  soggetto e che devono avvenire tra ciascun individuo e il suo ambiente sociale. ( N.B. Per la Richmond – e la cultura liberale americana di quel tempo- era l'individuo a doversi adattare alla società, considerata, quest'ultima, come “buona in sé”).

                La Richmond teorizza altresì la necessità di avvalersi  di determinate risorse per:

  • facilitare l’adattamento dell’individuo alla vita sociale;
  • assistere i clienti nel comprendere i loro bisogni e le loro possibilità;
  • aiutarli a realizzare i propri programmi personali.

 

                Infine,  Mary Richmond insistè molto per ottenere  l’inserimento della formazione degli operatori sociali nei programmi del  mondo accademico. A tal fine, nel 1898 fondò una scuola, la New York School of Philantropy (ora Columbia University School of Social Work)  che lei  previde inizialmente della durata di  6 settimane,  diventate poi   1 anno e infine   2  anni (1910).

 

NASCITA E  AFFERMAZIONE  DEL SERVIZIO SOCIALE ITALIANO
                                               Le prime esperienze italiane

                Servizio sociale: concezione scientifica dei bisogni à  la cui interpretazione o definizione è  connessa al contesto storico-sociale in cui la professione si sviluppa.

                E' importante analizzare la storia del servizio  sociale  perché in tal modo si evidenziano le  radici da cui  il servizio sociale è partito e l’evoluzione che il servizio sociale ha conosciuto.

                La prima storia del servizio sociale è stata scritta come storia delle scuole, sulla base di una elaborazione di materiale in possesso dei docenti.
In Italia, la nascita servizio sociale ( inteso come professione) si colloca in un periodo  diverso ( e successivo) rispetto  agli altri paesi europei e all'America, e si fa coincidere   con  la nascita delle prime scuole nel 1945, all'indomani della fine  della seconda guerra mondiale.
Sintetizziamo le  drammatiche conseguenze morali e sociali  della seconda guerra mondiale come segue: lacerazioni sociali (miseria, disoccupazione, inflazione, prostituzione) à di contro, volontà di ricostruzione, contestuale  all'emersione di valori prima soffocati dal fascismo: libertà, uguaglianza, diritto di partecipazione.
A fronte di  questa complessa e drammatica situazione  post-bellica,  non risulta  una  volontà forte ed effettiva,da parte della  politica,  di intervenire strutturalmente sui problemi sociali per rimuoverne le cause ( per esempio, il partito al potere - la Democrazia Cristiana - guardava con un certo qual  “sospetto” alle riforme, preferendo lasciare alla Chiesa e alle istituzioni religiose la gestione   assistenziale  dei problemi sociali).

                All'indomani della fine della guerra vi furono comunque delle iniziative volte a incidere sulla situazione sociale e  tra queste vanno citate:

  • l'istituzione di organismi operativi e associativi, voluta o sostenuta  dagli alleati (Unrra, Unrra-casas, Unrra tessile)
  • il Convegno di Tremezzo  del 1946, evento fondamentale per la storia del servizio sociale italiano, a cui parteciparono autori internazionali e direttori e direttrici  di scuole di servizio sociale( per l’Italia vi parteciparono, tra gli altri,  Paolina Tarugi, Odile Vallin, Guelfo Gobbi).

 Da quel Convegno emerse innanzitutto  la teorizzazione della   necessità di una formazione organica per gli assistenti sociali, nonché l'affermazione della   necessità di una riforma dell’assistenza e di un decentramento istituzionale.

  • Da una  ricerca promossa nel 1951 dal Ministero della ricostruzione sulla  povertà in Italia e  affidata a una Commissione parlamentare à emerse  un quadro drammatico  e à la consapevolezza della  necessità di un cambiamento nella logica dell’assistenza (  a tali conclusioni  di fatto  però non  conseguì alcunché sul piano politico e legislativo).

                In Italia nel 1945 nacquero  le prime 5 scuole di servizio sociale a opera di privati ( e dunque nel vuoto di un intervento da parte dello Stato e in assenza di una qualsiasi  omogeneizzazione dei programmi).  Da subito, si configurarono tre gruppi di scuole:

  • Scuole di matrice cattolica (ONARMO)
  • Scuole di matrice laica di   ispirazione cattolica (ENSISS)
  • Scuole laiche (CEPAS, UNSAS)

   Nel 1946 si ebbe una vera e propria  proliferazione di scuole.

                Alcune considerazioni riguardo alle scuole:

  1. in Italia le scuole non furono  incardinate nelle università. Nei paesi anglosassoni invece il riconoscimento dell’importanza di questa nuova figura  di  professionista aveva da subito portato a  inserire la formazione nelle università, in tal modo  affidandola  allo stato;
  2. in Italia vi era un vuoto delle scienze sociali, in particolare della sociologia ( la prima Facoltà di sociologia fu istituita presso l'Università di Trento nel 1970), diversamente che nei paesi anglosassoni  e del nord Europa;
  3. non vi era  consonanza tra volontà di rinnovamento e volontà delle istituzioni di attuarlo à così come vi era un divario tra i bisogni della popolazione e  le risposte date dal contesto (in larga parte costituito da apparati liberali e ancora di stampo fascista).

 

                Gli anni ’50 presentano uno  sviluppo economico lasciato alle forze del mercato e - di contro - un non-intervento  della  politica  nel campo dei problemi  socialià migrazioni, disoccupazione delle donne, squilibri nord/sud, città/campagna.
Lo Stato  di allora  “scaricava” sul sistema assistenziale i problemi numerosi generati dallo sviluppo economico, anziché effettuare  interventi strutturali (vedi alloggi, infrastrutture...) e lasciava  alla libera iniziativa dei singoli di ricorrere agli enti e associazioni di assistenza esistenti; di fatto, i soggetti più deboli o con minori capacità e autonomia restavano senza risposta alcuna alle proprie necessità.

                L’assistenza si realizzava mediante tre sistemi, istituzionali sì ma  disancorati da una politica sociale organica. Tali sistemi erano:

  1. IL SISTEMA PREVIDENZIALE, divenuto obbligatorio per alcune categorie (es. le vittime di  infortunio sul lavoro) che,  con il trascorrere dei  decenni, furono ampliate; ma mai fu pensata una copertura previdenziale per tutti ( e si è parlato al riguardo di manovra politica per ottenere il consenso (= voto ) di ampie fasce  di popolazione). Tale sistema conobbe una grande proliferazione di enti parastatali ( le Casse mutue), ognuno dei quali si rivolgeva  a  una determinata categoria sociale ( es.mutilati e invalidi, orfani di guerra, ciechi, sordomuti  etc.).

Col tempo, crebbe il numero di dette  le categorie: come soccorrere  tutte?
Ma anche: chi rimase  fuori? Le casalinghe, i disoccupati, gli inabili e i  lavoratori in nero.
Dunque, discriminazioni e  privilegi si ebbero anche fra i bisognosi stessi.

  1. IL SISTEMA SANITARIO prevedeva una sanità affidata a un sistema misto pubblico-privato à con conseguenti disomogeneità nei trattamenti (coinvolti ospedali, istituti vari, province, comuni, enti parastatali).

                Insomma,  tanta spesa e poca efficienza, una  legislazione  non chiara, disorientamento per il cittadino, un intreccio pubblico-privato che generava  una distribuzione casuale delle competenze o una  frantumazione delle stesse, in conflitto con il concetto della globalità del bisogno.

  1. IL SISTEMA ASSISTENZIALE non era  diverso da quello sanitario come logica di fondo. Vi era infatti una compresenza di vari enti:
    • Ministeri (erogazione di prestazioni)
    • Province (gestione degli  ospedali psichiatrici, assistenza ai ciechi e ai sordomuti)
    • Comuni (minori illegittimi, esposti e inabili al lavoro)
    • Pubblica sicurezza e polizia femminile(minori, prostituzione)
    • Prefetture (controllo sugli enti assistenziali).

 

                All'interno del sistema vi era  una proliferazione di  enti, istituzioni  e associazioni; basti pensare che  nel 1954 in Italia se ne contavano 40.000.

à categorizzazione giuridica dei cittadini: avevano  diritto alle prestazioni solo chi rientrava in una  precisa categoria di bisognosi e aveva   determinati requisiti. Così  si verificavano  ne llo stesso tempo vuoti e sovrapposizione di competenze.
Dal punto di vista organizzativo si assisté in quel periodo  a una  forte burocratizzazione delle procedure di ammissione agli interventi. Non  vi era  alcuna  possibilità di controllo da parte dei cittadini, per contro si  avevano  accentramento e  inefficacia delle risposte.
Il personale era  costituito meramente da funzionari e operatori molto burocratizzati, che operavano in una stretta logica di “adempimenti” e che erano  attenti soprattutto alla lettura della legge  piuttosto che alla  lettura del bisogno.  Stiamo parlando di  personale costituitoo da medici, infermieri, assistenti sanitari, assistenti sanitarie visitatrici, ostetriche, personale religioso, pochi  assistenti sociali, pochissimi  psicologi.
Le prestazioni erogate: sussidi (in denaro o in natura) e ricoveri negli istituti ( ospizi, orfanotrofi, manicomi).
Ottica: riparativa e non riabilitativa e preventiva. Moralismo, focus su sussistenza e non benessereà dipendenza: sussistenza e riconoscimento  di un unico diritto, quello di esigere.

                PREPARAZIONE DEL PERSONALE:

                Le Scuole di servizio sociale  negli anni crebbero molto  di numero e assunsero  caratteristiche sempre più professionalizzanti.
Mutuarono metodi e tecniche  messi a punto e applicati  in altri paesi.
Tra i  docenti, le figure  di base erano quelle del  monitore e   del supervisore.   L'insegnamento era interdisciplinare,  promuoveva l'integrazione fra teoria e pratica ( soprattutto attraverso i tirocini) ,concettualmente poneva al centro dell'intervento sociale    la  persona nella sua globalità e interezza.

 

                IL PATERNALISMO INDUSTRIALE: una economia del dono.

                “A fianco delle esperienze più diffuse negli Stati Uniti e Gran Bretagna (C.O.S. e Settlement ) e accanto alle iniziative igienistiche e medico-sociali, diffuse un po' ovunque,ve ne fu una terza prettamente europea e quasi soltanto continentale. Si tratta del paternalismo industriale.
                In Francia,in Germania e Italia esso precorse e contribuì a modellare un certo tipo di  welfare, che poi diventerà pubblico, e ispirò un tipo di servizio sociale che ebbe larga diffusione nella prima metà del Novecento: il servizio sociale d'azienda o di fabbrica:” (  brano tratto dal testodi Bruno Bortoli I Giganti del servizio sociale , pag. 60/71).

In Italia il servizio sociale si sviluppò inizialmente soprattutto all’interno delle fabbriche: un esempio virtuoso è rappresentato dall’esperienza della fabbrica Olivetti a Ivrea, e  anche dalla Pirelli Bicocca di Milano.

“Servizio sociale: una disciplina in relazione con etica e teoria”   - Elisabetta Neve-
La natura e il mandato dell’assistente sociale derivano da:
- politiche sociali;
- dal servizio sociale;
- dalla pratica quotidiana;
- dai sistemi formativi.
La disciplina del servizio sociale, che è finalizzata all’operatività, racchiude in sé la sintesi dei saperi di altre discipline, la teorizzazione delle prassi e le elaborazione teoriche di altri Paesi.
L’identità disciplinare si compone delle radici e dell’evoluzione storica del sapere del servizio sociale, dalla visione della persona e del suo ambiente nonché dei modelli di intervento. L’identità professionale è caratterizzata dal non essere un accumulo di pratiche esecutive e da non essere assimilabile al lavoro sociale. Il servizio sociale è definito dalla Legge 328/00 livello essenziale di assistenza.
Alcuni tra i fondamentali irrinunciabili del servizio sociale sono i seguenti:

  • nella gerarchia dei valori il primato della persona è il principale e quello che racchiude gli altri;
  • chiarezza sul diritto di autoderminazione;
  • tridimensionalità dell’intervento;
  • responsabilità nella valutazione del bisogno.

         I valori del servizio sociale risalgono alle radici, al dna del servizio sociale, ma sono declinati in maniera specifica rispetto ai contesti socio-culturali, all’evoluzione scientifica, alle politiche sociali.
Primato della persona: la persona non è consumatore, e non è destinatario, ma è un soggetto dotato di:

  • dignità collegata al concetto di uguaglianza;
  • diritti fondamentali e responsabilità sociale collegata al concetto di giustizia sociale e solidarietà;
  • titolarità dei bisogni, dei problemi e delle risorse. E’ co-titolare della soluzione. Questi principi sono collegati al concetto di autonomia tra e con le persone;
  • non identificato con il suo problema.

         Principio della personalizzazione:

  • è un concetto più ampio e diverso da quello dell’individualizzazione. Significa rapportare risposte che nascono standardizzate a ogni irrepetibile situazione di bisogno;
  • la persona non è semplice ricettore di risposte, ma un essere pensante, sensibile, dotato di intenzionalità, capace di aiutare sé stesso. E’ un interlocutore dei servizi e dei professionisti.

         La concezione del bisogno non è da intendersi semplicemente come carenza in sé, mada considerarsi “anche per le ripercussioni che la carenza genera nella persona, nel modo di porsi nel confronto con la realtà, nella sua autonomia”(M. Calogero. V. genesi del SS nelle C.o.s.). Il servizio sociale legge il bisogno nella sua  dimensione unitaria  socioculturale, soggettiva, globale.
Il riconoscimento di bisogni e diritti della persona si contrappone a:

  • risposte paternalistiche o di beneficenza;
  • discriminazioni ed esclusione;
  • interventi- prestazioni;
  • ottiche manageriali che traducono la soggettività e la globalità in “procedure” tali da garantire il primato dell’efficienza e del risparmio (Fargion, op.cit. 2009, pag.96 e segg.);
  • una pratica professionale pressata da compiti gestionali, amministrativi, burocratici a scapito della relazione con l’utente (cfr.Silvia Fargion, op.cit. 2004, pag.80).

         Rispetto e promozione dell’autodeterminazione: si tratta del diritto di scegliere per la propria vita, tenendo conto dei vincoli interni-esterni. Il processo di aiuto dovrebbe tendere a sviluppare le capacità di discernimento e la predisposizione di alternative vere. Il professionista non si sostituisce alla persone, ma la valorizza, la stimola. Il processo di aiuto si contrappone ad interventi paternalistici e al lasciare le persone sole con i loro problemi. Richiede invece aiuto emancipante, esigente e responsabilizzante (aiuto-controllo); è collegato al lavoro con le risorse organizzative e territoriali.
L’intervento del servizio sociale si caratterizza per la sua unitarietà e tridimensionalità:

  • persona-famiglia;
  • territorio;
  • organizzazione dei servizi.

         Queste  dimensioni comunicano tra loro e sono integrate dalla figura dell’assistente sociale che deve lavorare sulle loro interdipendenze.
Ne consegue che:

  • i problemi della persona sono anche segnali di malessere sociale;
  • le risorse vanno ricercate sia nelle persone che nell’ambiente;
  • l’assistente sociale lavora nelle inter-relazioni, nei confini (cittadino-istituzioni, persona-suo ambiente di vita, interessi personali-sociali, tra servizi, tra professioni, …);
  • l’assistente sociale è   attivamente sensibile al lavoro di integrazione.

         La responsabilità della valutazione del bisogno comporta:

  • implicazioni etiche

- l’assistente sociale partecipa alla determinazione dei criteri di accesso al sistema (universalismo selettivo, cfr. Legge quadro sull'assistenza n.328/2000)
- contribuisce a garantire equità e appropriatezza della risposte;
 implicazione tecniche:
- comporta il possesso di conoscenze e strumenti specifici professionali (anche da costruire);
- rendere trasparente, comunicabile, verificabile l’intervento.

