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Lessico e parole-chiave: carità, beneficenza, assistenza, sicurezza sociale.
“ Per il tempo che le parole sono nella tua bocca sei il loro signore; una volta pronunciate, sei il loro schiavo” ( da Una nuvola come tappeto libro di Erri De Luca, Feltrinelli pag. 109).
Le parole vanno prese sul serio, vanno considerate nei loro molteplici significati e i loro molteplici significati vanno visti nei contesti storici, sociali e culturali e anche professionali nei quali esse vengono utilizzate. Le parole sono strumento principe di comunicazione e di relazione e, come tali, vanno valorizzate e usate scientemente, analizzate nei loro significati; accade spesso che il significato delle parole, la loro forza intrinseca e la loro capacità di “ nominare” e di definire si annebbiano. Le parole si ottundono, diventano come ottenebrate e indebolite, banalizzate dall'uso quotidiano e abitudinario, vengono per così dire “abusate”. Ciò accade alle parole di tendenza, di moda, alle parole obbligate dai rituali, dalle appartenenze, dalla ricerca del consenso o del successo.
Ma vi sono parole che non si piegano, che non accettano significati banali o sovrapposti e non si inchinano davanti a un uso qualunque.
Diventare consapevoli di ciò è l'anticamera di qualsiasi professione.
Volendosi avvicinare a una professione , la prima cosa da fare è conoscerne il lessico, le parole chiave e impadronirsene. Per esempio, emarginazione, devianza e criminalità non sono sinonimi o parole equivalenti, bensì:
EMARGINAZIONE: è lo status di chi di fatto, anche non intenzionalmente o contro la sua volontà, si trova situato all’esterno di gruppi socialmente apprezzati (per cultura, nazionalità, lavoro, famiglia);
DEVIANZA: definisce la situazione sociale di chi pone in essere una condotta di infrazione della norma sociale, un comportamento non conforme ai modelli e alle aspettative istituzionalizzate, chi attua una o più violazioni delle regole sociali. La devianza presuppone la conoscenza e consapevolezza della norma sociale e stigmatizzazione del comportamento deviante da parte dei membri della comunità sociale di appartenenza, comportamento deviante avvertito come disfunzionale o pericoloso ( es. abbandono scolastico, fuga da casa etc.);
CRIMINALITA’: si ha un comportamento criminale quando vi è violazione intenzionale e consapevole ( in altri termini si ha la capacità di intendere e di volere) di una norma incriminatrice di diritto penale ( in senso tecnico: reato).
Prendiamo in esame, sempre a titolo di esempio, un' altra parola che, nell'uso corrente, non ha nulla di speciale ma che, traslata nell'ambito della disciplina e del lessico del servizio sociale, acquista grande peso e vari pregnanti significati, anche in riferimento all'operatività. Si tratta del termine TERRITORIO (cfr. Dizionario di servizio sociale, Ed.Carocci Faber ,Roma 2005 pag. 709, voce redatta a cura di Maria Rosa Guerrini). In tale contesto la parola esprime un concetto più ampio del solo senso geografico, perché riassume in sé altri significati quali ambiente, contesto, comunità. Inoltre, per il servizio sociale il territorio può essere preso in considerazione o come insieme circoscritto e determinato di bisogni e/ di problemi sociali, come rete di risorse, come ambito di prossimità etc. In altri termini, per il servizio sociale il/un territorio può essere preso in considerazione come problema oppure come risorsa. Vedrete questi diversi possibili approcci nel corso del tirocinio di questo primo anno e all'interno del corso di Metodologia della Ricerca, dove vi sarà dato modo di tornare sul tema “ TERRITORIO” e approfondirne i significati, le potenzialità e la valenza per il servizio sociale.
Nell’area del Servizio Sociale, parole come carità, beneficenza, filantropia, assistenza, sicurezza socialenon hanno il significato che attribuiamo loro nel linguaggio comune e quotidiano di oggi e nemmeno sono sinonimi, ma rimandano a precisi significati e a precisi periodi storici, a partire dagli albori della nostra storia ( cfr, testo di Bruno BORTOLI “Teoria e storia del servizio sociale” Ed. NIS La Nuova Italia Scientifica Roma 1997, Parte prima pagg.29-91). Ancora un esempio, su cui chiedo un'attenta riflessione. Si tratta della parola RESPONSABILITA': una parola complessa, dai molti possibili significati (morale, civile, amministrativo, penale), la cui origine é dal latino responsum , un intensivo del verbo respondere. Il responso è la risposta pubblica che nell'antichità personaggi sacri quali l'oracolo, i vati o le sibille davano a chi li interrogava, e nel dare tali risposte prendevano su di sé, si assumevano pubblicamente, cioé davanti al popolo o alla comunità intera, la responsabilità ( ovverossia l'onere delle conseguenze) di quel che dicevano, perché quel che dicevano poteva cambiare la storia e la vita di quel popolo e di quelle persone ( pensate al mito di Edipo). Ebbene, la parola RESPONSABILITA' nel linguaggio del Servizio sociale ha un significato di grande rilevanza deontologica e professionale: il Codice deontologico degli assistenti sociali è basato su un vero e proprio sistema di diversi livelli di responsabilità ( cfr. Titolo I art.1) come avremo modo di approfondire in seguito.
Chiudo questa riflessione sul significato specifico e profondo , talvolta programmatico, che parole comuni assumono quando sono introdotte all'interno del linguaggio professionale citandone due insieme: BISOGNO e PROBLEMA. Ebbene, questi due termini che nell'uso quotidiano vengono usati quasi fossero sinonimi o interscambiabili, nell'ambito del servizio sociale rimandano a significati ( e a possibili interventi professionali ) molto diversi, tant'é che concludo con una domanda: come si fa a trasformare un bisogno in problema? Perché questo deve saper fare l'assistente sociale.
Evoluzione dei termini carità, beneficenza, assistenza in rapporto al contesto storico-sociale:
Il termine CARITA’ nel suo senso originario esprime una buona disposizione d’animo, un atteggiamento positivo, una relazione di affetto, amicizia o solidarietà ma anche di gentilezza che si instaura tra familiari ( agape in greco ) o appartenenti a una piccola comunità di persone, in ambito esterno alla famiglia ( tale è il senso del termine caritas latino); sedaquah in ebraico, elemosyne in greco, è il termine usato per indicare l’azione compiuta o il dono reso per un senso di dovere religioso. In ogni caso il concetto di carità, nel suo senso storico originario, non aveva un valore “ commerciale” o un senso istituzionale, bensì aveva il significato di legame fra persone basato sul concetto di eguaglianza ( in senso orizzontale-circolare) e caratterizzava le comunità cristiane primitive, che erano piccole comunità. In tale contesto, il termine “carità” era abbinato al termine “giustizia”.
Esprimevano bene questo concetto la comunione dei beni fra i membri della comunità e i pasti consumati in comune ( cfr. IL CENACOLO di Leonardo da Vinci). In queste piccole comunità, la povertà era esaltata come forma di vita , come valore spirituale e aveva carattere volontario; in altri termini, l’avvento del cristianesimo elevò la carità a virtù che doveva informare tutta la vita cristiana nel suo contesto: giuridico, economico e sociale.
Il concetto di carità nel corso del tempo è stato associato con beneficenza, assistenza e filantropia, tutti termini che contraddistinguono azioni di soccorso ai poveri da parte della società che -agendo attraverso idonee strutture - fornisce soccorso ai poveri, ai deboli, alle vedove, agli orfani e agli ammalati. Questo può accadere perché, dopo l’editto di Costantino ( IV sec. d.C.) e con Teodosio (VI sec.d.C.) la religione cristiana divenne religione di stato, con una propria organizzazione gerarchica (vescovi, diaconi). Anche il diritto positivo si informò al precetti cristiani, così sorsero istituzioni religiose (chiese, monasteri, ordini religiosi, confraternite ) che da un piano meramente di culto e di modus vivendi passarono ad assumere evidenza, ruolo e potere nella società.
E’ questo il punto in cui parlare del DECRETUM GRATIANI. Graziano era un monaco camaldolese, insegnante di teologia in un monastero di Bologna vissuto nel secolo II°. E’ l’autore della prima raccolta di diritto canonico compilata tra il 1140 ei 1142, il cui titolo ufficiale è Concordia discordantium canonum ma che divenne nota col suo nome, Decretum Gratiani . Si tratta di una raccolta sistematica di tutte le leggi ecclesiastiche, la quale costituisce il fondamento della giurisprudenza ecclesiastica e che dimostra la concordanza fra legge civile ed ecclesiastica. Con il DECRETUM GRATIANI del II secolo prende forma la giurisprudenza canonica: le strutture religiose (monasteri, chiese, ordini religiosi ) assumono personalità giuridica e capacità di diritti, ossia possono sia detenere che alienare beni mobili e immobili. Le fondazioni religiose diventano soggetti titolari di diritti patrimoniali con potere di autonoma disposizione del patrimonio e possibilità di ereditare (dottrina definitivamente elaborata da Papa Innocenzo IV° ).
Prende forma così il concetto di BENEFICENZA: la ricchezza, insegnano i Padri della chiesa ( cfr. S.Basilio ne “ Il ricco insensato” ) non è un male in sé ma un male quando viene tenuta ferma, accumulata; se viene fatta circolare, è un bene e si giustifica se serve a fare beneficenza. In questo senso, la beneficenza è un atto verticale dall’alto verso il basso: chi ha dà a chi non ha, c’è chi dà e chi riceve secondo una logica che ammette la differenza fra le persone, cioè giustifica la disuguaglianza.
In un contesto cristiano, la ricchezza è ammessa e “buona cosa” se serve a fare beneficenza e a guadagnarsi così un posto in paradiso.
Con il Medioevo e al tempo del feudalesimo, la beneficenza si evolve in ASSISTENZA, cioè in attività caritative poste a carico dell’ istituzione ecclesiastica che la esercita attraverso le Confraternite, attraverso le istituzioni ospedaliere sorte presso i monasteri, attraverso i lebbrosari o i lazzaretti e le fondazioni dovute a pii benefattori, in quanto l’intervento pubblico è sconosciuto al mondo medievale ( cfr. il quadro di CARAVAGGIO Le sette opere di misericordia ).
Il 1492 è un anno cruciale perché la scoperta dell’America segna per l’Europa l’inizio della trasformazione dell’economia da economia rurale ( feudalesimo), mercantile e artigiana ( l’epoca dei comuni) a economia basata sui traffici commerciali ( cfr. la nascita e le attività commerciali svolte dalle compagnie inglesi e olandesi) e sulla produzione industriale( cfr. la rivoluzione industriale inglese). Con l’ascesa delle classi mercantili nasce la borghesia insieme con il capitalismo ( VI secolo ) e l’assolutismo regio ( VII secolo). La trasformazione economica “libera” enormi masse di persone il cui sostentamento era legato alla terra: si assiste in Europa a fenomeni sociali quali il PAUPERISMO e il VAGABONDAGGIO cioè la circolazione sregolata di enormi masse errabonde prive di sostentamento e portatrici di malattie. Con il VI° secolo, la povertà acquista un significato negativo: il povero diventa sospetto,pericoloso, ( (cfr. testo del Bortoli citato, pag.34) o perché malato o perché ruba ( per mangiare).
Testo di approfondimento: Jacques Le Goff Lo sterco del diavolo. Il denaro nel Medioevo Editori Laterza, Bari 2010.
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ASSISTENZA PUBBLICA ( origine e definizione):
Sulla scorta di:
- cambiamenti economico-sociali (VI secolo);
- il pensiero e l’opera “De subventione pauperum” dell’ umanista Juan Louis Vives
( 1492-1540);
- il pensieri protestante calvinista e la sua nuova etica del lavoro;
( sec.VI a Ginevra e in Scozia, sec.VII in gran parte dei Paesi Bassi e in Nuova
Inghilterra).
Nasce la nuova strategia assistenziale nei confronti dei poveri, che ora vengono distinti in “buoni” (e pertanto meritevoli di assistenza) e “ cattivi” ( e pertanto non meritevoli di assistenza).
Numerose città tedesche e fiamminghe (Norimberga 1522, Kitzingen 1523, Strasburgo 1523, Ratisbona 1523, Ypres 1525) introdussero nuovi sistemi di assistenza ai poveri. Il modello adottato da YPRES ( accentramento municipale autonomo dei fondi per i poveri in una cassa comune, parrocchia ente gestore dei fondi ) fu applicato in mezza Europa. Le finalità del nuovo sistema di assistenza erano due: garantire l’ordine pubblico e garantire la sanità pubblica. Così al clero venne tolto il monopolio dell’assistenza per darlo al Governo, che in quelle città era il Consiglio Municipale. Cardini del nuovo modello erano: centralizzazione e municipalizzazione.
I poveri vengono stigmatizzati e costretti a portare un contrassegno visibile. I mezzi usati nei loro confronti sono l’ istruzione - a partire dai bambini abbandonati - e rieducazione mediante l’obbligo al lavoro. (Per saperne di più vedi il testo G.Alasia G. Freccero M.Gallina F.Santanera ASSISTENZA EMARGINAZIONE E LOTTA DI CLASSE Ieri e oggi Ed Feltrinelli, Milano 1975) (Ma Weber L’ETICA PROTESTANTE E LO SPIRITO DEL CAPITALISMO Ed.BUR RCS Milano 1994)
1600: ASCESA DELLE CLASSI MERCANTILI E ASSOLUTISMO REGIO:
Il concetto di SICUREZZA SOCIALE si afferma nel VII secolo con il sorgere e consolidarsi degli stati assoluti ( Francia, Spagna, la Russia di Pietro il Grande, l’Olanda, l’ Inghilterra): è in quel periodo storico-sociale che garantire l’assistenza diventa un obbligo dello Stato, a tutela della collettività dei sudditi (aristocrazia e borghesia). Infatti, anche attraverso l’assistenza lo Stato garantisce l’ordine pubblico. Così si assiste a un progressivo abbandono delle forme tradizionali di beneficenza e assistenza a favore di un intervento statale sempre più massiccio, specie per contenere il dilagante pauperismo urbano. Ne è un esempio la fondazione, nel 1656 a Parigi, da parte di Luigi IV°, dell’Ospedale Generale quale luogo di detenzione per ogni sorta di esclusi, mendicanti o handicappati.
Il 16OO è il secolo del FENOMENO DELL’INTERNAMENTO in parallelo – e in risposta -al crescere del fenomeno del pauperismo ( 1550-1650). La reclusione in hospitales (ospedali) delle classi misere assume una portata tale da potersi parlare di “universo concentrazionale”.
In Francia, la Salpetrière è il più grande ghetto d’Europa, mentre la Bastiglia raccoglie i devianti delle classi agiate, i nobili impoveriti o decaduti.
Il VII secolo conosce però anche un rinnovato slancio della carità con Vincenzo De’ Paoli (Vincenzo de Paul, 1576-1660) che alla beneficenza contrappone ( in un’ottica di rinnovamento nel modo di concepire l’assistenza) il rapporto assistente-degente e avvia le prime forme di assistenza domiciliare. La sua prima realizzazione organizzativa, nel 1617, è quella delle Confraternite della carità, composta dalle “ dame della carità” : le associate, donne sposate, vedove o nubili, si chiamavano “serve dei poveri”. Le varie opere avviate da S.Vincenzo de’ Paoli appaiono via via come tanti centri concentrici: prima i malati da assistere a domicilio, poi i bambini abbandonati, poi ancora i condannati ai lavori forzati e infine i vecchi malati e coloro che hanno smarrito la ragione. Per tutte queste categorie di poveri divenne preziosa l’opera delle Dame e delle Figlie della Carità, congregazioni fondate da S.Vincenzo nel 1633 insieme a Madame Le Gras e Luisa di Marillac; quest’ultima è stata proclamata santa dalla Chiesa cattolica e nel 1960 da Papa Giovanni III è stata eletta a patrona degli assistenti sociali. ( cfr. il testo di Bruno Bortoli I giganti del lavoro sociale Ed. Erickson, 2006 pag.111-115).
Sempre nel VII secolo, In Inghilterra prosperano le Work Houses, le case-lavoro dove vengono ristretti i poveri vagabondi e il lavoro, visto come mezzo di redenzione sociale, è obbligatorio.
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Per saperne di più sulla figura e l'opera di Vincenzo De' Paoli consultare il testo di Luigi Mezzadri VINCENZO DE' PAOLI Il santo della carità, Città Nuova Editrice, Roma 2009.
Dall'introduzione al testo: “Quando Vincenzo De' Paoli (181-1660) fece i primi passi nella vita, era uno dei tanti contadini. Non aveva sangue blu nelle vene, la sua era una cultura che non gli permetteva di scrivere grandi opere, ogni carriera gli era preclusa.. Eppure, mentre tanti si domandavano il perché delle cose, egli capovolse tutti i valori moderni chiedendosi: “Perché no?” Perché non si può cambiare, innovare, migliorare? Fu questa la domanda del coraggio, della missione, del carisma della carità”.
Inghilterra: la Poor Law di Elisabetta 1a ( Old Poor Law, 1601) e i successivi interventi legislativi.
Elisabetta Tudor, figlia di Enrico VIII e Anna Bolena- la seconda moglie di Enrico VIII ( che di mogli ne ebbe ben sei)- Elisabetta 1a, regina d'Inghilterra dal 1558 al 1603, che durante i suoi 44 anni di regno rese l'Inghilterra grande e famosa, la regina “astuta come la volpe e tenera come l'agnello”, come lei stessa si definiva, la sovrana che ha favorito la nascita del teatro shakespeariano. Per chi vuole approfondire c'é il bel libro-romanzo di Nadia Fusini Lo specchio di Elisabetta , Ed.Oscar Mondadori, Milano 2002 ( che consiglio di leggere a chi vuole conoscere da vicino il personaggio).
In questo contesto a noi interessa la sua opera di legislatore e a tal fine citiamo La Poor Law ( Old Poor Law) del 1601, altrimenti detta la Poor Law di Elisabetta 1a, che rappresenta la codificazione di tutta la precedente legislazione sul soccorso ai poveri ( cfr. testo di Bruno Bortoli Teoria e storia del servizio sociale Ed. NIS, Roma 1997, pagg. 52/53).
Sempre in Inghilterra: nel 1662 viene promulgata la legge sulla residenza ( e, per contro, sull' espulsione), che rappresenta il tentativo post feudale di obbligare i contadini a rimanere nei loro villaggi; il 1696 è l'anno della promulgazione del Work House ACT, provvedimento legislativo che prevedeva per i poveri disoccupati la reclusione nelle case-lavoro (in realtà, una sorta di prigioni) strutture ove il lavoro, inteso come mezzo di redenzione sociale, era obbligatorio; vi si insegnava soprattutto il lavoro di manifattura tessile, fornendo in tal modo manodopera alle industrie tessili della rivoluzione industriale che ebbe luogo in Inghilterra anche grazie all’invenzione della macchina a vapore da parte di Giacomo Watt, oltre che allo sviluppo dell’industria mineraria e dell’agricoltura; 1795, Speenhamland ACT: la legge autorizzava a versare assegni assistenziali al domicilio ai poveri; istituzione della scala del pane (una sorta di “scala mobile” economica dell’epoca); 1834, New Poor Law, in conseguenza della quale furono costruite 200 case di lavoro e si ridussero, è vero, le spese assistenziali a carico dello Stato ma si rese la vita nelle case di lavoro pressoché intollerabile per coloro che vi venivano rinchiusi.
1844: sorge, in Inghilterra, la prima cooperativa.
SECOLI VII-VIII-I
Francia: sec.VII: assolutismo regio e fenomeno dell’internamento parallelo al crescere del pauperismo (1550-1650) che proprio con l’internamento dei poveri si voleva contrastare e contenere; a tal fine vennero “riconvertiti” i lazzaretti ( ve n’erano 19.000 in Europa!). Secolo VIII e avvento dell’ILLUMINISMO, che afferma il principio della separazione dei poteri ( Montesquieu) e il principio secondo cui la legge è uguale per tutti ( Voltaire, Montesquieu), cioè parità di tutti i cittadini di fronte all’autorità dello Stato, simbolizzato dalla giustizia.
1789: è l’anno della Rivoluzione francese, che nella storia dell’assistenza rileva perché con essa si afferma il principio dell’assistenza come diritto dei citoyens (i cittadini, i borghesi) e dovere dello Stato .
N.B. : questo principio è giunto fino a noi e vige tuttora.
1790: in Francia viene creato un Ente di Assistenza pubblica, incaricato di risolvere i problemi della mendicità.
In Italia: nel rinnovato slancio della carità simboleggiato da Vincenzo De’ Paoli ( 1576-1660), la Chiesa partecipa al processo di rinnovamento dell’assistenza.
