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CAPITOLO PRIMO
L’EVOLUZIONE LEGISLATIVA IN MATERIA DI IGIENE E SICUREZZA SUI LUOGHI DI LAVORO
PARTE 1^ – FONTI DEL DIRITTO
1 – Principi fondamentali
2 – I progressi della legislazione sulla sicurezza sui luoghi di lavoro nella recente storia italiana
PARTE 2^ - L’ATTUALE RIPARTIZIONE DI COMPETENZE E ATTRIBUZIONI
1 – Il riparto delle competenze normative in materia di sicurezza sui luoghi di lavoro
2 – La carenza di un sistema di coordinamento fra i soggetti istituzionali
SICUREZZA PARTECIPATA: L’INTERAZIONE DEI SISTEMI DEL DIRITTO DELLA SICUREZZA SUL LAVORO
1 – Il sistema istituzionale
2 - Il sistema integrato della prevenzione sui luoghi di lavoro
3 – Il sistema di gestione aziendale della prevenzione con riferimento specifico ai modelli gestionali previsti dal T.U. in materia di sicurezza sui luoghi di lavoro (Decreti legislativi 81/2008 e 106/2009)
4 – Il sistema della rappresentanza e delle relazioni collettive
5 – Il sistema sanzionatorio
INTRODUZIONE
La sicurezza sui luoghi di lavoro
La tesi tenta di dimostrare che attraverso la condivisione delle problematiche, fra tutti coloro che a vario titolo si occupano della materia riguardante la prevenzione e la sicurezza sui luoghi di lavoro, è possibile ridurre al minimo il rischio relativo a possibili incidenti che determinano infortuni, alcuni dei quali mortali, e malattie professionali, che non raramente si concludono con la morte di donne ed uomini dovute alla progressione lenta ma inesorabile delle patologie invalidanti (si pensi all’asbestosi, silicosi).
Inoltre bisogna considerare i costi sociali determinati dal sistema previdenziale/assistenziale pubblico ai quali lo Stato deve far fronte con ingenti risorse economiche che ammontano a decine di migliaia di euro ogni anno (le stime per il 2012 parlano di 51 miliardi di euro che rappresenta il 3% circa del P.I.L.)
Ho voluto accostare il fenomeno degli infortuni (traumi alla persona determinati da causa violenta) a quello delle malattie professionali (insorgenza di patologie correlate all’esposizione a fattori di rischio chimico, fisico, biologico, trasversale) poiché spesso quest’ultimo fenomeno viene sottaciuto dalla pubblicazione di statistiche relative al fenomeno dei rischi legati ai luoghi di lavoro rese pubbliche da enti e associazione che a vario titolo operano nei vari settori del lavoro: dipendente, autonomo, pubblico, privato. Il fenomeno delle malattie professionali, infatti, non è figlio di un “Dio minore” ma anch’esso nasce del rapporto di causalità fra esposizione ai rischi dell’attività lavorativa e patologie invalidanti temporanee o permanenti che esse siano. Perdere la vita a causa di una malattia professionale possiede la stessa valenza che perderla a causa di una evento violento.
Ma l’immaginario collettivo viene più delle volte sollecitato dalla problematica solo quando i mass media ci raccontano delle cosiddette “MORTI BIANCHE”; un esempio per tutti è rappresentato dall’incendio avvenuto nella notte fra il 5 e 6 dicembre 2007 nella fabbrica della THYSSEN KRUPP di Torino in cui persero la vita sette lavoratori a seguito delle gravi ustioni riportate poiché investiti da una fuoriuscita di olio bollente.
Dopo qualche giorno dall’avvenuta tragedia il fenomeno delle morti sul lavoro cadde nel dimenticatoio accompagnato dai tanti buoni propositi da parte di istituzioni pubbliche e private tesi a far in modo che il fenomeno non si ripeta. Ma quando a distanza di alcuni giorni altre morti bianche si verificano, in molte zone del nostro Paese, si ripete il rito di condanna del fenomeno e l’impegno, ognuno per la parte di competenza, a porre in essere ogni misura utile tesa alla prevenzione di altre disgrazie legate all’attività lavorativa. Non c’è quindi un’attenzione quotidiana al fenomeno della sicurezza sui luoghi di lavoro e, pertanto, manca quella coscienza collettiva che consente di percepire la problematica in maniera capillare fra i milioni di lavoratori che tutti i giorni e tutte le notti si recano sui propri posti di lavoro nonché fra i tanti datori di lavoro che sono tenuti a svolgere la propria attività economica/produttiva nel rispetto della sicurezza dei prestatori di lavoro.
Bisogna pertanto considerare la problematica della sicurezza sui luoghi di lavoro nella sua complessità assegnando pari dignità e considerazione sia al fenomeno infortunistico che a quello delle malattie professionali. D’altra parte tutta l’impalcatura delle norme cogenti, alla quale si aggiunge l’adesione volontaria dei datori di lavoro a sistemi di gestione della sicurezza validate da organismi internazionali in materia (norme HOSAS 18001), tendono a salvaguardare l’integrità psico-fisica delle lavoratrici e dei lavoratori intesa nella sua complessità.
A tal proposito vorrei sottolineare un approccio alla problematica caratterizzata da una cultura maschilista sia del legislatore nazionale e regionale che dei vari organi dello Stato apparato e dello Stato comunità che tende a sottovalutare le problematiche della sicurezza sui luoghi di lavoro tipiche delle lavoratrici. Fenomeni di stress da lavoro/correlato tipicamente riconducibili al mondo del lavoro al femminile, molestie sessuali sui luoghi di lavoro, condizioni di ricatto delle donne in attesa di partorire o che abbiano appena partorito sono solo alcuni esempi di come la problematica della sicurezza dei luoghi di lavoro si arricchisca di ulteriori complicazioni tipiche del lavoro femminile, aggravate da un sistema maschilista che anziché fornire servizi sociali (es.: asili nido) è più orientato all’espulsione delle donne dal mondo del lavoro.