         Il servizio sociale porta in sé e si relaziona con un sapere complesso:

    • molteplicità di interlocutori e di punti di vista;
    • continua negoziazione e riflessività;
    • livello alto di conoscenze, spesso poco standardizzabili;
    • bisogno di rielaborazioni della prassi;
    • bisogno di recuperare le radici e consolidare l’identità.

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Riferimenti bibliografici :
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Gui L. (2004), Le sfide teoriche del servizio sociale. I fondamenti scientifici di una disciplina, Carocci, Roma.
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Fargion S. (2009),Il servizio sociale. Storia, temi, dibattiti, Laterza, BA.
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Bartolomei A. e Passera A. L. (2000), L’assistente sociale. Manuale di servizio sociale professionale, CieRre, Roma.
Campanini A. and Frost E. (2004), European Social Work. Commonalities and Differences, Carocci, Roma.
Campanini A. (a cura) (2009), Scenari di welfare e formazione nel servizio sociale in un‘Europa che cambia, Unicopli, MI.
Grigoletti B.P., op. cit. (vari autori)
Fargion S. (2004), “Le nuove linee di tendenza nell’organizzazione dei servizi sociali e la professione di assistente sociale”, in Dal PraP. M. (a cura), Prendersi cura e lavoro di cura, Fond.ne E. Zancan, PD.
Gui L. (2008), “Tre committenti per un mandato”, in Lazzari F. (a cura), Servizio sociale trifocale, Angeli, MI.
Campanini A.(acura) (2006), La valutazione nel servizio sociale, Carocci, Roma.
Sicora A. (2005), L’assistente sociale “riflessivo”, Pensa Multimedia, Lecce.
De Ambrogio U., Bertotti T., Merlini F. (2007), L’assistente sociale e la valutazione, Carocci, Roma.
AA.VV. (2006), “Valutare l’integrazione professionale”– monografia in Studi Zancan, n. 4.
Fond.ne E. Zancan IT IS (a cura) (2009), Progetti personalizzati e valutazione di efficacia, Collana Esperienze n. 12, Fond.ne E. Zancan, PD.
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                                                                              SECONDA PARTE

                                         GLI  ELEMENTI DISTINTIVI DELLA PROFESSIONE

ORDINE E ALBO DEGLI ASSISTENTI SOCIALI
L’Ordine professionale degli assistenti sociali è un organismo di fondamentale importanza per la professione; la sua valenza è duplice: la  tutela degli iscritti e  la tutela dei destinatari delle prestazioni (gli utenti o clienti).
L’Ordine è una realtà complessa che può essere indagata da più punti di vista: storico, giuridico (l'Ordine è una persona giuridica  e come tale soggetta alle norme del diritto), sociologico, politico ed economico.

Volendosi comprendere  il suo significato e la sua funzione  in modo pieno, è necessario tornare al passato e  rivedere , sia pur in forma molto sintetica, quale sia stato nei secoli il ruolo giocato da queste organizzazioni- nel nostro caso gli Ordini-  nella società.

                Innanzitutto, una premessa .

La tendenza dei professionisti ad aggregarsi in gruppi omogenei risale a millenni addietro e si spiega con la volontà di ottenere dal pubblico potere una tutela organica dei propri interessi e con l'obbiettivo di :

  • dare spessore e autorevolezza  al gruppo
  • offrire una tutela visibile ai destinatari delle prestazioni.

               
Fra  tali aggregazioni lo Stato può decidere  di riconoscere giuridicamente alcuni gruppi, in tal modo  attribuendo  loro un insieme  di diritti e doveri; così si  configura un vero e proprio ORDINAMENTO PROFESSIONALE

                Un po’ di storia ( o preistoria) delle associazioni professionali e degli ordini in Italia :

  • Antichità :

                Epoca post costantiniana ed epoca  del Codice teodosiano (VI° secolo d.c.) :
è l'epoca in cui sorsero le associazioni professionali di chi si occupava di un servizio pubblico ( es. il vettovagliamento della città di  Roma),  in particolare si distinsero le associazioni dei  pistores
( fornai ),  pecuarii (allevatori di bestiame) e   boarii ( mercanti di buoi).
Erano, quelle associazioni, dei corpi  o aggregazioni chiusi, strettamente vincolati all’attività che svolgevano i loro componenti , e nei loro confronti il potere pubblico aveva un limitato potere di  ingerenza.

  • Epoca bizantina  ( I-  secolo d.c.):

                Il prefetto della città aveva il compito di sovrintendere alle corporazioni, fissare i prezzi e i limiti per le importazioni e le quote dei salari.
L’appartenenza a una corporazione era obbligatoria per l’esercizio di una professione,

  • Anno mille (fonti frammentate):

                Pare ci fossero nel territorio italiano corpi organizzati per mestiere assoggettati alla Camera Regia  a cui, per vedere tutelato il proprio monopolio, pagavano un tributo.

  • II secolo:

                Esistevano corporazioni di arti e mestieri, diversamente denominate, nei vari territori; si trattava di  associazioni libere, con propri statuti e una propria cassa.

  •  Periodo  dei Comuni:

                é  contraddistinto da una volontà di rinascita, dopo l’anno Mille,  da una forte crescita demografica e dalla nascita di un nuovo organismo, il Comune.
Nascono le Corporazioni, fenomeno nuovo, e si allargano a tutti i settori delle attività produttive.
Caratterizza i Comuni l'avere  confini chiusi e l'elevata distanza  gli  uni dagli altri.
Frequenti  erano  le guerre, che rendevano difficili gli spostamenti.
Necessità di piccole industrie, nei Comuni,  e   nel  contempo di una regolazione che regolamentasse  i  rapporti commerciali  tra le une e le altre: FORTE REGOLAZIONE.

  • Periodo  delle Città ( V-VI secolo): l’economia assume tratti diversi .

                Acquistano grande peso e forza i I gruppi professionali, che:
- non conquistano il potere politico (Milano)
- conquistano il potere politico con la forza (Bologna)
- trionfano (Firenze).
Ma non dappertutto  vi erano associazioni professionali; per esempio, non ve n'erano a Venezia.

  • Il Settecento

E' il secolo che vede il tramonto delle Corporazioni e ciò a seguito della diffusione delle idee di libertà economica dei fisiocratici e dei sovrani illuminati.

  • È il periodo della rivoluzione industriale ( a partire dall'Inghilterra del VIII secolo) e da ciò ne consegue un cambiamento della dinamica del lavoro.

                Si dà corso a un ripensamento della disciplina giuridica delle professioni, in quanto  si riteneva non  più sufficiente una legislazione generale ma una disciplina dettagliata per ogni ambito.

  • L'Ottocento

                Tendenza dei professionisti a organizzarsi in gruppi chiusi e dello Stato a riconoscerli.
Esercizio della professione solo da parte di chi è iscritto in appositi Albi.
Autonomia degli enti professionali costituiti su base corporativa sotto la vigilanza dello Stato.

  • Il Periodo  fascista  

                Progressiva soppressione dei gruppi professionali e pieno assoggettamento  di tutti coloro che esercitavano una qualche professione allo Stato.

  • Il periodo successivo alla fine  della II Guerra Mondiale

                Vi è un ripristino delle leggi soppresse durante il regime fascista, ivi incluse quelle che riguardavano le professioni.

Sintesi dei  tratti costanti delle organizzazioni nei secoli:
- maggiore o minore coesione interna al gruppo, capacità di influenzare il pubblico potere;
- autonomia o soggezione rispetto all’Ordinamento giuridico generale.

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 L’ORDINE DEGLI ASSISTENTI SOCIALI: caratteristiche e funzioni.

 Qui di seguito il riferimento è  alle leggi che lo disciplinano e  alla sua  struttura costitutiva (organi, consigli, regole di elezione).

                Il  Consiglio Nazionale:

  • È composto da quindici membri eletti fra gli iscritti degli Albi locali, i quali non possono essere eletti per più di due volte consecutive
  • Dura in carica 5 anni
  • Vi è incompatibilità tra la carica di Consigliere Nazionale e Regionale
  • Membri dell’organismo sono il Presidente, eletto dal Consiglio fra i membri che lo compongono  e che sono iscritti alla sezione A dell’Albo, il Vice Presidente, il Segretario ed il Tesoriere.

Sono funzioni del Consiglio Nazionale:

  • la promozione ed il coordinamento delle attività degli Ordini regionali,
  • la designazione dei rappresentanti dell’Ordine all’interno di commissioni e organismi nazionali e internazionali,
  • l’espressione di pareri su questioni generali che interessano la professione,
  • la disciplina dei ricorsi provenienti dagli Ordini locali rispetto ai procedimenti elettorali ed ai provvedimenti di diniego di iscrizione e di cancellazione dall’Albo,
  • la determinazione del contributo annuale a carico degli iscritti negli Albi e le relative modalità di riscossione, mediante delibera approvata dal Ministero,
  • l’amministrazione del proprio patrimonio e la redazione, con cadenza annuale, della previsione di spesa e del conto consuntivo.

Il  Consiglio Regionale e i suoi compiti:

  •  cura e tenuta dell’Albo degli iscritti (iscrizione e cancellazione, nonché la revisione con cadenza almeno biennale);
  • ha competenza in materia di determinazione della tassa di iscrizione all’Albo e del  contributo annuale che gli iscritti,  devono versare;
  • gli compete l'adozione dei provvedimenti disciplinari;
  • cura l'amministrazione del patrimonio dell’Ente e la  redazione, con cadenza annuale, della previsione di spesa e del bilancio consuntivo, i quali devono essere portati all’attenzione del Collegio dei revisori dei conti, che, come stabilisce l’art. 3, è composto da cinque professionisti eletti tra gli iscritti all’Albo e presieduto da quello più anziano per iscrizione.

Una volta istituito, il Consiglio deve eleggere a sua volta tra i suoi componenti talune cariche:

  • il Presidente, che rappresenta l’Ordine all’esterno, convoca e presiede il Consiglio con la stesura dell’ordine del giorno e si occupa della sottoscrizione del verbale delle riunioni;
  • il Vice Presidente;
  • il Segretario, che ha il compito di redigere il verbale delle riunioni e sottoscriverlo, unitamente  al Presidente;

4.  il Tesoriere.

       

           L'ALBO DEGLI ASSISTENTI SOCIALI

     Requisiti per l’iscrizione:
il conseguimento dell’abilitazione per l’esercizio della professione,
la residenza nella Regione o nelle Regioni che costituiscono l’ambito locale dell’Ordine,
il fatto di non essere una persona già radiata dall’albo o condannata, con sentenza passata in giudicato, per un reato che comporta l’interdizione dalla professione.

Iter per l'iscrizione :
deve essere presentata una domanda  al Consiglio locale con allegata la documentazione che attesti il possesso dell’abilitazione e il versamento della tassa di iscrizione.

Cancellazione:
la  richiesta dell’interessato;
il venir meno dei presupposti necessari all’iscrizione.

Contro il diniego di iscrizione e la cancellazione è ammesso il ricorso al Consiglio Nazionale.

Sanzioni :

“All’iscritto all’albo che si rende colpevole di abuso o mancanza nell’esercizio della professione o che comunque tiene un comportamento non conforme al decoro o alla dignità professionale il consiglio dell’ordine regionale o interregionale infligge, tenuto conto della gravità del fatto, una delle seguenti sanzioni:

  • ammonizione;
  • censura;
  • sospensione dall’esercizio della professione fino a un anno;
  • radiazione dall’albo”.
     

                                DISCIPLINA GIURIDICA DELLA PROFESSIONE 

                “Ogni professione ha i suoi segreti. Se non li avesse, non sarebbe una professione”
da Hector Hugh Munro

“Gutta cavat lapidem”
detto  latino

Il rimando è  alle voci  del Dizionario di Servizio Sociale “ PROFESSIONI SOCIALI” di Dario Rei e “DEONTOLOGIA PROFESSIONALE”  di Milena Diomede Canevini .

                Si indicano qui di seguito alcuni steep essenziali - in Italia- per lo sviluppo di una legislazione di riferimento per gli assistenti sociali.

                L' “antefatto” è costituito dal D.P.R. 29/12/1984 n. 1219Individuazione dei profili professionali del  personale dei Ministeri”e dal D.P.R. 15/1/1987 n.14Valore abilitante del diploma di assistente sociale in attuazione dell'art.9 del D.P.R. 10/3/1982 n.162”.

Successivamente, la disciplina giuridico- normativa della professione si è
sviluppata come  segue:

  • Legge 23 marzo 1993, n.84 à Ordinamento della professione di Assistente Sociale e istituzione dell’Albo professionale.
  • D.M. 615/94: Regolamento recante norme relative all’istituzione delle sedi regionali o interregionali dell’Ordine e del Consiglio Nazionale degli  Assistenti Sociali, ai procedimenti elettorali,  iscrizione e cancellazione dall’Albo.
  • D.M. 615 del 1994 art 17 e D.P.R. 169/2005 art.9 Sanzioni disciplinari.
  • Regolamento disciplinare approvato dal Consiglio Nazionale dell’Ordine il 16 novembre 2007.

 

  • Codice Deontologico dell’Assistente Sociale (Tre sono le edizioni: 1998, 2002, 2009).
  • Legge 3 aprile 2001, n. 119 à istitutiva del  segreto professionale per l’Assistente Sociale.
  • D.P.R 328/2001  Capo IV: Professione di assistente sociale  art. 20 ( Sezioni e titoli professionali) art.21 ( Attività professionali),  art.22 ( Esame di Stato).

Vediamo qui di seguito in dettaglio le varie disposizioni legislative e  regolative.

La Legge 84/93 e suo  contesto storico-sociale:

L’esigenza di costituirsi come gruppo professionale fu sentita dagli AA.SS. sin dagli anni ’40 del secolo scorso ma si dovettero attendere decenni prima che vi fosse un riconoscimento di ordine pubblico.
È solo quando lo Stato riconosce la pregnanza di un gruppo che ne sancisce il riconoscimento istituzionale.
                “Nei suoi cinque brevi articoli contiene la mappa genetica della professione ed è punto di riferimento dell’identità professionale.
In essa vi sono le parole chiave per definire lo spazio di competenza e di potere proprio  della professione”.
( cfr. intervento di Marilena Dorigo, la prima Presidente dell'Ordine Regionale AA.SS. della Lombardia, 2002 ).

 

                                In sostanza:

-  L’assistente sociale opera con autonomia tecnico-professionale e di giudizio in tutte le fasi dell’intervento per la prevenzione, il sostegno e il recupero di persone, famiglie, gruppi e comunità in situazioni di bisogno e di disagio e può svolgere attività didattico-formative.
- L’assistente sociale svolge compiti di gestione, concorre all’organizzazione e alla programmazione. e può
esercitare attività di coordinamento e di direzione dei servizi sociali.
- La professione di assistente sociale può essere esercitata in forma autonoma o di rapporto di lavoro
subordinato.
- Nella collaborazione con l’autorità giudiziaria, l’attività dell’assistente sociale ha esclusivamente una funzione tecnico-professionale.

Infine, questa legge  definisce  :

1. I requisiti indispensabili per l’esercizio della professione (Diploma/Laurea +  iscrizione all’Albo).
2.  L’Albo e l’Ordine degli Assistenti Sociali.
3.  Le norme relative all’istituzione dei due organismi.
4.  Norme transitorie.