Sempre in Italia,si assiste altresì alla modernizzazione del diritto penale in senso liberale avviata da Cesare Beccaria ( 1738-1794) con la sua opera Dei delitti e delle pene ( 1764).
Solo nel 1890 con l’emanazione della legge Crispi ( legge del 17 Luglio 1890) in Italia si manifesta un orientamento politico verso un sistema di sicurezza sociale sancendo, con tale legge, la necessità di un controllo statale sulle tante istituzioni, prevalentemente a carattere religioso, di assistenza e di beneficenza. Tale legge trasformava le opere pie in istituzioni pubbliche di beneficenza, fissava alcuni diritti del povero, istituiva il “ domicilio di soccorso” in base al quale il Comune deve provvedere al ricovero ospedaliero e alle altre forme di assistenza. Si definiva osì la figura giuridica del povero, regolarmente schedato in appositi elenchi annuali.
Attorno al 1890, su iniziativa del Partito Operaio Italiano ( sorto nel 1882 e detto il “partito delle mani callose” perché vi si potevano iscrivere solo lavoratori manuali), sorgono in Italia le prime CAMERE DEL LAVORO ( quella di Milano sorse nel 1891), la cui funzione preminente è legata al collocamento per disciplinare il mercato del lavoro. Nella C.d.L. di Milano operò la prima lavoratrice sociale assunta a tale scopo, Santa Volontieri.
Il compito delle C.d.L. si esplicò con efficacia nel prevenire il pericolo di agitazioni sociali, coordinando le ragioni degli operai con quelle dei padroni.
1892: nascita del Partito Socialista; 1906 nascita della CGIL , Confederazione Generale Italiana del Lavoro.
L’impegno dei Partiti di cui sopra e delle Camere del Lavoro per l’elevamento morale e culturale, per l’assistenza ai lavoratori e ai disoccupati saranno da stimolo alla creazione di una LEGISLAZIONE PUBBLICA in materia di assistenza allora del tutto mancante in Italia. Per esempio: nel 1923 nascono le IPAB ( istituzioni pubbliche di assistenza e di beneficenza); nel 1928 a Roma viene istituita dal Partito Nazionale Fascista la prima scuola di servizio sociale ( in quel contesto ideologico- cfr. legge Serpellon- all’assistenza sociale si attribuiva una funzione riparatrice); con la legge del 3 Giugno 1937 n. 847 le “congregazioni di carità” vengono sciolte e sostituite dall’ECA, che assume tutte le attribuzione prima assegnate alle congregazioni di carità. Scopo dell’ECA era quello di “assistere gli individui e le famiglie che si trovino in condizioni di particolare necessità” ( art.1). ( Per saperne di più consulta il testo di G.Alasia,G. Freccero,M.Gallina,F. Santanera Assistenza emarginazione e lotta di classe Ed. Feltrinelli, Milano 1975, pagg.103/117).
Torneremo si questi aspetti della storia italiana più avanti quando parleremo delle prime scuole di assistenza sociale e della nascita del Servizio Sociale in Italia.
VERSO UN SISTEMA DI SICUREZZA SOCIALE
Il movimento filantropico nell'Inghilterra del I° secolo.
La filantropia e gli albori del case-work.
FILANTROPIA: comporta gratificazione per colui o colei che la esercita; si concretizza in un intervento indifferenziato verso chi lo chiede ( elemosina indiscriminata).
Nella prima metà del secolo in Inghilterra si hanno fenomeni e movimenti sociali di grande rilievo quali il sorgere di cooperative e scuole di istruzione per adulti, a opera dei cristiano-socialisti, l'esercizio della filantropia da parte delle donne dell'aristocrazia e della borghesia quale strumento , per loro, di emancipazione ( Elisabeth Fry, 1780-1845, Florence Nightingale, 1820-1910, Beatrice Potter, 1858-1903), lo svilupparsi della filosofia positivista ( Auguste Comte “Catechismo della religione positiva”, opera nella quale Comte sostituiva l'umanità a Dio), la nascita del movimento politico-sindacale delle Trade Unions, la nascita delle cooperative ( la prima nel 1844 a Rochdale, a opera dei cartisti).
Verso la metà del I secolo, in Inghilterra operano numerose associazioni caritative, in un intreccio talvolta caotico, un patchwork è stato detto ( cfr. il testo di P.Benvenuti e D.A. Gristina La donna e il servizio sociale Ed. F. Angeli 1998, pag 73/85).. Per mettere ordine al loro interno e coordinare le donazioni dei privati, nel 1869 si costituisc la Society of Organising Charitable Relef and Repressing Mendicity, successivamente trasformata in Charity Organisation Society, la cui azione si protrarrà nel tempo tanto da essere attiva ancora oggi con il nome di Famili Welfare Association. Scrive in proposito B.Bortoli a pag.74 del suo testo TEORIA E STORIA DEL SERVIZIO SOCIALE: “ Fu il reverendo Henry Solly (1813-1903) a raccomandare, nel 1868, l’istituzione di un ufficio preposto al coordinamento delle attività dell’assistenza pubblica e privata, ma lo spirito guida della Società fu sir Charles Stewart Loch, che operò dal 1875 al 1915 come suo segretario. Tra gli altri membri più noti della Società spiccarono Octavia Hill e il reverendo Samuel Barnett, che fu anche ispiratore del movimento dei Settlement.” ( di quest’ultimo movimento parleremo più avanti).
Le Charity Organisation Society ( C.O.S.) si mossero su basi filantropiche , operando per alleviare i disagi ai poveri ma distinguendo, secondo la cultura e l'ideologia dell'epoca, fra i “ meritevoli” di aiuto e gli “immeritevoli”, coloro cioé che si riteneva approfittassero dell'aiuto per restare passivi e vivere da irresponsabili.
Le C.O.S. e soprattutto le operatrici che le animano pongono le basi del CASE-WORK e modellano la figura del nascente social worker ( operatore sociale ) come colui - o forse meglio colei- che deve porre attenzione ai problemi ma anche alle cause individuali di essi , che deve darsi come obbiettivo il rispetto del povero e della sua dignità e che a tal fine , per meglio adempire il suo compito, ha necessità di tecniche operative e di formazione.
Si avviano allora forme di addestramento per volontari e già nel 1883 le segretarie dei comitati sono pagate per svolgere compiti di istruzione e di supervisione in merito a visite domiciliari, registrazione dei casi e compiti amministrativi. Si prospetta anche una forma di specializzazione nell'intervento sociale con la figura dell'almoner, l'elemosiniere, che da originario distributore di elemosine e da operatore della carità si trasforma in una sorta di assistente sanitario che segue il malato perché tragga vantaggio, il maggior vantaggio possibile, dalle cure mediche. A ricoprire per prima questo ruolo è Mary Stuart, chiamata nel 1895 presso il London Royal Free Hospital di Londra a controllare che non si verifichino abusi nelle cure ospedaliere. Nei fatti, Mary Stuart seppe dare al suo lavoro di “elemosiniera” più ampi e positivi contenuti al suo lavoro quotidiano, interessandosi ai bisogni socio-famigliari - e non solo sanitari – dei suoi assistiti, contribuendo all'avvio del, così diremmo oggi, servizio sociale ospedaliero.
E già ancora prima, nel 1879, si erano poste le basi di una forma di intervento che più o meno 50 anni dopo, nel 1933 per l'esattezza, diventerà il PROBATION SERVICE, un servizio reso a coloro che avevano commesso reati di modesta entità e, anziché venire incarcerati, venivano sottoposti a una forma di libertà vigilata e affidati ai membri dell'a Anglican Temperance Society. Tale società, nata per lottare contro l'alcolismo, successivamente ampliò il suo campo di intervento a diverse forme di disagio sociale e di devianza. Ai membri della società i Tribunali affidavano quelle che oggi definiamo indagini sociali e ambientali e la predisposizione di programmi individuali e piani di intervento per il rientro a casa dei carcerati, mansioni su cui successivamente si modellerà la figura del probation officier.
Oltre che all'individuo, il lavoro sociale inglese delle origini dedica la sua attenzione e i suoi interventi anche alla dimensione del vivere sociale e dei rapporti con gli altri, ponendo le premesse di future metodologie quali il group-work e il community -work.
A questa attenzione per la dimensione sociale del vivere si ispira, nei primi anni del I secolo, il movimento dei Settlements, insediamenti abitativi di persone della borghesia (spesso giovani studenti universitari ) nei quartieri poveri di Londra o di altre città industriali ( Glasgow, Liverpool), con lo scopo di creare rapporti di convivenza e buon vicinato fra i vari strati della popolazione mediante attività di alfabetizzazione, di studio, di gruppo etc.
Il primo settlement ( denominato Toynbee Hall e situato nell' East End di Londra), fu fondato dal parroco Charles Barnett nel 1884 con l'intenzione di creare un “ponte” fra ricchi e poveri, studenti e operai, per imparare gli uni dagli altri. L'esperienza o meglio l'esperimento suscitò molte critiche ma anche un vasto successo; la sua eco rimbalzò fin negli Stati Uniti dove nel 1889 a Chicago Jane Addams ( 1860-1932 ) sociologa americana, prima donna a ricevere nel 1931 il Nobel per la pace, figura importante nella storia del servizio sociale- come vedremo più avanti- fonda la Hull House, dopo aver visitato Toynbee Hall.
Nel movimento dei Settlements spicca altresì, in qualità di promotrice, la figura della filantropa e operatrice delle C.O.S. Octavia Hill ( 1838-1912) che molto si impegnò per il miglioramento delle abitazioni delle classi povere, sostenendo che “ non ci si può occupare delle persone e delle loro case separatamente”. Manifestando di possedere un notevole spirito imprenditoriale, con l'aiuto di donazioni di benefattori acquistò case in rovina, le fece riparare e le diede in affitto alle famiglie povere, coniugando l'aiuto ai singoli, di cui cercava di promuovere l'autonomia, con quel che oggi definiremmo lavoro di comunità.
Alle C.O.S. e alle loro modalità operative si fanno risalire le origini pragmatiche e metodologiche dell'intervento professionale: stiamo parlando del case-work, la prima tecnica di lavoro sociale che si sia data un impianto teorico nella storia della professione grazie a una delle figure fondamentali della storia del servizio sociale americano ( ma forse anche di tutto il servizio sociale ) vale a dire Mary Richmond che in materia pubblicò due testi: The social diagnosis nel 1917 e What is social case-work? nel 1922. In questo secondo testo Mary Rchmond dimostrò di aver raccolto, sotto stimolo della nascente psicoanalisi, l'importanza delle motivazioni psicologiche accanto a quelle razionali della volontà e individuò lo scopo del case-work nello sviluppo della personalità e il metodo del case-work nello “insieme dei procedimenti che sviluppano la personalità attraverso un adattamento realizzato coscientemente, individuo per individuo, tra gli uomini e il loro ambiente sociale”.
Dunque, il 1869 nella storia del servizio sociale va evidenziato come l'anno di nascita delle C.O.S., ispirate dal reverendo Henry Solly. Si trattò di uffici preposti al coordinamento delle attività di assistenza pubblica e privata .Figure di grande rilievo all’interno della Società furono- come già detto sopra- sir Charles Stewart Loch, primo segretario e Octavia Hill.
Il sistema assistenziale promosso dalle C.O.S., sorto per contrastare la filantropia indiscriminata che elargiva a chiunque con l'effetto paradosso di dar luogo a sprechi e incentivare il pauperismo, prevedeva uffici al cui interno lavorava un operatore (agent) di distretto stipendiato dalla C.O.S. e operatori volontari benestanti. Siamo agli albori del servizio sociale, perché dall'attività delle C.O.S. ha avuto empiricamente origine il metodo del case-work (teorizzato all'inizio del '900 da Mary Richmond in America e da Alice Salomon in Germania), modello di intervento sociale basato sul principio della individualizzazione degli interventi unitamente alla mobilitazione delle risorse individuali e caratterizzato da:
In sintesi, il tipo di assistenza ritenuto idoneo- secondo le C.O.S.- alla fine dell'iter conoscitivo doveva avere i seguenti requisiti e obbiettivi:
In Inghilterra, agli inizi del secolo quasi in contemporanea con la nascita della prima scuola di Sociologia ( 1903), la formazione professionale dei social workers comincia a cercare collocazione all'interno delle strutture universitarie: nel 1904 è l'università di Liverpool che apre il primo Dipartimento di Scienze sociali, nel 1908 sarà la volta della università di Birmingham. Infine nel 1912 la Scuola di sociologia di Londra viene incorporata dalla London School of Economics e si trasforma in Dipartimento universitario di Scienze sociali e amministrative. A questi esperimenti si affiancano le attività formative di organismi privati collegati con le C.O.S., che rilasciano attestati riconosciuti..
Dunque già intorno al 1914 la differenziazione tra servizio sociale e la carità che l'aveva generato può dirsi compiuta.
Bibliografia: per saperne di più sulla nascita e l'importanza delle C.O.S. vedasi il testo di Bruno Bortoli Teoria e storia del Servizio Sociale pagg. 77/78. e il testo di P.Benvenuti e D.A. Gristina La donna e il servizio sociale Ed.F.Angeli 1998 pagg. 73/85.
L’EUROPA DEL SECOLO: la nascita del WELFARE STATE
Antecedente: il modello bismarckiano.
Alla fine del 1800 il Primo Ministro tedesco Ottone di BISMARCK, nel solco della tradizione liberale, introduce le assicurazioni obbligatorie contro i maggiori rischi di povertà ( povertà materiale), come, per esempio, le assicurazioni su malattia (1883), gli infortuni sul lavoro (1884) e la vecchiaia ( 1889).
Con l'invenzione del moderno principio assicurativo nasce un tipo di WELFARE ( detto modello bismarckiano) decisamente diverso da quello paternalistico precedente ( e qual era per esempio ancora quello inglese) rappresentato dallo Stato assoluto “ illuminato” del 1700/1800 che perseguiva fini di sorveglianza e di sicurezza sociale mediante un'assistenza selettiva agli indigenti.
Tanto premesso, a riprova che nulla nasce dal nulla, l'impianto dei sistemi moderni di Welfare si fa risalire alle idee innovatrici di Lord Beveridge nell'Inghilterra del secondo dopoguerra del secolo.
Il sistema attuale di Welfare nasce dall'incontro fra la “ tradizione liberale” ( a cui si rifacevano Lord Beveridge e i laburisti inglesi) e la “ tradizione socialista”.
Lord Beveridge, assertore del modello interventista di Welfare, affermava che lo Stato deve garantire una soglia minima di sicurezza ( safety net) a tutti i cittadini sulla base di una loro attiva ed effettiva occupazione. In altri termini, in sintonia con il pensiero liberale, sosteneva che lo Stato dovesse “garantire uno standard di vita come diritto sociale inerente alla semplice cittadinanza posseduta dal cittadino lavoratore”.
L'obbiettivo di questo modello di Welfare era sconfiggere la povertà materiale e lo strumento fondamentale per raggiungere questo obbiettivo era rappresentato da un sistema di assicurazioni sociali integrate da una serie di interventi statali, quali:
- l'istituzione di un servizio sanitario nazionale per tutti ( che in Inghilterra è stato istituito nel 1948. N.B. In Italia è stato istituito nel 1978, cioé 30 anni dopo);
La tradizione socialista ( propria dei Paesi socialdemocratici scandinavi), a differenza del modello inglese, insisteva maggiormente sul principio di eguaglianza fra i cittadini, sicché il modello interventista scandinavo fa leva sul principio della redistribuzione del reddito e delle pari opportunità ( per tutti).
IN SINTESI:
Modello residuale ( Stati Uniti, Paesi dell'Europa continentale e meridionale, Italia compresa, Inghilterra): è il modello di assistenza sociale secondo cui lo Stato interviene e-post dove e quando i servizi messi in atto dal mercato o dalle reti naturali di solidarietà non sono in grado di far fronte ai bisogni.
Modello istituzionale-redistributivo ( Paesi del Nord Europa):é il modello che offre assistenza sociale sulla base del puro bisogno del cittadino come tale; il modello, inizialmente rivolto a tutti i cittadini,, conosce attualmente la tendenza a recedere da politiche sociali di tipo universalistico.
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Bibliografia di riferimento:
Per saperne di più consulta il testo di Pierpaolo Donati ( cura di) Lo Stato sociale in Italia. Bilanci e prospettive Ed. Mondadori, Milano 1999.
E inoltre consulta la voce WELFARE STATE a cura di Fiorenzo Girotti in Dizionario di Servizio Sociale Ed. Carocci Faber, Roma 2005.
STORIA DEL SERVIZIO SOCIALE IN UNA LOGICA INTERNAZIONALE:
I PIONIERI NELL'EUROPA CONTINENTALE
Germania: ALICE SALOMON, antesignana, femminista e assistente sociale.
Alice Salomon è stata una delle figure più significative del servizio sociale europeo e mondiale. Ha saputo anticipare idee e concetti che sono stati tradotti in politiche e leggi solo un secolo dopo.
Tutta la sua biografia deve essere letta in chiave critica poiché ciascun evento che ha vissuto non è accaduto fine a sé stesso ma ha contribuito ad alimentare e sviluppare il suo pensiero.
La filosofia del suo lavoro può essere riassunta nella volontà di eliminare le differenze di classe e di opportunità: in caso contrario, come ebbe a dire lei stessa, non ci potranno essere pace e fratellanza (Salomon, 1944).
La Salomon è stata spesso criticata per il fatto che dalla sua riflessione sembra emergere che il lavoro di assistente sociale debba essere svolto solo da donne e possa essere riservato solo alle donne. In realtà l’Autrice ha sempre avuto un’attenzione particolare per il ruolo delle donne nella professione a ragione delle molte doti che queste possiedono nella relazione di aiuto all’altro in difficoltà, ma non per questo ha escluso che il campo possa essere aperto anche al genere maschile.
È pur vero tuttavia che nel pensiero e nella produzione della Salomon le donne hanno avuto sempre una posizione centrale e vi è un chiaro riferimento alla necessità di una loro emancipazione:
“ C’è qualcosa da fare al di fuori della famiglia; dal momento che Stato, economia e società sono fatti dagli uomini non funzionano bene. Guerra, sfruttamento, lavoro minorile, salario femminile ingiusto –tutto questo può accadere quando le donne non hanno influenza politica”. (Salomon, 1944).
E ancora:
“ Le donne vivono una doppia oppressione a ragione della loro facoltà di dare la vita, una nei confronti dello Stato e una nei confronti dei propri mariti: la prima perché risultano svantaggiate nel mercato del lavoro e la seconda perché devono servire gli uomini i quali sono in grado di lavorare per mantenere i figli. Doppio sfruttamento” (Salomon, 1944).
La situazione femminile nella Germania dei primi decenni del ‘900 non era certo priva di ostacoli e contraddizioni e l’Autrice non si tirava indietro nel denunciarla.
Per prima cosa si occupò dell’alta mortalità infantile: il fatto che la contraccezione non fosse conosciuta e che le donne non potessero esimersi dai doveri coniugali comportava la nascita di bambini che non potevano essere mantenuti, vista la preoccupante povertà che incombeva, ragion per cui le madri spesso erano costrette a lasciar morire di fame i propri bambini o a giungere a soluzioni ancora più estreme.
Oltre a ciò, accadeva che molti uomini lasciassero la famiglia o spendessero i propri guadagni a loro esclusivo piacimento o decisione, perché non c’era nessuna legge che tutelasse la maternità o definisse i doveri dei genitori verso la prole.
La società del tempo lanciava messaggi contraddittori alle donne: da un lato si aspettava che esse accudissero i figli ma nel contempo non dava loro supporti necessari, costringendole di conseguenza a cercarsi un lavoro, distogliendosi con ciò dalla cura dei figli.
La Salomon, acuta e lungimirante, comprese che in un contesto socio-politico di tal genere lo Stato doveva intervenire con politiche di supporto alla maternità. La cura non doveva rimanere un fatto privato ma essere supportata con politiche pubbliche che prendessero ispirazione da quel lavoro di cura interno alle famiglie e che quotidianamente veniva agito dalle donne.
La capacità di prendersi cura dell’altro, circostanza in cui le donne manifestavano tutta la loro abilità, a detta della Salomon non doveva restare un fatto privato ma doveva essere resa pubblica e incarnata in una professione precisa: il servizio sociale.
Per formalizzare ciò organizzò scuole di servizio sociale che, all'inizio, prendevano donne volontarie, cioè a costo zero, che consentivano il fluire - dall'una all'altra - delle esperienze
ed eredità diverse e che potevano, a differenza delle donne dipendenti, criticare pubblicamente lo status quo; il progetto ultimo della Salomon, però, era di superare, l’aspetto volontario e rendere il lavoro professionale. Questo comportava la necessità di una focalizzazione e di una formazione sui seguenti aspetti :
dell’utente.