Eppure è compito della Repubblica produrre norme tese a “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazioni di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”, così come recita il secondo comma dell’art. 3 della nostra Costituzione. E’ fondamentale dare pari dignità ad uomini e donne, a lavoratori e lavoratrici, cittadine e cittadini. Sarà solo l’inizio per un percorso virtuoso che parte dal carattere formale del riconoscimento della pari dignità fra uomini e donne e giunge ad un riconoscimento sostanziale di pari diritti delle donne rispetto a quelli degli uomini.
Ma se il fine ultimo del legislatore è quello di tutelare l’integrità psico-fisica delle lavoratrici e dei lavoratori (diritto fondamentale primario nella gerarchia dei valori costituzionalmente orientata) è possibile pensare ad un sistema integrato di sicurezza che ponga i soggetti interessati al riparo da infortuni e malattie professionali? Esistono sul mercato sistemi di gestione della sicurezza che garantiscono al 100% la salvaguardia della predetta integrità psico/fisica? Tali sistemi se opportunamente attivati e monitorati dal datore di lavoro gli consentono di essere esonerato da responsabilità penali e civili per le lesioni provocate ai lavoratori? Come devono cooperare i vari soggetti attuatori della sicurezza sui luoghi di lavoro per salvaguardare al massimo l’integrità psico/fisica delle lavoratrici e dei lavoratori?
Tali domande affollano il dibattito sempre attuale sull’argomento che si sviluppa fra dottrina, giurisprudenza e addetti al settore antinfortunistico, spesso caratterizzato da una chiusura preconcetta di un settore rispetto ad altri. Una discussione laica ed aperta favorirebbe una cooperazione virtuosa fra i tanti settori, enti e soggetti che insistono nel mondo variegato della sicurezza sui luoghi di lavoro comportando l’elevazione del progresso tecnologico, scientifico e giuridico che fanno bene all’applicazione di tecnologie e saperi tesi alla prevenzione degli infortuni e delle malattie professionali. Sarebbe bello immaginare un giorno in cui la giurisprudenza civile e penale non si dovrà più occupare di responsabilità dei datori di lavori poiché lo Stato, le Regioni, gli stessi datori di lavoro e i lavoratori avranno posto in essere un sistema cooperativo che ha ridotto a ZERO gli infortuni e le malattie professionali. E’ il sogno di un Tecnico della Prevenzione che, unitamente a tanti colleghi in servizio nei Dipartimenti di Prevenzione delle Aziende Sanitarie d’Italia, fornisce quotidianamente il suo piccolo contributo per fare in modo che esso si realizzi.
Condividere un sogno orientato al bene collettivo è possibile ma la prassi quotidiana mi induce a tornare ad analizzare la problematica della sicurezza sui luoghi di lavoro con i piedi per terra, tenendo conto delle norme che disciplinano la materia e il livello di relazione che intercorre fra i soggetti attuatori di tali norme: Stato, Regioni, datori di lavoro, lavoratrici/lavoratori.
C A P I T O L O P R I M O
EVOLUZIONE LEGISLATIVA IN MATERIA DI IGIENE E SICUREZZA SUI LUOGHI DI LAVORO
PARTE 1^ - FONTI DEL DIRITTO
Paragrafo 1 – Principi fondamentali
L’evoluzione legislativa in materia di igiene e sicurezza del lavoro si è sviluppata nel tempo adeguandosi allo sviluppo tecnologico e scientifico che ha caratterizzato la produzione industriale dalla prima rivoluzione industriale ai giorni nostri.
Non c’è dubbio che i sistemi di sicurezza sono legati inscindibilmente alle modalità produttive dei singoli settori della produzione industriale, artigianale, agricola, ecc.. e delle singole varianti di ognuno di essi. Sistemi e modalità di produzione sempre più sofisticati, che applicano le innovazioni tecnologiche della robotica, dell’informatica, delle nanotecnologie impongono una costante attenzione alle misure di sicurezza apprestate dai datori di lavoro a difesa dell’integrità psico/fisica delle lavoratrici e dei lavoratori per le sollecitazioni che esse producono sul corpo umano, tanto da modificarne la fisiologia e far insorgere stati patologici più o meno gravi derivanti sia da esposizione costante e continuativa ai singoli fattori di rischio che da traumi dovuti alla natura violenta ed improvvisa della manifestazione dell’evento.
Il legislatore nel corso del tempo, a seconda della latitudini e longitudini geografiche, ha apprestato una serie di norme dettate dall’assetto istituzionale che man mano si è andato sviluppando. Pertanto le forme di sensibilità del legislatore verso il fenomeno dell’integrità psico/fisica legata ai fattori di rischio dell’attività lavorativa si è andato evolvendo passando da una scarsa attenzione nel periodo del primo e secondo sviluppo industriale ad una maggiore attenzione che dal secondo dopoguerra in poi ha dovuto considerare il “DIRITTO ALLA SALUTE” come un diritto fondamentale che occupa uno dei primissimi posti nella scala gerarchica dei diritti contenuti in molte costituzioni moderne occidentali. Anche i vari organismi internazioni ai quali l’Italia ha dato la propria adesione (ONU, OIL – Organizzazione Internazionale del Lavoro- U.E.) hanno individuato il diritto alla salute quale caposaldo di carte internazionali di riconoscimento dei diritti fondamentali della persona umana che appare in dette norme come spogliata di genere : la persona umana è fanciullo (norme sullo sfruttamento dei bambini nel lavoro) è donna (pari dignità di genere), è uomo con qualsiasi colore della sua pelle (giallo, nero, bianco, ecc..). Questi passi da gigante che sono stati fatti nella normazione internazionale, recepita dal nostro paese, hanno consentito una maggiore attenzione dei vari stati e degli organismi internazionali nel bilanciamento di interessi fra la libertà di iniziativa economica privata da una parte e l’utilità sociale, la sicurezza, la libertà, la dignità umana dall’altra.