    • n.615/1994 e D.P.R. n.169/2005:

 

  • In Italia vi sono un Ordine Nazionale e 20 Ordini Regionali.  Il primo ha sede a Roma e ciascuno dei secondi nel capoluogo di ciascuna Regione;
  • Ogni Ordine Regionale ha un Consiglio i cui membri sono eletti dagli iscritti: il numero dei membri varia in base al numero di iscritti all’Albo di quel  contesto territoriale ;
  • I Consigli territoriali restano in carica quattro anni e sono formati da un numero di componenti iscritti nelle sezioni A e B dei rispettivi Albi;

                CODICE DEONTOLOGICO :

A titolo di premessa, citiamo ciò che  ha scritto  in merito Milena  Diomede Canevini (2002) :

                “Il Codice deontologico ha segnato la completezza del percorso della formazione per entrare nel mondo socialmente riconosciuto delle professioni”. E ancora:
“Il Codice deontologico è stato il primo atto ufficiale del primo Consiglio dell’Ordine Nazionale, insediato nel 1996, con il quale tale organo ha voluto restituire e riaffidare alla professione i contenuti etici che da sempre, nella forza della sua tradizione, hanno accompagnato nel nostro e negli altri paesi l’evoluzione storica del servizio sociale e dei suoi professionisti.
 Deve essere considerato non un atto obbligatorio disposto dalla Legge, ma  un atto dovuto alla professione.
Esso deve essere interpretato perciò come un dettato che definisce, nel senso che afferma una tappa essenziale per lo sviluppo di un percorso di ulteriore evoluzione della professione, e al contempo chiarisce i principi ed i valori a cui la professione medesima si ispira nella sua pratica”.

A oggi, le edizioni del Codice Deontologico  sono 3: 1998,2002,2009.

                Articolazione del Codice:

  • Titolo I: Definizione e potestà disciplinare;
  • Titolo II: Principi;
  • Titolo III: Responsabilità dell’assistente sociale nei confronti della persona utente e cliente;
  • Titolo IV: Responsabilità dell’assistente sociale nei confronti della società;
  • TitoloV: Responsabilità dell’assistente sociale nei confronti di colleghi e altri professionisti;
  • Titolo VI: Responsabilità dell’assistente sociale nei confronti dell’organizzazione di lavoro;
  • Titolo VII: Responsabilità dell’assistente sociale nei confronti della professione.

 

                Recita il Titolo I:1. Il presente Codice è costituito dai principi e dalle regole che gli assistenti sociali devono osservare e far osservare nell'esercizio della professione  e che orientano le scelte di comportamento nei diversi livelli di responsabilità in cui operano.

  1. Il Codice si applica agli assistenti sociali e agli assistenti sociali specialisti.
    • Il rispetto del Codice è vincolante per l'esercizio della professione per obbligo deontologico. La non osservanza comporta l'esercizio della potestà disciplinare.
    •  Gli assistenti sociali sono tenuti alla conoscenza, comprensione e diffusione del Codice e si impegnano per la sua applicazione nelle diverse forme in cui la legge prevede l'esercizio della professione.”

 

 Procediamo qui di seguito a una segnalazione  dei  punti più significativi in questo contesto.

                Titolo II : PRINCIPI.

  • La professione si fonda sul valore, dignità, unicità di tutte le persone, sul rispetto dei loro  diritti universalmente riconosciuti e sull’affermazione delle loro qualità originarie, quali  libertà, uguaglianza, socialità, solidarietà, partecipazione (Art. 5)
  • L’assistente sociale pone la persona al centro di ogni intervento (Art. 7)
  • L’assistente sociale ha il dovere di difendere la propria autonomia da pressioni e condizionamenti (Art. 10).

                Titolo III, Capo III:  riservatezza e segreto professionale.

  • 23. La natura fiduciaria della relazione con utenti o clienti obbliga l’assistente sociale a trattare con riservatezza in ogni atto professionale le informazioni e i dati riguardanti gli stessi, per il cui uso o trasmissione, nel loro esclusivo interesse, deve ricevere l’esplicito consenso degli interessati, o dei loro legali rappresentanti, ad eccezione dei casi previsti dalla legge.
  • 24. L’assistente sociale ha facoltà di astenersi dal rendere testimonianza al giudice e non può essere obbligato a deporre su quanto gli è stato confidato o ha conosciuto nell’esercizio della professione, salvo i casi previsti dalla legge.
  • 25. L’assistente sociale deve curare la riservatezza della documentazione relativa agli utenti ed ai clienti salvaguardandola da ogni indiscrezione, anche nel caso riguardi e utenti o clienti, anche se deceduti.
  •  27. L’assistente sociale che nell’esercizio della professione venga a conoscenza di fatti o cose aventi natura di segreto è obbligato a non rivelarli, salvo che per gli obblighi di legge e nei seguenti casi:

- rischio di grave danno allo stesso utente o cliente o a terzi, in particolare minori, incapaci o persone impedite a causa delle condizioni fisiche, psichiche o ambientali;
- richiesta scritta e motivata dei legali rappresentanti del minore o dell’incapace nell’esclusivo interesse degli stessi;
- autorizzazione dell’interessato o degli interessati o dei loro legali rappresentanti  resi edotti delle conseguenze della rivelazione;
- rischio grave per l’incolumità dell’assistente sociale.

  • 32.  La sospensione dall’esercizio della professione non esime l’assistente sociale dagli obblighi previsti dal Capo III del presente Titolo ai quali è moralmente e giuridicamente vincolato anche in caso di cancellazione dall’Albo.

                Legge 119/2001 "Disposizioni concernenti l’obbligo del segreto professionale per gli
            assistenti sociali”.

  • Gli assistenti sociali iscritti all’albo professionale istituito con legge 23 marzo 1993, n. 84, hanno l’obbligo del segreto professionale su quanto hanno conosciuto per ragione della loro professione esercitata sia in regime di lavoro dipendente, pubblico o privato, sia in regime di lavoro autonomo libero-professionale.

                D.P.R. 328/2001 Modifica disciplina delle professioni.
Capo IV Professione di Assistente Sociale.
Prescrive  le attività professionali che formano l’oggetto dell’attività professionale dell’Assistente
Sociale ( Sez.A e Sez,.B).
Prevede la disciplina dell’Esame di Stato per la professione di Assistente
Sociale:
Art. 22: Assistente Sociale Specialista
Art. 23: Assistente Sociale

Regolamento disciplinare:

  •  Art. 1 “All’iscritto all’albo che si rende colpevole di abuso o mancanza nell’esercizio della professione o che comunque tiene un comportamento non conforme alle norme del Codice Deontologico, al decoro o alla dignità della professione, il Consiglio dell’Ordine regionale o interregionale infligge, tenuto conto della gravità del fatto,una delle seguenti sanzioni adeguata e proporzionata alla violazione delle norme deontologiche […]”.
  • sanzioni previste:

                a) ammonizione;
b) censura;
c) sospensione dall’esercizio della professione;
d) radiazione dall’albo.

  • criteri :

                a) intenzionalità del comportamento;
b) grado di negligenza, imprudenza, imperizia, tenuto conto della prevedibilità dell’evento;
c) responsabilità connessa alla posizione di lavoro;
d) grado di danno o di pericolo causato;
e) presenza di circostanze aggravanti o attenuanti;
f) concorso fra più professioni e/o operatori in accordo tra loro;
g) recidiva e/o reiterazione.

                                          

PAROLE CHIAVE:  ETICA, DEONTOLOGIA, MORALE, RESPONSABILITA' PROFESSIONALE.
E' necessario partire da una data storica per il servizio sociale italiano e cioé l'anno 1946 in cui ha luogo il Convegno di Tremezzo.  La situazione sociale è quella di un'Italia distrutta dalla guerra. C'é  bisogno di energie nuove, di rispondere a nuovi bisogni della popolazione. Emergono  l'importanza e  la necessità della figura  dell'assistente sociale.
Si tratta di intraprendere e percorrere un cammino  in salita per il riconoscimento della professione ( vedi sopra), cammino reso difficile  sia  all’interno (conflitto di poteri, disaccordo sui contenuti e compiti etc.) ed esterno.
Ma vi è l'accordo di tutti sul fatto che la professione  si vuole  riconosciuta e collocata all’interno di quelle intellettuali.
Si vuole un Albo, a tutela   del  cittadino utente nei confronti del professionista, che deve possedere competenza. Ma una professione per essere riconosciuta tale deve rispettare dei requisiti. E allora  innanzitutto la domanda é: cosa vuol dire “ professione”, cosa la caratterizza, cosa fa  di una professione qualcosa di diverso da un mestiere, da un lavoro?
Vediamolo.
Il termine professione  deriva da analoga parola latina, professio-onis, e al suo interno ha la radice del   verbo latino fari che significa parlare, ma  anche parlare profeticamente, essere profeta e profeta è colui che parla in nome  e per conto di qualcun altro ( pensiamo al suo significato in un contesto religioso). Quindi esercitare una professione significa svolgere un lavoro   che si basa innanzitutto sull'uso della parola. Professionista è colui ( o colei) che conosce, usa e sa usare le parole  per svolgere il suo lavoro , che conosce  usa e sa usare le parole  specifiche e utili  a svolgere il suo proprio  lavoro, quel lavoro  esperto che  lo  qualifica e lo contraddistingue.   Quindi non parole qualunque, non parole vuote ma  parole che debbono avere dietro un pensiero, una teoria, parole che nel loro  insieme  formano e contraddistinguono   una disciplina.
(Cfr. la voce PROFESSIONI SOCIALI  in Dizionario di Servizio Sociale ,  a cura di Dario Rei).
La collocazione degli operatori sociali nel novero dei professionisti è recente ( e non esente da problemi).  Per esempio Toren ( 1969) considerava  le professioni sociali   nella categoria delle semi-professioni , cioé delle attività che non avevano ancora raggiunto il pieno  status ordinariamente  attribuito alle professioni legali, mediche   e tecnico-ingegneristiche.
               
Il concetto di professione.
Per definire il concetto o nozione  di professione possiamo rifarci alle caratteristiche che FLENER,  sociologo americano  attivo all'inizio del '900,  individuò nel 1915 come  caratteristiche proprie delle “vere” professioni, ovverossia:

  • - una formazione intellettuale
  • - l'acquisizione di una tecnica o di un'arte specifica
  • - il principio di specializzazione derivante dalle conoscenze tecniche acquisite
  • - l'offerta di un servizio alla comunità
  • - il controllo attribuito ai colleghi sul proprio comportamento professionale
  • - l'esistenza di una associazione per il controllo dei requisiti necessari per l'accesso alla professione stessa. 

                I parametri fleneriani erano definiti  soprattutto in rapporto alle professioni liberali tradizionali ( medico, ingegnere, avvocato, artista) e avevano come presupposto una netta separazione tra lavoro manuale e lavoro intellettuale, separazione a cui corrispondeva anche una netta distinzione di status  e di legittimazione sociali e, conseguentemente, è ovvio, di guadagno o di retribuzione.
Il concetto di professione si è successivamente evoluto in  “ servizio agli altri nelle interrelazioni societarie+piena realizzazione dell'uomo e delle sue potenzialità creative” e oggi possiamo definire una professione come  “ un patrimonio teorico + obbiettivi in relazione a uno specifico contesto + metodologie specifiche + prestazioni lavorative” e includervi a pieno titolo le professioni di aiuto.

Fondamentale per il passaggio della professione di assistente sociale da semi-professione a professione di aiuto a pieno titolo è stato l'aver conseguito normativamente tre obiettivi fondamentali: l'Albo, Il Codice Deontologico, il  Segreto professionale .

Quali sono le caratteristiche  distintive della professione di assistente sociale ?

  • La formazione
  • lo svolgimento di una funzione utile per la società
  • la capacità di  dare risposte ai bisogni della società
  • il comportamento previsto dalle regole del Codice Deontologico .

Ai sensi dell’art.34 del Codice Deontologico, la professione di assistente sociale è un lavoro di grande  RESPONSABILITA’, lavoro che per essere assunto e svolto appieno:

  • deve essere CONDIVISO con il sistema delle altre professionalità e professioni di aiuto e con gli altri soggetti/attori sociali
  • in un’ottica di democrazia e di partecipazione responsabile.

                                      

        FUNZIONE, RUOLO, RUOLO PROFESSIONALE E RESPOSABILITA’ TECNICO-PROFESSIONALI.
FUNZIONE è l’attività o complesso di attività specifiche che una persona svolge in rapporto alla carica ricoperta.
RUOLO è la  parte, il compito, la funzione assunta da una persona all’interno di un gruppo, una équipe, una squadra, un’organizzazione.
Comportamento di ruolo: è il modo con cui una persona che occupa una data posizione effettivamente agisce…
Caratteristiche del ruolo: è possibile distinguere in ciascun ruolo una componente prescrittiva e una componente discrezionale.
La componente prescrittiva è regolata da norme date dalla legislazione, dai regolamenti , dai codici, dall’ unità organizzativa in cui si opera, dalle disposizioni previste o impartite dai Superiori  (per es. Ordini di Servizio).  Rappresenta un contesto e un ambito di sicurezza per l’operatore, ma è anche un limite alla libertà e creatività individuali.
La componente discrezionale è quella per la quale la persona si trova a decidere da sola, in autonomia, su alcuni aspetti della propria attività professionale. Da una parte rappresenta la possibilità di decidere e agire in modo personale, dall’altra pone il problema di scegliere come operare senza la certezza del risultato che consegue alla scelta effettuata.
La consapevolezza della presenza di entrambi le componenti (  prescrittive e discrezionale) e l’equilibrio fra  di esse identificano  e determinano l’assunzione della RESPONSABILITA’ di RUOLO.
(Cfr. la relazione di Francesca Merlini al Convegno “ L’assistente sociale tra responsabilità btecnico-professionali e vincoli/risorse dell’organizzazione di riferimento”  Milano, 15 Maggio 2012).

                              GLI ATTEGGIAMENTI PROFESSIONALI
Valori e principi  determinano l’esplicarsi nel concreto dell’attività professionale, di alcuni atteggiamenti distintivi e qualificanti la specificità  tecnico-operativa  dell’A.S.
Tali atteggiamenti distintivi sono:

  • individualizzazione e personalizzazione nel rapporto professionale dell’aiuto, nel contesto  della relazione fiduciaria che si va a stabilire tra utente e operatore, basata sulla COMPETENZA professionale di quest’ultimo;
  • accoglienza e accettazione dell’utente nel riconoscimento/rispetto della sua dignità di persona;
  • sospensione di qualsiasi  (pre)giudizio di valore  nei confronti della persona utente;
  • la riservatezza, a garanzia del rispetto dell’utente e di ciò che egli comunica, in libertà e in fiducia, all’assistente sociale;
  • la flessibilità e tolleranza nel rispetto della diversità, con il superamento intenzionale e consapevole dei pregiudizi e stereotipi personale e culturali;
  • la fiducia nelle possibilità di cambiamento e nelle potenzialità del processo di aiuto di cui l’utente/i è soggetto protagonista insostituibile per la soluzione dei suoi propri problemi;
  • il non sostituirsi alla persona utente nel percorso di gestione/soluzione dei problemi, ma accompagnamento empatico-professionale;
  • disponibilità alla collaborazione rivolta all’utente e anche a tutti i soggetti implicati, a vario titolo, nel processo di aiuto;
  • l’attenzione a contestualizzare gli interventi rispetto alle specifiche aree territoriali, realtà collettive e o comunitarie e ambiti operativi;
  • lotta all’emarginazione e all’esclusione sociale in quanto l’A.S.  è agente di cambiamento e promotore di processi di inclusione per una diversa qualità della vita e art.34 del Codice Deontologico.

I riferimenti dell’azione professionale sono la persona e il suo territorio inteso come l’area di azione e di vita di soggetti in relazione e comunicazione per soddisfare i bisogni individuali e di gruppo in funzione della crescita del proprio BENESSERE   e  QUALITA’ della vita.
N.B.   Il territorio assume le caratteristiche di COMUNITA’, ovverossia di ambito di vita a  cui le persone sentono e riconoscono di appartenere, in cui interagiscono e trovano significato rispetto ai diversi ruoli agiti ( Cfr. lavoro proposto in GUIDA al TIROCINIO).
( Da Bartolomei A., Passera A.L. “L’assistente sociale” ed.CieRre, 2° edizione. Estrapolazione a cura di Monica Nocentini Corso di Laurea in Servizio Sociale, Introduzione ai metodi di S.S. a.a. 2007/2008).

