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Il fenomeno del telelavoro, inteso quale forma di estrinsecazione dell’attività lavorativa, si va sempre di più ampliando e, a livello europeo, sono ormai milioni i soggetti che esplicano la loro attività attraverso tale modalità.. Di ciò sono pienamente consapevoli le associazioni datoriali e dei lavoratori che, a livello comunitario, hanno sottoscritto il 16 luglio 2002, un accordo quadro, di durata quinquennale, destinato ad essere recepito, nel triennio successivo, dai contratti collettivi degli stati membri.
Con tale determinazione le parti sociali europee intendono fissare alcuni principi basilari, peraltro già presenti nell’esperienza italiana: basti pensare all’accordo in vigore nella grande distribuzione fin dal giugno 1997, o a quello in essere presso le piccole e medie imprese aderenti alla Confapi, o presso imprese di notevoli dimensioni (es. Telecom) oltre, beninteso, alla previsione normativa (legge n. 191/1998) in essere presso le Pubbliche Amministrazioni (peraltro, finora, poco attuata), nonostante la successiva pubblicazione del regolamento attuativo /D.P.R. n. 70 /1999).
Le prestazioni lavorative “a distanza” si inquadrano in un momento in cui, anche per effetto della globalizzazione dei mercati, si assiste ad una variazione del nucleo storico tradizionale delle imprese: sempre meno dipendenti a tempo pieno ed indeterminato e sempre più soggetti coinvolti, a vario titolo, nella produzione con minori rapporti di organicità e di stabilità: lavoratori a tempo determinato, a tempo parziale, lavoratori autonomi, lavoratori coinvolti in attività appaltate o “delocalizzate”.
La definizione adottata dall’accordo è estremamente ampia, tale da ricomprendere una vasta gamma di situazioni (talune, anche “ in fieri”) che vanno dalla prestazione del tutto autonoma a quella subordinata. Si vuole coniugare flessibilità e sicurezza affermando che “il telelavoro costituisce una forma di organizzazione e/o di svolgimento del lavoro che si avvale delle tecnologie dell’informazione nell’ambito di un contratto o di un rapporto di lavoro, in cui l’attività lavorativa, che potrebbe essere svolta nei locali dell’impresa, viene, invece, regolarmente svolta al di fuori dei locali della stessa”.
Sono due, quindi, gli elementi richiesti: lo svolgimento dell’attività attraverso la utilizzazione delle tecnologie informatiche e la circostanza che la stessa sia svolta all’esterno della struttura dell’impresa.
Una prima piccola riflessione va fatta sul concetto di “attività regolarmente svolta all’esterno”: ad avviso di chi scrive, si tratta di una espressione, di massima, apparentemente riduttiva (che, senz’altro, le pattuizioni nazionali e, soprattutto, le determinazioni legislative dei singoli Paesi potrebbero cambiare), in quanto sembrerebbe escludere forme di ripartizione temporanea del luogo della prestazione tra sede dell’unità produttiva e domicilio (o luogo ove si presta l’attività al di fuori delle mura dell’impresa).
Il telelavoro può rappresentare lo strumento attraverso il quale ottenere alcuni risultati: modernizzazione delle strutture organizzative (e qui il pensiero riguarda soprattutto le Pubbliche Amministrazioni), conciliazione dei tempi di lavoro con quelli della vita sociale e di relazione (si pensi alle grandi città ed ai tempi di locomozione dei quali, nel nostro ordinamento, si parla anche nella legge n. 53/2000), riduzione dei costi fissi (es. fitti dei locali), incremento della produttività, correlata sempre più al fattore risultato che al fattore tempo.
L’accordo prevede, all’art. 3, che la prestazione di telelavoro nasca da una scelta volontaria comune dei due soggetti contraenti: essa può essere iniziale o, anche successiva. Da ciò ne scaturiscono una serie di obblighi in carico al datore di lavoro: informative scritte relative anche alla struttura cui è addetto il lavoratore ed alle persone (e responsabili gerarchici) con i quali può relazionarsi, clausole contrattuali applicabili, descrizione dell’attività lavorativa. Il passaggio ad una modalità di telelavoro non incide sulla natura e sulle condizioni applicate al rapporto.