L’art. 41 della costituzione repubblicana italiana mette in relazione proprio il bilanciamento delle suddette libertà e diritti che vanno interpretati mediante la lettura combinata con le disposizioni degli articoli 2 e 3 della Costituzione che affermano l’uguaglianza formale e sostanziale delle cittadine e dei cittadini di fronte alla legge nonché lo spirito solidaristico e cooperativo al quale deve essere orientata l’iniziativa socio-economico-produttiva pubblica e privata.
Nel settore specifico della sicurezza sui luoghi di lavoro un importante rilievo va assegnato nel nostro ordinamento giuridico all’art. 2087 del codice civile che impone all’imprenditore “di adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro” (Principio della massima sicurezza tecnologicamente possibile).
L’evoluzione legislativa ha posto in essere nel nostro paese i principi solidaristici e cooperativi enunciati dalle norme costituzionali nonché quelli sanciti dall’art. 2087 del codice civile.
Accanto alle rivendicazioni salariali i lavoratori e le organizzazioni sindacali hanno man mano colto, con il trascorrere del tempo, che maggiori salari potevano risolvere problemi contingenti relativi ai bisogni economici familiari ma ciò non avrebbe avuto nessun senso senza un’adeguata e moderna tutela della salute determinata dall’esposizione agli agenti di rischio sui luoghi di lavoro.
Nel corso degli ultimi decenni il mondo accademico ha evidenziato, con importanti scoperte scientifiche, le proprietà cancerogene e teratogene di alcune sostanze chimiche usate nei luoghi di lavoro quali l’amianto, il cloruro di polivinile, il biossido di silicio in forma cristallina, tanto per citare alcuni esempi, che fino ad alcuni anni orsono non erano considerate pericolose per la salute umana. Alcune inchieste giornalistiche hanno evidenziato l’esposizione massiccia alle fibre di amianto in tante industrie sparse per l’Italia nel corso degli anni che vanno dai primi anni del secondo dopoguerra in poi. Non solo i lavoratori erano esposti durante l’attività lavorativa ma le fibre di amianto erano veicolate negli ambienti della propria vita familiare mediante le tute e gli altri indumenti utilizzati per lavorare. Le mogli, le figlie e qualsiasi persona venuta a contatto più o meno prolungato con tali indumenti ha subito gli effetti negativi per la propria salute della micidiale sostanza. Numerosi sono i casi di morte da asbestosi (malattia respiratori cronica legata alle proprietà delle fibre di asbesto di provocare una cicatrizzazione del tessuto polmonare) di parenti di lavoratori accertati in nuclei familiari legati alla produzione industriale di manufatti che faceva uso di amianto.
Identica sorte hanno subito molti lavoratori e loro familiari della Valbasento in Basilicata ove hanno operato in industrie chimiche che hanno fatto largo uso di cloruro di polivinile (PVC) per le proprie produzioni industriali. Il PVC è oggi considerato un potente cancerogeno è va adoperato nei sistemi produttivi con tutte le precauzioni volte a minimizzare l’assorbimento da parte delle lavoratrici e dei lavoratori.
Si è trattato, e si tratta ancora, nell’esposizione ad amianto come a quello di cloruro di polivinile nonché al biossido di silicio in forma cristallina, di decessi avvenuti anche a lunga distanza dal termine di cessazione del rapporto di lavoro o in costanza di esso a dimostrazione che alcune sostanze impiegate nei cicli produttivi hanno un procedura di manifestazione della malattia del tutto particolare : uccidono silenziosamente senza farsi notare e quando si notano i loro effetti è oramai troppo tardi. La silicosi, che colpisce i lavoratori esposti per lunghi periodi al biossido di silicio in forma cristallina, può rimanere latente per diversi anni. Le manifestazioni iniziali compaiono generalmente dopo un lungo periodo dall’inizio dell’esposizione. I lavoratori esposti sono quelli impiegati in lavorazioni al alto rischio quali quelle svolte in miniera, nel taglio di pietre, nella produzione di abrasivi, nel lavoro in fonderia, nella produzione di vetro e ceramica, nella pulitura di superfici , nello scolorimento di jeans.
Dimostrare nelle sedi giurisprudenziali il nesso di causalità fra l’esposizione alle sostanze pericolose e/o nocive non sempre è stato facile con buona pace delle responsabilità civili e penali di datori di lavoro incoscienti che hanno tenuto esposti migliaia di lavoratori agli agenti cancerogeni.
E’ logico che nei casi di esposizione sopra citati occorre un dialogo a 360 gradi finalizzato a condividere fino a che punto è possibile accettare la soglia e le modalità di esposizione che evitino l’insorgenza della patologia invalidante che con il tempo non lascia scampo. E’ senza dubbio un problema di carattere medico ma che ha delle ripercussioni sul piano penale in materia di delitti colposi (omicidio colposo e lesioni colpose). L’accertamento del rischio concreto nel caso di specie è inscindibilmente legato ha valutazioni di tipo tecnico di altre discipline scientifiche che devono dialogare con le teorie della scienza giuridica in maniera costruttiva.
I costi sociali sostenuti dallo stato per sostenere il sistema previdenziale ed assistenziale sono notevoli e si riferiscono sia alle risorse economiche necessarie per far funzionare la macchina amministrativa pubblica formata da più Enti che interagiscono nel settore (INPS, INAIL, ASL, Ministero del Lavoro, ecc..) e sia per erogare le prestazioni dovute agli iscritti ai vari enti previdenziali : indennità dirette e indennità ai superstiti.