                                         

                         Storia del Codice Deontologico ei suoi  precedenti significativi.
Nella maggior parte dei Paesi occidentali il lavoro dell'assistente sociale può contare su un codice deontologico. L'esistenza di tale normativa è ritenuta una delle caratteristiche portanti di una professione. Nel corso degli anni Sessanta e Settanta  il dibattito sul servizio sociale come professione è stato molto intenso ( Etzioni, 1969; Toren.1972)” ( Sarah Banks Etica e valori nel servizio sociale Ed.Erickson, Trento 2004 pag. 69).
Alcuni precedenti significativi:
primi codici dopo la guerra à continuità di idee cfr. la  tutela della riservatezza e il rispetto del segreto come norma etico-deontologica.
- Codici UGIS, fatto di  500 articoli  il primo e  di ben 800 articoli il secondo.
- Codice del ’76, redatto dopo la contestazione del 1968: contiene la dichiarazione di principi ripresa nelle edizioni del ’90 e del ’94, nonché la  definizione di social work internazionale ( cfr.  Conferenza di Dubrovnik).
- Carta di Malosco: Linee fondamentali etico-politiche in rapporto ai servizi sociali maturate dalla Fondazione “Emanuela Zancan” in 25 anni di attività culturale” Ed Fondazione E.Zancan, Padova, Marzo 1990
- Codice del  ’92  elaborato dall'ASSNAS, che sarà usato  come “base” per il C.D.  del 1998.
Tutti i codici   antecedenti sono stati di grande importanza e  aiuto per la stesura del  1°Codice deontologico italiano  del ’98. Una 2a edizione  del Codice  si è avuta  nel  2002: perché dopo così poco tempo?  Innanzitutto perché un Codice deontologico non è e non deve  mai essere statico. La professione è qualcosa di vivo, inserito nella storia, evolve, come evolve-  anche al suo interno- la professione.

 

 Ma in Italia ci sono stati anche significativi  cambiamenti e novità sopraggiunte per la professione:
1. laurea/laurea specialistica
2. legge n.241/90 e introduzione nel diritto pubblico  delle norme sull' accesso agli atti.
Trattasi di una questione nodale per gli  Ordini regionali degli assistenti sociali ( cfr. il testo a cura di Tinina Amadei e Anna  Tamburini La leva di Archimede  Ed. Franco Angeli Milano, 2002).
3. il segreto diventato norma giuridica , oltre che etica e deontologica, con la legge  n.119 del 2001.
N.B. una norma giuridica  è diversa da una  norma deontologica.
Infatti la norma giuridica ha validità erga omnes e trova il suo fondamento nel consenso e nell'accordo raggiunto, in regimi democratici, tra i membri di una comunità o dalla maggioranza di essi, sulle  regole che disciplinano la convivenza civile. Tale accordo avviene tra persone che riconoscono una comune appartenenza e condividono  beni e valori quali il territorio, la lingua, la storia, la cultura, i costumi e le istituzioni.
Il valore della norma giuridica – e ciò che induce ad osservarla e rispettarla da parte di tutti i cittadini - non consiste solo nella sua bontà, utilità o nel fatto che riscuote il consenso della collettività ma anche nel fatto che sono previste sanzioni penali in caso di inadempienza o trasgressione.
La norma deontologica ha invece il suo fondamento nell'etica, nella coscienza ( cfr. Titolo II Principi, art.10 del Codice Deontologico dell'assistente sociale 3a edizione  che, implicitamente richiamandosi all'antico giuramento di Ippocrate, invita a basare l'esercizio della professione   su  scienza e coscienza) e nella responsabilità- verso se stessi, verso la professione e verso gli altri - che il professionista assume nello svolgere il suo lavoro ( il richiamo alla responsabilità e ai doveri a essa connessi attraversa tutto l'articolato del Codice  Deontologico dell'assistente sociale, rappresentandone , si può dire, il leit- motiv) ( cfr. Amadei T. Tamburini A. in La leva di Archimede Ed.Franco Angeli Milano 2002 ,pagg 30-31).
L'inosservanza o trasgressione di una norma deontologica comporta sanzioni disciplinari  che possono essere inflitte - al termine di regolare procedimento disciplinare - dal Consiglio dell'Ordine al professionista che di tale  inosservanza o trasgressione si è reso responsabile.



Confronto tra il  il Codice  prima edizione  del 1998 e il  Codice  seconda edizione  del 2002: rimangono inalterati i principi, tratti da molte Carte dei diritti umani. Ma alcune parole sono state cambiate. Per esempio, vi era stato un dilemma sul termine RAZZA, dilemma   evidenziato dall’Ordine del Veneto; nella seconda  edizione, quel termine è stato tolto perché poteva avere una connotazione negativa nel parlare della persona. Al suo posto è stato introdotto il termine  ETNIA.     
Previsione esplicita  del  principio basilare  che la professione è basata sulla persona e il suo  fulcro è la centralità della persona.  Professione a tutela e presidio del benessere della persona e del bene comune della società. Aumento del  numero  degli articoli.
Posto che il Codice non è un manuale di comportamento, non orienta, non sceglie per noi, vige il principio  secondo cui chi ha la responsabilità di scelta è l’assistente sociale., secondo coscienza, scienza  e competenza, competenza   che deve essere  continuamente aggiornata.
SCIENZA E  COSCIENZA.  Nel  merito ebbe a dire il filosofo Rosmini:La coscienza è consapevolezza del significato etico delle proprie azioni”.
Di fronte alla coscienza, come tutti anche  l’ assistente sociale è  solo. Può consultarsi con altri ma la decisione ultima è sua. Va a vedere ( per poi agire/intervenire/operare di conseguenza)  rispetto  al bene dell’utente cosa  debba considerarsi   priorità:  per esempio cosa può significare-comportare   per un bambino  avere un padre pedofilo? Quali sono gli interventi  da attuare in questo caso?  Quali prima e come?
Nel trattare un caso, è necessario e di grande importanza e peso professionali   capire le conseguenze dei propri atti/interventi  professionali. Parimenti, è importante rispettare regole etico-deontologiche quali:  non divulgare notizie di cui si viene a conoscenza nell'esercizio della professione, non lasciare in giro  atti e documenti, non chiacchierare  di casi e utenti coi colleghi nei corridoi etc.
.              Ogni  CODICE DEONTOLOGICO è un  insieme di norme che riguardano la professione e i professionisti che quella professione esercitano. Ogni  codice deontologico prescrive e proscrive (cosa deve essere o non deve essere fatto);  la sua osservanza è obbligatoria per  tutti gli appartenenti all'Ordine e  iscritti all’Albo, la sua inosservanza comporta sanzioni disciplinari.
Obbligatorietà di iscrizione all’Albo: trattasi di una questione  che è stata ampiamente discussa, ma  alla fine  ha prevalso la valutazione favorevole all'obbligatorietà.
Il CODICE DEONTOLOGICO si può dire che  esprima la dottrina dei doveri del professionista. Non  è stato e non è facile elencare tutti i doveri. In conseguenza di ciò ( elencazione e previsione dei doveri) questo codice è esigente e impegnativo da rispettare  sia per l’assistente sociale che per la comunità professionale.
I nostro Codice deontologico  è sia  DEONTOLOGICO  che ETICO à  ovverossia fondato su VALORI. Cfr.  quel che ebbe a dire Aristotele, il filosofo greco del IV secolo a.C. ritenuto il fondatore dell'etica : “Ogni cosa va giudicata in base al bene dell’uomo. Le virtù etiche sono  costituite dalla la capacità di scegliere il giusto mezzo tra due spinte emotive. Tutte le virtù sono “abiti” che si acquisiscono con la formazione e l’esercizio.  Bene è  la vita buona”.
               
                                                                               Bibliografia di approfondimento
- Vecchiato T. Villa F. Etica e servizio sociale Ed. Vita e Pensiero, Milano 1995;
- Amadei T. Tamburini A., a cura di, Il codice deontologico dell'assistente sociale tra
 responsabilità e appartenenza sociale Ed. Franco Angeli, Milano 2002;
- Sarah Banks Etica e valori nel servizio sociale Ed. Erickson, TN  3a edizione 2004;
- Pieroni G. Urbano M., a cura di, Deontologia professionale e dilemmi etici.Atti del
                 seminario di Studi, Siena 6 Maggio 2005 Ed.Università di Siena, Di Gius 2005,
all'interno: Diomede Canevini M. Etica e deontologia professionale pagg.9/19.

                                               

ETICA, MORALE, DEONTOLOGIA.
                Mary Richmond (USA) nel 1915 così definì il servizio sociale: “ Arte di svolgere servizi diversi per e con persone diverse, cooperando con loro a raggiungere il miglioramento loro e della società. Insieme di procedimenti che sviluppano la personalità attraverso un adattamento realizzato coscientemente, individuo per individuo, tra gli uomini e il loro ambiente sociale”.
Abbiamo visto e approfondito durante la prima parte del corso che il servizio sociale nasce come professione tra la fine del 1800 e i primi decenni del '900 dall'attività, lavoro ed esperienza  delle C.O.S. inglesi,  C.O.S. che si affermano anche negli  Stati Uniti d'America e che originano  da una matrice culturale  ispirata dalla filantropia ma anche dalla necessità di un superamento di quest’ultima per ovviare agli abusi di una elargizione indiscriminata di aiuti e sussidi.
A quasi un secolo dalla definizione di M.Richmond troviamo ripresi, formulati o rielaborati concetti analoghi in un testo di Elisabetta Neve ( Il servizio sociale, fondamenti e cultura di una professione Ed.Carocci, Roma 2000) di cui qui di seguito si riporta il passo che recita :   “...tanto più è necessario ( per non cadere in grossolani errori e mistificazioni) dotarsi di una razionalità forte che sappia analizzare, riconoscere e discernere, tanto più si aprono spazi in cui occorre sviluppare anche intuito, sensibilità, capacità giocare tra una partecipazione calda, viva  ai problemi sociali e una distanza ragionata tale da poter leggere al di là di ciò che appare e tale da controllare i nostri desideri e i nostri abituali schemi  di riferimento. Occorre un modo di “comprendere” composito, che è prioritario rispetto al nostro bisogno di fare e di dare risposte esso si traduce essenzialmente in un atteggiamento critico e di ricerca, che trova radici in convinzioni e in motivazioni che hanno sempre una grossa portata anche di natura etica”. ( cfr.testo cit. pag. 68-69).

L'etica è una branca della filosofia,  che nasce con Aristotele e che, come disciplina teoretica, ha il suo fondamento nella conoscenza e nell'esperienza umana del bene e del male. L'uomo avverte e sperimenta che ogni azione possiede una valenza etica e può essere valutata in relazione ai valori di BENE e di MALE.
In altri termini, non esistono azioni neutre, perché ogni azione muove sempre da una intenzionalità e produce sempre effetti ( conseguenze) valutabili sul piano umano o in senso positivo o in senso negativo.
Il BENE o il MALE rispetto al quale si interroga l'etica non è il bene o il male in senso  materiale o utilitaristico, legato a tornaconto, interesse o profitto; è invece il bene   “sostanziale”. Si tratta cioè di quel ben-essereche si identifica con una concezione antropologica dell'essere umano  e del suo pieno realizzarsi come tale in una progressiva crescita di umanità e consapevolezza.
Come  dicevasi poco sopra,  Aristotele ( 384-322 a.C.) con il suo testo “ Etica nicomachea” è il primo filosofo che si è occupato di etica. Egli sosteneva che “... Ovunque troviamo l'aspirazione a un fine, appare da una parte un ente (= soggetto, persona) e dall'altra parte un fine a cui questo ente aspira. Questo fine è, appunto, il  BENE”.
Sempre secondo Aristotele, il BENE, la tendenza al BENE perfeziona l'ente ( cioè il soggetto che compie l’azione).
Nell'esperienza incontriamo sempre l'aspirazione a un fine. Questo fatto ci fa apparire il BENE come
un elemento integrante della realtà.
Il   BENE  per  Aristotele è ciò a cui si tende e non  il “ cosa” si vuole; il BENE è la felicità, con ciò intendendosi  lo sviluppo compiuto dell'ESSENZA  dell'uomo, cioé dell'anima razionale, della conoscenza intesa come   “fronesis” = saggezza .
Secondo il concetto aristotelico di “ virtù” si diviene “ buoni” se si compiono azioni buone ( e non viceversa). Ne possiamo inferire, per quel che qui ci interessa, che non si può divenire professionisti esperti e capaci ( in senso aristotelico “ buoni” professionisti) se non si è avuta una  esperienza piena della propria umanità e professionalità.
Da questa affermazione si comprende l'importanza dell'insistenza del Codice Deontologico nel voler promuovere e ottenere condizioni operative adeguate per lavorare al meglio”.( A.Tamburini, testo citato pag.32)

                                               

        A questo punto, per meglio comprendere cosa è l'etica e il  bene  secondo Aristotele, inserisco  il capitolo intitolato “Il goal di Aristotele” preso dal volume  di Armando Massarenti IL FILOSOFO TASCABILE    Ed. Guanda , Parma  2009.
Scrive Massarenti: “ Ma Nino non avere paura / di sbagliare un calcio di rigore/ non è mica da questi particolari / che si giudica un giocatore./ Un giocatore lo vedi dal coraggio,/ dall'altruismo e dalla fantasia (...)”.
Chissà se Francesco De Gregori ha mai letto l'ETICA NICOMACHEA. Sembrerebbe di sì, perché quando Aristotele ( 384-322 a.C.) parla delle virtù – e ne parla per lo più in relazione ad attività particolari, professionali, sportive, artistiche - sembra proprio che parli di Nino e della Leva calcistica del Sessantotto.
Poco importa che sbagli un rigore. E ancora meno che lo segni. “ Una rondine non fa primavera” scriveva Aristotele prima che questa sua frase divenisse un proverbio di cui si è perso il senso. E il senso era questo: una singola azione riuscita, un singolo successo, ma anche un singolo gesto coraggioso o altruistico o caritatevole o creativo o magnanimo o giusto, non ci può dire ancora nulla sulle reali qualità di chi lo compie.
Si può agire in quel modo per puro caso, così come capita che uno che  non ha mai toccato un pallone in vita sua, messo davanti a una porta tiri e segni. E' la fortuna del principiante, si dice. Il quale forse non ha paura solo perché sa che non è in pericolo la sua reputazione di giocatore, non avendone alcuna. Ma è appunto fortuna e come tale, al contrario della virtù, noné destinata a durare. Che cosa è dunque per Aristotele una virtù? Il coraggio, l'altruismo, persino la fantasia sono attitudini che si coltivano nel tempo. Non sono né naturali né “contro natura”, non sono già date né del tutto costruite: sono potenzialità che Nino può sviluppare, se lo vuole, attraverso l'educazione, l'esercizio, la formazione del carattere, fino a farle diventare parte integrante di sé come  una “ seconda natura”, insieme a tutte le altre capacità pratiche che ne faranno un buon gocatore. Compreso tirare calci di rigore. Deve trasformarle in disposizioni ad agire in un certo modo, il modo giusto, sapendo che il modo giusto cambierà a seconda delle circostanze. A seconda del portiere che avrà di fonte, per esempio.
La vita pratica, l'intera vita morale, l'intera vita umana non è fatta di regole o di precetti, o perlomeno non solo di quelli, ma soprattutto di questa capacità di cigliere nelle singole circostanze la sintesi giusta tra viversi elementi che non si presentano mai nella stessa identica combinazione.
Questa Aristotele la chiama “ saggezza” e la collega alla dottrina del “ giusto mezzo” oltre che, appunto,  alla coltivazione delle diverse virtù.
Che hanno la caratteristica di essere stabili, radicate come sono nella personalità e nel carattere di chi le ha coltivate con esercizio e lungimiranza. E delle quali,non a caso, Aristotele non fornisce mai un elenco completo. Tale elenco sarebbe impossibile, vista la naturale varietà di ciò che chiamiamo bene, il quale, come l'Essere, per Aristotele “ si dice in molti modi”.
Per questo no gli sarebbe piaciuto per niente il “Sommo bene” che la Scolastica gli avrebbe cucito addosso. A lui interessava  piuttosto la “ eudaimonia”, che non è semplicemente la felicità, come spesso la si traduce, ma la fioritura completa delle potenzialità tipicamente umane.
Certo le virtù cambiano da persona a persona, da professione e professione. Quelle che  fanno un buon giocatore sono diverse  da quelle che fanno di un avvocato un  buon avvocato, di un giornalista un buon giornalista, di un fabbro un buon fabbro, di un  pensatore un buon pensatore. Ma certo quest'ultimo, per Aristotele, è il più vicino alla vera virtù, quella “contemplativa”. Tale virtù è la più vicina  a realizzare “ il fine proprio dell'uomo”, di ogni uomo: la razionalità. Che non è quella cosa arida e astratta che ti hanno descritto certi cattivi maestri, Nino, ma è proprio la virtù che ti permette di agire all'occorrenza nel modo più giusto e più saggio e che ti fa segnare i più bei goal nella vita.”
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Dopo questa lettura, simo in gradi di comprendere rettamente e nello “ spirito” del servizio sociale quel che segue:
La dinamica è fra  BISOGNO e DESIDERIO;  la meta è la FELICITA'.
Scriveva   Giacomo Leopardi “Se la felicità non esiste, cosa è dunque la vita”?