L’articolo si conclude con due altri principi estremamente importanti: il primo è che il rifiuto di opzione il favore del telelavoro, non integra gli estremi né per la risoluzione del rapporto, né per una modifica delle condizioni lavorative acquisite. Il secondo riguarda la reversibilità: essa è riconosciuta ma le modalità, che implicano un ritorno nei locali (ciò può discendere dalla esigenza di ciascuna parte) sono rimandate all’accordo collettivo o, in mancanza, a quello individuale.
Alcune riflessioni si rendono necessarie, anche alla luce di alcune determinazioni già adottate contrattualmente nel nostro Paese.
E’ indubbio che l’articolato, così come è scritto, si riferisce, in via principale, al lavoro dipendente. La trasformazione in corso di rapporto delle modalità di prestazione dell’attività lavorativa (ed anche, seppure ad un livello più basso; l’instaurazione “ab initio”) comporta una serie di valutazioni, particolarmente importanti per il lavoratore che decide, con l’accordo del proprio datore, di lavorare al di fuori dell’impresa, coinvolgendo, anche indirettamente, altri valori e situazioni (si pensi alla famiglia) che, in genere, non riverberano i propri influssi sul rapporto. Indubbiamente, la decisione di lavorare, ad esempio, nella propria abitazione, consente di seguire maggiormente le attività familiari, di eliminare i “tempi morti” della locomozione casa – impresa, di avere più tempo libero a disposizione. Ma ciò non può essere per sempre: cambiano le situazioni ed il lavoratore deve essere messo nelle condizioni di poter tornare in azienda: l’accordo europeo rimanda la definizione delle modalità agli accordi individuali o collettivi. Sarà, quindi, necessario stabilire termini minimi per la reversibilità, anche a garanzia degli impegni che il datore di lavoro ha preso (pure in termini di costi), approntando una postazione di telelavoro.
L’eventuale non adesione del lavoratore non abilita il datore a modificare le condizioni del rapporto, né a procedere al recesso. Si tratta di due “paletti” estremamente importanti (soprattutto il secondo) in quanto non potrà essere sollevata la motivazione del giustificato motivo oggettivo.
Il telelavoro comporta, altresì, che il dipendente, la cui prestazione deve essere sempre personale e non delegabile, sia messo nelle condizioni di avere tutta una serie di informazioni relative all’esplicazione della propria attività, oggetto e modalità, ma anche conoscenza della organizzazione nella quale si deve rapportare e, soprattutto, modi e tempi per le riunioni di raccordo, non solo telematiche, ma anche con presenza in azienda. E' questo un momento importante del rapporto in quanto incide sia sul lavoratore che su chi lo deve coordinare nell’attività. In sostanza, il telelavoro modifica il compito stesso dei capi gerarchici che non hanno più il lavoratore sotto gli occhi ma lo devono gestire “a distanza” e, probabilmente, la diffusione di tale modalità lavorativa porterà a ripensare lo stesso modo di lavorare sia dei capi che della “struttura-impresa”.
La prestazione a distanza si potrà esplicare anche attraverso una prestazione lavorativa a tempo parziale e, nel nostro ordinamento, dovrà fare i conti con gli adempimenti previsti dal D. L.vo n. 61/2000. Una restrizione al part-time è ravvisabile, indirettamente, nell’art. 4, comma 3, della legge n. 68/1999 quando si afferma che i lavoratori disabili, occupati con modalità di telelavoro, sono computabili ai fini della copertura della quota di riserva soltanto nell’ipotesi in cui venga assicurato dal datore di lavoro un lavoro atto a “riempire” in via continuativa il normale orario di lavoro.
La prestazione è possibile, ricorrendone le motivazioni (esigenze tecnico- produttive, organizzative o sostitutive) anche per un rapporto a tempo determinato, non essendo questo escluso dal D. L.vo n. 368/2001.