Venne maturando presto la consapevolezza che per la realizzazione di interventi efficaci la conoscenza da sola non è sufficiente, ma d’altro canto neppure è sufficiente la sola pratica: se si va a intervenire e a incidere nella sfera più intime delle persone, è necessario un bagaglio teorico in aggiunta a una metodologia.
Un altro punto importante riguardava lo sviluppo di un'etica professionale e, in parallelo, l’importanza di una conoscenza multidisciplinare (psicologia, sociologia, pedagogia, politica sociale) .
Un' ulteriore attenzione era riservata alla sfera internazionale: il lavoro dell’assistente sociale non doveva restare isolato nei singoli contesti nazionali, perché uno scambio con delle realtà estere non poteva che portare un arricchimento e uno sviluppo reciproci. Profondamente convinta di ciò, la stessa Salomon si occupò dell’organizzazione e della promozione di eventi e momenti di incontro internazionali.
BIOGRAFIA DI ALICE SALOMON (1872-1948), la fondatrice de lavoro sociale tedesco.
PUNTI NODALI DEL SUO PENSIERO (ancora oggi di grande attualità):
Belgio: RENE’ SAND ( 1877-1953) e la medicina sociale.
Il suo contributo alla costruzione di un servizio sociale internazionale
Alice Salomon, René Sand, Alice Masarykova si posero come obiettivo quello di promuovere e di creare una pratica di servizio sociale a livello internazionale e di farne un movimento vero e proprio che potesse vivere con risorse autonome e che avesse possibilità di essere tramandato alle generazioni future. Erano personaggi che avevano una visione anticipatoria: in un’epoca nella quale la globalizzazione era di là da venire, loro si poneva nell’ottica dell’integrazione del sapere e delle professioni a livello internazionale.
Dopo Alce Salomon, perché ricordare René Sand che è così poco presente nella storia del servizio sociale e che non può essere definito un assistente sociale in senso stretto?
Perché Sand , con i suoi studi e il suo punto di vista, orientò i riflettori su un tema che è oggi estremamente attuale - anche se il confronto internazionale è ancora poco usuale nella professione. Si tratta della connessione tra globale e locale, (tema su cui torneremo durante il corso), un tema di spiccata attualità in un mondo da una parte sempre più globalizzato e dall’altra reso sempre fragile dalle incertezze esistenziali e materiali e dalle ‘invasioni’ degli uni negli spazi degli altri; un mondo nel quale valorizzare la diversità e saperla trattare diventa un dovere etico; un mondo nel quale il servizio sociale ha il dovere di tenere insieme livelli differenti: globale e locale, politico e deontologico, dilemmi morali ed etica. Guardare fuori da noi, oltre i confini professionali e nazionali, è necessario per affrontare con consapevolezza sfide sempre più difficili pur se attraenti. In questa cornice, René Sand è un prezioso esempio di innovazione, per il suo sguardo aperto e attento a cogliere i cambiamenti sociali.
L’uomo: alcune note biografiche
Esistono scarse tracce di René Sand nella letteratura riferita al servizio sociale. Come formazione accademica egli fu un medico; fondò la medicina sociale e, soprattutto in Belgio, fu promotore del servizio sociale e uno dei più importanti promotori del servizio sociale internazionale, della cooperazione, del dialogo professionale e tra le professioni. Lui stesso è un esempio di integrazione: medico che si interessa ai temi sociali, che valorizza e fa crescere una professione come il servizio sociale in stretto dialogo con la medicina, senza antagonismi. Il suo contributo fu fondamentale all’emergere del servizio sociale nell'Europa degli anni '20.
Se si trovano poche tracce del Sand promotore del servizio sociale se ne trovano ancor meno della sua vita privata, come d’altronde accade per la maggior parte delle pioniere del servizio sociale dedite completamente alla loro passione e alla missione che si sono prefissate nella vita. Sand però a differenza di altri/e si crea una propria famiglia: si sposa e ha tre figli.
BIOGRAFIA di René Sand:
René Sand e il Servizio Sociale.
René Sand credeva nell’uguaglianza di tutti gli uomini, nella democrazia e nella giustizia a tutti I livelli: nazionale ed internazionale. Sentiva che il social work, con i suoi valori, poteva essere uno strumento essenziale per il processo di sviluppo del principio dell’uguaglianza.
Sand, come le “insigni colleghe” d’oltre oceano, riteneva che il servizio sociale dovesse essere analizzato su basi scientifiche al fine di sviluppare metodi e tecniche che negli Stati Uniti erano già in uso attraverso il casework e i metodi del community work nei Settlement.
Dopo essere entrato in contatto con il mondo delle Charity Organizations, Sand fonda nel 1919 in Belgio la prima scuola per la formazione degli assistenti sociali (l’Ecole Centrale d’Application de Service Sociale). La sua reputazione come esperto di lavoro sociale sia in ambito nazionale che internazionale gli vale l’invito di Julia Lathorp, direttrice del Children’s Bureau di Washington, nel 1919 per partecipare alla conferenza nazionale degli assistenti sociali. Alla stessa conferenza fu invitata anche Alice Salomon che fu con Sand una delle più importanti promotrici dello sviluppo del sapere del servizio sociale a livello internazionale. Sand entrò quindi in contatto con l’esperienza maturata dalle Conferenze degli Assistenti Sociali negli Stati Uniti – ancora oggi l’Associazione Nazionale degli Assistenti Sociali Americana (NASW) organizza annualmente conferenze molto interessanti e di respiro internazionale seppur con uno sguardo sugli Stati Uniti.
Gradualmente, Sand mise in pratica l’idea di sviluppare un network internazionale attraverso conferenze mondiali. Chiese l’aiuto e il sostegno della Larthorp per supportare il suo progetto di internazionalizzazione e lo presentò alla 50° Conferenza Annuale degli Assistenti Sociali Americani. Trovò larga approvazione e fondi per realizzare la sua idea di una conferenza svincolata dai Governi locali e che potesse sopravvivere con fondi autonomi.
Nel 1928 ebbe luogo la Prima Conferenza Internazionale di Servizio Sociale a Parigi: René Sand fu il Segretario Generale, mentre un altro importante personaggio del servizio sociale, Alice Masarykova, fu nominata Presidente.
Nel suo testo “ I giganti del servizio sociale” (2006) Bruno Bortoli sostiene che l’importanza di René Sand risiede nella sua posizione centrale di mediatore, promotore e coordinatore del lavoro sociale a livello internazionale nel periodo fra le due grandi guerre.
Sand riteneva che l’organizzazione razionale della produzione dovesse appoggiarsi sulle scienze mediche, pedagogiche e sociali. Fu in grado di integrare diverse discipline e di creare consenso intorno ad una nuova professione che si stava affrancando dalle altre e che stava cercando una sua autonomia pur nella condivisione con le altre professioni.
La Conferenza di Parigi fu chiamata “Quindicina Sociale” per la sua durata di due settimane, nelle quali si tennero il Congresso Internazionale per la Protezione dell’Infanzia, il Congresso Internazionale per l’Abitazione e l’Organizzazione Urbana, il Congresso Internazionale d’Assistenza Pubblica e Privata, la Conferenza Internazionale di Servizio Sociale. Non è difficile intuire che la “Quindicina Sociale “ fu un'occasione e un modo per coinvolgere e far interagire fra loro un gran numero di persone interessate ai temi social). ). I partecipanti alla Conferenza furono quasi 2.500, provenienti da 42 Stati; la delegazione italiana presieduta da Corrado Gini, direttore dell’ISTAT, era presente con 65 partecipanti tra i quali il sociologo Alfredo Niceforo, Luigi Devoto e le prime due assistenti sociali italiane, Paolina Tarugi e Virginia Delmati.
Nello statuto della Conferenza Sand precisava che la stessa non aveva alcun carattere governativo, politico e religioso e che il suo scopo era quello di ‘facilitare l’istituzione di relazioni personali, di contribuire alla diffusione di informazioni, di permettere gli scambi di opinioni tra gli operatori sociali e gli organismi del servizio sociale del mondo intero’ (Première Conférence International du Service Social, 1929, Atti pag.25
Il successo straordinario per l’epoca – pensiamo solo alle difficoltà di viaggiare per lunghe distanze e agli investimenti richiesti per inviare le delegazioni - e l’eco della Conferenza consentirono la continuazione dell’esperienza: si tennero altre due Conferenze Internazionali (1932 a Francoforte e 1936 a Londra) mentre la quarta Conferenza che si sarebbe dovuta svolgere a Praga fu cancellata a causa dell’inizio della Seconda Guerra Mondiale. Già alla Conferenza di Londra era presente una delegazione del Partito Nazista al quale Sand rivolse un duro attacco sostenendo che le politiche attivate in Germania non avevano nulla a che fare con lo spirito e i principi del servizio sociale.
Sand fu arrestato nel 1944 dalla Gestapo e liberato nel 1945 dagli Alleati. Né la guerra né le vicissitudini personali gli fecero però perdere l’entusiasmo per l’impegno di internazionalizzazione del sapere e subito dopo la fine del conflitto si attivò per riorganizzare il movimento che aveva portato alle Conferenze precedenti. Un primo appuntamento si tenne nel 1946 a Bruelles e poi nel 1947 in Olanda. La svolta fu il connettere con maggior enfasi rispetto al passato Europa e Nord America: la quarta Conferenza Internazionale si tenne nel 1948 ad Atlantic City in combinazione con il 75° anniversario della Associazione Nazionale degli Assistenti Sociali (NASW). Il focus centrale della Conferenza fu posto sulle attività internazionali del servizio sociale.
Sand diede anche nuova vita al Comitato delle Scuole di Servizio Sociale (ICSSW) attivato dopo la Conferenza del 1928 da Alice Salomon, la quale aveva dovuto abbandonarne le attività a seguito del suo esilio negli Stati Uniti, ove si trasferì nel 1937 per evitare le persecuzioni naziste. Questo Comitato è ancora oggi molto attivo a livello internazionale con il nome di International Association of School of Social Work (IASSW). Sand ne fu il secondo presidente, dopo la Salomon, e stette in carica fino alla sua morte nel 1953.
Sand comprese che in quegli anni era sopravvenuto un cambiamento di ‘potere’ nell’ambito del servizio sociale e che gli Stati Uniti erano in quel momento il fulcro dell’effervescenza intellettuale e accademica, mentre ’Europa stava ricostruendo una propria identità ed era materialmente impegnata a riorganizzare la propria esistenza. Il quartier generale dell ICSSW si spostò quindi a New York.
N.B. E’ da sottolineare che il termine- concetto social work della lingua inglese è traducibile in italiano con il termine “lavoro sociale” e non servizio sociale, ma generalmente nella traduzione italiana “ social work “ viene inteso indifferentemente sia come lavoro sociale che come servizio sociale. In realtà, i due termini (lavoro sociale o servizio sociale) non sono sinonimi e nemmeno concettualmente assimilabili, ma su questo avremo modo di tornare a discutere perché, come dicono i latini, “nomina sunt consequentia rerum” ( i nomi sono una conseguenza delle cose).
Bibliografia di riferimento:
Bortoli, B. (2009) Per un servizio sociale internazionale. Renè Sand, Lavoro Sociale, 1, pp.129-140.
Bortoli, B. (2006) I giganti del lavoro sociale, Erickson, Trento,2009
http://www.socwork.net/2007/1/historicalportraits/eilers
AMERICAN SOCIAL WORK
I PIONIERI NEGLI STAT UNITI al servizio di individui e famiglie, animatori di comunità e fautori della promozione sociale .
Il presente contributo è un’introduzione alla storia del Social Work negli Stati Uniti attraverso la storia delle due donne che hanno segnato la nascita della professione: Mary Richmond e Jane Addams.
Tra queste due fondatrici del social work americano ci sono affinità e differenze.
Affinità:
Differenze:
1.provengono da contesti socio-culturali molto diversi: la Richmond dalla working class
e la Addams dalla classe borghese;
Entrambe insegnano in università e contribuiscono all’ingresso della professione nell’ambito accademico.
La Richmond sostiene la fondazione della prima scuola di servizio sociale a New York;
La Addams è integrata nella più famosa facoltà di sociologia dell’epoca anche se non è mai ricordata tra i sociologi, un oscuramento da parte dell’università, un ambito ancora maschilista. Ciò nonostante, i Settlement ( movimento fondato dalla Addams) parteciparono alle più interessanti surveys dell’epoca. Addams, Beckerindge, Lathorp insegnarono in università e fecero conferenze e interventi pubblici.
E’ importante contestualizzare storicamente il lavoro delle due fondatrici della professione in America.
I due movimenti di cui fecero parte la Richmond, le COS, e Addams, i Settlement House Movement, da lei fondati con l’amica Starr, hanno modellato la professione e gli scopi sociali della professione nonchè la visione di cosa sia il bisogno per il servizio sociale.
Ira Goldberg ( un medico sociale americano) sostiene che le professioni sono modellate dalla realtà sociale e politica del tempo di cui fanno parte. Orientamenti e pratiche sono allora il riflesso delle ideologie prevalenti e dei valori generalmente condivisi dalla società di cui sono espressione.
Generalmente, durante il ‘700 e l’’800 la povertà è stata vista come un problema del singolo, problema del quale la società non si faceva carico in alcun modo: “Andate all’Ovest se non riuscite a far fortuna all’Est” era l'indicazione diffusa. La transizione dalla società agricola a quella industriale portò molti cambiamenti, che ebbero come conseguenza il fatto che la povertà divenne un problema che riguardava gran parte della popolazione. Gli immigrati impiegati nelle industrie vivevano in condizioni di estrema povertà e di scarsa igiene: proliferazione degli slums (molte furono le ricerche della scuola di Chicago su questi argomenti) e della delinquenza, emarginazione e malattie.
Le ideologie imperanti in quel periodo e che influenzarono le logiche dell’aiuto furono il Calvinismo, il Protestantesimo e e il Pragmatismo:
Capitalismo e liberalismo hanno due aspetti in comune:
Tutto ciò sottende la necessità di una prospettiva di certezza morale e indirizza l’attenzione sui problemi della singola persona da intendersi come fallimento della stessa e della sua capacità di essere responsabile piuttosto che sulla società e sui suoi aspetti strutturali.
Anche il pragmatismo influenzò la professione supportandone l’impegno scientifico, insieme con l’empirismo, secondo cui la conoscenza deriva dall’esperienza, non esistono idee innate ( come sostenevano i filosofi europei Locke, Hume) e in contrapposizione al razionalismo cartesiano, teoria filosofica secondo la quale la conoscenza è possibile deduttivamente a priori. ll termine “empirico” nella scienza può essere sinonimo di sperimentale. In questo senso, un risultato empirico è un'osservazione sperimentale. DEWEY si ribellò alle istanze portate dal liberalismo, ponendo l’accento sul concetto di esperienza. Il pensiero filosofico e pedagogico di Dewey si basa su una concezione dell'esperienza come rapporto tra uomo e ambiente, dove l'uomo non è uno spettatore involontario ma interagisce con ciò che lo circonda. Il pensiero dell'individuo nasce dall'esperienza, quest'ultima intesa come esperienza sociale. L'educazione deve aprire la via a nuove esperienze e al potenziamento di tutte le opportunità per uno sviluppo e una crescita ulteriori. L'individuo è in contatto stretto con il suo ambiente, vi reagisce ma anche agisce su di esso. L'esperienza educativa deve quindi partire dalla quotidianità nella quale il soggetto vive. In un secondo momento, ciò che è stato sperimentato deve progressivamente assumere una forma più piena e organizzata. L'esperienza è realmente educativa nel momento in cui produce l'espansione e l'arricchimento dell'individuo, conducendolo verso il perfezionamento di sé e dell'ambiente in cui vive. Un ambiente in cui vengono accettate le pluralità di opinioni di diversi gruppi in contrasto tra loro, favorisce lo sviluppo progressivo delle caratteristiche dell'individuo. La conoscenza non è mai completa, è piuttosto un processo circolare che muove da ipotesi a esperimento e da qui a ulteriori ipotesi, e così via, in un movimento, appunto, circolare.
Questa teoria porta alla conseguenza concettuale e sociale secondo cui la povertà non è necessariamente una condizione negativa e moralmente reprensibile, ma è influenzata da un macrosistema che influisce sui meccanismi del funzionamento sociale.
Queste ideologie intellettuali e religiose furono alla base del sorgere e svilupparsi dei movimenti delle C.O.S. e dei Settlements.
Questi movimenti si occuparono degli stessi problemi sociali, sia pure con metodi di intervento differenti, in quanto:
- Per le C.O.S. la povertà era da “curare” attraverso la riabilitazione delle persone in stato di bisogno, andava eliminata tramite l’investigazione e lo studio del carattere di chi chiede aiuto e attraverso l’educazione e lo sviluppo dei poveri. Case conferences and friendly visitingsono i metodi utilizzati dalle COS, che “inventarono” il modello del CASE WORK. I Friendly visitors rischiavano però l’indifferenza di fronte al povero, la relazione non empatica; la loro provenienza sociale differente da quella delle persone bisognose in una società che ammetteva la segregazione etnica e di classe portava al rischio di una distanza sociale ed emotiva. Da qui l’idea originale delle C.O.S. della divisione territoriale in distretti, attuata per facilitare la vicinanza da parte dei friendly visitors alla comunità dove operavano.
- I fondatori dei Settlements decisero di vivere all’interno delle comunità, in mezzo ai poveri, agli immigrati e ai bisognosi per portare le proprie conoscenze ed educazione nella comunità. Definivano i problemi in termini ambientali e strutturali e operavano credendo nella possibilità di un miglioramento sociale. Jane Addams, per esempio, si rifiutava di chiamare le persone clienti o utenti o casi e faceva fatica ad accettare l’atteggiamento delle giovani assistenti sociali per le quali il lavoro significava 8 ore al giorno e il ritorno in una casa lontana dagli slums. Perciò la Addams decise di “imparare dai suoi vicini” e di correggere gli “errori” delle assistenti sociali dovuti, secondo lei, all’insensibilità culturale e all' inserimento in un contesto di comunità per loro nuovo ed estraneo. Addams teorizzò ( e mise in pratica) la necessità di concentrarsi su tutte le problematiche che riguardavano una determinate area geografica, pur senza perdere di vista le necessità del singolo individuo. Il focus era sull’esperienza, il pensiero, l’azione delle popolazioni locali, con la convinzione che da qui dovevano partire ampie riforme sociali ed economiche.
Le due organizzazioni erano molto vicine anche nel sostenere la filantropia scientifica (NCCC – National Conference of Charieties and Corrections), per filantropia scientifica intendendo il promuovere la cooperazione tra gli organismi sociali e gli individui con lo stabilire una relazione democratica, un ponte tra privilegiati e diseredati, tra ricchi e poveri attraverso l’aiuto e l'opera dei friendly visitors.
Mary Richmond nel 1890 ebbe modo di ascoltare un intervento di Lowell che indicava le cause della povertà nel carattere della persona. Nell’intervento della Lowell si affermava l’emergenza di una prospettiva di certezza morale nella pratica del servizio sociale (visione darwinista). Si riscontra una influenza del pensiero di Lowell su quello della Richmond. Peraltro, successivamente la stessa Lowell modificò le sue idee la Lega dei consumatori.
Nel 1895 l’approccio basato sul principio calvinista della certezza morale si indebolì alquanto dopo che Charles Booth (un conservatore liberale) indagando in una ricerca le cause della povertà trovò che incidenti, malattie, disoccupazione possono causare la povertà. C. Booth introdusse in ambito sociologico il concetto della “soglia di povertà e si provò a stabilire parametri e criteri per identificare scientificamente tale soglia.
Jane Addams identificava le differenze tra le due organizzazioni ( C.O.S. e Settlement) in questo modo: “visitors are bound to tell a man he must be thrifty in order to keep his family….you must tell him that he is righteous and a good citizen when he is self supporting that is un righteous and not good citizen when he receives aid…settlement see that a man can be a bit lazy and be a good man and an interesting person….it does not lay so much stress on the virtues, but views the man inhis social aspects” (1897). Mary Richmond considerava invece i Settlement come delle ‘missioni vecchio stile, che pretendevano di essere scientifici quando non lo erano minimamente’. Questo diverso modo di vedere diede origine a un dibattito acceso, in relazione al quale Julia Lathrop (1858-1932), donna impegnata socialmente e studiosa che molto si adoperava per migliorare l'assistenza ai minori e ai malati di mente, iniziò ricerche con l’Università di Chicago attingendo dati dai residenti e dal lavoro dei settlements. Infatti la scientificità della Richmond risiedeva nella declinazione di un metodo di lavoro, mentre quella dei Settlements della Addams consisteva nella possibilità di essere una fucina di dati per ricerche che tenessero in considerazione la comunità e le singole persone.
Note Biografiche su Mary Richmond (1861-1928).