A questo punto  un po' di etimologia, sapendo che “ le parole sono una cosa seria”.
Etica : è termine che  deriva dal greco ethos e significa  “ usanza,consuetudine, modo di comportarsi, casa comune”; qui il riferimento è alla dimensione pubblica del vivere, ove si tiene presente la posizione propria e quella dell'altro. La dimensione sociale dell'etica fu enunciata innanzitutto ( vedi sopra) da Aristotele, che la definì anche “ politica”. L'etica pubblica contiene molti dei valori del Servizio Sociale, universalmente condivisi anche da altre professioni, come  per esempio il rispetto per la libertà della persona, il principio di responsabilità o quello di  autodeterminazione.    
Morale: è termine di origine  latina: deriva da mos, moris e significa anch'esso  maniera di comportarsi, modo di agire,costume, usanza, abitudine, carattere,volontà, regola,norma, ma con il termine  “morale” si intende la dimensione personale del vivere.
N.B.La distinzione tra etica (dimensione pubblica) e morale (dimensione personale)  è stata introdotta dal filosofo dell'idealismo  tedesco  F.G. Hegel ( 1770-1831), il quale intuì che tra le due dimensioni avrebbe potuto esserci conflitto.
Deontologia: è termine che  deriva dal greco deontos, genitivo di deon= dovere; la deontologia è costituita da quell'insieme di regole codificate che traducono contenuti etici generali e condivisi. Queste regole attuative di principi universali sono storicamente determinate e pertanto non possono considerarsi definite una volta per tutte  ma variano in  relazione alle diverse categorie professionali di cui sono espressione e da paese a paese, in quanto il mandato giuridico-deontologico è subordinato alle norme vigenti in ciascun  Paese.
Se l'etica si riferisce a qualcosa di più ampio della deontologia, pur essendovi una  correlazione stretta e, talvolta, una parziale sovrapposizione dei due termini, in ogni caso l'etica pubblica contiene molti dei valori del Servizio Sociale ( i cosiddetti “ fondamenti”).


     Il contributo deriva dalla presentazione di Elisabetta Neve alla Summer School dell’Associazione Italiana dei Docenti di Servizio Sociale (AIDOSS) che si è tenuta a Torino dal 1 al 3 di ottobre 2009.

 Eventuale ampliamento con elementi della tesi di Laura Tiozzo che parla proprio dell’ordine.

La deontologia si riferisce agli aspetti normativi e prescrittivi del comportamento etico ( cosa fare, cosa non fare, i principi e i criteri generali di riferimento per l'esercizio di una attività professionale) e a quelli sanzionatori.
Della deontologia, alcuni autori mettono in risalto il  carattere strumentale e orientativo: una indicazione a cui attenersi, un quadro di coordinate a cui riferirsi, che rimandano però sempre alla scelta del professionista e alla sua capacità di comprendere, valutare e applicare l'indicazione generale verso il bene alla situazione specifica e concreta in cui si trova a operare.
Esistono professioni come quella medica che vantano un codice deontologico antichissimo (si pensi al  GIURAMENTO di IPPOCRATE, il fondatore della medicina vissuto tra il 470- 390 a.C.).     Ippocrate separò la medicina intesa come “tekhne” cioé arte (  arte in senso tecnico; ars in latino significa appunto attività pratica)) dalla filosofia. Dalla concezione  ippocratica e dai suoi sviluppi a opera di  Galeno Claudio ( il medico dell'imperatore Marco Aurelio) nel II secolo d.C. deriva il nostro modo di concepire l'arte della cura secondo il metodo analitico-sperimentale, ben lontano dalla concezione della malattia come espiazione di una colpa voluta dagli dei che era   proprio degli Egizi, dei Fenici, dei Sumeri e dei Greci prima di  Ippocrate .

Esistono professioni di recente formazione (  quella di psicologo e  di assistente  sociale, per esempio) che hanno adottato solo in tempi molto recenti tale strumento ( il Codice Deontologico) come espressione etica e  come pubblica manifestazione  dell'agire  professionale. Infatti, come ha scritto Lia Sanicola ( 1985) “ L'esistenza di un codice deontologico non crea di per sé l'agire professionale, come la scrittura non crea il pensiero, ma ne è l'espressione”.
In altri termini, il Codice Deontologico rende pubbliche e manifeste le norme interne della professione. La deontologia – formalizzata in un codice di norme -  rimanda all'etica come orizzonte più vasto di riferimento, orizzonte della ricerca di ciò che è UMANO , vale a dire proprio e specifico dell'uomo: il BENE. Bene che, per esempio, volendosi definirlo con la terminologia  dell'O.M.S. ( Organizzazione Mondiale della Sanità) corrisponde allo stato di SALUTE inteso come insieme equilibrato e interdipendente di benessere fisico, psichico e sociale.
In un contesto di servizio sociale  come disciplina, non solo di etica e  deontologia  si  è  parlato e scritto, ma anche di etica e antropologia. Lo ha fatto per esempio FRITZ VOLZ ( filosofo tedesco e docente di Servizio Sociale in Germania), che in un suo scritto del 1997 ha definito l'etica una “ antropologia applicata”, vale a dire una concezione di sé come compito ( dove compito è da intendersi come lavoro responsabile: torneremo più avanti sul concetto di responsabilità). In  tal senso, la domanda che il professionista si deve porre è “ CHE COSA  devo fare?” qui, adesso, in relazione a un  contesto, alla vita, all'agire umano e alle sue ( dell'uomo persona reale, non idea!) esigenze e conseguenze.... Ma l'etica rimanda anche e  in primis al “ COME devo fare?
                E qui il richiamo, sia pur solo accennato, é al “ Credo dell'assistente sociale di SWIFT ( America, 1945), anch'esso parte della storia  del servizio sociale.
In tutto il processo metodologico -  in cui  si  concretizza il processo di aiuto- l'etica non è un fatto estrinseco o sovrapposto ma intrinseco, cioé una dimensione che  connota internamente e interamente tale processo.  “ L'intervento è corretto sul piano tecnico-professionale su quello etico-deontologico  se è impostato a partire  dal riconoscimento di quello che la persona è con tutte le sue caratteristiche, specie quelle umanamente più qualificanti, quelle, appunto, che i principi del  servizio sociale richiamano”. ( dal testo di  A. Vecchiato e F.Villa  Etica e servizio sociale Ed.Vita e Pensiero Milano 1995, pag.79).

Nell'ambito dell'agire umano-professionale  fatto di intenzione ( di fare la cosa giusta) e di conseguenze del fare  (conseguenze  che sono un'incognita....) Il lavoro responsabile, la responsabilità per il professionista  - assistente sociale - comporta il dovere di un rapporto conoscitivo con la situazione nella sua concretezza e specificità e l'assunzione di una decisione,con  le responsabilità e i rischi ad essa connessi.
Pensiero + Azione sostanziano l'agire umano tanto quanto  l'agire professionale. Sul piano professionale, nell'incertezza o ambiguità delle situazioni, per poter prendere una decisione e per rispondere alla domanda “ COSA DEVO FARE?” è necessario  saper formulare  una lettura, un giudizio ( non un pregiudizio, però) una interpretazione della realtà ( non stereotipo, però). Qui l'indicazione deontologica è un richiamo e uno strumento che dà le coordinate  per un'azione di riflessione, comprensione e valutazione prima e del progetto operativo o intervento poi - caso per caso-  relativamente alle situazioni che chiedono al professionista- assistente sociale di intervenire.
Ma su pregiudizi e stereotipi torneremo  più avanti. Qui basti dire che- di contro a stereotipi e pregiudizi ( che sono noti anche sottoforma di  ideologie e preconcetti)- la ragione ha una funzione di conoscenza e orientativa, in quanto strumento di indagine della realtà e  che senza ragionee senza capacità ragionativa  non si può parlare di comportamento etico.

                                                               
CODICE DEONTOLOGICO E RESPONSABILITA'

Ogni Titolo del Codice  è intitolato alla responsabilità.
La responsabilità può essere:

  • Positiva: comportamento coerente con etica, morale, deontologia
  • Negativa: il  suo contrario.

                La responsabilità va intesa  come risposta  da responsum, intensivo che deriva dal verbo latino RESPONDEO, che significa fondamentalmente due cose:

  • risposta diretta all’altro  che/perché  pone una domanda;
  • dichiarazione: con il mio comportamento professionale esprimo la componente etica à il lato dell'agire che si riverbera in tutta la società.

                Ogni gesto professionale ha un respiro più ampio dell’io-tu ( dimensione inter-soggettiva), ha   cioé un  respiro sociale.  Qui si toccano le radici stesse della condizione di aiuto, desumibili anche dalla parola assistenti sociali à  la cui etimologia  è dal latino “ad sistere” : sto lì accanto, sono presente.  Dunque svolgere una professione di aiuto significa essere,  stare  lì  accanto, lì dove il bisogno emerge. Cfr  anche il Convegno di Tremezzo: lavorare per rispondere ai bisogni delle persone, anche  congiuntamente con altre professioni (cfr. lavoro di rete: risvolti comunità-istituzioni-individuo. Vedasi al riguardo anche  il testo di   Luigi Gui laddove parla di servizio sociale trifocale).

Si rende  opportuno a questo punto richiamare i valori fondanti  e condivisi della  professione declinati
con un filo rosso che parte dall’ ‘800 e arriva a oggi:

  • VALORI CENTRATI SULLA DIGNITA’ DELLA PERSONA COME ESSERE UNICO, INTEGRO, IRRIPETIBILE, ORIGINALE
  • VALORI CENTRATI SULLA LIBERTA’ DELLA PERSONA
  • RISPETTO  DEL  DIRITTO/DIRITTI UNIVERSALMENTE RICONOSCIUTI.
  • FIDUCIA NELLE  CAPACITA’/POTENZIALITA'  DI UNA PERSONA  IN TUTTE LE CONDIZIONI  ED ETA’ DELLA VITA
  • PIENA REALIZZAZIONE Di OGNI INDIVIDUO E DELLE SUE  E RELAZIONI AFFETTIVE E SOCIALI
  • RISPETTO  DELL'AUTONOMIA NELLE SCELTE
  • DIRITTO ALLA DIVERSITA’ E ALLA SOCIALITA’
  • DIRITTO DI PARTECIPAZIONE ALLE SCELTE DELLA COMUNITA’ E ALLA POSSIBILITA' DI ORIENTARLE NELLA VASTA COMUNITA’ UMANA
  • DIRITTO/DOVERE DI ASSUNZIONE DELLE PROPRIE PERSONALI  RESPONSABILITA’.

 

                              

MODELLI,  METODOLOGIA, METODI E TECNICHE DI SERVIZIO SOCIALE
Al riguardo vedi   Dizionario di servizio sociale, in particolare le  seguenti   voci:

  • METODO  curata da Mauro Niero ( pagg.339-346);
  •  METODOLOGIA DEL SERVIZIO SOCIALE curata da Maria Dal Prà Ponticelli ( pagg.347-353);
  •  MODELLI  DI SERVIZIO SOCIALE curata da Maria Dal Prà Ponticelli ( pagg.367-374);
  •  TECNICHE curata da Mariella De Santis.

Modello:: può essere definito come “strumento”, oppure come “schema di riferimento”, schema concettuale ipotetico, tecnico-orientativo che serve per l’analisi della realtà, anche ai fini operativi. In sostanza, i modelli costituiscono la base teorica, sono come mappe cognitive per l’azione ( cfr. anche il testo di Luigi Gui Le sfide teoriche del servizio sociale , cap.4).
         Il modello ha  bisogno di essere testato e confrontato con la realtà.
Tutti i  modelli  sono modelli in funzione della  pratica e dell'agire professionale; le diverse dimensioni del lavoro professionale possono esigere modelli differenti.
                EVOLUZIONE  DEI MODELLI  OPERATIVI.
Nei paesi anglo-americani :
Anni '50/'60:

  • Metodologia del Case work o Servizio sociale individuale (cfr. la corrispondente voce in Dizionario di S.S. “  Casework” a cura di  Marisa Pittaluga).
  • Modello del Problem solving (Perlman, 1957) ispirato alle teorie della psicologia cognitivista e umanistica.
  • Modello psico sociale (Hollis, 1964) ispirato alla scuola diagnostica di orientamento psico analitico diffusa dagli anni ’20 in USA
  •  Modello funzionale (Smalley, 1967) influenzato dalle teorie neo freudiane
  • Modello  advocacy.

                Anni ’70  sviluppo delle  teorie sistemiche, che hanno dato   nuovi impulsi alla  elaborazione di  modelli che tenessero conto oltre che della dimensione individuale anche di quella integrata ( cfr. la trifocalità di  cui parla Luigi Gui nel  suo testo Cap. 4.3 ) e cioé:

  • Modello sistemico relazionale ( cfr.Dizionario di S.S., voce curata da Annamaria Campanini, pag.378);
  • Modello unitario centrato sul compito (cfr.Dizionario di S.S. , voce curata da Franca Ferrario, pag. 385);
  • Modello problem solving ( cfr.Dizionario, voce curata da Maria Dal Prà Ponticelli, pag.374).

                Negli USA:

  • Modelli orientati alla/dalla psicanalisi, filone del clinical sociali work (focus sulla relazione individuo-ambiente). Non hanno avuto  molta diffusione nella pratica ma comunque offrono  spunti interessanti per l’operatività.

                Molto importante  è anche lo studio  dei modelli utilizzati nel lavoro con i gruppi:

  •  Task oriented: piccolo gruppo orientato al compito per affrontare problemi sociali e ottenere diritti.
  •  Grouth oriented: volti alla riabilitazione delle persone.
  •  Reciprocal: focus sulle  interazioni  che avvengono nel gruppo.