Un limite alla costituzione di rapporti di lavoro subordinati con modalità di telelavoro è rinvenibile nella nostra legislazione per i c.d. contratti formativi (apprendistato, contratto di formazione e lavoro): ad avviso di chi scrive, essi sono difficilmente realizzabili, non tanto per le conoscenze specifiche (si pensi alla possibilità oggi consentita di assunzione attraverso tali tipologie di soggetti laureati o diplomati), ma perché questi istituti prevedono un affiancamento fisico con un tutore ed un addestramento teorico – pratico difficilmente realizzabile con il telelavoro.
Un problema non secondario, riferibile, nella maggior parte dei casi alla Pubblica Amministrazione, è rappresentato dai criteri per un’eventuale scelta tra più lavoratori disponibili, nel caso in cui gli “aspiranti telelavoratori” siano più dei posti individuati. Su questo punto si ritiene che nella valutazione complessiva debbano pesare più elementi: la distanza tra posto di lavoro ed abitazione, le condizioni psico – fisiche e la situazione familiare.
Condizioni di lavoro
L’art. 4 afferma che il telelavoratore fruisce dei medesimi diritti garantiti dalla legislazione e dai contratti collettivi spettanti ad un lavoratore di pari livello operante all’interno dell’impresa: l’accordo rinvia le ulteriori specificazioni alla contrattazione collettiva nazionale od individuale.
Anche in questo caso è necessaria una breve riflessione.
Parità di diritti significa, ovviamente, garanzia della piena agibilità degli istituti previsti dalla legge o dalla pattuizione (es. ferie, maternità, malattia, conservazione del posto, ecc.) ma anche pari opportunità in termini di carriera e di progressione professionale, pari opportunità di partecipazione ai premi di produttività aziendale, divieto di qualunque forma di discriminazione correlabile alla modalità lavorativa.
L’art. 5 fissa alcuni principi generali cui il datore ed il lavoratore debbono attenersi per la protezione dei dati utilizzati per fini professionali. Il primo è tenuto, innanzitutto, ad adottare, anche mediante interventi sul software, la protezione dei dati utilizzati ed elaborati e ad informare il dipendente in ordine all’esistenza delle normative legislative ed aziendali in materia. La seconda incombenza riguarda la comunicazione circa gli eventuali aspetti limitativi imposti al lavoratore, come l’uso di internet e l’utilizzazione delle apparecchiature informatiche per scopi personali, e le eventuali sanzioni.
Sul dipendente incombe l’onere del rispetto delle direttive impartite: su questo punto non c’è nulla di particolare da sottolineare, concretandosi tale obbligo nel rispetto dei normali principi comportamentali connessi allo svolgimento di un rapporto di lavoro.
L’art. 6, nel parlare del diritto alla riservatezza del telelavoratore che l’imprenditore è tenuto a rispettare, si sofferma su un concetto alquanto delicato (atteso che il dipendente opera nel proprio domicilio): l’eventuale strumento di controllo, oltre ad essere in linea con la direttiva 90/270 sui videoterminali, deve essere proporzionale all’obiettivo perseguito. Ciò siginifica che non sono ammessi strumenti tali da interferire sulla vita personale e di relazione dell’individuo.
Anche qui occorre fare alcune riflessioni: il lavoro a distanza, nel nostro Paese, pone problemi delicati correlati al controllo dell’attività lavorativa alla luce dell’art. 4 della legge n. 300/1970, ove, per l’installazione di mezzi di apparecchiature, è previsto l’accordo tra le rappresentanza sindacali e la direzione dell’impresa o, in difetto, a seguito di un provvedimento emesso dalla Direzione provinciale del Lavoro. Il problema può essere risolto in sede di pattuizione collettiva, così come hanno fatto le parti sociali nell’accordo interconfederale del 20 giugno 1997 per il commercio e la grande distribuzione: i soggetti firmatari hanno concordato che il controllo è strettamente funzionale allo svolgimento del rapporto.