La civiltà di politiche sociali di uno stato si misura dalla capacità di saper ponderare al meglio tutti gli strumenti utilizzabili per un maggiore ed efficace controllo sociale al fine di assicurare al maggior numero di consociati e consociate il più alto tasso di benessere socio-economico. La politica criminale è l’estrema ratio da utilizzare per costringere i cittadini/e, sotto minaccia di sanzione, ad obbedire alle prescrizioni dello stato legislatore.
Nella materia della sicurezza sui luoghi di lavoro interagiscono varie discipline che il legislatore deve dosare con cura per approntare un sistema di prevenzione efficace ed efficiente. Il metodo concertativo è senza dubbio quello migliore che tiene conto di tutti i saperi, di tutte le tecnologie, di tutti i soggetti che possono fornire il proprio fattivo contributo. Un legislatore attento prima di adottare la sanzione penale deve sforzarsi di trovare ogni soluzione possibile coordinata e condivisa che eviti il ricorso alla criminalizzazione del comportamento del datore di lavoro. Per adottare un metodo concertativo efficace è necessario che tutti i soggetti abbiano un approccio alla problematica della sicurezza sui luoghi di lavoro di leale collaborazione così come sancito dalle norme cogenti di carattere nazionale e sovranazionale. E’ fondamentale capire da parte di datori di lavoro come da parte dei lavoratori nonché da parte delle istituzioni pubbliche che solo il metodo cooperativo-collaborativo può fornire un grande contributo per abbassare il tasso di pericolosità all’esposizione ai rischi legati all’attività lavorativa : gli imprenditori devono rinunciare ad una parte dei loro utili per investirli in sistemi di gestione della salute e sicurezza delle lavoratrici e dei lavoratori che siano trasparenti, partecipati, efficaci ed efficienti. Le lavoratrici e i lavoratori devono partecipare con spirito costruttivo ai momenti formativi ed informativi sui rischi legati al posto di lavoro e devono rispettare le indicazioni fornite dai datori di lavoro, e loro delegati, relativamente al ciclo produttivo, ai mezzi di protezione individuale, alle misure da seguire per un corretto svolgimento dell’attività lavorativa. Gli enti pubblici devono fare la loro parte nel fornire ai datori di lavoro e ai prestatori di lavoro il proprio contributo e la propria assistenza tesi ad individuare percorsi virtuosi che conducano alla riduzione al minimo dell’esposizione agli agenti di rischio in materia di lavoro.
Gli organi dell’Unione Europea hanno colto prima di ogni altro paese membro l’importanza di una gestione integrata del sistema di sicurezza e salute sui luoghi di lavoro. Le norme comunitarie sono state recepite nel nostro paese nel decreto legislativo n. 626/1994 che per un lungo periodo ha caratterizzato l’intervento legislativo sulla materia. La filosofia ispiratrice del citato decreto è stata caratterizzata dall’essere attenta più alla grande produzione industriale la cui peculiarità era rappresentata dal grande sito produttivo legato all’immagine stereotipata della catena di montaggio. Il legislatore italiano ha colto la non conformità fra le finalità delle norme contenute nel citato decreto e la tipologia del modello italiano di produzione industriale che è formato, per la maggior parte da piccole e medie imprese e solo una ridottissima parte è rappresentato dalla grande industria con stabilimenti di grandi dimensioni con un notevole numero di lavoratori addetti. Inoltre il legislatore nazionale si è accorto delle difficoltà determinate dall’interazione delle norme del decreto legislativo 626/1994 con altre norme, contenute in altre discipline statali, che contestualmente erano in vigore.
Pertanto sulla spinta venuta dai rappresenti dei datori di lavoro e dei prestatori di lavoro i legislatori che si sono succeduti (sia di centro-destra che di centro sinistra) si sono posti sempre il problema di rendere più aderente alla realtà produttiva italiana le norme in materia di sicurezza sui luoghi di lavoro nonché di procedere ad una revisione delle numerose norme vigenti in materia coordinandole fra loro per ottenere un unico testo normativo di riferimento. Ciò è avvenuto mediante la promulgazione della legge 3 agosto 2007, n. 123 che delegava il Governo a procedere ad una riforma della materia mediante l’armonizzazione di tutte le normative vigenti al momento. Il Governo Prodi ha emanato il decreto legislativo n. 81 del 9 aprile 2008 successivamente rivisto e corretto con il decreto legislativo n. 106/2009. E’ opportuno sottolineare che entrambi i decreti risentono delle peculiarità e delle sensibilità delle ideologie dei Governi che li hanno emanati : il primo di centro-sinistra ed il secondo di centro-destra. Ad ogni modo la strada per un dialogo proficuo e costruttivo sembra avviato. La finalità di ridurre al minimo il rischio relativo alla sicurezza sui luoghi di lavoro sembra condivisa da tutti gli schieramenti politici : la vita umana e l’integrità psico-fisica della persona sono valori comuni a tutte le politiche sociali. Si tratta di vedere come giungere il più rapidamente possibile a finalizzare al meglio la cooperazione dei singoli soggetti politici e burocratici che si occupano della materia. L’attuale Testo Unico in materia di sicurezza e salute sui luoghi di lavoro (decreto legislativo 81/2008, così come modificato ed integrato dal decreto legislativo n. 106 del 3 agosto 2009) sembra una buona base di partenza.