               
Anni ’90: vedono l'affermarsi del welfare  mi. Emerge il lavoro di comunità:
                Empowerment ( cfr. articolo di Bruno Bortoli e Fabio Folgheraiter  nella Rivista lavoro sociale n.2/02) é il nome del metodo maggiormente utilizzato per :

  •  far diventare gli individui più attivi;
  • aiutare i gruppi già esistenti a organizzarsi, progettare, mettere insieme risorse( empowermewnt relazionale e lavoro sociale di rete);
  • a livello istituzionale,  per promuovere politiche effettivamente vicine ai bisogni della comunità

Empowerment Sociale  ( cfr. voce del Dizionario di S.S. a cura di Patrizia Sartori):
il termine indica il risultato, cioè lo stato empowered del soggetto o della collettività, ma anche il processo che ne facilita il raggiungimento, l’insieme delle condizioni di empowering; è un modello teorico, un modo di considerare la realtà sociale e un ambito di ricerca, ma anche una filosofia di intervento nella comunità; è un concetto “multilivello” applicabile sia agli individui che alle organizzazioni e alle comunità.
               ITALIA.
Si assiste a uno sviluppo lento dei modelli perché, non dimentichiamolo, il  servizio sociale non era inserito nelle università.
Gli anni ’50  vedono un utilizzo dei  modelli americani, conosciuti in Italia grazie a  convegni, incontri, traduzioni di opere. Il limite di tali modelli però era costituito proprio dal fatto di essere stati elaborati e messi a punto Limite in contesti socio-culturali  diversi. 
Gli anni'70 e  '80.
Di quei modelli si ha una messa in discussione negli anni ’70. In quegli anni, a seguito dei sommovimenti socio-culturali del '68, vi furono grandi  cambiamenti: nascono le  Regioni,  si ha un cambio dell' assetto  dell'assistenza  rifiuto di modelli settorializzati e messa a punto di modelli sempre più integrati e unitari. Nel frattempo, avviene anche l' inserimento delle discipline  sociali ( sociologia prima e servizio sociale poi ) nelle università,  con un conseguente impulso alla elaborazione teorica.  Citiamo al riguardo:

  • modello sistemico
  • approccio psicanalitico e socio clinico
  • problem solving
  • modello unitario centrato sul compito
  • modello di rete
  • modello counseling.

                                              _______________________________________

Modello Problem solving (cfr. testo di B.  Bortoli  Teoria e storia del Servizio Sociale pag.127/128):
             Evidenzia la crucialità dell’utente come effettivo risolutore del suo problema ( transizione attiva della persona da “ bisognoso” a “cittadino utente”; promozione del diritto all’autodeterminazione e all’accrescimento del ventaglio di opzioni e di possibilità o di alternative possibili.
Riferimenti: psicologia cognitivista-costruttivista, psicologia dell’io neofreudiana, psicologia
umanista.
Assunti teorici:

  • l’uomo è dotato di una mente attiva che gli permette di selezionare e organizzare le informazioni provenienti dalla realtà costruendo così le sue mappe cognitive;
  • ogni individuo costruisce il suo percorso in base alle proprie motivazioni (bisogni, ambiente..);
  • il comportamento è guidato da:
    • la propria percezione del mondo
    • le motivazioni
    • la capacità di fronteggiare i problemi.

                L'intervento di servizio sociale deve guidare la persona a comprendere quali sono gli schemi più adeguati per progettare percorsi di vita realistici. Contestualmente, deve anche essere svolta un’azione verso le istituzioni perché siano in grado di offrire un ambiente nutritivo.
Col tempo, vi  stato un ampliamento del campo applicativo e di intervento, in modo da rivolgere il modello non solo al singolo ma anche a contesti più ampi ( es.network)
Modello sistemico-relazionale (cfr. voce del Dizionario di S.S. a cura di Annamaria Campanini):
Si afferma in  Italia negli  anni '80.
Riferimenti teorici: Teoria dei sistemi ( cfr. Scuola di Palo Alto e il testo Pragmatica della
               comunicazione).
L'ambito di applicazione è stato  soprattutto quello della terapia della famiglia.
Questo  modello indirizza il focus non tanto sull’individuo ma sul sistema in cui esso è immerso, nelle relazioni che vive. Ciò è fondamentale e interessa le varie fasi del processo di aiuto: es. nella raccolta della domanda allargare al contesto di riferimento. L’analisi del problema deve ricondurre  lo stesso in un’ottica sistemica (e non  trattarlo come problema di un singolo); contratto: chiara definizione dei compiti del super wisor  e dell' utente; verifica dei risultati: focus su omeostasi, cambiamento del sistema.

Modello unitario centrato sul compito ( cfr. voce del Dizionario di S.S. a cura di  Franca Ferrario):
È un modello olistico , ovverossia affronta le problematiche nei loro aspetti individuali e collettivi). Pone il focus su tre dimensioni: individuo/comunità/istituzioni.
Inoltre pone attenzione al  compito (individuare un campo definito in cui si possibile produrre dei risultati, strutturare l’intervento) e alla rete.
Riferimenti teorici:

  • focus su individuo e ambiente e sulla loro interazione; rapporto ecologico e dinamico
  • visione dell’uomo come esploratore del mondo e costruttore di soluzioni in base alle proprie motivazioni e bisogni
  • nicchia ecologica: reinterpretazione degli elementi dell’ambiente operata dai soggetti.

Modello del counseling.
Consiste nell’aiutare la persona a individuare le proprie capacità e a credere in esse. Per raggiungere questi obbiettivi serve una “cornice( framework) e un metodo che si articola in  FASI. Molta importanza è data alle  “forme della comunicazione” ( cfr. il testo di M.Houg Abilità di counseling Ed Erickson 1996).

 

Modello di rete.
E’ un modello che si è andato diffondendo in Italia a partire dagli anni ’80 ( cfr. gli studi in materia del sociologo Pierpaolo Donati, 1983/93  e il  testo da lui curato   Lo stato sociale in Italia Ed. Mondadori 1999).
Il modello di rete è un modello operativo che tende alla valorizzazione della integrazione, alla costruzione di un sistema integrato di prestazioni e servizi in ogni ambito territoriale-  tra Pubblico ,  Terzo Settore/Privato no-profit e Volontariato-  come previsto dalla Legge-quadro 8 Novembre 2000 n. 328 in attuazione del principio di sussidiarietà.
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Verso un servizio sociale  critico e  riflessivo .

                Si rende opportuno  introdurre qui  un richiamo al modello  su cui si sta orientando il servizio sociale di oggi  (e di domani).
Fermo  restando i valori e i principi su cui si fonda la professione dell'assistente sociale;
tenuto conto che i valori nella attuale società sempre più multietnica, multiculturale e multireligiosa possono essere affermati, realizzati, coniugati con i vari contesti di vita in molti modi; che il servizio sociale in Italia si trova al crocevia tra bisogni sempre nuovi ed emergenti; considerati gli orientamenti di politica sociale nazionale e locale e l'organizzazione e la finalità dei servizi, in molte realtà  territoriali sempre più esternalizzati e gestiti da organizzazioni non profit spesso di natura o matrice confessionale; di fronte ai cambiamenti in atto oggi si parla sempre di più di una pratica riflessiva-critica, di un operatore riflessivo ( SCHON, 1993) ( cfr. testo di Luigi Gui  LE SFIDE TEORICHE DEL SERVIZIO SICIALE  cap.7.1 pag 140-141).

                N.B.  Per tutti gli approfondimenti in materia  di modelli e loro  evoluzioni  cfr. il  testo di Luigi Gui Le sfide teoriche del Servizio Sociale, Ed. Carocci Faber 2007,  cap.7).
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METODOLOGIA, METODO/I,  PROCEDIMENTO METODOLOGICO, TECNICHE  e rispettive  definizionI (cfr. Dizionario di S.S.).
Per chiarezza concettuale ed espositiva, dopo avere definito e illustrato i modelli è opportuno qui di seguito  dare  una definizione di “metodologia”: quest’ultima in senso etimologico significa riflessione, ragionamento, discorso  (logos) sul metodo. In altri termini, la metodologia è la dottrina che sottopone ad analisi le regole e i principi che orientano le procedure (= metodo/i) finalizzate:
- alla conoscenza scientifica
- all’azione professionale.
In quanto tale, la metodologia precede il metodo,  posto che  per metodo  si intende un “ insieme organico di regole e principi in base al quale svolgere una attività pratica, in altri termini  “ la via razionale da seguire nell’operare”, l’insieme delle regole, tecniche e strumenti che “ guidano” il cammino operativo dell’assistente sociale  ( il rimando è alla voce del Dizionario  di S.S.  METODO a cura di  Mauro Niero).
Sulla METODOLOGIA vedasi Il testo di Zilianti Rovai Assistenti Sociali Professionisti cap.2  L’assistente sociale e la metodologia e la voce  Metodologia del Servizio Sociale a cura di Maria dal Prà Ponticelli nel Dizionario di Sevizio Sociale  .
Metodo/i: Per “ METODO” si intende un “ Insieme organico di regole e principi in base al quale svolgere una attività pratica”, ovverossia “ la via razionale da seguire nell’operare( cfr. Testo di Zilianti -Rovai Cap.2).
Procedimento  metodologico: è  uno schema di riferimento che serve a guidare la fase del conoscere e dell’operare. Il procedimento metodologico si articola processualmente in 4 fasi:

  •  FASE CONOSCITIVA-DESCRITTIVA ( definizione e formulazione dell’oggetto di analisi attraverso la selezione e la interpretazione dei dati raccolti);
  • FASE VALUTATIVO-DECISIONALE ( valutazione dei dati e generazione di una ipotesi per la ricerca di una strategia attraverso un confronto con le teorie, presa di decisioni e formulazione di un piano di azione/trattamento);
  • FASE ATTUATIVA ( attuazione del piano di azione/trattamento e monitoraggio continuativo della congruenza azioni-obiettivi);
  • FASE DELLA VERIFICA E DELLA CONCLUSIONE    ( VERIFICA DEGLI OBIETTIVI RAGGIUNTI E DELL’EFFICACIA DELLE TECNICHE /STRATEGIE ATTUATE.

Tecniche: ( Cfr. la voce corrispondente in Dizionario di S.S. a cura di Mariella De Santis): complesso di norme e modi di procedere a grado variabile di codificazione che una collettività determinata riconosce come necessario allo svolgimento di una attività manuale o intellettuale di carattere ricorrente e che ha la caratteristica di essere trasmissibile per apprendimento. Valgano, a titolo esemplificativo, le tecniche del colloquio o della conduzione di gruppi o quelle finalizzate alla costruzione/manutenzione di reti.

                            

 

 

 

Prende qui avvio la parte del corso che ha come argomenti:
  

                  • STEREOTIPI E PREGIUDIZI
                  • WELFARE E WELL-BEING: benessere e capacità di azione
                  • DOMICILIARITA' E DIRITTI DI CITTADINANZA
                  • LA  RELAZIONE DI AIUTO.
                  • IL SEGRETO PROFESSIONALE.

 

                             
STEREOTIPI E PREGIUDIZI
I riferimenti testuali per questo argomento sono:
1)  Il testo di Bruno Mazzara STEROTIPI E PREGIUDIZI  Ed. Il Mulino, Bologna 1997.
2)  Il capitolo 5.5 “ la costruzione sociale della realtà” di Luigi Gui in LE SFIDE TEORICHE DEL SERVIZIO SOCIALE  Ed. Carocci Faber, Roma 2007 pag.95-105.
Introduzione.
Il teatro dell'arte rimane la  più aggiornata metafora del modo in cui gli individui, alla prese con la complessità degli eventi del mondo che li circonda, preferiscono forme di conoscenza semplificate e preconfezionate.
Così come gli spettatori della commedia dell'arte preferivano un mondo fatto di personaggi e di caratteri ( il buono, il cattivo, l'iracondo,il simpatico, il furbo etc.) più che di persone, così gli individui spesso preferiscono avere a che fare con rappresentazioni di prototipi più che di individui reali, organizzando i loro sistemi conoscitivi più in termini di pregiudizi che non di esperienze. Sono  sensibili al potere uniformante delle etichette linguistiche e dei media che definiscono le categorie sociali, più che agli aspetti esperienziali e alla irripetibile unicità delle persone. Preferiscono leggere sui giornali o ascoltare dalla TV come o cosa pensare piuttosto che pensare con la propria testa sulla base di ragionamenti personali e fondate argomentazioni.
In altre parole: se gli individui nel Settecento/Ottocento preferivano i caratteri della commedia dell'arte, ai giorni nostri vi è la tendenza a prediligere, nell'ambito della percezione sociale, i pregiudizi e gli stereotipi.
L'inconsapevole (= pregiudizio ) o consapevole (= stereotipo) decisione preliminare di come porsi dinnanzi a un fenomeno o a una persona condiziona la valutazione. Ineliminabile, spesso pericoloso e fuorviante, il pregiudizio é però anche  utile o necessario perché, offrendo inquadrature e orizzonti in cui collocare le cose, difende dalla vertigine che ci può cogliere quando le cose, gli altri, i fenomeni o gli eventi ci arrivano addosso senza etichetta e senza cornice, in un vortice che sembra caotico perché ci manca un angolo prospettico da cui guardarli e ordinarli.
Un esempio?  All'inizio della “Montagna incantata” di Thomas Mann, un'infermiera dice al protagonista Hans Castorp, che si è recato a trovare il cugino malato  e che comincia a sentirsi prossimo al sanatorio per timore del contagio, di misurarsi la temperatura. Sorpreso, egli risponde di essere abituato a  misurarsi solo quando ha la febbre; al che l'infermiera replica che ci si misura per sapere se si ha o no la febbre!  Osserviamo qui   due comportamenti diversi, ma entrambi hanno la loro logica..... Quella di Castorp è la logica del pregiudizio; come nel caso della febbre proclamata prima di essere accertata, spesso si decide a priori in quale categoria rientra un fenomeno, per poi valutarlo  come positivo o negativo secondo le regole di quella categoria.
Pregiudizi e stereotipi sono tuttora ampiamente diffusi, ma spesso si sono trasformati da espliciti in impliciti, nascosti- talvolta- anche  sottoforma di giudizi apparentemente ragionevoli. I più diffusi sono quelli che hanno a che fare con i recenti fenomeni migratori dai paesi del Terzo mondo verso i paesi più industrializzati.
E' perciò necessario  soffermarsi a studiare la materia, per imparare a conoscere i meccanismi impliciti o razionali che condizionano la nostra  conoscenza.

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                Nella storia del pensiero umano l'esigenza di affermazione della verità dei fatti contro ogni forma di preconcetto si può riconoscere come una delle basi della scienza moderna, diventata perciò parte costitutiva della cultura occidentale ( la nostra ).
A noi qui, per il tema che stiamo trattando, interessa il pensiero di  Francesco Bacone, il lord cancelliere inglese Francis Bacon ( 1561-1626),  politico, filosofo ma anche scrittore di talento. C'é addirittura chi sostiene, adducendo prove stilistiche  e di matematica testuale, che fu lui il vero autore delle opere di Shakespeare. Agli inizi del Seicento, in termini che sembrano quelli di un moderno trattato di psicologia, fornì un elenco classificatorio  degli errori  cognitivi che allontanano dalla vera conoscenza del mondo ( cfr. il testo di B.Mazzara pagg. 10-11).

 

 

   FRANCIS  BACON (1561-1626): nato a Londra nel 1561, figlio minore di Nicola Bacone, ministro guardasigilli della regina Elisabetta 1a, fu dapprima avvocato, funzionario statale e infine filosofo . Culturalmente fu erede del Rinascimento, da cui ereditò l'anti-aristotelismo, l'interesse per l'esperienza e la valorizzazione dell'attività pratica.

Sue opere principali:

  • Novum Organum (1621)
  • De dignitate et augmentis scientiarum ( 1623)

 

                Francesco Bacone si propone  di creare una nuova logica ( antiaristotelica) che si compone di due parti:
una pars destruens ( è la parte che contiene la  teoria degli idola mentis (idola tribus, specus, fori e theatri), cioè  degli errori cognitivi) e una pars adstruens basata sul procedimento induttivo; è la parte che espone la sua teoria della “forma” dei singoli fenomeni.
La sua teoria degli errori cognitivi è estremamente moderna e interessante, in quanto analizza sia  errori cognitivi del singolo individuo ( idola specus) sia errori che derivano dalle consuetudini e dal linguaggio ( idola fori). ( Cfr. testo di Mazzara pagg. 10-11).