Le norme sulla riservatezza dei dati trattati riguardano anche l’uso che degli stessi può fare il dipendente: siamo nell’ambito del comportamento diligente per cui non appare possibile alcuna attività in proprio o conto terzi in concorrenza con quella svolta dal datore di lavoro. C’è, poi il caso dell’attività lavorativa “non concorrente” sviluppata attraverso l’uso della tecnologia informatica fornita dal datore di lavoro: essa può essere ritenuta possibile, al di fuori del normale orario di lavoro, qualora, ovviamente, sia stato autorizzato dallo stesso.
Strumenti di lavoro
L’art. 7 dopo aver stabilito che ogni questione afferente gli strumenti di lavoro, deve essere definita in modo chiaro prima dell’inizio della prestazione, afferma che in linea di massima, è il datore di lavoro che deve fornire gli strumenti informatici e che deve sopportare le spese di installazione e di manutenzione, a meno che il dipendente non faccia uso, in via continuativa, di strumenti propri. La disposizione prosegue affermando che i costi relativi ai collegamenti sono a carico dell’imprenditore e che in caso di perdita o danneggiamento degli strumenti occorrerà far riferimento alla normativa nazionale o alle pattuizioni contrattuali. Resta fermo l’obbligo per il dipendente della cura delle attrezzature e del divieto di diffondere o raccogliere materiale illegale via internet.
Se le attrezzature rimangono di proprietà del datore di lavoro, si può affermare che, nel nostro ordinamento, si resta nell’ambito del “comodato d’uso” ove, appunto, l’attrezzatura rimane di proprietà del datore sul quale incombono le stese di installazione e di manutenzione: ovviamente, se troveranno applicazione le norme del codice civile, si potrà a ragione sostenere che “il comodatario che impiega la cosa per un uso ed un tempo più lungo di quello a lui consentito è responsabile della perdita avvenuta” (art. 1805 c. c.) e che il lavoratore (art. 1807 c. c.) non risponde del normale deterioramento per effetto dell’uso.
Connesso alle modalità della prestazione è anche il rischio del guasto telematico e delle interruzioni dei circuiti: ovviamente, l’onere della riparazione e del riadattamento grava sul datore di lavoro.
Un aspetto interessante collegato alle spese di installazione di una postazione di telelavoro è affrontato, nel nostro ordinamento, dall’art. 13, comma 1, lettera c) della legge n. 68/1999: il datore di lavoro ha diritto ad un rimborso forfettario parziale per le spese tecnologiche sostenute per la realizzazione di una postazione di telelavoro, qualora alla stessa venga addetto un disabile affetto da una riduzione della capacità lavorativa superiore al 50%. Esso è a carico, nei limiti delle disponibilità, del Fondo per il diritto al lavoro dei disabili.
L’art. 8 dell’accordo non fa altro che ribadire, ricollegandosi alla normativa dei singoli Paesi in materia di salute e sicurezza del lavoratore, la piena responsabilità del datore di lavoro il quale è tenuto a fornire tutte le informazioni concernenti la salute e, in particolare, l’uso dei videoterminali (con le relative pause).
In relazione alla corretta applicazione della normativa vigente sia il datore di lavoro, che le rappresentanze dei lavoratori per la sicurezza, che le autorità competenti (in Italia, ispettori delle Direzioni del Lavoro e delle Aziende Sanitarie Locali) possono accedere al luogo ove si svolge la prestazione: nel caso in cui ciò avvenga presso il domicilio del dipendente sarà necessario un periodo di preavviso. La disposizione riconosce, inoltre, un diritto del lavoratore finalizzato a chiedere accertamenti sulla postazione lavorativa.
La possibilità di effettuare la prestazione lavorativa presso il proprio domicilio comporta, ad avviso di chi scrive, la necessità che il lavoratore, oltre che curare la propria salute, si impegni a fare in modo che vengano salvaguardate anche quelle persone (si pensi ai figli piccoli) che stazionano presso lo spazio lavorativo.