In sintesi, Mary Richmond:
Note biografiche su Jane Addams(1860-1935).
Mary Richmond, da viva, fu quasi “osannata” e molto riconosciuta per le sue qualità organizzative e per le sue capacità riflessive, con l'attribuzione d importanti ruoli dirigenziali e la pubblicazione di un libro che ebbe una divulgazione mondiale. Poi il servizio sociale diventò “psicologizzato” e le figure della Richmon e della Addams caddero entrambi nell'ombra. La crisi negli anni ’70 del 1900 del servizio sociale improntato al casework specializzato portò nuovamente in evidenza le intuizioni delle due capofila: Mary Richmond per il servizio sociale generalista e Jane Addams per il servizio sociale di comunità. La Addams durante la sua vita fu una protagonista ma fu anche soggetta a valutazioni contrastanti e a oscuramenti politici, tant'é che solo negli ultimi decenni i suoi meriti di femminista e pacifista sono stati messi in risalto, mentre la Richmond, scrive Bruno Bortoli nel suo testo dedicato ai giganti del lavoro sociale, è oggi sottovalutata anche se può essere ritenuta a tutti gli effetti la fondatrice della professione per il contributo alla elaborazione di un modello di intervento, alla formazione e alla ricerca sociale .
Considerazioni conclusive:
Quale contributo ha portato Mary Richmond al Social Work di oggi? ( Pro e contro):
PRO:
1. promozione dello spirito professionale, enfasi sulle competenze tecniche e sistematizzazione delle procedure di intervento;
CONTRO:
3. ruolo di controllo dei social workers prevalente nella percezione delle persone rispetto a quello dell'aiuto;
4. scarsa connessione tra i metodi e le tecniche che proponeva e una “teoria della pratica”; non attenzione alla questione epistemologica.
Quale contributo ha portato Jane Addams al Social Work di oggi? ( Pro e contro)
PRO:
1. ruolo della professione come “coscienza della società”;
2. promozione della teoria di Dewey sulla validità e funzione dell'esperimento, che, uniti all'inchiesta razionale, consentono lo sviluppo di una cultura della ricerca tra i social workers;
3. sviluppo dell'analisi critica ed evitamento di analisi riduttiva dei problemi;
CONTRO:
5. mancato sviluppo di un metodo per affrontare i problemi connettendo le questioni strutturali e istituzionali: riflessioni macro-micro, ma pratica comunque solo con focus micro.
Bibliografia di riferimento:
Addams, J. (1990) Twenty years at Hull House, Prairie State Books, Chicago, USA.
Agnew, E.N. (2004) From charity to social work. Mary E. Richmond and the creation of an American profession, Board of Trustees, USA.
Bortoli, B. (2006) I giganti del lavoro sociale, Erickson, Trento.
Bortoli, B. (1997) Teoria e storia del servizio sociale, NIS, Roma.
Franklin, D.L. (1986) ‘Mary Richmond and Jane Addams: from moral certainty to rational inquiry in social work practice’, Social Service Review, 60, pp. 504-525.
CCARATTERI DISTINTIVI DEL IL SERVIZIO SOCIALE IN AMERICA
SINTESI DEI CARATTERI DISTINTIVI DEL SERVIZIO SOCIALE AMERICANO
USA, LE C.O.S. NEI PRIMI DECENNI DEL ‘900, LA ELABORAZIONE TEORICA DEL CASE-WORK DA PARTE DI MARY RICHMOND.
Nel 1924 durante un viaggio in America, dovuto ai suoi numerosi impegni internazionali, Alice Salomon conobbe Mary Richmond e, tornata in Germania, tradusse in tedesco il libro della Richmond The Social Diagnosis, che era stato pubblicato in America nel 1917.
A) M. Richmond si era posta un interrogativo di fondo à Perché, malgrado gli sforzi compiuti dall’operatore, il “recupero” dell’individuo non ha sempre successo?
Alla domanda aveva dato la seguente risposta: perché lo sforzo dell’operatore da solo non è sufficiente à accanto, occorre - e influisce - il ruolo della famiglia, dei vicini, dei servizi pubblici e privati à focus sull' ambiente.
B) M. Richmond riflette sul fatto che si possa procedere con una serie di passi o passaggi procedurali à processo di aiuto attuato secondo il modello del case work ( un aiuto che è formato da un insieme concettuale e procedurale di interventi, attuato all’interno di un processo più ampio denominato social work).
Fasi fondamentali del case work:
à da queste riflessioni scaturì il libro pubblicato nel 1917 The social diagnosis.
Manca qualcosa? Sì, in base alle nostre conoscenze di oggi rispondiamo che manca il contributo delle scienze e conoscenza psicologiche e in particolare mancano:
Attenzione: non bisogna favorire la diagnosi rispetto al trattamento, esse sono due fasi complementari e inscindibili. Di questo, anche la Richmond era ben consapevole.
Tuttavia, nelle sue opere non venne approfondito il trattamento mentre venne ampiamente teorizzata e approfondita la diagnosi sociale, intesa e descritta nei suoi due testi dedicati al tema come il tentativo di fornire una descrizione il più possibile esatta della situazione e della personalità di un individuo che si trova in situazione di bisogno sociale, situazione e personalità da mettersi in relazione sia con quelle degli altri esseri umani rispetto ai quali l'individuo oggetto della diagnosi sociale si trova in una qualche forma di dipendenza ( oppure che sono da lui dipendenti), sia in relazione alle istituzioni sociali presenti e operanti nella sua comunità.
Nell’opera della Richmond, il focus è su:
Il processo del case-work è costituito dalle fasi che seguono:
E' evidente che si tratta di un processo di intervento mutuato dal modello medico.
Secondo le intenzioni di M.Richmond, la fase del del trattamento fu da lei teorizzata in un’opera successiva a quella sua del 1917, per la precisione in The what is social case work? del 1922, ove il trattamento è concepito come processo che sviluppa la personalità attraverso una serie di adattamenti effettuati in modo consapevole dal soggetto e che devono avvenire tra ciascun individuo e il suo ambiente sociale. ( N.B. Per la Richmond – e la cultura liberale americana di quel tempo- era l'individuo a doversi adattare alla società, considerata, quest'ultima, come “buona in sé”).
La Richmond teorizza altresì la necessità di avvalersi di determinate risorse per:
Infine, Mary Richmond insistè molto per ottenere l’inserimento della formazione degli operatori sociali nei programmi del mondo accademico. A tal fine, nel 1898 fondò una scuola, la New York School of Philantropy (ora Columbia University School of Social Work) che lei previde inizialmente della durata di 6 settimane, diventate poi 1 anno e infine 2 anni (1910).
NASCITA E AFFERMAZIONE DEL SERVIZIO SOCIALE ITALIANO
Le prime esperienze italiane
Servizio sociale: concezione scientifica dei bisogni à la cui interpretazione o definizione è connessa al contesto storico-sociale in cui la professione si sviluppa.
E' importante analizzare la storia del servizio sociale perché in tal modo si evidenziano le radici da cui il servizio sociale è partito e l’evoluzione che il servizio sociale ha conosciuto.
La prima storia del servizio sociale è stata scritta come storia delle scuole, sulla base di una elaborazione di materiale in possesso dei docenti.
In Italia, la nascita servizio sociale ( inteso come professione) si colloca in un periodo diverso ( e successivo) rispetto agli altri paesi europei e all'America, e si fa coincidere con la nascita delle prime scuole nel 1945, all'indomani della fine della seconda guerra mondiale.
Sintetizziamo le drammatiche conseguenze morali e sociali della seconda guerra mondiale come segue: lacerazioni sociali (miseria, disoccupazione, inflazione, prostituzione) à di contro, volontà di ricostruzione, contestuale all'emersione di valori prima soffocati dal fascismo: libertà, uguaglianza, diritto di partecipazione.
A fronte di questa complessa e drammatica situazione post-bellica, non risulta una volontà forte ed effettiva,da parte della politica, di intervenire strutturalmente sui problemi sociali per rimuoverne le cause ( per esempio, il partito al potere - la Democrazia Cristiana - guardava con un certo qual “sospetto” alle riforme, preferendo lasciare alla Chiesa e alle istituzioni religiose la gestione assistenziale dei problemi sociali).
All'indomani della fine della guerra vi furono comunque delle iniziative volte a incidere sulla situazione sociale e tra queste vanno citate:
Da quel Convegno emerse innanzitutto la teorizzazione della necessità di una formazione organica per gli assistenti sociali, nonché l'affermazione della necessità di una riforma dell’assistenza e di un decentramento istituzionale.
In Italia nel 1945 nacquero le prime 5 scuole di servizio sociale a opera di privati ( e dunque nel vuoto di un intervento da parte dello Stato e in assenza di una qualsiasi omogeneizzazione dei programmi). Da subito, si configurarono tre gruppi di scuole:
Nel 1946 si ebbe una vera e propria proliferazione di scuole.
Alcune considerazioni riguardo alle scuole:
Gli anni ’50 presentano uno sviluppo economico lasciato alle forze del mercato e - di contro - un non-intervento della politica nel campo dei problemi socialià migrazioni, disoccupazione delle donne, squilibri nord/sud, città/campagna.
Lo Stato di allora “scaricava” sul sistema assistenziale i problemi numerosi generati dallo sviluppo economico, anziché effettuare interventi strutturali (vedi alloggi, infrastrutture...) e lasciava alla libera iniziativa dei singoli di ricorrere agli enti e associazioni di assistenza esistenti; di fatto, i soggetti più deboli o con minori capacità e autonomia restavano senza risposta alcuna alle proprie necessità.
L’assistenza si realizzava mediante tre sistemi, istituzionali sì ma disancorati da una politica sociale organica. Tali sistemi erano:
Col tempo, crebbe il numero di dette le categorie: come soccorrere tutte?
Ma anche: chi rimase fuori? Le casalinghe, i disoccupati, gli inabili e i lavoratori in nero.
Dunque, discriminazioni e privilegi si ebbero anche fra i bisognosi stessi.
Insomma, tanta spesa e poca efficienza, una legislazione non chiara, disorientamento per il cittadino, un intreccio pubblico-privato che generava una distribuzione casuale delle competenze o una frantumazione delle stesse, in conflitto con il concetto della globalità del bisogno.
All'interno del sistema vi era una proliferazione di enti, istituzioni e associazioni; basti pensare che nel 1954 in Italia se ne contavano 40.000.
à categorizzazione giuridica dei cittadini: avevano diritto alle prestazioni solo chi rientrava in una precisa categoria di bisognosi e aveva determinati requisiti. Così si verificavano ne llo stesso tempo vuoti e sovrapposizione di competenze.
Dal punto di vista organizzativo si assisté in quel periodo a una forte burocratizzazione delle procedure di ammissione agli interventi. Non vi era alcuna possibilità di controllo da parte dei cittadini, per contro si avevano accentramento e inefficacia delle risposte.
Il personale era costituito meramente da funzionari e operatori molto burocratizzati, che operavano in una stretta logica di “adempimenti” e che erano attenti soprattutto alla lettura della legge piuttosto che alla lettura del bisogno. Stiamo parlando di personale costituitoo da medici, infermieri, assistenti sanitari, assistenti sanitarie visitatrici, ostetriche, personale religioso, pochi assistenti sociali, pochissimi psicologi.
Le prestazioni erogate: sussidi (in denaro o in natura) e ricoveri negli istituti ( ospizi, orfanotrofi, manicomi).
Ottica: riparativa e non riabilitativa e preventiva. Moralismo, focus su sussistenza e non benessereà dipendenza: sussistenza e riconoscimento di un unico diritto, quello di esigere.
PREPARAZIONE DEL PERSONALE:
Le Scuole di servizio sociale negli anni crebbero molto di numero e assunsero caratteristiche sempre più professionalizzanti.
Mutuarono metodi e tecniche messi a punto e applicati in altri paesi.
Tra i docenti, le figure di base erano quelle del monitore e del supervisore. L'insegnamento era interdisciplinare, promuoveva l'integrazione fra teoria e pratica ( soprattutto attraverso i tirocini) ,concettualmente poneva al centro dell'intervento sociale la persona nella sua globalità e interezza.
IL PATERNALISMO INDUSTRIALE: una economia del dono.
“A fianco delle esperienze più diffuse negli Stati Uniti e Gran Bretagna (C.O.S. e Settlement ) e accanto alle iniziative igienistiche e medico-sociali, diffuse un po' ovunque,ve ne fu una terza prettamente europea e quasi soltanto continentale. Si tratta del paternalismo industriale.
In Francia,in Germania e Italia esso precorse e contribuì a modellare un certo tipo di welfare, che poi diventerà pubblico, e ispirò un tipo di servizio sociale che ebbe larga diffusione nella prima metà del Novecento: il servizio sociale d'azienda o di fabbrica:” ( brano tratto dal testodi Bruno Bortoli I Giganti del servizio sociale , pag. 60/71).
In Italia il servizio sociale si sviluppò inizialmente soprattutto all’interno delle fabbriche: un esempio virtuoso è rappresentato dall’esperienza della fabbrica Olivetti a Ivrea, e anche dalla Pirelli Bicocca di Milano.
“Servizio sociale: una disciplina in relazione con etica e teoria” - Elisabetta Neve-
La natura e il mandato dell’assistente sociale derivano da:
- politiche sociali;
- dal servizio sociale;
- dalla pratica quotidiana;
- dai sistemi formativi.
La disciplina del servizio sociale, che è finalizzata all’operatività, racchiude in sé la sintesi dei saperi di altre discipline, la teorizzazione delle prassi e le elaborazione teoriche di altri Paesi.
L’identità disciplinare si compone delle radici e dell’evoluzione storica del sapere del servizio sociale, dalla visione della persona e del suo ambiente nonché dei modelli di intervento. L’identità professionale è caratterizzata dal non essere un accumulo di pratiche esecutive e da non essere assimilabile al lavoro sociale. Il servizio sociale è definito dalla Legge 328/00 livello essenziale di assistenza.
Alcuni tra i fondamentali irrinunciabili del servizio sociale sono i seguenti:
I valori del servizio sociale risalgono alle radici, al dna del servizio sociale, ma sono declinati in maniera specifica rispetto ai contesti socio-culturali, all’evoluzione scientifica, alle politiche sociali.
Primato della persona: la persona non è consumatore, e non è destinatario, ma è un soggetto dotato di:
Principio della personalizzazione:
La concezione del bisogno non è da intendersi semplicemente come carenza in sé, mada considerarsi “anche per le ripercussioni che la carenza genera nella persona, nel modo di porsi nel confronto con la realtà, nella sua autonomia”(M. Calogero. V. genesi del SS nelle C.o.s.). Il servizio sociale legge il bisogno nella sua dimensione unitaria socioculturale, soggettiva, globale.
Il riconoscimento di bisogni e diritti della persona si contrappone a:
Rispetto e promozione dell’autodeterminazione: si tratta del diritto di scegliere per la propria vita, tenendo conto dei vincoli interni-esterni. Il processo di aiuto dovrebbe tendere a sviluppare le capacità di discernimento e la predisposizione di alternative vere. Il professionista non si sostituisce alla persone, ma la valorizza, la stimola. Il processo di aiuto si contrappone ad interventi paternalistici e al lasciare le persone sole con i loro problemi. Richiede invece aiuto emancipante, esigente e responsabilizzante (aiuto-controllo); è collegato al lavoro con le risorse organizzative e territoriali.
L’intervento del servizio sociale si caratterizza per la sua unitarietà e tridimensionalità:
Queste dimensioni comunicano tra loro e sono integrate dalla figura dell’assistente sociale che deve lavorare sulle loro interdipendenze.
Ne consegue che:
La responsabilità della valutazione del bisogno comporta:
- l’assistente sociale partecipa alla determinazione dei criteri di accesso al sistema (universalismo selettivo, cfr. Legge quadro sull'assistenza n.328/2000)
- contribuisce a garantire equità e appropriatezza della risposte;
- implicazione tecniche:
- comporta il possesso di conoscenze e strumenti specifici professionali (anche da costruire);
- rendere trasparente, comunicabile, verificabile l’intervento.
Il servizio sociale porta in sé e si relaziona con un sapere complesso:
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Riferimenti bibliografici :
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Fargion S. (2009),Il servizio sociale. Storia, temi, dibattiti, Laterza, BA.
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Campanini A. and Frost E. (2004), European Social Work. Commonalities and Differences, Carocci, Roma.
Campanini A. (a cura) (2009), Scenari di welfare e formazione nel servizio sociale in un‘Europa che cambia, Unicopli, MI.
Grigoletti B.P., op. cit. (vari autori)
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Gui L. (2008), “Tre committenti per un mandato”, in Lazzari F. (a cura), Servizio sociale trifocale, Angeli, MI.
Campanini A.(acura) (2006), La valutazione nel servizio sociale, Carocci, Roma.
Sicora A. (2005), L’assistente sociale “riflessivo”, Pensa Multimedia, Lecce.
De Ambrogio U., Bertotti T., Merlini F. (2007), L’assistente sociale e la valutazione, Carocci, Roma.
AA.VV. (2006), “Valutare l’integrazione professionale”– monografia in Studi Zancan, n. 4.
Fond.ne E. Zancan IT IS (a cura) (2009), Progetti personalizzati e valutazione di efficacia, Collana Esperienze n. 12, Fond.ne E. Zancan, PD.
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SECONDA PARTE
GLI ELEMENTI DISTINTIVI DELLA PROFESSIONE
ORDINE E ALBO DEGLI ASSISTENTI SOCIALI
L’Ordine professionale degli assistenti sociali è un organismo di fondamentale importanza per la professione; la sua valenza è duplice: la tutela degli iscritti e la tutela dei destinatari delle prestazioni (gli utenti o clienti).
L’Ordine è una realtà complessa che può essere indagata da più punti di vista: storico, giuridico (l'Ordine è una persona giuridica e come tale soggetta alle norme del diritto), sociologico, politico ed economico.
Volendosi comprendere il suo significato e la sua funzione in modo pieno, è necessario tornare al passato e rivedere , sia pur in forma molto sintetica, quale sia stato nei secoli il ruolo giocato da queste organizzazioni- nel nostro caso gli Ordini- nella società.
Innanzitutto, una premessa .
La tendenza dei professionisti ad aggregarsi in gruppi omogenei risale a millenni addietro e si spiega con la volontà di ottenere dal pubblico potere una tutela organica dei propri interessi e con l'obbiettivo di :
Fra tali aggregazioni lo Stato può decidere di riconoscere giuridicamente alcuni gruppi, in tal modo attribuendo loro un insieme di diritti e doveri; così si configura un vero e proprio ORDINAMENTO PROFESSIONALE
Un po’ di storia ( o preistoria) delle associazioni professionali e degli ordini in Italia :
Epoca post costantiniana ed epoca del Codice teodosiano (VI° secolo d.c.) :
è l'epoca in cui sorsero le associazioni professionali di chi si occupava di un servizio pubblico ( es. il vettovagliamento della città di Roma), in particolare si distinsero le associazioni dei pistores
( fornai ), pecuarii (allevatori di bestiame) e boarii ( mercanti di buoi).
Erano, quelle associazioni, dei corpi o aggregazioni chiusi, strettamente vincolati all’attività che svolgevano i loro componenti , e nei loro confronti il potere pubblico aveva un limitato potere di ingerenza.
Il prefetto della città aveva il compito di sovrintendere alle corporazioni, fissare i prezzi e i limiti per le importazioni e le quote dei salari.
L’appartenenza a una corporazione era obbligatoria per l’esercizio di una professione,
Pare ci fossero nel territorio italiano corpi organizzati per mestiere assoggettati alla Camera Regia a cui, per vedere tutelato il proprio monopolio, pagavano un tributo.
Esistevano corporazioni di arti e mestieri, diversamente denominate, nei vari territori; si trattava di associazioni libere, con propri statuti e una propria cassa.
é contraddistinto da una volontà di rinascita, dopo l’anno Mille, da una forte crescita demografica e dalla nascita di un nuovo organismo, il Comune.
Nascono le Corporazioni, fenomeno nuovo, e si allargano a tutti i settori delle attività produttive.
Caratterizza i Comuni l'avere confini chiusi e l'elevata distanza gli uni dagli altri.
Frequenti erano le guerre, che rendevano difficili gli spostamenti.
Necessità di piccole industrie, nei Comuni, e nel contempo di una regolazione che regolamentasse i rapporti commerciali tra le une e le altre: FORTE REGOLAZIONE.
Acquistano grande peso e forza i I gruppi professionali, che:
- non conquistano il potere politico (Milano)
- conquistano il potere politico con la forza (Bologna)
- trionfano (Firenze).
Ma non dappertutto vi erano associazioni professionali; per esempio, non ve n'erano a Venezia.