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                A) Definizione di pre-giudizio: trattasi di giudizio emesso in assenza di dati empirici sufficienti; giudizio “errato”, errore di valutazione che impedisce una conoscenza corretta della realtà. Di solito, è sfavorevole, si riferisce a specifici gruppi sociali. La cosiddetta “forza del pregiudizio” sta nella sua capacità di orientare concretamente l'azione di chi lo esprime.
L'origine del pregiudizio è antica e socialmente diffusa in tutte le classi sociali; è – in sostanza – una forma di pensiero comune  che  può essere sia individuale ( es. opinioni personali quotidiane) che collettivo. Ha un substrato emotivo  più che razionale.

                B) Definizione di stereotipo: il  concetto nasce direttamente  all'interno delle scienze sociali, ma il  termine proviene dall'ambito tipografico, dove fu coniato verso la fine del 1700 per indicare la riproduzione di immagini  a stampa per mezzo di forme fisse ( etmologia: stereòs=rigido, typos= forma, impronta).
Il primo uso traslato ( cioé passaggio dall'ambito originario a un altro) si ebbe in campo psichiatrico  in relazione alle patologie ossessive. L'introduzione del termine nelle scienze sociali si deve a un giornalista, Walter Lippmann.

                La vita di Lippmann ( 1889-1974) è  stata un caleidoscopio di idee e di appartenenze: da giornalista militante si schierò  a fianco dei socialisti rivoluzionari, successivamente approdò alla rivista “ New Republic”, organo dei liberal progressisti, fino a diventare negli ultimi cinquant'anni  l'opinionista principe delle maggiori testate americane sia conservatrici che liberali. La sua notorietà è però legata   soprattutto alla teoria  della “pubblica opinione”, analizzata come un groviglio di stereotipi emotivi e irrazionali creati ad arte da politici o giornalisti. Più precisamente,  nel suo volume L'opinione pubblica”  ( 1922)  utilizzò  il termine “stereotipo” per indicare  specificamente i processi di formazione dell'opinione pubblica.  In quel  s famoso testo l'autore sottolinea l'importanza delle preconcezioni, vere e proprie immagini della realtà -immagini  che nascono nella nostra testa- nel determinare il modo in cui percepiamo, valutiamo e classifichiamo gli eventi di cui veniamo a conoscenza. Quando queste immagini si riferiscono a gruppi di persone, possono far maturare in noi la convinzione che i membri del gruppo in questione siano difficilmente distinguibili l'uno dall'altro, così come le diverse copie di uno stesso giornale appaiono uguali in quanto derivano tutte dallo stesso stampo tipografico ( lo stereotipo, appunto) che le ha prodotte.
Raccogliendo anche una  tradizione filosofica antica, egli sostiene che il rapporto conoscitivo con la realtà esterna non è diretto bensì mediato dalle immagini mentali che di quella realtà ciascuno si forma ( qui il rimando è al mito della caverna- quale metafora della conoscenza- formulato  da Platone nei suoi dialoghi).
Secondo Lippmann, tali immagini mentali, che costituiscono una sorta di pseudo-ambiente con il quale di fatto si interagisce, hanno la  caratteristica di essere delle semplificazioni della realtà, semplificazioni spesso grossolane  e quasi sempre molto rigide. Egli è impietoso nel lamentare l’impreparazione e la scarsa professionalità che dominano nei giornali, il ricorso al luoghi comuni, il limite di lavorare in quello che definisce lo “pseudo-ambiente” delle notizie, la tendenza a raccontare i fatti lasciandosi guidare da scelte ideologiche.. A riprova di ciò, Lippmann condusse uno studio su tutti gli articoli con cui il New York Times – cioè una testata all’epoca ritenuta di grande serietà- aveva raccontato la rivoluzione russa tra il 1917 e il 1920.

                Riassunto della tesi di Lippmann: la conoscenza della realtà  nell'era della  comunicazione di massa viene mediata da immagini mentali che sono semplificazioni grossolane e rigide ( = stereotipi) della realtà del mondo, in verità molto più complessa. In altri termini, gli stereotipi sono funzionali  al processo di semplificazione della realtà.

                Per saperne di più consultare il testo di Francesco Regalzi Walter Lippmann, Nino Aragno Editore, Torino, pp.412  Euro 40.00. Il più noto saggio di W.Lippmann su “ L’opinione pubblica” è stato riedito da Donzelli nel 2004 (pp.304, Euro 13)

                                        

Caratteristiche dello stereotipo.

Gli stereotipi fanno parte della cultura di un gruppo;
Gli stereotipi sono concetti mentalmente consapevoli e svolgono una funzione di tipo difensivo;
Gli stereotipi hanno forma di argomentazioni razionali, in pratica costituiscono il nucleo cognitivo del pregiudizio;
Gli stereotipi si formano mediante  la categorizzazione ( mettere insieme cose simili) , l'inferenza ( andare oltre le informazioni disponibili), l'accentuazione percettiva ( tendenza a percepire gli oggetti  o i soggetti che sono inclusi in una stessa categoria come più simili fra loro di quanto non lo siano in realtà), la generalizzazione e l'astrazione; si riproducono  soprattutto mediante la tecnica del rinforzo ( cioé selezionando le informazioni che li confermano e scartando quelle che li contraddicono).
Gli stereotipi sono formati da un insieme coerente e tendenzialmente stabile di elementi di informazione e di credenze.
Gli stereotipi sono tanto più forti quanto più alto è il grado di condivisione sociale.
Gli stereotipi possono essere sia positivi che negativi.

 

IN SINTESI LE CARATTERISTICHE DEGLI STEREOTIPI SONO:

CONDIVISIONE- OMOGENEITA'- RIGIDITA'.

 

Esempi di manifestazioni concrete di pregiudizi e stereotipi:

  • la questione femminile
  • la questione etnico-razziale
  • l'antisemitismo
  • le marginalità sociali ( es. giovani e anziani )
  • gli omosessuali, i transessuali, i tossicodipendenti
  • le malattie mentali
  • gli zingari, i barboni
  • gli etracomunitari, i rumeni .

                Concentrarsi su “come” si producono e diffondono stereotipi e pregiudizi può essere molto utile, a patto che non si perda di vista il “perché”, cioè  le vere ragioni sociali a cui si riferiscono.
Le spiegazioni dell'origine e del formarsi di pregiudizi e stereotipi sono:
ragioni psicologiche
ragioni cognitive
ragioni sociali
ragioni culturali.

                Pregiudizi e  stereotipi vanno visti e considerati anche come strumento di esercizio di un potere
( es. potere sulle minoranze da parte di gruppi maggioritari).
Infine, pregiudizi e stereotipi  possono essere espressione di processi cognitivi esasperati o esagerati, estremizzati nella loro finalità . In tal caso si assiste  a un uso distorto di processi cognitivi normalmente utili.

LE STRATEGIE DI DIFESA ( Cfr. testo di Bruno Mazzara Stereotipi e pregiudizi pag.97 e seguenti):

  • Fornire in anticipo uno schema di interpretazione alternativo allo sterotipo corrente  ma che svolga la stessa  funzione di tipo cognitivo ( vd. l'esempio  dei turisti israeliani in vacanza in Egitto);
  • Contrastare l'autorealizzazione dei pregiudizi ( es. l'effetto “ Pigmalione”) onde evitare l'effetto “profezia che si auto-adempie” ( es. in ambito scolastico);

Nelle persone oggetto di stereotipi o pregiudizi, favorire la presa di coscienza delle proprie caratteristiche personali. E’ proprio la coscienza di sé ( come persona o come gruppo) il più potente fattore di protezione rispetto alla profezia che si auto-adempie. “ Nessuno ti può far sentire nessuno senza il tuo consenso !” ( frase di Peter Lorenz).

  • Nei rapporti tra i gruppi: ridurre gli impatti negativi e favorire la convivenza e il pluralismo culturale che mira a mantenere le differenze valorizzando ciascuna di esse come arricchimento del patrimonio culturale complessivo. Favorire il contatto fra i diversi ( es. utilità dei viaggi ).

 

 L'interazione per essere efficace deve essere:

       -   lunga e approfondita, non occasionale;
-   basata su uno status simile e non conflittuale;
-   con il supporto istituzionale e culturale.

                              

 

                Il tema  degli  “stereotipi e pregiudizi” -  cioè della realtà che può essere intesa come una “costruzione sociale” ( Berger,,Luckmann, 1969)  - introduce al tema delle RAPPRESENTAZIONI SOCIALI, media e servizio sociale e, per quanto qui ci interessa, alle  rappresentazioni dell'assistente sociale nei testi mediali.    L'argomento è studiato e approfondito da Elena Allegri ( docente  di Metodi e Tecniche  del servizio sociale nell'Università del Piemonte Orientale, dove coordina il corso di laurea in Servizio sociale) nel testo di Elena  Allegri LE RAPPRESENTAZIONI DELL'ASSISTENTE SOCIALE. Il lavoro sociale nel cinema e nella narrativa,  Ed. Carocci Faber, Roma 2006.

                Da quel testo prendiamo  le seguenti argomentazioni.

                RAPPRESENTAZIONE SOCIALE dicesi di “costruzione sociale” determinata dalle definizioni soggettive ( pregiudizi) e collettive ( stereotipi) continuamente scambiate all'interno del sistema sociale  per mezzo della comunicazione sia tramite il linguaggio sia  tramite i mezzi di comunicazione di massa ( MASS MEDIA).
Va da subito sottolineata la specificità del pensiero collettivo in rapporto al pensiero individuale: il primo ( pensiero collettivo) è stabile, mentre il secondo ( pensiero individuale) è variabile ed effimero.

                Le rappresentazioni sociali reperibili nei media possono essere considerate come indicatori di senso comune.
Lo studio della relazione tra scienza e senso comune  si chiama teoria delle rappresentazioni; questa teoria si propone di analizzare il processo attraverso il quale un contenuto passa dall'universo reificato all'universo consensuale. Dell'universo consensuale fa parte anche il simbolo, in quanto un simbolo rappresenta altra cosa da se stesso: è un'idea che alcuni uomini condividono a proposito di un oggetto indipendentemente dall'oggetto stesso.
Anche la professione di assistente sociale, professionista che opera in  situazioni caratterizzate da elevata complessità e da estrema incertezza, è (stata) oggetto di rappresentazioni sociali, il cui studio  è  collocabile al crocevia  disciplinare tra sociologia e psicologia.
Lo scopo principale di  tutte le rappresentazioni sociali è rendere familiare ciò che è inconsueto; il loro processo di formazione necessita dell'attivazione di due meccanismi cognitivi: l'ancoraggio e l'oggettivazione.
Attraverso l'ancoraggio, ciò che è inconsueto viene ricondotto a una mappa mentale di riferimento, a una famiglia, a una classe di fenomeni conosciuti ( e quindi familiari, rassicuranti). E' attraverso l'ancoraggio che una rappresentazione sociale si radica nella società secondo criteri di legittimazione progressiva da parte del gruppo di appartenenza.
Con l'oggettivazione, l'astratto, il non familiare viene reso concreto: in altri termini un'idea imprecisa viene trasformata in una immagine accessibile, naturale. In una fase successiva , può anche accadere che  l'immagine si separa dall'idea originaria fino a prendere il sopravvento su di essa ( è il caso del simbolo).

                Ogni rappresentazione sociale si organizza intorno a un nucleo centrale, che ne è l'elemento fondamentale e  che ne determina il significato. La proprietà essenziale del nucleo centrale è la stabilità, nel senso che il nucleo stesso è costituito dagli elementi più resistenti al cambiamento  Essi prescrivono comportamenti e prese di posizione, consentono una personalizzazione  delle rappresentazioni e dei comportamenti a essa collegati.

                Nelle società postmoderne il maggior produttore di materiale documentario sulla società ( e quindi di rappresentazioni sociali) è costituito dai mezzi di comunicazione di massa: stampa, televisione, cinema, radio, giornali, i romanzi e oggi internet. E' fuori discussione il ruolo determinante che i media hanno assunto nell'influenzare le opinioni soggettive, l'opinione   pubblica e i mercati.

 

                Le rappresentazioni sociali,  al pari degli stereotipi,  svolgono una duplice funzione: da un lato organizzano la percezione del mondo attraverso la comunicazione e gli scambi sociali, dall'altro soddisfano l'esigenza di semplificare la complessità e di far fronte alle novità, rendendo familiare ciò che è ignoto e consueto.

                SERVIZIO SOCIALE E RAPPRESENTAZIONI SOCIALI.

                Il servizio sociale è una di disciplina scientificamente fondata da collocarsi all'interno delle scienze sociali; più precisamente  (Maria Dal Prà Ponticelli, 1985 Elisa Bianchi, 1988; Luigi Gui, 2004) l'attuale definizione parla di disciplina di sintesi  basata sull'uso consapevole di approcci disciplinari diversi per comprendere le cause multifattoriali dei bisogni e dei problemi delle persone e per possedere interpretazioni disciplinari e interdisciplinari che contribuiscano alla elaborazione di metodologie rivolte all'aiuto alla persona  e  alla  promozione del benessere sociale ( Diomede Canevini, 2005, Elisabetta Neve 2008).
Come professione, il servizio sociale può essere definito come un servizio  alla persona in tutte le età della vita.
Tanto premesso,“ Come accade per un iceberg, così della professione di assistente sociale spesso è visibile, attraverso i media, solo la parte che emerge, la punta. E quel che si vede, nel bene e nel male, è rappresentato altrettanto spesso in modo parziale: generalmente donna, in bilico tra la frustrazione personale e l'insensibilità professionale, quasi mai protagonista nelle storie narrate.
L'esempio più eclatante e paradigmatico è l'impegno degli assistenti sociali nella protezione dei minori. Nelle rappresentazioni presenti all'interno dei testi mediali i professionisti sono spesso rappresentati come ladri di bambini e sostanzialmente mai come agenti all'interno di politiche sociali inclusive e, per questo, rivolte alla protezione dell'infanzia”.
Dunque, l'assistente sociale non viene rappresentato nelle molte sfaccettature che ne compongono l'identità professionale, identità che rimane  “prigioniera” di alcune rappresentazioni stereotipiche ricorrenti e   consolidate.  Così come accade per gli iceberg,  i sette ottavi dell'attività degli assistenti sociali e del lavoro sociale più in generale restano sott'acqua, invisibili. E quel che appare  non è sempre il meglio.Come mai?         Dagli studi in materia è stato dimostrato che esiste una relazione diretta tra  ciò che viene trasmesso dai media e ciò che è considerato attraente.  I programmi televisivi comprendono innumerevoli fiction – molte di produzione americana -  che presentano spaccati di vita personale e professionale di  professionisti. E.R. Medici in prima linea, ad esempio ritrae il lavoro quotidiano  nei reparti di pronto soccorso, spaziando dai medici agli impiegati. Law and Order New York Police Department illustra il lavoro di poliziotti, avvocati, giudici, generalmente in una luce positiva.
Per contro, i messaggi riguardo agli assistenti sociali  propongono  figure poco  qualificate e poco formate, quasi mai personaggi principali  della storia narrata ma personaggi secondari,  in tal modo rinforzando stereotipi di basso profilo e sostanziando ritratti  spesso negativi.
I media diventano così parte attiva e integrante del complesso sistema delle rappresentazioni sociali intese come strutture sociocognitive che consentono agli individui o ai gruppi di far corrispondere un concetto a un'immagine ( e viceversa ), trasformando qualcosa di astratto in un  oggetto concreto. Ma i  media sono anche un potente specchio sociale che riflette e invita a riflettere sul livello di stereotipia in relazione  a certi temi, a certe situazioni storiche e , nel nostro caso, a certe professioni sociali.

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BREVE ELENCO DEI TESTI MEDIALI  A CUI  SI FA  RIFERIMENTO:

                FILM:

  • My name is Joe Regia di Ken Loach, Origine Gran Bretagna, 1998.
  • Ladybird, Ladybird Regia di Ken Loach,  Origine Gran Bretagna, 1994.
  • La ragazza di via Millelire Regia  di Gianni Serra, Origine Italia 1980.
  • Un amico  da salvare Regia Simon Vincer Origine USA, 1993.