Si tratta ora di porre in essere ogni utile iniziativa che porti le varie sensibilità ed i vari soggetti attuatori ad intraprendere percorsi virtuosi, agili e snelli che possano al più presto migliorare la situazione esistente. E’ opportuno che la parte pubblica comprenda che assegnare risorse alle strutture pubbliche di prevenzione e di ricerca scientifica serve a prevenire tanti infortuni sul lavoro e malattie professionali che sono un costo enorme per la collettività sia in termini di funzionamento del sistema burocratico che in termini di erogazione di prestazioni previdenziali ed assistenziali. Un famoso motto del mondo scientifico medico recita : prevenire è meglio che curare. E’ senza dubbio questo motto, che è alla base della missione del Dipartimento di Prevenzione dell’Azienda Sanitaria Locale di Matera presso il quale esercito la mia attività pubblica di Tecnico della Prevenzione, che mi fa propendere per un modello cooperativo delle varie strutture pubbliche le quali devono comprendere che destinare più risorse alla prevenzione non è un costo ma un investimento. Infatti nel medio-lungo periodo maggiori interventi preventivi, informativi, di divulgazione dei sistemi di prevenzione, portano alla diminuzione di infortuni e malattie professionali, determinando un risparmio in termini di erogazioni di rendite e prestazioni previdenziali ed assistenziali. Le risorse pubbliche se sono spese efficacemente in prevenzione portano ad un risparmio finale.
In un quadro di riferimento improntato al confronto costruttivo, ispirato da principi cooperativi e collaborativi contenuti nei valori costituzionali di solidarietà e di sussidiarietà, è opportuno intensificare il dibattito in corso sulla validità del ricorso da parte dei datori di lavoro a sistemi di gestione e controllo della sicurezza e salute sui luoghi di lavoro ai quali rivolgono la loro attenzione le norme contenute nel testo unico in materia di sicurezza sui luoghi di lavoro. E’ necessario che la dottrina giuridica, soprattutto quella penalistica, e la giurisprudenza si aprano alle altre dottrine che interagiscono con la materia : la medicina, l’ingegneria, la fisica, la chimica, la programmazione e gestione di sistemi di sicurezza e altre discipline ancora. Occorre però che le citate discipline, a loro volta, dialoghino con la scienza giuridica per trovare accordi per intersezione che possano servire ad orientare il legislatore di ogni tempo all’utilizzo della migliore tecnica di controllo sociale utile allo scopo della prevenzione di infortuni e malattie professionali. Occorre un rapido ed immediato dialogo a più voci al quale il legislatore deve prestare la sua attenzione sgombrando la mente dal suo orientamento ideologico che potrebbe annebbiargli la vista rispetto al fine ultimo : la tutela dell’integrità psico/fisica della persona umana legata ad ambienti di lavoro quanto più possibili sicuri ed igienicamente vivibili.
Paragrafo 2 – I progressi della legislazione sulla sicurezza sui luoghi di lavoro nella recente storia italiana.
Come già accennato in precedenza non c’è dubbio che l’ordinamento giuridico italiano ha apprestato una sempre maggiore attenzione all’integrità psico-fisica delle lavoratrici e dei lavoratori soprattutto dal secondo dopoguerra in poi.
L’entrata in vigore della Costituzione Repubblica ha rappresentato, è rappresenta tutt’oggi, il momento centrale dell’attenzione che lo Stato riserva ai diritti fondamentali dei cittadini fra i quali la salute riveste un’importanza strategica per il godimento di tutti gli altri diritti e le altre libertà. Non avrebbe senso che lo Stato assicuri tutte le libertà personali se prima non si preoccupa di porre in essere tutte le iniziativi utili ad assicurare le condizioni del benessere psico-fisico dei propri consociati.
La sensibilità verso il diritto alla salute dei cittadini del legislatore italiano, dal 1948 ai giorni nostri, è cresciuta notevolmente ampliando le occasioni e gli strumenti attraverso i quali la fruibilità reale di questo bene così importante è stata possibile concretamente. In questo senso anche la tutela dell’ambiente è stata direttamente correlata alla salute della collettività. Non c’è dubbio che in un Costituzione democratica come quella italiana fondata sul lavoro i temi legati alla sicurezza sui luoghi di lavoro hanno man mano catalizzato l’attenzione di tutti gli organi dello stato e dell’apparato burocratico della pubblica amministrazione.
L’adesione dell’Italia agli organismi internazionali ha accelerato i processi decisionali in materia di sicurezza sui luoghi di lavoro. L’Organizzazione Internazionale del Lavoro rappresenta certamente l’organismo più qualificato in materia di sicurezza sul lavoro dal quale l’Italia riceve, ma fornisce a sua volta, gli stimoli necessari per la condivisione di progetti operativi tesi ad armonizzare, in tutti i paesi aderenti, le buone pratiche operative per garantire ad un numero sempre maggiore di lavoratori e lavoratrici luoghi di lavoro sicuri dalle insidie legati all’attività produttiva.
La cooperazione internazionale rappresenta uno dei capisaldi alla quale la nostra costituzione guarda per accelerare ed intensificare tutte le iniziative finalizzate ad uno sviluppo economico, industriale, e sociale eco-sostenibile che sappia coniugare al meglio tutti gli interessi coinvolti convogliandoli nel supremo interesse della collettività senza disdegnare una particolare attenzione per le generazioni future per le quali i tanti egoismi individuali e globali dovrebbero essere posti al bando.
L’adesione dell’Italia a organismi internazionali, fra il quali l’ONU che rappresenta quello di maggior peso politico, nonché a quelli di carattere regionale come la U.E. – Unione Europea – hanno rafforzato l’attenzione per i diritti fondamentali che, attraverso carte internazionali, sono stati sanciti come fini che gli stati membri si sono impegnati ad assicurare in maniera omogenea a tutti i cittadini. L’attenzione per la dignità della persona umana non ha più confini nazionali, né di specie, né di genere, né di età: si è diventati fruitori di diritti umani universalmente riconosciuti. Bisogna però riconoscere che fra il dato formale del riconoscimento dei diritti universali e quello sostanziale la forbice è piuttosto ampia e si allarga a seconda delle reali volontà politiche dei vari stati aderenti.
I diritti fondamentali, previsti dall’impianto costituzionale italiano, sono vincolanti per l’attività legislativa e burocratica amministrativa. La tutela della salute è un principio cardine che sia i soggetti pubblici che privati devono tenere in debita considerazione nell’espletamento delle loro rispettive attività.