E' il secolo che vede il tramonto delle Corporazioni e ciò a seguito della diffusione delle idee di libertà economica dei fisiocratici e dei sovrani illuminati.
Si dà corso a un ripensamento della disciplina giuridica delle professioni, in quanto si riteneva non più sufficiente una legislazione generale ma una disciplina dettagliata per ogni ambito.
Tendenza dei professionisti a organizzarsi in gruppi chiusi e dello Stato a riconoscerli.
Esercizio della professione solo da parte di chi è iscritto in appositi Albi.
Autonomia degli enti professionali costituiti su base corporativa sotto la vigilanza dello Stato.
Progressiva soppressione dei gruppi professionali e pieno assoggettamento di tutti coloro che esercitavano una qualche professione allo Stato.
Vi è un ripristino delle leggi soppresse durante il regime fascista, ivi incluse quelle che riguardavano le professioni.
Sintesi dei tratti costanti delle organizzazioni nei secoli:
- maggiore o minore coesione interna al gruppo, capacità di influenzare il pubblico potere;
- autonomia o soggezione rispetto all’Ordinamento giuridico generale.
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L’ORDINE DEGLI ASSISTENTI SOCIALI: caratteristiche e funzioni.
Qui di seguito il riferimento è alle leggi che lo disciplinano e alla sua struttura costitutiva (organi, consigli, regole di elezione).
Il Consiglio Nazionale:
Sono funzioni del Consiglio Nazionale:
Il Consiglio Regionale e i suoi compiti:
Una volta istituito, il Consiglio deve eleggere a sua volta tra i suoi componenti talune cariche:
4. il Tesoriere.
L'ALBO DEGLI ASSISTENTI SOCIALI
Requisiti per l’iscrizione:
il conseguimento dell’abilitazione per l’esercizio della professione,
la residenza nella Regione o nelle Regioni che costituiscono l’ambito locale dell’Ordine,
il fatto di non essere una persona già radiata dall’albo o condannata, con sentenza passata in giudicato, per un reato che comporta l’interdizione dalla professione.
Iter per l'iscrizione :
deve essere presentata una domanda al Consiglio locale con allegata la documentazione che attesti il possesso dell’abilitazione e il versamento della tassa di iscrizione.
Cancellazione:
la richiesta dell’interessato;
il venir meno dei presupposti necessari all’iscrizione.
Contro il diniego di iscrizione e la cancellazione è ammesso il ricorso al Consiglio Nazionale.
Sanzioni :
“All’iscritto all’albo che si rende colpevole di abuso o mancanza nell’esercizio della professione o che comunque tiene un comportamento non conforme al decoro o alla dignità professionale il consiglio dell’ordine regionale o interregionale infligge, tenuto conto della gravità del fatto, una delle seguenti sanzioni:
DISCIPLINA GIURIDICA DELLA PROFESSIONE
“Ogni professione ha i suoi segreti. Se non li avesse, non sarebbe una professione”
da Hector Hugh Munro
“Gutta cavat lapidem”
detto latino
Il rimando è alle voci del Dizionario di Servizio Sociale “ PROFESSIONI SOCIALI” di Dario Rei e “DEONTOLOGIA PROFESSIONALE” di Milena Diomede Canevini .
Si indicano qui di seguito alcuni steep essenziali - in Italia- per lo sviluppo di una legislazione di riferimento per gli assistenti sociali.
L' “antefatto” è costituito dal D.P.R. 29/12/1984 n. 1219 “ Individuazione dei profili professionali del personale dei Ministeri”e dal D.P.R. 15/1/1987 n.14 “ Valore abilitante del diploma di assistente sociale in attuazione dell'art.9 del D.P.R. 10/3/1982 n.162”.
Successivamente, la disciplina giuridico- normativa della professione si è
sviluppata come segue:
Vediamo qui di seguito in dettaglio le varie disposizioni legislative e regolative.
La Legge 84/93 e suo contesto storico-sociale:
L’esigenza di costituirsi come gruppo professionale fu sentita dagli AA.SS. sin dagli anni ’40 del secolo scorso ma si dovettero attendere decenni prima che vi fosse un riconoscimento di ordine pubblico.
È solo quando lo Stato riconosce la pregnanza di un gruppo che ne sancisce il riconoscimento istituzionale.
“Nei suoi cinque brevi articoli contiene la mappa genetica della professione ed è punto di riferimento dell’identità professionale.
In essa vi sono le parole chiave per definire lo spazio di competenza e di potere proprio della professione”. ( cfr. intervento di Marilena Dorigo, la prima Presidente dell'Ordine Regionale AA.SS. della Lombardia, 2002 ).
In sostanza:
- L’assistente sociale opera con autonomia tecnico-professionale e di giudizio in tutte le fasi dell’intervento per la prevenzione, il sostegno e il recupero di persone, famiglie, gruppi e comunità in situazioni di bisogno e di disagio e può svolgere attività didattico-formative.
- L’assistente sociale svolge compiti di gestione, concorre all’organizzazione e alla programmazione. e può
esercitare attività di coordinamento e di direzione dei servizi sociali.
- La professione di assistente sociale può essere esercitata in forma autonoma o di rapporto di lavoro
subordinato.
- Nella collaborazione con l’autorità giudiziaria, l’attività dell’assistente sociale ha esclusivamente una funzione tecnico-professionale.
Infine, questa legge definisce :
1. I requisiti indispensabili per l’esercizio della professione (Diploma/Laurea + iscrizione all’Albo).
2. L’Albo e l’Ordine degli Assistenti Sociali.
3. Le norme relative all’istituzione dei due organismi.
4. Norme transitorie.
CODICE DEONTOLOGICO :
A titolo di premessa, citiamo ciò che ha scritto in merito Milena Diomede Canevini (2002) :
“Il Codice deontologico ha segnato la completezza del percorso della formazione per entrare nel mondo socialmente riconosciuto delle professioni”. E ancora:
“Il Codice deontologico è stato il primo atto ufficiale del primo Consiglio dell’Ordine Nazionale, insediato nel 1996, con il quale tale organo ha voluto restituire e riaffidare alla professione i contenuti etici che da sempre, nella forza della sua tradizione, hanno accompagnato nel nostro e negli altri paesi l’evoluzione storica del servizio sociale e dei suoi professionisti.
Deve essere considerato non un atto obbligatorio disposto dalla Legge, ma un atto dovuto alla professione.
Esso deve essere interpretato perciò come un dettato che definisce, nel senso che afferma una tappa essenziale per lo sviluppo di un percorso di ulteriore evoluzione della professione, e al contempo chiarisce i principi ed i valori a cui la professione medesima si ispira nella sua pratica”.
A oggi, le edizioni del Codice Deontologico sono 3: 1998,2002,2009.
Articolazione del Codice:
Recita il Titolo I: “ 1. Il presente Codice è costituito dai principi e dalle regole che gli assistenti sociali devono osservare e far osservare nell'esercizio della professione e che orientano le scelte di comportamento nei diversi livelli di responsabilità in cui operano.
Procediamo qui di seguito a una segnalazione dei punti più significativi in questo contesto.
Titolo II : PRINCIPI.
Titolo III, Capo III: riservatezza e segreto professionale.
- rischio di grave danno allo stesso utente o cliente o a terzi, in particolare minori, incapaci o persone impedite a causa delle condizioni fisiche, psichiche o ambientali;
- richiesta scritta e motivata dei legali rappresentanti del minore o dell’incapace nell’esclusivo interesse degli stessi;
- autorizzazione dell’interessato o degli interessati o dei loro legali rappresentanti resi edotti delle conseguenze della rivelazione;
- rischio grave per l’incolumità dell’assistente sociale.
Legge 119/2001 "Disposizioni concernenti l’obbligo del segreto professionale per gli
assistenti sociali”.
D.P.R. 328/2001 Modifica disciplina delle professioni.
Capo IV Professione di Assistente Sociale.
Prescrive le attività professionali che formano l’oggetto dell’attività professionale dell’Assistente
Sociale ( Sez.A e Sez,.B).
Prevede la disciplina dell’Esame di Stato per la professione di Assistente
Sociale:
Art. 22: Assistente Sociale Specialista
Art. 23: Assistente Sociale
Regolamento disciplinare:
a) ammonizione;
b) censura;
c) sospensione dall’esercizio della professione;
d) radiazione dall’albo.
a) intenzionalità del comportamento;
b) grado di negligenza, imprudenza, imperizia, tenuto conto della prevedibilità dell’evento;
c) responsabilità connessa alla posizione di lavoro;
d) grado di danno o di pericolo causato;
e) presenza di circostanze aggravanti o attenuanti;
f) concorso fra più professioni e/o operatori in accordo tra loro;
g) recidiva e/o reiterazione.
PAROLE CHIAVE: ETICA, DEONTOLOGIA, MORALE, RESPONSABILITA' PROFESSIONALE.
E' necessario partire da una data storica per il servizio sociale italiano e cioé l'anno 1946 in cui ha luogo il Convegno di Tremezzo. La situazione sociale è quella di un'Italia distrutta dalla guerra. C'é bisogno di energie nuove, di rispondere a nuovi bisogni della popolazione. Emergono l'importanza e la necessità della figura dell'assistente sociale.
Si tratta di intraprendere e percorrere un cammino in salita per il riconoscimento della professione ( vedi sopra), cammino reso difficile sia all’interno (conflitto di poteri, disaccordo sui contenuti e compiti etc.) ed esterno.
Ma vi è l'accordo di tutti sul fatto che la professione si vuole riconosciuta e collocata all’interno di quelle intellettuali.
Si vuole un Albo, a tutela del cittadino utente nei confronti del professionista, che deve possedere competenza. Ma una professione per essere riconosciuta tale deve rispettare dei requisiti. E allora innanzitutto la domanda é: cosa vuol dire “ professione”, cosa la caratterizza, cosa fa di una professione qualcosa di diverso da un mestiere, da un lavoro?
Vediamolo.
Il termine professione deriva da analoga parola latina, professio-onis, e al suo interno ha la radice del verbo latino fari che significa parlare, ma anche parlare profeticamente, essere profeta e profeta è colui che parla in nome e per conto di qualcun altro ( pensiamo al suo significato in un contesto religioso). Quindi esercitare una professione significa svolgere un lavoro che si basa innanzitutto sull'uso della parola. Professionista è colui ( o colei) che conosce, usa e sa usare le parole per svolgere il suo lavoro , che conosce usa e sa usare le parole specifiche e utili a svolgere il suo proprio lavoro, quel lavoro esperto che lo qualifica e lo contraddistingue. Quindi non parole qualunque, non parole vuote ma parole che debbono avere dietro un pensiero, una teoria, parole che nel loro insieme formano e contraddistinguono una disciplina.
(Cfr. la voce PROFESSIONI SOCIALI in Dizionario di Servizio Sociale , a cura di Dario Rei).
La collocazione degli operatori sociali nel novero dei professionisti è recente ( e non esente da problemi). Per esempio Toren ( 1969) considerava le professioni sociali nella categoria delle semi-professioni , cioé delle attività che non avevano ancora raggiunto il pieno status ordinariamente attribuito alle professioni legali, mediche e tecnico-ingegneristiche.
Il concetto di professione.
Per definire il concetto o nozione di professione possiamo rifarci alle caratteristiche che FLENER, sociologo americano attivo all'inizio del '900, individuò nel 1915 come caratteristiche proprie delle “vere” professioni, ovverossia:
I parametri fleneriani erano definiti soprattutto in rapporto alle professioni liberali tradizionali ( medico, ingegnere, avvocato, artista) e avevano come presupposto una netta separazione tra lavoro manuale e lavoro intellettuale, separazione a cui corrispondeva anche una netta distinzione di status e di legittimazione sociali e, conseguentemente, è ovvio, di guadagno o di retribuzione.
Il concetto di professione si è successivamente evoluto in “ servizio agli altri nelle interrelazioni societarie+piena realizzazione dell'uomo e delle sue potenzialità creative” e oggi possiamo definire una professione come “ un patrimonio teorico + obbiettivi in relazione a uno specifico contesto + metodologie specifiche + prestazioni lavorative” e includervi a pieno titolo le professioni di aiuto.
Fondamentale per il passaggio della professione di assistente sociale da semi-professione a professione di aiuto a pieno titolo è stato l'aver conseguito normativamente tre obiettivi fondamentali: l'Albo, Il Codice Deontologico, il Segreto professionale .
Quali sono le caratteristiche distintive della professione di assistente sociale ?
Ai sensi dell’art.34 del Codice Deontologico, la professione di assistente sociale è un lavoro di grande RESPONSABILITA’, lavoro che per essere assunto e svolto appieno:
FUNZIONE, RUOLO, RUOLO PROFESSIONALE E RESPOSABILITA’ TECNICO-PROFESSIONALI.
FUNZIONE è l’attività o complesso di attività specifiche che una persona svolge in rapporto alla carica ricoperta.
RUOLO è la parte, il compito, la funzione assunta da una persona all’interno di un gruppo, una équipe, una squadra, un’organizzazione.
Comportamento di ruolo: è il modo con cui una persona che occupa una data posizione effettivamente agisce…
Caratteristiche del ruolo: è possibile distinguere in ciascun ruolo una componente prescrittiva e una componente discrezionale.
La componente prescrittiva è regolata da norme date dalla legislazione, dai regolamenti , dai codici, dall’ unità organizzativa in cui si opera, dalle disposizioni previste o impartite dai Superiori (per es. Ordini di Servizio). Rappresenta un contesto e un ambito di sicurezza per l’operatore, ma è anche un limite alla libertà e creatività individuali.
La componente discrezionale è quella per la quale la persona si trova a decidere da sola, in autonomia, su alcuni aspetti della propria attività professionale. Da una parte rappresenta la possibilità di decidere e agire in modo personale, dall’altra pone il problema di scegliere come operare senza la certezza del risultato che consegue alla scelta effettuata.
La consapevolezza della presenza di entrambi le componenti ( prescrittive e discrezionale) e l’equilibrio fra di esse identificano e determinano l’assunzione della RESPONSABILITA’ di RUOLO.
(Cfr. la relazione di Francesca Merlini al Convegno “ L’assistente sociale tra responsabilità btecnico-professionali e vincoli/risorse dell’organizzazione di riferimento” Milano, 15 Maggio 2012).
GLI ATTEGGIAMENTI PROFESSIONALI
Valori e principi determinano l’esplicarsi nel concreto dell’attività professionale, di alcuni atteggiamenti distintivi e qualificanti la specificità tecnico-operativa dell’A.S.
Tali atteggiamenti distintivi sono:
I riferimenti dell’azione professionale sono la persona e il suo territorio inteso come l’area di azione e di vita di soggetti in relazione e comunicazione per soddisfare i bisogni individuali e di gruppo in funzione della crescita del proprio BENESSERE e QUALITA’ della vita.
N.B. Il territorio assume le caratteristiche di COMUNITA’, ovverossia di ambito di vita a cui le persone sentono e riconoscono di appartenere, in cui interagiscono e trovano significato rispetto ai diversi ruoli agiti ( Cfr. lavoro proposto in GUIDA al TIROCINIO).
( Da Bartolomei A., Passera A.L. “L’assistente sociale” ed.CieRre, 2° edizione. Estrapolazione a cura di Monica Nocentini Corso di Laurea in Servizio Sociale, Introduzione ai metodi di S.S. a.a. 2007/2008).
Storia del Codice Deontologico ei suoi precedenti significativi.
“ Nella maggior parte dei Paesi occidentali il lavoro dell'assistente sociale può contare su un codice deontologico. L'esistenza di tale normativa è ritenuta una delle caratteristiche portanti di una professione. Nel corso degli anni Sessanta e Settanta il dibattito sul servizio sociale come professione è stato molto intenso ( Etzioni, 1969; Toren.1972)” ( Sarah Banks Etica e valori nel servizio sociale Ed.Erickson, Trento 2004 pag. 69).
Alcuni precedenti significativi:
- primi codici dopo la guerra à continuità di idee cfr. la tutela della riservatezza e il rispetto del segreto come norma etico-deontologica.
- Codici UGIS, fatto di 500 articoli il primo e di ben 800 articoli il secondo.
- Codice del ’76, redatto dopo la contestazione del 1968: contiene la dichiarazione di principi ripresa nelle edizioni del ’90 e del ’94, nonché la definizione di social work internazionale ( cfr. Conferenza di Dubrovnik).
- Carta di Malosco: Linee fondamentali etico-politiche in rapporto ai servizi sociali maturate dalla Fondazione “Emanuela Zancan” in 25 anni di attività culturale” Ed Fondazione E.Zancan, Padova, Marzo 1990
- Codice del ’92 elaborato dall'ASSNAS, che sarà usato come “base” per il C.D. del 1998.
Tutti i codici antecedenti sono stati di grande importanza e aiuto per la stesura del 1°Codice deontologico italiano del ’98. Una 2a edizione del Codice si è avuta nel 2002: perché dopo così poco tempo? Innanzitutto perché un Codice deontologico non è e non deve mai essere statico. La professione è qualcosa di vivo, inserito nella storia, evolve, come evolve- anche al suo interno- la professione.
Ma in Italia ci sono stati anche significativi cambiamenti e novità sopraggiunte per la professione:
1. laurea/laurea specialistica
2. legge n.241/90 e introduzione nel diritto pubblico delle norme sull' accesso agli atti.
Trattasi di una questione nodale per gli Ordini regionali degli assistenti sociali ( cfr. il testo a cura di Tinina Amadei e Anna Tamburini La leva di Archimede Ed. Franco Angeli Milano, 2002).
3. il segreto diventato norma giuridica , oltre che etica e deontologica, con la legge n.119 del 2001.
N.B. una norma giuridica è diversa da una norma deontologica.
Infatti la norma giuridica ha validità erga omnes e trova il suo fondamento nel consenso e nell'accordo raggiunto, in regimi democratici, tra i membri di una comunità o dalla maggioranza di essi, sulle regole che disciplinano la convivenza civile. Tale accordo avviene tra persone che riconoscono una comune appartenenza e condividono beni e valori quali il territorio, la lingua, la storia, la cultura, i costumi e le istituzioni.
Il valore della norma giuridica – e ciò che induce ad osservarla e rispettarla da parte di tutti i cittadini - non consiste solo nella sua bontà, utilità o nel fatto che riscuote il consenso della collettività ma anche nel fatto che sono previste sanzioni penali in caso di inadempienza o trasgressione.
La norma deontologica ha invece il suo fondamento nell'etica, nella coscienza ( cfr. Titolo II Principi, art.10 del Codice Deontologico dell'assistente sociale 3a edizione che, implicitamente richiamandosi all'antico giuramento di Ippocrate, invita a basare l'esercizio della professione su scienza e coscienza) e nella responsabilità- verso se stessi, verso la professione e verso gli altri - che il professionista assume nello svolgere il suo lavoro ( il richiamo alla responsabilità e ai doveri a essa connessi attraversa tutto l'articolato del Codice Deontologico dell'assistente sociale, rappresentandone , si può dire, il leit- motiv) ( cfr. Amadei T. Tamburini A. in La leva di Archimede Ed.Franco Angeli Milano 2002 ,pagg 30-31).
L'inosservanza o trasgressione di una norma deontologica comporta sanzioni disciplinari che possono essere inflitte - al termine di regolare procedimento disciplinare - dal Consiglio dell'Ordine al professionista che di tale inosservanza o trasgressione si è reso responsabile.
Confronto tra il il Codice prima edizione del 1998 e il Codice seconda edizione del 2002: rimangono inalterati i principi, tratti da molte Carte dei diritti umani. Ma alcune parole sono state cambiate. Per esempio, vi era stato un dilemma sul termine RAZZA, dilemma evidenziato dall’Ordine del Veneto; nella seconda edizione, quel termine è stato tolto perché poteva avere una connotazione negativa nel parlare della persona. Al suo posto è stato introdotto il termine ETNIA.
Previsione esplicita del principio basilare che la professione è basata sulla persona e il suo fulcro è la centralità della persona. Professione a tutela e presidio del benessere della persona e del bene comune della società. Aumento del numero degli articoli.
Posto che il Codice non è un manuale di comportamento, non orienta, non sceglie per noi, vige il principio secondo cui chi ha la responsabilità di scelta è l’assistente sociale., secondo coscienza, scienza e competenza, competenza che deve essere continuamente aggiornata.
SCIENZA E COSCIENZA. Nel merito ebbe a dire il filosofo Rosmini: “ La coscienza è consapevolezza del significato etico delle proprie azioni”.
Di fronte alla coscienza, come tutti anche l’ assistente sociale è solo. Può consultarsi con altri ma la decisione ultima è sua. Va a vedere ( per poi agire/intervenire/operare di conseguenza) rispetto al bene dell’utente cosa debba considerarsi priorità: per esempio cosa può significare-comportare per un bambino avere un padre pedofilo? Quali sono gli interventi da attuare in questo caso? Quali prima e come?