L’art. 9 sembra offrire al telelavoratore una gestione della propria prestazione abbastanza ampia: infatti, afferma che esso "gestisce i propri orari di lavoro nel rispetto della disciplina contenuta nella legislazione, nella contrattazione collettiva e nelle direttive aziendali applicabili. Ciò significa che è possibile, in via teorica, gestire il lavoro a distanza in autonomia temporale, con forte caratterizzazione personale dell’orario, essendo sufficiente ai fini della prestazione il risultato ottenuto. Probabilmente, nella realtà non sarà così, in quanto vi saranno dei momenti (e, talora, saranno la maggioranza) in cui vi sarà coincidenza con l’orario svolto dagli altri dipendenti presenti in azienda.
La quantità e la qualità del lavoro, afferma ancora l’accordo, debbono essere equivalenti a quelli assegnati ai lavoratori presenti nell’impresa. Ciò significa, in sostanza, divieto di discriminazione tra i dipendenti e, soprattutto, nel caso in cui la prestazione telelavorativa avvenga a tempo parziale, sarà necessario che il lavoro affidato sia ridotto in proporzione.
Il datore di lavoro è tenuto a garantire tutte quelle forme finalizzate a non isolare progressivamente il lavoratore dal contesto aziendale: di qui la necessità di poter accedere alle informazioni dell'azienda anche attraverso l’istituzione di una “bacheca elettronica”.
Se il rapporto è di natura subordinata, trovano piena applicazione, nel nostro ordinamento, le disposizioni sull’orario di lavoro ed anche sull’eventuale straordinario, rilevabile informaticamente.
Pari opportunità di accesso alla formazione ed allo sviluppo della carriera con i dipendenti che operano all’interno dell’azienda: così recita l’art. 10, il quale sottolinea, inoltre, come il telelavoratore debba essere destinatario di una ulteriore formazione specifica, mirata sugli strumenti tipici di lavoro e sulle caratteristiche di organizzazione del lavoro.
L’art. 11 si occupa dei diritti collettivi: stessa parità di trattamento non soltanto per quelli, come è ovvio, scaturenti dalle disposizioni legislative, ma anche per quelli frutto della contrattazione aziendale (es. premi di produttività, servizi sociali, iniziative aziendali frutto di contrattazione, ecc.) Il telelavoratore gode dell’elettorato attivo e passivo per l’elezione negli organismi di rappresentanza ed è ricompreso nella base di calcolo ai fini della determinazione del numero minimo necessario per la costituzione degli organi di rappresentanza dei lavoratori.
In ordine alla computabilità dei telelavoratori dipendenti è opportuno ricordare come nel nostro ordinamento essi debbano essere considerati sia ai fini dell’applicazione dell’art. 18 sui licenziamenti individuali che per l’applicazione delle procedure di mobilità collettiva “ex lege” n. 223/1991, mentre, per un indirizzo amministrativo consolidato, essendo assimilabili ai lavoratori a domicilio, non rientrano nella base di calcolo per la determinazione degli organici per l’avviamento al lavoro dei disabili, previsto dalla legge n. 68/1999.
Il datore di lavoro è tenuto ad assicurare “flussi di comunicazione” attraverso sistemi elettronici: essi dovranno riguardare tutto ciò che è rilevante nella vita aziendale e, attraverso di essi, adempiere l’obbligo di pubblicità anche ai fini della conoscenza del c.d. “codice disciplinare”. Indubbiamente, qui si porrà il problema della cognizione del regolamento di disciplina o delle norme del contratto collettivo che normano la materia, atteso che la Corte di Cassazione ha abbracciato la tesi dell’affissione in azienda con “caratteristica preclusiva ed esclusiva”, come requisito per l’attivazione di una procedura disciplinare ex art. 7 della legge n. 300/1970. La soluzione adottata nell’accordo interconfederale del commercio (occorre tenere presente che si tratta di lavoratori che non vanno con frequenza in azienda) è che l’obbligo di pubblicità si ritiene assolto con l’invio al domicilio di ciascun telelavoratore di copia del contratto collettivo.
Modena, 9 agosto 2002
Eufranio MASSI
Dirigente della Direzione provinciale del Lavoro di Modena
Fonte: http://www.dplmodena.it/telelavoro.doc
Sito web da visitare: http://www.dplmodena.it
Autore del testo: sopra indicato nel documento di origine
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