La tutela della salute sui luoghi di lavoro è divenuto un imperativo categorico per uno stato come quello italiano che fonda la sua costituzione sul lavoro. Gli attori che interagiscono nella materia del lavoro sono sostanzialmente due : datore di lavoro e prestatori di lavoro. Lo Stato deve assicurare che il diritto all’attività produttiva degli imprenditori venga svolta salvaguardano i diritti di lavoratori e cittadini ad un ambiente di vita e di lavoro sul quale gli effetti della produzione industriale possono produrre conseguenze irreparabili. La funzione di equilibrio che gli organi pubblici devono garantire nel bilanciamento degli interessi in gioco è fondamentale ad assicurare la produzione di beni e servizi da una parte e la salute dei cittadini/lavoratori dall’altra. E’ nel ponderato e saggio bilanciamento di tali interessi che si annidano le virtù di un legislatore che è propenso a dialogare in maniera laica ed aperta con tutti coloro che a vario titolo partecipano al dibattito costruttivo sulla sicurezza sui luoghi di lavoro. Il ricorso alla sanzione penale per costringere i consociati ad avere un comportamento conforme al diritto deve esser l’estrema ratio di politiche di controllo sociale. Anche quando si è costretti a ricorrere alla sanzione criminale per regolare il fenomeno deve essere utilizzata a fini di prevenzione generale positiva : si devono indurre fra i consociati comportamenti virtuosi spontanei, facendo affiorare che il diritto penale si presta al consolidamento della fiducia dei cittadini nell’ordinamento e alla stabilizzazione delle relative norme sociali. La motivabilità dei destinatari delle norme penali deve spingere alla ricerca di un modello concertativo-cooperativo in cui gli imprenditori si impegnino a trovare soluzioni tecniche che, applicate correttamente e monitorate continuamente, riducano al minimo l’esposizione ai rischi sui luoghi di lavoro.
In Italia, fino al 1988, la salute e la sicurezza sui luoghi di lavoro sono state assicurate principalmente attraverso due pilastri normativi :
- il D.P.R. n° 547 del 1955 : “Norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro” che stabiliva norme generali e specifiche per la prevenzione degli infortuni sul lavoro tra cui :
. caratteristiche di postazioni di lavoro, locali, vie di accesso e passaggio;
. meccanismi di protezione delle macchine per trasporto e sollevamento;
. norme su impianti, prodotti, manutenzioni e dispositivi di protezione;
. obblighi dei datori di lavoro e dei lavoratori, adempimenti e sanzioni.
- il D.P.R. n° 303 del 1956 : “Norme generali per l’igiene degli ambienti di lavoro” che forniva disposizioni in materia di igiene del lavoro e delle condizioni dei luoghi di lavoro come :
. caratteristiche strutturali e conformità edilizia dei luoghi di lavoro;
. presenza di rumore, vibrazioni, polveri e altri agenti fisici;
. protezione durante l’impiego di sostanze e prodotti tossici e nocivi;
. servizi sanitari e igienico – assistenziali;
. caratteristiche dei nuovi impianti.
I principi fondamentali della normativa di quegli anni sono stati :
. imposizione legislativa;
. successivo controllo della loro corretta applicazione;
. conseguente sanzione degli inadempimenti.
Tra il 1989 e il 1990 sono state emanate otto direttive comunitarie che hanno determinato un nuovo approccio alla sicurezza con modalità gestionale basato sulla prevenzione attraverso la responsabilizzazione del management e dei lavoratori.
In Italia si inizia a costruire, in ogni azienda, un sistema per la valutazione del rischio e per il calcolo dell’esposizione dei lavoratori ad alcuni pericoli.
Il Decreto legislativo n° 626 del 19 settembre 1994 rappresenta il provvedimento completo di attuazione delle otto direttive comunitarie. Il decreto 626/94 è stato successivamente modificato dal Decreto legislativo del 19 marzo 1996 n° 242. In tale normativa sono già presenti tutte le caratteristiche di un sistema di gestione.
La sicurezza deve diventare un atteggiamento permanente che orienta i comportamenti . La prevenzione diventa un valore aziendale che coinvolge tutti i soggetti dell’organizzazione.
L’applicazione delle norme contenute nel decreto legislativo n° 626/1994, e successive modificazioni ed integrazioni, ha consentito di verificare la rispondenza dei principi ispiratori agli scopi di salvaguardia della salute e sicurezza sui luoghi di lavoro tipici del tessuto produttivo italiano. La sperimentazione di un sistema di gestione della sicurezza, per la prima volta attuato in Italia mediante le disposizioni contenute nel citato decreto, hanno portato ad un grande dibattito pubblico che ha visto coinvolto il mondo accademico/scientifico delle varie discipline umanistiche e delle scienze dure, i datori di lavoro, i rappresentanti dei lavoratori e delle istituzioni pubbliche (politici e tecnici). Da tutti questi soggetti, con le diverse sfumature e sensibilità delle quali ognuno di essi è portatore, si è avvertita la necessità di porre ordine alla frammentazione di norme e discipline che affollavano il variegato mondo della produzione normativa. Inoltre principi, scopi e criteri direttivi contenuti nel decreto legislativo n° 626/1994 erano considerati poco rispondenti al complesso mondo produttivo italiano composto da piccole e medie imprese. Nel frattempo gli organismi internazionali di certificazione di sistemi di sicurezza e salute sui luoghi di lavoro hanno elaborato sistemi di gestione della sicurezza (SGS) che hanno rappresentato il paradigma di riferimento per molti legislatori del mondo occidentale sulla materia della sicurezza. Questo accreditamento pubblico di tali sistemi di gestione ha favorito l’adesione di molte imprese alle norme volontarie in materia di sicurezza da società certificate ed accreditate sul piano internazionale. Il dibattito che si è sviluppato su quest’ultimo argomento riproduce i suoi echi ancora negli incontri attuali sulla materia della sicurezza e un quesito su tutti attira l’attenzione degli esperti (giuristi, tecnici, mondo scientifico, ecc..) : l’osservanza delle citate norme volontarie quali effetti produce rispetto alle responsabilità civili e penali degli imprenditori?