Nel trattare un caso, è necessario e di grande importanza e peso professionali capire le conseguenze dei propri atti/interventi professionali. Parimenti, è importante rispettare regole etico-deontologiche quali: non divulgare notizie di cui si viene a conoscenza nell'esercizio della professione, non lasciare in giro atti e documenti, non chiacchierare di casi e utenti coi colleghi nei corridoi etc.
. Ogni CODICE DEONTOLOGICO è un insieme di norme che riguardano la professione e i professionisti che quella professione esercitano. Ogni codice deontologico prescrive e proscrive (cosa deve essere o non deve essere fatto); la sua osservanza è obbligatoria per tutti gli appartenenti all'Ordine e iscritti all’Albo, la sua inosservanza comporta sanzioni disciplinari.
Obbligatorietà di iscrizione all’Albo: trattasi di una questione che è stata ampiamente discussa, ma alla fine ha prevalso la valutazione favorevole all'obbligatorietà.
Il CODICE DEONTOLOGICO si può dire che esprima la dottrina dei doveri del professionista. Non è stato e non è facile elencare tutti i doveri. In conseguenza di ciò ( elencazione e previsione dei doveri) questo codice è esigente e impegnativo da rispettare sia per l’assistente sociale che per la comunità professionale.
I nostro Codice deontologico è sia DEONTOLOGICO che ETICO à ovverossia fondato su VALORI. Cfr. quel che ebbe a dire Aristotele, il filosofo greco del IV secolo a.C. ritenuto il fondatore dell'etica : “Ogni cosa va giudicata in base al bene dell’uomo. Le virtù etiche sono costituite dalla la capacità di scegliere il giusto mezzo tra due spinte emotive. Tutte le virtù sono “abiti” che si acquisiscono con la formazione e l’esercizio. Bene è la vita buona”.
Bibliografia di approfondimento
- Vecchiato T. Villa F. Etica e servizio sociale Ed. Vita e Pensiero, Milano 1995;
- Amadei T. Tamburini A., a cura di, Il codice deontologico dell'assistente sociale tra
responsabilità e appartenenza sociale Ed. Franco Angeli, Milano 2002;
- Sarah Banks Etica e valori nel servizio sociale Ed. Erickson, TN 3a edizione 2004;
- Pieroni G. Urbano M., a cura di, Deontologia professionale e dilemmi etici.Atti del
seminario di Studi, Siena 6 Maggio 2005 Ed.Università di Siena, Di Gius 2005,
all'interno: Diomede Canevini M. Etica e deontologia professionale pagg.9/19.
ETICA, MORALE, DEONTOLOGIA.
Mary Richmond (USA) nel 1915 così definì il servizio sociale: “ Arte di svolgere servizi diversi per e con persone diverse, cooperando con loro a raggiungere il miglioramento loro e della società. Insieme di procedimenti che sviluppano la personalità attraverso un adattamento realizzato coscientemente, individuo per individuo, tra gli uomini e il loro ambiente sociale”.
Abbiamo visto e approfondito durante la prima parte del corso che il servizio sociale nasce come professione tra la fine del 1800 e i primi decenni del '900 dall'attività, lavoro ed esperienza delle C.O.S. inglesi, C.O.S. che si affermano anche negli Stati Uniti d'America e che originano da una matrice culturale ispirata dalla filantropia ma anche dalla necessità di un superamento di quest’ultima per ovviare agli abusi di una elargizione indiscriminata di aiuti e sussidi.
A quasi un secolo dalla definizione di M.Richmond troviamo ripresi, formulati o rielaborati concetti analoghi in un testo di Elisabetta Neve ( Il servizio sociale, fondamenti e cultura di una professione Ed.Carocci, Roma 2000) di cui qui di seguito si riporta il passo che recita : “...tanto più è necessario ( per non cadere in grossolani errori e mistificazioni) dotarsi di una razionalità forte che sappia analizzare, riconoscere e discernere, tanto più si aprono spazi in cui occorre sviluppare anche intuito, sensibilità, capacità giocare tra una partecipazione calda, viva ai problemi sociali e una distanza ragionata tale da poter leggere al di là di ciò che appare e tale da controllare i nostri desideri e i nostri abituali schemi di riferimento. Occorre un modo di “comprendere” composito, che è prioritario rispetto al nostro bisogno di fare e di dare risposte esso si traduce essenzialmente in un atteggiamento critico e di ricerca, che trova radici in convinzioni e in motivazioni che hanno sempre una grossa portata anche di natura etica”. ( cfr.testo cit. pag. 68-69).
L'etica è una branca della filosofia, che nasce con Aristotele e che, come disciplina teoretica, ha il suo fondamento nella conoscenza e nell'esperienza umana del bene e del male. L'uomo avverte e sperimenta che ogni azione possiede una valenza etica e può essere valutata in relazione ai valori di BENE e di MALE.
In altri termini, non esistono azioni neutre, perché ogni azione muove sempre da una intenzionalità e produce sempre effetti ( conseguenze) valutabili sul piano umano o in senso positivo o in senso negativo.
Il BENE o il MALE rispetto al quale si interroga l'etica non è il bene o il male in senso materiale o utilitaristico, legato a tornaconto, interesse o profitto; è invece il bene “sostanziale”. Si tratta cioè di quel ben-essereche si identifica con una concezione antropologica dell'essere umano e del suo pieno realizzarsi come tale in una progressiva crescita di umanità e consapevolezza.
Come dicevasi poco sopra, Aristotele ( 384-322 a.C.) con il suo testo “ Etica nicomachea” è il primo filosofo che si è occupato di etica. Egli sosteneva che “... Ovunque troviamo l'aspirazione a un fine, appare da una parte un ente (= soggetto, persona) e dall'altra parte un fine a cui questo ente aspira. Questo fine è, appunto, il BENE”.
Sempre secondo Aristotele, il BENE, la tendenza al BENE perfeziona l'ente ( cioè il soggetto che compie l’azione).
Nell'esperienza incontriamo sempre l'aspirazione a un fine. Questo fatto ci fa apparire il BENE come
un elemento integrante della realtà.
Il BENE per Aristotele è ciò a cui si tende e non il “ cosa” si vuole; il BENE è la felicità, con ciò intendendosi lo sviluppo compiuto dell'ESSENZA dell'uomo, cioé dell'anima razionale, della conoscenza intesa come “fronesis” = saggezza .
Secondo il concetto aristotelico di “ virtù” si diviene “ buoni” se si compiono azioni buone ( e non viceversa). Ne possiamo inferire, per quel che qui ci interessa, che non si può divenire professionisti esperti e capaci ( in senso aristotelico “ buoni” professionisti) se non si è avuta una esperienza piena della propria umanità e professionalità.
“ Da questa affermazione si comprende l'importanza dell'insistenza del Codice Deontologico nel voler promuovere e ottenere condizioni operative adeguate per lavorare al meglio”.( A.Tamburini, testo citato pag.32)
A questo punto, per meglio comprendere cosa è l'etica e il bene secondo Aristotele, inserisco il capitolo intitolato “Il goal di Aristotele” preso dal volume di Armando Massarenti IL FILOSOFO TASCABILE Ed. Guanda , Parma 2009.
Scrive Massarenti: “ Ma Nino non avere paura / di sbagliare un calcio di rigore/ non è mica da questi particolari / che si giudica un giocatore./ Un giocatore lo vedi dal coraggio,/ dall'altruismo e dalla fantasia (...)”.
Chissà se Francesco De Gregori ha mai letto l'ETICA NICOMACHEA. Sembrerebbe di sì, perché quando Aristotele ( 384-322 a.C.) parla delle virtù – e ne parla per lo più in relazione ad attività particolari, professionali, sportive, artistiche - sembra proprio che parli di Nino e della Leva calcistica del Sessantotto.
Poco importa che sbagli un rigore. E ancora meno che lo segni. “ Una rondine non fa primavera” scriveva Aristotele prima che questa sua frase divenisse un proverbio di cui si è perso il senso. E il senso era questo: una singola azione riuscita, un singolo successo, ma anche un singolo gesto coraggioso o altruistico o caritatevole o creativo o magnanimo o giusto, non ci può dire ancora nulla sulle reali qualità di chi lo compie.
Si può agire in quel modo per puro caso, così come capita che uno che non ha mai toccato un pallone in vita sua, messo davanti a una porta tiri e segni. E' la fortuna del principiante, si dice. Il quale forse non ha paura solo perché sa che non è in pericolo la sua reputazione di giocatore, non avendone alcuna. Ma è appunto fortuna e come tale, al contrario della virtù, noné destinata a durare. Che cosa è dunque per Aristotele una virtù? Il coraggio, l'altruismo, persino la fantasia sono attitudini che si coltivano nel tempo. Non sono né naturali né “contro natura”, non sono già date né del tutto costruite: sono potenzialità che Nino può sviluppare, se lo vuole, attraverso l'educazione, l'esercizio, la formazione del carattere, fino a farle diventare parte integrante di sé come una “ seconda natura”, insieme a tutte le altre capacità pratiche che ne faranno un buon gocatore. Compreso tirare calci di rigore. Deve trasformarle in disposizioni ad agire in un certo modo, il modo giusto, sapendo che il modo giusto cambierà a seconda delle circostanze. A seconda del portiere che avrà di fonte, per esempio.
La vita pratica, l'intera vita morale, l'intera vita umana non è fatta di regole o di precetti, o perlomeno non solo di quelli, ma soprattutto di questa capacità di cigliere nelle singole circostanze la sintesi giusta tra viversi elementi che non si presentano mai nella stessa identica combinazione.
Questa Aristotele la chiama “ saggezza” e la collega alla dottrina del “ giusto mezzo” oltre che, appunto, alla coltivazione delle diverse virtù.
Che hanno la caratteristica di essere stabili, radicate come sono nella personalità e nel carattere di chi le ha coltivate con esercizio e lungimiranza. E delle quali,non a caso, Aristotele non fornisce mai un elenco completo. Tale elenco sarebbe impossibile, vista la naturale varietà di ciò che chiamiamo bene, il quale, come l'Essere, per Aristotele “ si dice in molti modi”.
Per questo no gli sarebbe piaciuto per niente il “Sommo bene” che la Scolastica gli avrebbe cucito addosso. A lui interessava piuttosto la “ eudaimonia”, che non è semplicemente la felicità, come spesso la si traduce, ma la fioritura completa delle potenzialità tipicamente umane.
Certo le virtù cambiano da persona a persona, da professione e professione. Quelle che fanno un buon giocatore sono diverse da quelle che fanno di un avvocato un buon avvocato, di un giornalista un buon giornalista, di un fabbro un buon fabbro, di un pensatore un buon pensatore. Ma certo quest'ultimo, per Aristotele, è il più vicino alla vera virtù, quella “contemplativa”. Tale virtù è la più vicina a realizzare “ il fine proprio dell'uomo”, di ogni uomo: la razionalità. Che non è quella cosa arida e astratta che ti hanno descritto certi cattivi maestri, Nino, ma è proprio la virtù che ti permette di agire all'occorrenza nel modo più giusto e più saggio e che ti fa segnare i più bei goal nella vita.”
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Dopo questa lettura, simo in gradi di comprendere rettamente e nello “ spirito” del servizio sociale quel che segue:
La dinamica è fra BISOGNO e DESIDERIO; la meta è la FELICITA'.
Scriveva Giacomo Leopardi “Se la felicità non esiste, cosa è dunque la vita”?
A questo punto un po' di etimologia, sapendo che “ le parole sono una cosa seria”.
Etica : è termine che deriva dal greco ethos e significa “ usanza,consuetudine, modo di comportarsi, casa comune”; qui il riferimento è alla dimensione pubblica del vivere, ove si tiene presente la posizione propria e quella dell'altro. La dimensione sociale dell'etica fu enunciata innanzitutto ( vedi sopra) da Aristotele, che la definì anche “ politica”. L'etica pubblica contiene molti dei valori del Servizio Sociale, universalmente condivisi anche da altre professioni, come per esempio il rispetto per la libertà della persona, il principio di responsabilità o quello di autodeterminazione.
Morale: è termine di origine latina: deriva da mos, moris e significa anch'esso maniera di comportarsi, modo di agire,costume, usanza, abitudine, carattere,volontà, regola,norma, ma con il termine “morale” si intende la dimensione personale del vivere.
N.B.La distinzione tra etica (dimensione pubblica) e morale (dimensione personale) è stata introdotta dal filosofo dell'idealismo tedesco F.G. Hegel ( 1770-1831), il quale intuì che tra le due dimensioni avrebbe potuto esserci conflitto.
Deontologia: è termine che deriva dal greco deontos, genitivo di deon= dovere; la deontologia è costituita da quell'insieme di regole codificate che traducono contenuti etici generali e condivisi. Queste regole attuative di principi universali sono storicamente determinate e pertanto non possono considerarsi definite una volta per tutte ma variano in relazione alle diverse categorie professionali di cui sono espressione e da paese a paese, in quanto il mandato giuridico-deontologico è subordinato alle norme vigenti in ciascun Paese.
Se l'etica si riferisce a qualcosa di più ampio della deontologia, pur essendovi una correlazione stretta e, talvolta, una parziale sovrapposizione dei due termini, in ogni caso l'etica pubblica contiene molti dei valori del Servizio Sociale ( i cosiddetti “ fondamenti”).
Eventuale ampliamento con elementi della tesi di Laura Tiozzo che parla proprio dell’ordine.
La deontologia si riferisce agli aspetti normativi e prescrittivi del comportamento etico ( cosa fare, cosa non fare, i principi e i criteri generali di riferimento per l'esercizio di una attività professionale) e a quelli sanzionatori.
Della deontologia, alcuni autori mettono in risalto il carattere strumentale e orientativo: una indicazione a cui attenersi, un quadro di coordinate a cui riferirsi, che rimandano però sempre alla scelta del professionista e alla sua capacità di comprendere, valutare e applicare l'indicazione generale verso il bene alla situazione specifica e concreta in cui si trova a operare.
Esistono professioni come quella medica che vantano un codice deontologico antichissimo (si pensi al GIURAMENTO di IPPOCRATE, il fondatore della medicina vissuto tra il 470- 390 a.C.). Ippocrate separò la medicina intesa come “tekhne” cioé arte ( arte in senso tecnico; ars in latino significa appunto attività pratica)) dalla filosofia. Dalla concezione ippocratica e dai suoi sviluppi a opera di Galeno Claudio ( il medico dell'imperatore Marco Aurelio) nel II secolo d.C. deriva il nostro modo di concepire l'arte della cura secondo il metodo analitico-sperimentale, ben lontano dalla concezione della malattia come espiazione di una colpa voluta dagli dei che era proprio degli Egizi, dei Fenici, dei Sumeri e dei Greci prima di Ippocrate .
Esistono professioni di recente formazione ( quella di psicologo e di assistente sociale, per esempio) che hanno adottato solo in tempi molto recenti tale strumento ( il Codice Deontologico) come espressione etica e come pubblica manifestazione dell'agire professionale. Infatti, come ha scritto Lia Sanicola ( 1985) “ L'esistenza di un codice deontologico non crea di per sé l'agire professionale, come la scrittura non crea il pensiero, ma ne è l'espressione”.
In altri termini, il Codice Deontologico rende pubbliche e manifeste le norme interne della professione. La deontologia – formalizzata in un codice di norme - rimanda all'etica come orizzonte più vasto di riferimento, orizzonte della ricerca di ciò che è UMANO , vale a dire proprio e specifico dell'uomo: il BENE. Bene che, per esempio, volendosi definirlo con la terminologia dell'O.M.S. ( Organizzazione Mondiale della Sanità) corrisponde allo stato di SALUTE inteso come insieme equilibrato e interdipendente di benessere fisico, psichico e sociale.
In un contesto di servizio sociale come disciplina, non solo di etica e deontologia si è parlato e scritto, ma anche di etica e antropologia. Lo ha fatto per esempio FRITZ VOLZ ( filosofo tedesco e docente di Servizio Sociale in Germania), che in un suo scritto del 1997 ha definito l'etica una “ antropologia applicata”, vale a dire una concezione di sé come compito ( dove compito è da intendersi come lavoro responsabile: torneremo più avanti sul concetto di responsabilità). In tal senso, la domanda che il professionista si deve porre è “ CHE COSA devo fare?” qui, adesso, in relazione a un contesto, alla vita, all'agire umano e alle sue ( dell'uomo persona reale, non idea!) esigenze e conseguenze.... Ma l'etica rimanda anche e in primis al “ COME devo fare?
E qui il richiamo, sia pur solo accennato, é al “ Credo” dell'assistente sociale di SWIFT ( America, 1945), anch'esso parte della storia del servizio sociale.
In tutto il processo metodologico - in cui si concretizza il processo di aiuto- l'etica non è un fatto estrinseco o sovrapposto ma intrinseco, cioé una dimensione che connota internamente e interamente tale processo. “ L'intervento è corretto sul piano tecnico-professionale su quello etico-deontologico se è impostato a partire dal riconoscimento di quello che la persona è con tutte le sue caratteristiche, specie quelle umanamente più qualificanti, quelle, appunto, che i principi del servizio sociale richiamano”. ( dal testo di A. Vecchiato e F.Villa Etica e servizio sociale Ed.Vita e Pensiero Milano 1995, pag.79).
Nell'ambito dell'agire umano-professionale fatto di intenzione ( di fare la cosa giusta) e di conseguenze del fare (conseguenze che sono un'incognita....) Il lavoro responsabile, la responsabilità per il professionista - assistente sociale - comporta il dovere di un rapporto conoscitivo con la situazione nella sua concretezza e specificità e l'assunzione di una decisione,con le responsabilità e i rischi ad essa connessi.
Pensiero + Azione sostanziano l'agire umano tanto quanto l'agire professionale. Sul piano professionale, nell'incertezza o ambiguità delle situazioni, per poter prendere una decisione e per rispondere alla domanda “ COSA DEVO FARE?” è necessario saper formulare una lettura, un giudizio ( non un pregiudizio, però) una interpretazione della realtà ( non stereotipo, però). Qui l'indicazione deontologica è un richiamo e uno strumento che dà le coordinate per un'azione di riflessione, comprensione e valutazione prima e del progetto operativo o intervento poi - caso per caso- relativamente alle situazioni che chiedono al professionista- assistente sociale di intervenire.
Ma su pregiudizi e stereotipi torneremo più avanti. Qui basti dire che- di contro a stereotipi e pregiudizi ( che sono noti anche sottoforma di ideologie e preconcetti)- la ragione ha una funzione di conoscenza e orientativa, in quanto strumento di indagine della realtà e che senza ragionee senza capacità ragionativa non si può parlare di comportamento etico.
CODICE DEONTOLOGICO E RESPONSABILITA'
Ogni Titolo del Codice è intitolato alla responsabilità.
La responsabilità può essere:
La responsabilità va intesa come risposta da responsum, intensivo che deriva dal verbo latino RESPONDEO, che significa fondamentalmente due cose:
Ogni gesto professionale ha un respiro più ampio dell’io-tu ( dimensione inter-soggettiva), ha cioé un respiro sociale. Qui si toccano le radici stesse della condizione di aiuto, desumibili anche dalla parola assistenti sociali à la cui etimologia è dal latino “ad sistere” : sto lì accanto, sono presente. Dunque svolgere una professione di aiuto significa essere, stare lì accanto, lì dove il bisogno emerge. Cfr anche il Convegno di Tremezzo: lavorare per rispondere ai bisogni delle persone, anche congiuntamente con altre professioni (cfr. lavoro di rete: risvolti comunità-istituzioni-individuo. Vedasi al riguardo anche il testo di Luigi Gui laddove parla di servizio sociale trifocale).
Si rende opportuno a questo punto richiamare i valori fondanti e condivisi della professione declinati
con un filo rosso che parte dall’ ‘800 e arriva a oggi:
MODELLI, METODOLOGIA, METODI E TECNICHE DI SERVIZIO SOCIALE
Al riguardo vedi Dizionario di servizio sociale, in particolare le seguenti voci:
Modello:: può essere definito come “strumento”, oppure come “schema di riferimento”, schema concettuale ipotetico, tecnico-orientativo che serve per l’analisi della realtà, anche ai fini operativi. In sostanza, i modelli costituiscono la base teorica, sono come mappe cognitive per l’azione ( cfr. anche il testo di Luigi Gui Le sfide teoriche del servizio sociale , cap.4).
Il modello ha bisogno di essere testato e confrontato con la realtà.
Tutti i modelli sono modelli in funzione della pratica e dell'agire professionale; le diverse dimensioni del lavoro professionale possono esigere modelli differenti.
EVOLUZIONE DEI MODELLI OPERATIVI.