 

 

                       ROMANZI:
1)  Simonetta Agnello Hornby Vento scomposto Ed.Feltrinelli, Milano 2009

      • Edward Bunker Little Boy BlueEd.Einaudi Stile Libero, Torino 2003
      • Silvana Quadrino La torta senza candeline Ed. Feltrinelli, Milano 1994
      • Fausto Melloni L'estate di Maria Ed.EGA, Torino 1992.

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WELFARE E WELL- BEING. Benessere e capacità di azione

                I riferimenti testuali per questo argomento sono:

  • Il  capitolo “ Benessere e capacità di azione: due facce della stessa medaglia”  in  F.Folgheraiter TEORIA E METODOLOGIA DEL SERVIZIO SOCIALE Ed. Franco Angeli, Roma 1998., pag.88/98.
  • La voce BENESSERE di Domenico Secondulfo in DIZIONARIO DI SERVIZIO SOCIALE Ed Carocci Faber, Roma 2006.
  • Il capitolo 6.6 “ Un approfondimento. Il rispetto e la promozione dell'autodeterminazione” e

6.7 “Considerazioni sull'ambito di concretizzazione dei valori e dei principi operativi” in Elisabetta Neve  IL SERVIZIO SOCIALE. Fondamenti e cultura di una professione Ed. Carocci Faber, Roma2008 pag.196-2003.

  • L'articolo EMPOWERMENT di Bruno Bortoli e Fabio Folgheraiter  nella Rivista LAVORO SOCIALE vol. 2,n.2 Settembre 2002 ( pag.273-281) Ed. Centro Studi Erickson, Trento.

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Il BENESSERE  che deriva dalla capacità di azione e che genera well-being è diverso dal benessere che deriva dal possesso ( welfare) e che è generato dalla mancanza di privazioni.
Il benessere che deriva dalla capacità di azione è differente e PRIORITARIO oggi rispetto a  quello di puro possesso ( F.Folgheraiter, art.cit.pag.93): esse produce stima di sé, sicurezza esistenziale, appagamento, senso di autostima e autoefficacia.
Se il benessere è un sentimento ( di adeguatezza e di autostima), l'autonomia è la condizione che
permette di nutrire questo sentimento o stato d'animo attraverso azioni adeguate ( capacità di azione).
I
Le azioni possono essere:

        • OVERT ACTION     (comportamenti manifesti);
        • COVERT ACTION   (  azioni senza sbocchi esterni come la rinuncia,adattamenti psichici consci o inconsci come per esempio sublimazione del bisogno).

Definiamo autonoma une persona quando questa è capace di autodeterminazione, ovvero:
a) di assumere decisioni appropriate alle proprie contingenze di vita ( cioé  razionale e coerenti con i suoi obbiettivi);
b) di agire concretamente o simbolicamente su  tali contingenze di vita, riuscendo a contrastare eventuali impedimenti o condizionamenti ( interni o esterni a sé).

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                L'autonomia produce benessere ( well-being).

                L'autonomia ( cfr. CODICE DEONTOLOGICO Capo I, art.11) è qualcosa di diverso dall'indipendenza (cfr. articolo citato di F.Folgheraiter) e dall'autodeterminazione( cfr. articolo 6.7  citato di E. Neve).

 

                L'autonomia comporta una situazione di interdipendenza consapevole.

                L'autonomia ha direttamente a che fare con l'identità di una persona, identità che si sviluppa nella relazione con gli altri. Per non sconfinare nell'arbitrio, l'autonomia  comporta il saper conciliare in modo accettabile e  sopportabile le regole di vita proprie con le regole di vita altrui e del contesto sociale  in cui si vive. Ciò comporta altresì  il saper soddisfare le proprie esigenze non in contrapposizione o  indipendentemente dalle esigenze degli altri, ma sviluppando il senso di interdipendenza. Porsi l'obbiettivo di potenziare questa autonomia significa aiutare a sviluppare una serie di capacità umane, razionali e  relazionali ( compreso il senso di responsabilità verso di sé e verso gli altri), specie quando esse sono carenti o ostacolate da fattori sia interni che esterni alle persone medesime.
Lo stato di bisogno o di crisi in cui può trovarsi una persona può essere sia la conseguenza di scarse capacità di autonomia, così come, specie se protratto nel tempo, può provocare una diminuzione o riduzione di autonomia, ad esempio per il grado di disistima di sé che può indurre o provocare.

                Esistono fasi del ciclo della vita in cui la capacità di azione può essere o diventare strutturalmente carente, come per esempio la vecchiaia avanzata o la primissima infanzia. Oppure si possono verificare situazioni o  periodi legati a momenti di crisi (cfr. le nuove povertà di cui alla legge n.328/2000 “ Tutti i cittadini possono incontrare nel corso della vita alcune difficoltà che richiedono assistenza, orientamento e sostegno”).
                Nella relazione di aiuto finalizzata a rinforzare l'autonomia di una persona e la sua capacità di azione e di relazione, le metodologie utilizzabili possono essere, ad esempio, quella dell'empowerment, del counseling, dell'advocacy  ( vedi Dizionario di Servizio Sociale pag. 510-515) e  anche del self-help.

               
L'autodeterminazione.

                L'autodeterminazione è un valore da rispettare in ogni persona ( rispetto ancor più dovuto all'utente o cliente in una relazione di aiuto) perché l'autodeterminazione è espressione di libertà; rispettarla equivale a riconoscere che la dignità della persona investe anche le sue intenzioni, i suoi desideri, le sue scelte, i suoi programmi di vita, le sue mete  e i suoi tempi e modi di realizzarli. Espressione di libertà non significa
“ libertà assoluta” bensì capacità di comportarsi secondo la propria legge, dove avere una legge significa  sapersi dare delle regole e saper usare della libertà senza prevaricare sugli altri. “ Vi è spesso il  problema per l'operatore di scoprire le effettive possibilità di autodeterminazione di una persona, di decifrarne i contenuti, cioé di capire cosa vuole , quali capacità di valutazione, di consapevolezza, di scelta possiede in quel momento”. ( cfr.  E Neve, articolo citato pag.196).
Ancora: va tenuto presente che autodeterminarsi significa anche autoresponsabilizzarsi sia di fronte a se stessi che di fronte agli altri. Vi è sempre un problema di confine della propria con l'altrui autoderminazione e che questo confine, se non posseduto, deve essere appreso ( E. Neve, ibidem pag. 197).

 

                                         
DOMICILIARITA' E DIRITTI DI CITTADINANZA

                Sulla definizione di domiciliarità, cenni storici e nodi problematici il riferimento testuale è la voce DOMICILIARITA' a cura di Marilena Scassellati Galetti in DIZIONARIO DI SERVIZIO SOCIALE pag.208-211.

Si richiamano qui di seguito i punti essenziali relativi a “cosa vuol dire domiciliarità”:

  • Dimensione di vita della persona;
  • L’ intero e l’intorno della persona;
  • Comprende la casa, ma va oltre la casa;
  • Comprende le piccole ritualità, le piccole abitudini che sostanziano la vita quotidiana di una persona;
  • E’ anche l’ambito delle relazioni sociali;
  • Significa “casa-ambiente” intesi come contesto di vita dotato di senso di appartenenza.

“ Fare “ domiciliarità”  fa bene, fa salute, significa sostenere l’autonomia, significa fare “ ben-essere”, significa valorizzare la persona all’interno del suo contesto di vita.
Per esempio nel caso di assistenza  all’anziano/a il Servizio Sociale può promuovere la domiciliarità con programmi  che prevedano interventi quali la consegna dei pasti a domicilio, il lavaggio della biancheria, l’assistenza domiciliare, l’erogazione di contributi economici per il sostentamento o per l’abbattimento delle barriere architettoniche, così  contrastando o limitando di fatto l’ingresso in strutture residenziali per  i cittadini bisognosi di un qualche intervento socio-assistenziale.

N.B. L’assistenza domiciliare è solo una parte del più ampio concetto di domiciliarità (cfr. la voce  del Dizionario citata).

Esperienze e  modalità integrate  tra  pubblico/privato sociale e volontariato  di intervento  attuate nel campo della domiciliarità    sono da considerarsi anche una modalità attuativa del principio di sussidiarietà ( cfr. la voce  SUSSIDIARIETA' a cura di Ivo Colozzi in DIZIONARIO DI SERVIZIO SOCIALE pag.672-675).
Riferimenti normativi sono la Legge  8/11/2000  n.328 “Legge quadro per la realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali”, in particolare gli articoli n.5  e n.22 e la Legge  regionale  Regione Lombardia del 12/3/2008  n.3 “ Governo della rete degli interventi e servizi alle persone in ambito sociale e sanitario”.
Per una puntuale conoscenza del Terzo Settore e  delle organizzazioni non profit, si rimanda alla voce del Dizionario di S.S.  TERZO  SETTORE curata da  Lucia  Boccacin e alla prima pagina della RIVISTA SOCIAL NEWS anno 7- Numero 4 Aprile 2010  ( distribuita in fotocopia durante il corso; la rivista é  comunque  reperibile on line www.socialnews.it. ) che bene illustra come e in base a quali caratteristiche   le organizzazioni non profit si distinguono in:
- Associazioni
- Cooperative sociali
- Fondazioni
- Organizzazioni non governative (ONG)
- ONLUS.
Per un approfondimento della tematica del Volontariato, vedasi l’articolo  di Marco Granelli “ L’evoluzione della solidarietà”  a  pag. 22 della Rivista   SOCIAL NEWS sopracitata.

 

La relazione professionale di aiuto

 La relazione di aiuto può essere definita come l’insieme delle azioni professionali indirizzate al rapporto con la persona, il suo contesto di appartenenza,  l’organizzazione di riferimento.
Questa relazione si caratterizza per gli aspetti tipici di ogni rapporto nel quale un soggetto chiede qualcosa di importante per sé o per una terza persona a chi si  presuppone possieda risposte valide per le proprie richieste.  ( cfr. testo di Zilianti Rovai pag. 48).
La relazione di aiuto si realizza in un contesto specifico che resta ( deve restare) sempre professionale.
La relazione di aiuto si sostanzia nel processo di aiuto ( cfr. testo di Zilianti Rovai pag.51 SCHEDA 2.1 “ Abilità dell’A.S. nel processo di aiuto, mi di teorie e metodologie”.)
Il procedimento metodologico: il professionista A.S. opera secondo un rigore metodologico attraverso l’uso di principi, metodi, tecniche  e/o strumenti che guidano l’azione in maniera scientifica, evitando di procedere in modo meramente intuitivo.
Per procedimento metodologico si intende uno schema di riferimento concettuale che  guida scientificamente l’azione professionale dell’A.S., che serve a orientare la sua azione e a qualificare un intervento di tipo professionale ( cfr. Maria dal Prà Ponticelli, 1987,  in  testo di Zilianti Rovai pag. 53).

Strumenti della relazione professionale di aiuto  presi in esame in questo contesto:

  • Il COLLOQUIO PROFESSIONALE   di servizio sociale, da intendersi come  forma specializzata di comunicazione,  con caratteristiche precise,  precise fasi e tecniche di conduzione.
  • La VISITA DOMICILIARE, da intendersi come intervento professionale caratterizzato da metodologia di attuazione in funzione di specifiche finalità, setting .

 

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      Sull'argomento i riferimenti testuali sono:

  • il capitolo 3 “ La relazione professionale di aiuto  in Annamaria Zilianti e Beatrice Rovai ASSISTENTI  SOCIALI PROFESSIONISTI Ed. Carocci Faber, Roma 2007, cap.3 pag 75-112.
  • La voce RELAZIONE D'AIUTO di Carmen Prizzon in DIZIONARIO DI SERVIZIO SOCIALE 

Ed. Carocci Faber, Roma 2005 pag.532-536.

 

                                       

                                         

                                                                                  Il segreto professionale

                Norma etico- deontologica  e norma giuridica:

 La legge n.119/2001 è la norma che istituisce formalmente il segreto professionale per gli Assistenti sociali,  così disciplinando  giuridicamente quel che fino ad allora era una norma  etica e deontologica  già  patrimonio consolidato della professione.
Il diritto alla riservatezza, fin dai primi anni di esercizio della professione, ha visto un impegno della categoria e poi dell'Ordine  degli Assistenti Sociali  per farlo riconoscere, accettare e rispettare nel proprio operare nei servizi ed enti di appartenenza. Già dagli anni '40 del secolo scorso nella sua relazione sulla  “Fondazione tecnica delle  assistenti socialiOdille Vallin, direttore della Scuola pratica di assistenza sociale di Milano, scriveva: “ Nella morale professionale sarà messo più fortemente l'accento sopra alcuni punti, come per esempio il segreto professionale.”  e ancora : “ Questo senso di rispetto per le persone, questo senso acuto di responsabilità deve rendere gli assistenti sociali estremamente rigorosi circa il loro segreto professionale... Ciò che è loro affidato sono vite umane, dolori umani dei quali devono servirsi solo con il permesso dell'interessato, anche se si trattasse di ottenere un vantaggio per questo interessato”.
Parole che conservano tutta la loro forza di verità nella nostra società, dove non  è né semplice  né facile prendere decisioni nel rispetto della riservatezza (norma etico-deontologica) e del segreto professionale (norma giuridica) in particolare nei rapporti con la Magistratura, quando si è chiamati a rendere testimonianza  nel processo penale,  o nella denuncia di un reato di cui si è venuti a conoscenza nello svolgimento del proprio intervento ( cfr. per esempio il reato di clandestinità introdotto nel cosiddetto  “Pacchetto sicurezza” del 2009).
La problematica va affrontata avendo attenzione alla necessità di far ricorso a una metodologia professionalmente  corretta che sappia tenere conto della norma giuridica ma anche delle norme etiche e deontologiche che la professione si è data. Particolare attenzione- nella relazione di aiuto -  va dedicata alla prospettiva dell'aiuto al singolo, da coniugarsi con il rispetto delle esigenze della collettività ( e i due piani non sono sempre coincidenti o sovrapponibili). Di fatto, nell'esercizio della professione, si è chiamati a orientarsi  ( e bisogna sapersi orientare) nella – spesso non facile – scelta fra osservanza dell'obbligo del segreto e denuncia dei comportamenti penalmente rilevanti, tenendo in seria considerazione il rapporto che si va a instaurare con le persone, per raggiungere gli obbiettivi radicati nell'intervento della professione stessa e per una autonomia professionale matura e responsabile.
Infine, una attenta e approfondita riflessione sulla materia porta a dire che vi possono essere casi per i quali  nella relazione di aiuto  un rapporto  operatore-utente o cliente basato sul principio di LEALTA' deve prevalere sul rapporto basato sulla FIDUCIA ( tale è per esempio nel caso dei soggetti obbligati da un provvedimento della Magistratura a entrare e restare in contatto con i Servizi Sociali).

Sull'argomento i riferimenti  testuali sono il  Codice Deontologico, 3a edizione  Capo III Riservatezza e segreto professionale, art. 23-32.  e la voce  SEGRETO PROFESSIONALE  di Antonietta Pedrinazzi in DIZIONARIO DI SERVIZIO SOCIALE   Ed.Carocci Faber, Roma 2005 pag 571-576.

 

                Milano, Giugno  2012                                                     

  Preambolo in cui si spiega il ruolo del metodo del servizio sociale cfr. Neve (2000)

 Possibili approfondimenti col testo I modelli teorici di servizio sociale, 1987, di Dal Pra Ponticelli

Fonte: http://www.sociologia.unimib.it/DATA/Insegnamenti/14_3436/materiale/dispensa%20completa%20giugno%202012.doc

Sito web da visitare: http://www.sociologia.unimib.it/

Autore del testo: PROF.   ANTONIETTA PEDRINAZZI

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