Per le ragioni anzidette il legislatore italiano per rendere più rispondente al sistema produttivo nazionale, per porre ordine alla frammentazione di norme che regnava sovrana nel settore, ed in ultimo per tentare di dare una risposta alle tanti morti bianche che si sono succedute durante la vigenza del decreto legislativo n° 626/1994, ha posto mano in maniera radicale alla modifica del sistema normativo in vigore fino al 2007.
Il Parlamento ha pertanto emanato la legge 3 agosto 2007, n° 123 che, all’art. 1, delega il Governo ad emanare un atto regolamentare per “il riassetto e la riforma della normativa in materia di tutela della salute e della sicurezza sul lavoro” e una data da rispettare (entro nove mesi dal 25 agosto 2007).
Il Governo Prodi approva il Decreto legislativo 9 aprile 2008, n° 81 che riordina e coordina tutte le disposizioni emanate nell’arco di circa sessant’anni, sulla salute e sicurezza sui luoghi di lavoro, adegua il corpus normativo all’evolversi della tecnica e del sistema di organizzazione del lavoro.
Il Decreto legislativo 81/2008 è stato rivisto dal Governo Berlusconi con il Decreto legislativo 3 agosto 2009, n° 106: “Disposizioni integrative e correttive del D. Lgs. N° 81/2008, in materia di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro” (Gazzetta Ufficiale n° 180 del 5 agosto 2009). Le nuove disposizioni sono entrate in vigore il 20 agosto 2009.
“Occorre a questo punto richiamare prima le linee di riforma del 2008 e poi dare conto delle principali ragioni dell’intervento correttivo. Mi limito a ricordare, molto sinteticamente, gli obiettivi del decreto legislativo n° 81/2008 che erano fondamentalmente quattro :
In coerenza con questi obiettivi, il decreto legislativo n° 81/2008 si
basa sui seguenti capisaldi :
E’ noto che le ragioni dell’intervento correttivo del 2009, a distanza di poco più di un anno, sono di varia natura : per un verso tecnico-giuridiche; per un altro verso di politica del diritto. Certamente il testo del decreto legislativo 81/2008 – chiuso in modo frettoloso, per la scadenza incombente della precedente legislatura – richiedeva la correzione di incongruenze ed errori.
Ma a tale correzione, oggettivamente necessaria, si sono poi aggiunte scelte di politica del diritto, più o meno condivisibili : come la semplificazione degli adempimenti e procedure e, soprattutto, “l’attenuazione” del quadro sanzionatorio, richiesta con molta insistenza dalla Confindustria. “1
Mediante la nuova normativa il legislatore italiano ha posto le basi per un approccio di sistemi che interagiscono fra loro nel tentativo di dare una risposta concreta alle sollecitazioni dell’Unione Europea che invita gli stati membri ad adottare delle vere e proprie strategie globali e sistemi che possono sconfiggere il fenomeno così complesso e drammatico degli infortuni sul lavoro e delle malattie professionali. Il T.U. in materia di sicurezza rappresenta un tentativo razionale e serio di organizzare la materia in maniera sistematica : un insieme di sistemi collegati e coordinati fra loro che dialogano in maniera costruttiva. Lo sforzo sistematico del legislatore lo si coglie molto bene leggendo l’art. 2 – comma 1 – del T.U. che qualifica la prevenzione come : “un complesso di disposizioni per evitare o diminuire i rischi professionali, nel rispetto della salute della popolazione e nella integrità dell’ambiente esterno”. Come già evidenziato le norme sulla sicurezza si preoccupano non solo della salute dei lavoratori, ma anche dell’ambiente esterno e delle popolazioni che occupano il territorio. Ciò costituisce una pianificazione di controlli ed interventi tesi a costruire un sistema di promozione della salute e della sicurezza al quale concorrono, in maniera virtuosa e con spirito di leale collaborazione, i soggetti istituzionali e le parti sociali.”
Il decreto legislativo 81/2008 indica a società e enti una politica aziendale che tenga in debita considerazione modelli di organizzazione e gestione che superino misure estemporanee, occasionali e mutevoli nel tempo.
Le norme del T.U. si sforzano di collegare al meglio il sistema repressivo con quello della prevenzione prevedendo sistemi premiali ed incentivanti per i datori di lavoro che riescano a dimostrare non solo il loro ravvedimento ma soprattutto il ripristino di condizioni di sicurezza non osservate in precedenza. Tale atteggiamento collaborativo/cooperativo del datore di lavoro viene premiato ogni qual volta ottemperi alle prescrizioni dei soggetti pubblici addetti alle attività di vigilanza e controllo. La possibilità di essere esonerati da responsabilità penali e civili dipende dall’adempimento delle norme di sicurezza per eliminare le situazioni di danno o solo di pericolo. Tale adempimento dipende da una serie di fattori di pericolo e rischio che l’imprenditore dovrà preventivamente valutare, in base alla specificità della propria attività produttiva, e monitorare continuamente. Non basta un piano di sicurezza poco aderente alla realtà produttiva e organizzativa della singola azienda o settore produttivo preso in considerazione, soprattutto se è tenuto ad impolverarsi in qualche cassetto degli uffici direttivi dell’azienda. Occorre che il datore di lavoro senta la responsabilità per le migliaia, o centinaia, o decine, o singole unità di lavoratori che vanno tutelati a seconda dell’ampiezza e della complessità produttiva della singola azienda o ramo produttivo di essa. Il datore di lavoro deve trasferire tale sensibilità ad ogni singolo componente del ciclo produttivo : dall’Amministratore delegato fino all’ultimo lavoratore infondendo la fiducia che un’organizzazione sistematica e coordinata del lavoro, nella quale ognuno svolge un ruolo importante, significa ridurre notevolmente i cali di attenzione e di diligenza che spesso sono fatali per tante vite umane.