Nei paesi anglo-americani :
Anni '50/'60:
Anni ’70 sviluppo delle teorie sistemiche, che hanno dato nuovi impulsi alla elaborazione di modelli che tenessero conto oltre che della dimensione individuale anche di quella integrata ( cfr. la trifocalità di cui parla Luigi Gui nel suo testo Cap. 4.3 ) e cioé:
Negli USA:
Molto importante è anche lo studio dei modelli utilizzati nel lavoro con i gruppi:
Anni ’90: vedono l'affermarsi del welfare mi. Emerge il lavoro di comunità:
Empowerment ( cfr. articolo di Bruno Bortoli e Fabio Folgheraiter nella Rivista lavoro sociale n.2/02) é il nome del metodo maggiormente utilizzato per :
Empowerment Sociale ( cfr. voce del Dizionario di S.S. a cura di Patrizia Sartori):
il termine indica il risultato, cioè lo stato empowered del soggetto o della collettività, ma anche il processo che ne facilita il raggiungimento, l’insieme delle condizioni di empowering; è un modello teorico, un modo di considerare la realtà sociale e un ambito di ricerca, ma anche una filosofia di intervento nella comunità; è un concetto “multilivello” applicabile sia agli individui che alle organizzazioni e alle comunità.
ITALIA.
Si assiste a uno sviluppo lento dei modelli perché, non dimentichiamolo, il servizio sociale non era inserito nelle università.
Gli anni ’50 vedono un utilizzo dei modelli americani, conosciuti in Italia grazie a convegni, incontri, traduzioni di opere. Il limite di tali modelli però era costituito proprio dal fatto di essere stati elaborati e messi a punto Limite in contesti socio-culturali diversi.
Gli anni'70 e '80.
Di quei modelli si ha una messa in discussione negli anni ’70. In quegli anni, a seguito dei sommovimenti socio-culturali del '68, vi furono grandi cambiamenti: nascono le Regioni, si ha un cambio dell' assetto dell'assistenza rifiuto di modelli settorializzati e messa a punto di modelli sempre più integrati e unitari. Nel frattempo, avviene anche l' inserimento delle discipline sociali ( sociologia prima e servizio sociale poi ) nelle università, con un conseguente impulso alla elaborazione teorica. Citiamo al riguardo:
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Modello Problem solving (cfr. testo di B. Bortoli Teoria e storia del Servizio Sociale pag.127/128):
Evidenzia la crucialità dell’utente come effettivo risolutore del suo problema ( transizione attiva della persona da “ bisognoso” a “cittadino utente”; promozione del diritto all’autodeterminazione e all’accrescimento del ventaglio di opzioni e di possibilità o di alternative possibili.
Riferimenti: psicologia cognitivista-costruttivista, psicologia dell’io neofreudiana, psicologia
umanista.
Assunti teorici:
L'intervento di servizio sociale deve guidare la persona a comprendere quali sono gli schemi più adeguati per progettare percorsi di vita realistici. Contestualmente, deve anche essere svolta un’azione verso le istituzioni perché siano in grado di offrire un ambiente nutritivo.
Col tempo, vi stato un ampliamento del campo applicativo e di intervento, in modo da rivolgere il modello non solo al singolo ma anche a contesti più ampi ( es.network)
Modello sistemico-relazionale (cfr. voce del Dizionario di S.S. a cura di Annamaria Campanini):
Si afferma in Italia negli anni '80.
Riferimenti teorici: Teoria dei sistemi ( cfr. Scuola di Palo Alto e il testo Pragmatica della
comunicazione).
L'ambito di applicazione è stato soprattutto quello della terapia della famiglia.
Questo modello indirizza il focus non tanto sull’individuo ma sul sistema in cui esso è immerso, nelle relazioni che vive. Ciò è fondamentale e interessa le varie fasi del processo di aiuto: es. nella raccolta della domanda allargare al contesto di riferimento. L’analisi del problema deve ricondurre lo stesso in un’ottica sistemica (e non trattarlo come problema di un singolo); contratto: chiara definizione dei compiti del super wisor e dell' utente; verifica dei risultati: focus su omeostasi, cambiamento del sistema.
Modello unitario centrato sul compito ( cfr. voce del Dizionario di S.S. a cura di Franca Ferrario):
È un modello olistico , ovverossia affronta le problematiche nei loro aspetti individuali e collettivi). Pone il focus su tre dimensioni: individuo/comunità/istituzioni.
Inoltre pone attenzione al compito (individuare un campo definito in cui si possibile produrre dei risultati, strutturare l’intervento) e alla rete.
Riferimenti teorici:
Modello del counseling.
Consiste nell’aiutare la persona a individuare le proprie capacità e a credere in esse. Per raggiungere questi obbiettivi serve una “cornice” ( framework) e un metodo che si articola in FASI. Molta importanza è data alle “forme della comunicazione” ( cfr. il testo di M.Houg Abilità di counseling Ed Erickson 1996).
Modello di rete.
E’ un modello che si è andato diffondendo in Italia a partire dagli anni ’80 ( cfr. gli studi in materia del sociologo Pierpaolo Donati, 1983/93 e il testo da lui curato Lo stato sociale in Italia Ed. Mondadori 1999).
Il modello di rete è un modello operativo che tende alla valorizzazione della integrazione, alla costruzione di un sistema integrato di prestazioni e servizi in ogni ambito territoriale- tra Pubblico , Terzo Settore/Privato no-profit e Volontariato- come previsto dalla Legge-quadro 8 Novembre 2000 n. 328 in attuazione del principio di sussidiarietà.
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Verso un servizio sociale critico e riflessivo .
Si rende opportuno introdurre qui un richiamo al modello su cui si sta orientando il servizio sociale di oggi (e di domani).
Fermo restando i valori e i principi su cui si fonda la professione dell'assistente sociale;
tenuto conto che i valori nella attuale società sempre più multietnica, multiculturale e multireligiosa possono essere affermati, realizzati, coniugati con i vari contesti di vita in molti modi; che il servizio sociale in Italia si trova al crocevia tra bisogni sempre nuovi ed emergenti; considerati gli orientamenti di politica sociale nazionale e locale e l'organizzazione e la finalità dei servizi, in molte realtà territoriali sempre più esternalizzati e gestiti da organizzazioni non profit spesso di natura o matrice confessionale; di fronte ai cambiamenti in atto oggi si parla sempre di più di una pratica riflessiva-critica, di un operatore riflessivo ( SCHON, 1993) ( cfr. testo di Luigi Gui LE SFIDE TEORICHE DEL SERVIZIO SICIALE cap.7.1 pag 140-141).
N.B. Per tutti gli approfondimenti in materia di modelli e loro evoluzioni cfr. il testo di Luigi Gui Le sfide teoriche del Servizio Sociale, Ed. Carocci Faber 2007, cap.7).
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METODOLOGIA, METODO/I, PROCEDIMENTO METODOLOGICO, TECNICHE e rispettive definizionI (cfr. Dizionario di S.S.).
Per chiarezza concettuale ed espositiva, dopo avere definito e illustrato i modelli è opportuno qui di seguito dare una definizione di “metodologia”: quest’ultima in senso etimologico significa riflessione, ragionamento, discorso (logos) sul metodo. In altri termini, la metodologia è la dottrina che sottopone ad analisi le regole e i principi che orientano le procedure (= metodo/i) finalizzate:
- alla conoscenza scientifica
- all’azione professionale.
In quanto tale, la metodologia precede il metodo, posto che per metodo si intende un “ insieme organico di regole e principi in base al quale svolgere una attività pratica, in altri termini “ la via razionale da seguire nell’operare”, l’insieme delle regole, tecniche e strumenti che “ guidano” il cammino operativo dell’assistente sociale ( il rimando è alla voce del Dizionario di S.S. METODO a cura di Mauro Niero).
Sulla METODOLOGIA vedasi Il testo di Zilianti Rovai Assistenti Sociali Professionisti cap.2 L’assistente sociale e la metodologia e la voce Metodologia del Servizio Sociale a cura di Maria dal Prà Ponticelli nel Dizionario di Sevizio Sociale .
Metodo/i: Per “ METODO” si intende un “ Insieme organico di regole e principi in base al quale svolgere una attività pratica”, ovverossia “ la via razionale da seguire nell’operare” ( cfr. Testo di Zilianti -Rovai Cap.2).
Procedimento metodologico: è uno schema di riferimento che serve a guidare la fase del conoscere e dell’operare. Il procedimento metodologico si articola processualmente in 4 fasi:
Tecniche: ( Cfr. la voce corrispondente in Dizionario di S.S. a cura di Mariella De Santis): complesso di norme e modi di procedere a grado variabile di codificazione che una collettività determinata riconosce come necessario allo svolgimento di una attività manuale o intellettuale di carattere ricorrente e che ha la caratteristica di essere trasmissibile per apprendimento. Valgano, a titolo esemplificativo, le tecniche del colloquio o della conduzione di gruppi o quelle finalizzate alla costruzione/manutenzione di reti.
Prende qui avvio la parte del corso che ha come argomenti:
STEREOTIPI E PREGIUDIZI
I riferimenti testuali per questo argomento sono:
1) Il testo di Bruno Mazzara STEROTIPI E PREGIUDIZI Ed. Il Mulino, Bologna 1997.
2) Il capitolo 5.5 “ la costruzione sociale della realtà” di Luigi Gui in LE SFIDE TEORICHE DEL SERVIZIO SOCIALE Ed. Carocci Faber, Roma 2007 pag.95-105.
Introduzione.
Il teatro dell'arte rimane la più aggiornata metafora del modo in cui gli individui, alla prese con la complessità degli eventi del mondo che li circonda, preferiscono forme di conoscenza semplificate e preconfezionate.
Così come gli spettatori della commedia dell'arte preferivano un mondo fatto di personaggi e di caratteri ( il buono, il cattivo, l'iracondo,il simpatico, il furbo etc.) più che di persone, così gli individui spesso preferiscono avere a che fare con rappresentazioni di prototipi più che di individui reali, organizzando i loro sistemi conoscitivi più in termini di pregiudizi che non di esperienze. Sono sensibili al potere uniformante delle etichette linguistiche e dei media che definiscono le categorie sociali, più che agli aspetti esperienziali e alla irripetibile unicità delle persone. Preferiscono leggere sui giornali o ascoltare dalla TV come o cosa pensare piuttosto che pensare con la propria testa sulla base di ragionamenti personali e fondate argomentazioni.
In altre parole: se gli individui nel Settecento/Ottocento preferivano i caratteri della commedia dell'arte, ai giorni nostri vi è la tendenza a prediligere, nell'ambito della percezione sociale, i pregiudizi e gli stereotipi.
L'inconsapevole (= pregiudizio ) o consapevole (= stereotipo) decisione preliminare di come porsi dinnanzi a un fenomeno o a una persona condiziona la valutazione. Ineliminabile, spesso pericoloso e fuorviante, il pregiudizio é però anche utile o necessario perché, offrendo inquadrature e orizzonti in cui collocare le cose, difende dalla vertigine che ci può cogliere quando le cose, gli altri, i fenomeni o gli eventi ci arrivano addosso senza etichetta e senza cornice, in un vortice che sembra caotico perché ci manca un angolo prospettico da cui guardarli e ordinarli.
Un esempio? All'inizio della “Montagna incantata” di Thomas Mann, un'infermiera dice al protagonista Hans Castorp, che si è recato a trovare il cugino malato e che comincia a sentirsi prossimo al sanatorio per timore del contagio, di misurarsi la temperatura. Sorpreso, egli risponde di essere abituato a misurarsi solo quando ha la febbre; al che l'infermiera replica che ci si misura per sapere se si ha o no la febbre! Osserviamo qui due comportamenti diversi, ma entrambi hanno la loro logica..... Quella di Castorp è la logica del pregiudizio; come nel caso della febbre proclamata prima di essere accertata, spesso si decide a priori in quale categoria rientra un fenomeno, per poi valutarlo come positivo o negativo secondo le regole di quella categoria.
Pregiudizi e stereotipi sono tuttora ampiamente diffusi, ma spesso si sono trasformati da espliciti in impliciti, nascosti- talvolta- anche sottoforma di giudizi apparentemente ragionevoli. I più diffusi sono quelli che hanno a che fare con i recenti fenomeni migratori dai paesi del Terzo mondo verso i paesi più industrializzati.
E' perciò necessario soffermarsi a studiare la materia, per imparare a conoscere i meccanismi impliciti o razionali che condizionano la nostra conoscenza.
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Nella storia del pensiero umano l'esigenza di affermazione della verità dei fatti contro ogni forma di preconcetto si può riconoscere come una delle basi della scienza moderna, diventata perciò parte costitutiva della cultura occidentale ( la nostra ).
A noi qui, per il tema che stiamo trattando, interessa il pensiero di Francesco Bacone, il lord cancelliere inglese Francis Bacon ( 1561-1626), politico, filosofo ma anche scrittore di talento. C'é addirittura chi sostiene, adducendo prove stilistiche e di matematica testuale, che fu lui il vero autore delle opere di Shakespeare. Agli inizi del Seicento, in termini che sembrano quelli di un moderno trattato di psicologia, fornì un elenco classificatorio degli errori cognitivi che allontanano dalla vera conoscenza del mondo ( cfr. il testo di B.Mazzara pagg. 10-11).
FRANCIS BACON (1561-1626): nato a Londra nel 1561, figlio minore di Nicola Bacone, ministro guardasigilli della regina Elisabetta 1a, fu dapprima avvocato, funzionario statale e infine filosofo . Culturalmente fu erede del Rinascimento, da cui ereditò l'anti-aristotelismo, l'interesse per l'esperienza e la valorizzazione dell'attività pratica.
Sue opere principali:
Francesco Bacone si propone di creare una nuova logica ( antiaristotelica) che si compone di due parti:
una pars destruens ( è la parte che contiene la teoria degli idola mentis (idola tribus, specus, fori e theatri), cioè degli errori cognitivi) e una pars adstruens basata sul procedimento induttivo; è la parte che espone la sua teoria della “forma” dei singoli fenomeni.
La sua teoria degli errori cognitivi è estremamente moderna e interessante, in quanto analizza sia errori cognitivi del singolo individuo ( idola specus) sia errori che derivano dalle consuetudini e dal linguaggio ( idola fori). ( Cfr. testo di Mazzara pagg. 10-11).
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A) Definizione di pre-giudizio: trattasi di giudizio emesso in assenza di dati empirici sufficienti; giudizio “errato”, errore di valutazione che impedisce una conoscenza corretta della realtà. Di solito, è sfavorevole, si riferisce a specifici gruppi sociali. La cosiddetta “forza del pregiudizio” sta nella sua capacità di orientare concretamente l'azione di chi lo esprime.
L'origine del pregiudizio è antica e socialmente diffusa in tutte le classi sociali; è – in sostanza – una forma di pensiero comune che può essere sia individuale ( es. opinioni personali quotidiane) che collettivo. Ha un substrato emotivo più che razionale.
B) Definizione di stereotipo: il concetto nasce direttamente all'interno delle scienze sociali, ma il termine proviene dall'ambito tipografico, dove fu coniato verso la fine del 1700 per indicare la riproduzione di immagini a stampa per mezzo di forme fisse ( etmologia: stereòs=rigido, typos= forma, impronta).
Il primo uso traslato ( cioé passaggio dall'ambito originario a un altro) si ebbe in campo psichiatrico in relazione alle patologie ossessive. L'introduzione del termine nelle scienze sociali si deve a un giornalista, Walter Lippmann.
La vita di Lippmann ( 1889-1974) è stata un caleidoscopio di idee e di appartenenze: da giornalista militante si schierò a fianco dei socialisti rivoluzionari, successivamente approdò alla rivista “ New Republic”, organo dei liberal progressisti, fino a diventare negli ultimi cinquant'anni l'opinionista principe delle maggiori testate americane sia conservatrici che liberali. La sua notorietà è però legata soprattutto alla teoria della “pubblica opinione”, analizzata come un groviglio di stereotipi emotivi e irrazionali creati ad arte da politici o giornalisti. Più precisamente, nel suo volume “L'opinione pubblica” ( 1922) utilizzò il termine “stereotipo” per indicare specificamente i processi di formazione dell'opinione pubblica. In quel s famoso testo l'autore sottolinea l'importanza delle preconcezioni, vere e proprie immagini della realtà -immagini che nascono nella nostra testa- nel determinare il modo in cui percepiamo, valutiamo e classifichiamo gli eventi di cui veniamo a conoscenza. Quando queste immagini si riferiscono a gruppi di persone, possono far maturare in noi la convinzione che i membri del gruppo in questione siano difficilmente distinguibili l'uno dall'altro, così come le diverse copie di uno stesso giornale appaiono uguali in quanto derivano tutte dallo stesso stampo tipografico ( lo stereotipo, appunto) che le ha prodotte.
Raccogliendo anche una tradizione filosofica antica, egli sostiene che il rapporto conoscitivo con la realtà esterna non è diretto bensì mediato dalle immagini mentali che di quella realtà ciascuno si forma ( qui il rimando è al mito della caverna- quale metafora della conoscenza- formulato da Platone nei suoi dialoghi).
Secondo Lippmann, tali immagini mentali, che costituiscono una sorta di pseudo-ambiente con il quale di fatto si interagisce, hanno la caratteristica di essere delle semplificazioni della realtà, semplificazioni spesso grossolane e quasi sempre molto rigide. Egli è impietoso nel lamentare l’impreparazione e la scarsa professionalità che dominano nei giornali, il ricorso al luoghi comuni, il limite di lavorare in quello che definisce lo “pseudo-ambiente” delle notizie, la tendenza a raccontare i fatti lasciandosi guidare da scelte ideologiche.. A riprova di ciò, Lippmann condusse uno studio su tutti gli articoli con cui il New York Times – cioè una testata all’epoca ritenuta di grande serietà- aveva raccontato la rivoluzione russa tra il 1917 e il 1920.
Riassunto della tesi di Lippmann: la conoscenza della realtà nell'era della comunicazione di massa viene mediata da immagini mentali che sono semplificazioni grossolane e rigide ( = stereotipi) della realtà del mondo, in verità molto più complessa. In altri termini, gli stereotipi sono funzionali al processo di semplificazione della realtà.
Per saperne di più consultare il testo di Francesco Regalzi Walter Lippmann, Nino Aragno Editore, Torino, pp.412 Euro 40.00. Il più noto saggio di W.Lippmann su “ L’opinione pubblica” è stato riedito da Donzelli nel 2004 (pp.304, Euro 13)
Caratteristiche dello stereotipo.
Gli stereotipi fanno parte della cultura di un gruppo;
Gli stereotipi sono concetti mentalmente consapevoli e svolgono una funzione di tipo difensivo;
Gli stereotipi hanno forma di argomentazioni razionali, in pratica costituiscono il nucleo cognitivo del pregiudizio;
Gli stereotipi si formano mediante la categorizzazione ( mettere insieme cose simili) , l'inferenza ( andare oltre le informazioni disponibili), l'accentuazione percettiva ( tendenza a percepire gli oggetti o i soggetti che sono inclusi in una stessa categoria come più simili fra loro di quanto non lo siano in realtà), la generalizzazione e l'astrazione; si riproducono soprattutto mediante la tecnica del rinforzo ( cioé selezionando le informazioni che li confermano e scartando quelle che li contraddicono).
Gli stereotipi sono formati da un insieme coerente e tendenzialmente stabile di elementi di informazione e di credenze.
Gli stereotipi sono tanto più forti quanto più alto è il grado di condivisione sociale.
Gli stereotipi possono essere sia positivi che negativi.
IN SINTESI LE CARATTERISTICHE DEGLI STEREOTIPI SONO:
CONDIVISIONE- OMOGENEITA'- RIGIDITA'.
Esempi di manifestazioni concrete di pregiudizi e stereotipi:
Concentrarsi su “come” si producono e diffondono stereotipi e pregiudizi può essere molto utile, a patto che non si perda di vista il “perché”, cioè le vere ragioni sociali a cui si riferiscono.
Le spiegazioni dell'origine e del formarsi di pregiudizi e stereotipi sono:
ragioni psicologiche
ragioni cognitive
ragioni sociali
ragioni culturali.
Pregiudizi e stereotipi vanno visti e considerati anche come strumento di esercizio di un potere
( es. potere sulle minoranze da parte di gruppi maggioritari).
Infine, pregiudizi e stereotipi possono essere espressione di processi cognitivi esasperati o esagerati, estremizzati nella loro finalità . In tal caso si assiste a un uso distorto di processi cognitivi normalmente utili.
LE STRATEGIE DI DIFESA ( Cfr. testo di Bruno Mazzara Stereotipi e pregiudizi pag.97 e seguenti):
Nelle persone oggetto di stereotipi o pregiudizi, favorire la presa di coscienza delle proprie caratteristiche personali. E’ proprio la coscienza di sé ( come persona o come gruppo) il più potente fattore di protezione rispetto alla profezia che si auto-adempie. “ Nessuno ti può far sentire nessuno senza il tuo consenso !” ( frase di Peter Lorenz).
L'interazione per essere efficace deve essere:
- lunga e approfondita, non occasionale;
- basata su uno status simile e non conflittuale;
- con il supporto istituzionale e culturale.
Il tema degli “stereotipi e pregiudizi” - cioè della realtà che può essere intesa come una “costruzione sociale” ( Berger,,Luckmann, 1969) - introduce al tema delle RAPPRESENTAZIONI SOCIALI, media e servizio sociale e, per quanto qui ci interessa, alle rappresentazioni dell'assistente sociale nei testi mediali. L'argomento è studiato e approfondito da Elena Allegri ( docente di Metodi e Tecniche del servizio sociale nell'Università del Piemonte Orientale, dove coordina il corso di laurea in Servizio sociale) nel testo di Elena Allegri LE RAPPRESENTAZIONI DELL'ASSISTENTE SOCIALE. Il lavoro sociale nel cinema e nella narrativa, Ed. Carocci Faber, Roma 2006.
Da quel testo prendiamo le seguenti argomentazioni.
RAPPRESENTAZIONE SOCIALE dicesi di “costruzione sociale” determinata dalle definizioni soggettive ( pregiudizi) e collettive ( stereotipi) continuamente scambiate all'interno del sistema sociale per mezzo della comunicazione sia tramite il linguaggio sia tramite i mezzi di comunicazione di massa ( MASS MEDIA).
Va da subito sottolineata la specificità del pensiero collettivo in rapporto al pensiero individuale: il primo ( pensiero collettivo) è stabile, mentre il secondo ( pensiero individuale) è variabile ed effimero.
Le rappresentazioni sociali reperibili nei media possono essere considerate come indicatori di senso comune.
Lo studio della relazione tra scienza e senso comune si chiama teoria delle rappresentazioni; questa teoria si propone di analizzare il processo attraverso il quale un contenuto passa dall'universo reificato all'universo consensuale. Dell'universo consensuale fa parte anche il simbolo, in quanto un simbolo rappresenta altra cosa da se stesso: è un'idea che alcuni uomini condividono a proposito di un oggetto indipendentemente dall'oggetto stesso.
Anche la professione di assistente sociale, professionista che opera in situazioni caratterizzate da elevata complessità e da estrema incertezza, è (stata) oggetto di rappresentazioni sociali, il cui studio è collocabile al crocevia disciplinare tra sociologia e psicologia.
Lo scopo principale di tutte le rappresentazioni sociali è rendere familiare ciò che è inconsueto; il loro processo di formazione necessita dell'attivazione di due meccanismi cognitivi: l'ancoraggio e l'oggettivazione.
Attraverso l'ancoraggio, ciò che è inconsueto viene ricondotto a una mappa mentale di riferimento, a una famiglia, a una classe di fenomeni conosciuti ( e quindi familiari, rassicuranti). E' attraverso l'ancoraggio che una rappresentazione sociale si radica nella società secondo criteri di legittimazione progressiva da parte del gruppo di appartenenza.
Con l'oggettivazione, l'astratto, il non familiare viene reso concreto: in altri termini un'idea imprecisa viene trasformata in una immagine accessibile, naturale. In una fase successiva , può anche accadere che l'immagine si separa dall'idea originaria fino a prendere il sopravvento su di essa ( è il caso del simbolo).
Ogni rappresentazione sociale si organizza intorno a un nucleo centrale, che ne è l'elemento fondamentale e che ne determina il significato. La proprietà essenziale del nucleo centrale è la stabilità, nel senso che il nucleo stesso è costituito dagli elementi più resistenti al cambiamento Essi prescrivono comportamenti e prese di posizione, consentono una personalizzazione delle rappresentazioni e dei comportamenti a essa collegati.
Nelle società postmoderne il maggior produttore di materiale documentario sulla società ( e quindi di rappresentazioni sociali) è costituito dai mezzi di comunicazione di massa: stampa, televisione, cinema, radio, giornali, i romanzi e oggi internet. E' fuori discussione il ruolo determinante che i media hanno assunto nell'influenzare le opinioni soggettive, l'opinione pubblica e i mercati.
Le rappresentazioni sociali, al pari degli stereotipi, svolgono una duplice funzione: da un lato organizzano la percezione del mondo attraverso la comunicazione e gli scambi sociali, dall'altro soddisfano l'esigenza di semplificare la complessità e di far fronte alle novità, rendendo familiare ciò che è ignoto e consueto.
SERVIZIO SOCIALE E RAPPRESENTAZIONI SOCIALI.
Il servizio sociale è una di disciplina scientificamente fondata da collocarsi all'interno delle scienze sociali; più precisamente (Maria Dal Prà Ponticelli, 1985 Elisa Bianchi, 1988; Luigi Gui, 2004) l'attuale definizione parla di disciplina di sintesi basata sull'uso consapevole di approcci disciplinari diversi per comprendere le cause multifattoriali dei bisogni e dei problemi delle persone e per possedere interpretazioni disciplinari e interdisciplinari che contribuiscano alla elaborazione di metodologie rivolte all'aiuto alla persona e alla promozione del benessere sociale ( Diomede Canevini, 2005, Elisabetta Neve 2008).
Come professione, il servizio sociale può essere definito come un servizio alla persona in tutte le età della vita.
Tanto premesso,“ Come accade per un iceberg, così della professione di assistente sociale spesso è visibile, attraverso i media, solo la parte che emerge, la punta. E quel che si vede, nel bene e nel male, è rappresentato altrettanto spesso in modo parziale: generalmente donna, in bilico tra la frustrazione personale e l'insensibilità professionale, quasi mai protagonista nelle storie narrate.
L'esempio più eclatante e paradigmatico è l'impegno degli assistenti sociali nella protezione dei minori. Nelle rappresentazioni presenti all'interno dei testi mediali i professionisti sono spesso rappresentati come ladri di bambini e sostanzialmente mai come agenti all'interno di politiche sociali inclusive e, per questo, rivolte alla protezione dell'infanzia”.
Dunque, l'assistente sociale non viene rappresentato nelle molte sfaccettature che ne compongono l'identità professionale, identità che rimane “prigioniera” di alcune rappresentazioni stereotipiche ricorrenti e consolidate. Così come accade per gli iceberg, i sette ottavi dell'attività degli assistenti sociali e del lavoro sociale più in generale restano sott'acqua, invisibili. E quel che appare non è sempre il meglio.Come mai? Dagli studi in materia è stato dimostrato che esiste una relazione diretta tra ciò che viene trasmesso dai media e ciò che è considerato attraente. I programmi televisivi comprendono innumerevoli fiction – molte di produzione americana - che presentano spaccati di vita personale e professionale di professionisti. E.R. Medici in prima linea, ad esempio ritrae il lavoro quotidiano nei reparti di pronto soccorso, spaziando dai medici agli impiegati. Law and Order New York Police Department illustra il lavoro di poliziotti, avvocati, giudici, generalmente in una luce positiva.
Per contro, i messaggi riguardo agli assistenti sociali propongono figure poco qualificate e poco formate, quasi mai personaggi principali della storia narrata ma personaggi secondari, in tal modo rinforzando stereotipi di basso profilo e sostanziando ritratti spesso negativi.
I media diventano così parte attiva e integrante del complesso sistema delle rappresentazioni sociali intese come strutture sociocognitive che consentono agli individui o ai gruppi di far corrispondere un concetto a un'immagine ( e viceversa ), trasformando qualcosa di astratto in un oggetto concreto. Ma i media sono anche un potente specchio sociale che riflette e invita a riflettere sul livello di stereotipia in relazione a certi temi, a certe situazioni storiche e , nel nostro caso, a certe professioni sociali.
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BREVE ELENCO DEI TESTI MEDIALI A CUI SI FA RIFERIMENTO:
FILM:
ROMANZI:
1) Simonetta Agnello Hornby Vento scomposto Ed.Feltrinelli, Milano 2009
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WELFARE E WELL- BEING. Benessere e capacità di azione
I riferimenti testuali per questo argomento sono:
6.7 “Considerazioni sull'ambito di concretizzazione dei valori e dei principi operativi” in Elisabetta Neve IL SERVIZIO SOCIALE. Fondamenti e cultura di una professione Ed. Carocci Faber, Roma2008 pag.196-2003.
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Il BENESSERE che deriva dalla capacità di azione e che genera well-being è diverso dal benessere che deriva dal possesso ( welfare) e che è generato dalla mancanza di privazioni.
Il benessere che deriva dalla capacità di azione è differente e PRIORITARIO oggi rispetto a quello di puro possesso ( F.Folgheraiter, art.cit.pag.93): esse produce stima di sé, sicurezza esistenziale, appagamento, senso di autostima e autoefficacia.
Se il benessere è un sentimento ( di adeguatezza e di autostima), l'autonomia è la condizione che
permette di nutrire questo sentimento o stato d'animo attraverso azioni adeguate ( capacità di azione).
I
Le azioni possono essere:
Definiamo autonoma une persona quando questa è capace di autodeterminazione, ovvero:
a) di assumere decisioni appropriate alle proprie contingenze di vita ( cioé razionale e coerenti con i suoi obbiettivi);
b) di agire concretamente o simbolicamente su tali contingenze di vita, riuscendo a contrastare eventuali impedimenti o condizionamenti ( interni o esterni a sé).
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L'autonomia produce benessere ( well-being).
L'autonomia ( cfr. CODICE DEONTOLOGICO Capo I, art.11) è qualcosa di diverso dall'indipendenza (cfr. articolo citato di F.Folgheraiter) e dall'autodeterminazione( cfr. articolo 6.7 citato di E. Neve).
L'autonomia comporta una situazione di interdipendenza consapevole.
L'autonomia ha direttamente a che fare con l'identità di una persona, identità che si sviluppa nella relazione con gli altri. Per non sconfinare nell'arbitrio, l'autonomia comporta il saper conciliare in modo accettabile e sopportabile le regole di vita proprie con le regole di vita altrui e del contesto sociale in cui si vive. Ciò comporta altresì il saper soddisfare le proprie esigenze non in contrapposizione o indipendentemente dalle esigenze degli altri, ma sviluppando il senso di interdipendenza. Porsi l'obbiettivo di potenziare questa autonomia significa aiutare a sviluppare una serie di capacità umane, razionali e relazionali ( compreso il senso di responsabilità verso di sé e verso gli altri), specie quando esse sono carenti o ostacolate da fattori sia interni che esterni alle persone medesime.
Lo stato di bisogno o di crisi in cui può trovarsi una persona può essere sia la conseguenza di scarse capacità di autonomia, così come, specie se protratto nel tempo, può provocare una diminuzione o riduzione di autonomia, ad esempio per il grado di disistima di sé che può indurre o provocare.
Esistono fasi del ciclo della vita in cui la capacità di azione può essere o diventare strutturalmente carente, come per esempio la vecchiaia avanzata o la primissima infanzia. Oppure si possono verificare situazioni o periodi legati a momenti di crisi (cfr. le nuove povertà di cui alla legge n.328/2000 “ Tutti i cittadini possono incontrare nel corso della vita alcune difficoltà che richiedono assistenza, orientamento e sostegno”).
Nella relazione di aiuto finalizzata a rinforzare l'autonomia di una persona e la sua capacità di azione e di relazione, le metodologie utilizzabili possono essere, ad esempio, quella dell'empowerment, del counseling, dell'advocacy ( vedi Dizionario di Servizio Sociale pag. 510-515) e anche del self-help.
L'autodeterminazione.
L'autodeterminazione è un valore da rispettare in ogni persona ( rispetto ancor più dovuto all'utente o cliente in una relazione di aiuto) perché l'autodeterminazione è espressione di libertà; rispettarla equivale a riconoscere che la dignità della persona investe anche le sue intenzioni, i suoi desideri, le sue scelte, i suoi programmi di vita, le sue mete e i suoi tempi e modi di realizzarli. Espressione di libertà non significa
“ libertà assoluta” bensì capacità di comportarsi secondo la propria legge, dove avere una legge significa sapersi dare delle regole e saper usare della libertà senza prevaricare sugli altri. “ Vi è spesso il problema per l'operatore di scoprire le effettive possibilità di autodeterminazione di una persona, di decifrarne i contenuti, cioé di capire cosa vuole , quali capacità di valutazione, di consapevolezza, di scelta possiede in quel momento”. ( cfr. E Neve, articolo citato pag.196).
Ancora: va tenuto presente che autodeterminarsi significa anche autoresponsabilizzarsi sia di fronte a se stessi che di fronte agli altri. Vi è sempre un problema di confine della propria con l'altrui autoderminazione e che questo confine, se non posseduto, deve essere appreso ( E. Neve, ibidem pag. 197).
DOMICILIARITA' E DIRITTI DI CITTADINANZA
Sulla definizione di domiciliarità, cenni storici e nodi problematici il riferimento testuale è la voce DOMICILIARITA' a cura di Marilena Scassellati Galetti in DIZIONARIO DI SERVIZIO SOCIALE pag.208-211.
Si richiamano qui di seguito i punti essenziali relativi a “cosa vuol dire domiciliarità”:
“ Fare “ domiciliarità” fa bene, fa salute, significa sostenere l’autonomia, significa fare “ ben-essere”, significa valorizzare la persona all’interno del suo contesto di vita.
Per esempio nel caso di assistenza all’anziano/a il Servizio Sociale può promuovere la domiciliarità con programmi che prevedano interventi quali la consegna dei pasti a domicilio, il lavaggio della biancheria, l’assistenza domiciliare, l’erogazione di contributi economici per il sostentamento o per l’abbattimento delle barriere architettoniche, così contrastando o limitando di fatto l’ingresso in strutture residenziali per i cittadini bisognosi di un qualche intervento socio-assistenziale.
N.B. L’assistenza domiciliare è solo una parte del più ampio concetto di domiciliarità (cfr. la voce del Dizionario citata).
Esperienze e modalità integrate tra pubblico/privato sociale e volontariato di intervento attuate nel campo della domiciliarità sono da considerarsi anche una modalità attuativa del principio di sussidiarietà ( cfr. la voce SUSSIDIARIETA' a cura di Ivo Colozzi in DIZIONARIO DI SERVIZIO SOCIALE pag.672-675).
Riferimenti normativi sono la Legge 8/11/2000 n.328 “Legge quadro per la realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali”, in particolare gli articoli n.5 e n.22 e la Legge regionale Regione Lombardia del 12/3/2008 n.3 “ Governo della rete degli interventi e servizi alle persone in ambito sociale e sanitario”.
Per una puntuale conoscenza del Terzo Settore e delle organizzazioni non profit, si rimanda alla voce del Dizionario di S.S. TERZO SETTORE curata da Lucia Boccacin e alla prima pagina della RIVISTA SOCIAL NEWS anno 7- Numero 4 Aprile 2010 ( distribuita in fotocopia durante il corso; la rivista é comunque reperibile on line www.socialnews.it. ) che bene illustra come e in base a quali caratteristiche le organizzazioni non profit si distinguono in:
- Associazioni
- Cooperative sociali
- Fondazioni
- Organizzazioni non governative (ONG)
- ONLUS.
Per un approfondimento della tematica del Volontariato, vedasi l’articolo di Marco Granelli “ L’evoluzione della solidarietà” a pag. 22 della Rivista SOCIAL NEWS sopracitata.
La relazione professionale di aiuto
La relazione di aiuto può essere definita come l’insieme delle azioni professionali indirizzate al rapporto con la persona, il suo contesto di appartenenza, l’organizzazione di riferimento.
Questa relazione si caratterizza per gli aspetti tipici di ogni rapporto nel quale un soggetto chiede qualcosa di importante per sé o per una terza persona a chi si presuppone possieda risposte valide per le proprie richieste. ( cfr. testo di Zilianti Rovai pag. 48).
La relazione di aiuto si realizza in un contesto specifico che resta ( deve restare) sempre professionale.
La relazione di aiuto si sostanzia nel processo di aiuto ( cfr. testo di Zilianti Rovai pag.51 SCHEDA 2.1 “ Abilità dell’A.S. nel processo di aiuto, mi di teorie e metodologie”.)
Il procedimento metodologico: il professionista A.S. opera secondo un rigore metodologico attraverso l’uso di principi, metodi, tecniche e/o strumenti che guidano l’azione in maniera scientifica, evitando di procedere in modo meramente intuitivo.
Per procedimento metodologico si intende uno schema di riferimento concettuale che guida scientificamente l’azione professionale dell’A.S., che serve a orientare la sua azione e a qualificare un intervento di tipo professionale ( cfr. Maria dal Prà Ponticelli, 1987, in testo di Zilianti Rovai pag. 53).
Strumenti della relazione professionale di aiuto presi in esame in questo contesto:
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Sull'argomento i riferimenti testuali sono:
Ed. Carocci Faber, Roma 2005 pag.532-536.
Il segreto professionale
Norma etico- deontologica e norma giuridica:
La legge n.119/2001 è la norma che istituisce formalmente il segreto professionale per gli Assistenti sociali, così disciplinando giuridicamente quel che fino ad allora era una norma etica e deontologica già patrimonio consolidato della professione.
Il diritto alla riservatezza, fin dai primi anni di esercizio della professione, ha visto un impegno della categoria e poi dell'Ordine degli Assistenti Sociali per farlo riconoscere, accettare e rispettare nel proprio operare nei servizi ed enti di appartenenza. Già dagli anni '40 del secolo scorso nella sua relazione sulla “Fondazione tecnica delle assistenti sociali” Odille Vallin, direttore della Scuola pratica di assistenza sociale di Milano, scriveva: “ Nella morale professionale sarà messo più fortemente l'accento sopra alcuni punti, come per esempio il segreto professionale.” e ancora : “ Questo senso di rispetto per le persone, questo senso acuto di responsabilità deve rendere gli assistenti sociali estremamente rigorosi circa il loro segreto professionale... Ciò che è loro affidato sono vite umane, dolori umani dei quali devono servirsi solo con il permesso dell'interessato, anche se si trattasse di ottenere un vantaggio per questo interessato”.
Parole che conservano tutta la loro forza di verità nella nostra società, dove non è né semplice né facile prendere decisioni nel rispetto della riservatezza (norma etico-deontologica) e del segreto professionale (norma giuridica) in particolare nei rapporti con la Magistratura, quando si è chiamati a rendere testimonianza nel processo penale, o nella denuncia di un reato di cui si è venuti a conoscenza nello svolgimento del proprio intervento ( cfr. per esempio il reato di clandestinità introdotto nel cosiddetto “Pacchetto sicurezza” del 2009).
La problematica va affrontata avendo attenzione alla necessità di far ricorso a una metodologia professionalmente corretta che sappia tenere conto della norma giuridica ma anche delle norme etiche e deontologiche che la professione si è data. Particolare attenzione- nella relazione di aiuto - va dedicata alla prospettiva dell'aiuto al singolo, da coniugarsi con il rispetto delle esigenze della collettività ( e i due piani non sono sempre coincidenti o sovrapponibili). Di fatto, nell'esercizio della professione, si è chiamati a orientarsi ( e bisogna sapersi orientare) nella – spesso non facile – scelta fra osservanza dell'obbligo del segreto e denuncia dei comportamenti penalmente rilevanti, tenendo in seria considerazione il rapporto che si va a instaurare con le persone, per raggiungere gli obbiettivi radicati nell'intervento della professione stessa e per una autonomia professionale matura e responsabile.
Infine, una attenta e approfondita riflessione sulla materia porta a dire che vi possono essere casi per i quali nella relazione di aiuto un rapporto operatore-utente o cliente basato sul principio di LEALTA' deve prevalere sul rapporto basato sulla FIDUCIA ( tale è per esempio nel caso dei soggetti obbligati da un provvedimento della Magistratura a entrare e restare in contatto con i Servizi Sociali).
Sull'argomento i riferimenti testuali sono il Codice Deontologico, 3a edizione Capo III Riservatezza e segreto professionale, art. 23-32. e la voce SEGRETO PROFESSIONALE di Antonietta Pedrinazzi in DIZIONARIO DI SERVIZIO SOCIALE Ed.Carocci Faber, Roma 2005 pag 571-576.
Milano, Giugno 2012
Preambolo in cui si spiega il ruolo del metodo del servizio sociale cfr. Neve (2000)
Possibili approfondimenti col testo I modelli teorici di servizio sociale, 1987, di Dal Pra Ponticelli
Fonte: http://www.sociologia.unimib.it/DATA/Insegnamenti/14_3436/materiale/dispensa%20completa%20giugno%202012.doc
Sito web da visitare: http://www.sociologia.unimib.it/
Autore del testo: PROF. ANTONIETTA PEDRINAZZI
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