Il T.U. pone l’attenzione su un fattore di rischio che fino a pochi anni orsono veniva trascurato che è rappresentato dal rischio traversale, cioè l’insorgenza di patologie dei lavoratori e delle lavoratrici legate alla non corretta organizzazione del lavoro. La circolare del Ministero del Lavoro e delle politiche sociale del novembre 2010 ha individuato gli eventi sentinella che i responsabili della sicurezza, che a vario titolo operano nelle aziende pubbliche e private, devono tener conto per ulteriori approfondimenti finalizzati a prevenire fenomeni di demotivazione del personale dipendente che alcune volte sfocia in vere e proprie patologie ansiose-depressive (si pensi al fenomeno del mobbing o ai suicidi di lavoratori che si sentono perseguitati sul luogo di lavoro). Bisogna agire sull’organizzazione del lavoro introducendo modelli condivisi con i lavoratori poiché il processo collaborativo assicura notevoli vantaggi anche in termini di produttività e di immagine alle aziende che investono in sistemi di organizzazione del lavoro. Un ambiente di lavoro sereno fatto di relazioni interpersonali improntate alla collaborazione ed al rispetto reciproco pone il lavoratore in condizione di fornire prestazioni lavorative migliori sia dal punto di vista qualitativo che quantitativo.
La sorveglianza sanitaria è fondamentale in cicli produttivi che utilizzano sostanze chimiche, fisiche o biologiche fortemente sospettate di essere nocive per la salute umana. L’esempio dell’amianto insegna : solo a distanza di molti anni dal suo uso nei vari cicli produttivi è stata acclarata la sua pericolosità mortale. Per lavoratori esposti a tali rischi il datore di lavoro non deve dispiacersi di far effettuare controllo routinari più ravvicinati nel tempo e con tecniche diagnostiche più approfondite. Prevenire è meglio che curare.
PARTE 2^ – L’ATTUALE RIPARTIZIONE DI COMPETENZE E ATTRIBUZIONI
Paragrafo 1 – Il riparto delle competenze normative in materia di sicurezza sui luoghi di lavoro
Occorre ora fare un’analisi dell’attuale scenario istituzionale nel quale il T.U. in materia di sicurezza sui luoghi di lavoro (Decreti legislativi 81/2008 e 106/2009) produce i sui effetti normativi e come essi vengono recepiti ed attuati dai vari soggetti pubblici e privati chiamati, ognuno per la parte di propria competenza, a svolgere al meglio il ruolo ad essi attribuito dalle varie disposizioni.
Non c’è dubbio che il T.U. presenta dei punti di crisi che dovranno essere superati nella reale applicazione di esso nel variegato e complesso apparato produttivo italiano che presenta delle sue peculiarità rispetto ad altri stati membri della U.E.- Unione Europea - rappresentate dalla frammentazione delle imprese con prevalenza di quelle di piccole e medie dimensioni. I settori produttivi classici sono rappresentati dall’industria, dall’artigianato, dall’edilizia, dall’agricoltura, dall’agroalimentare , dal forestale, dai servizi e dal pubblico impiego.
La frammentazione produttiva produce una miriade di persone fisiche e giuridiche (singole o associate) che producono beni e servizi da rendere spesso difficoltoso un monitoraggio territoriale completo e circostanziato al fine di programmare piani di attività rilevatori di fabbisogni di sicurezza nei contesti di riferimento che facilitano l’attuazione degli interventi e delle azioni del servizio pubblico.
Ma com’è composto il servizio pubblico? Come interagisce con i soggetti privati soprattutto con i rappresentanti dei lavoratori e dei datori di lavoro?
Le istituzioni pubbliche che si occupano a vario titolo della materia si possono configurare come un “SISTEMA MULTILIVELLO” suddiviso in un livello europeo, uno statale, uno regionale, uno sociale. Non c’è dubbio che il livello sociale viene ricondotto ad un sistema di tipo pubblico poiché l’attività produttiva deve svolgersi nel rispetto della sicurezza e dell’integrità psico/fisica dei prestatori di lavoro. Pertanto la salute, bene giuridico al quale la costituzione italiana appresta stringenti garanzie, deve essere ricondotto nell’alveo di una funzione pubblica alla quale anche i privati sono tenuti ad uniformarsi.
Perché un sistema fatto a più livelli di responsabilità e competenze funzioni occorre stabilire un criterio unico al quale fare riferimento per omogeneizzare le spinte propulsive dei vari soggetti istituzionali che compongono il sistema. Il criterio è rappresentato dallo spirito di “LEALE COLLABORAZIONE”, che deve orientare i rapporti interistituzionali fra le varie componenti del sistema, che è sancito sia nella carta costituzionale italiana che dalle norme che orientano il rapporto fra i vari paesi membri dell’Unione Europea. Pertanto ogni paese membro dell’Unione deve fornire il massimo della collaborazione affinchè regolamenti, direttive e decisioni trovino puntuale ed immediata applicazione sul territorio dello stato sovrano. Gli organi dell’Unione devono intervenire solo quando gli stati membri non ottemperino alle norme prescritte, nel rispetto del principio di proporzionalità dell’intervento sostitutivo. Pertanto la sussidiarietà dell’intervento comunitario deve tendere a rimuovere gli ostacoli che lo stato membro oppone alla corretta applicazione delle norme comunitarie dopo di che deve lasciare spazio agli organi dello stato membro di svolgere il ruolo di propria competenza.
Con lo stesso meccanismo deve funzionare il rapporto fra stato italiano e regioni ai sensi di quanto previsto dall’art. 117 della Costituzione che ripartisce la potestà legislativa fra Stato e Regioni.
L’applicazione del T.U. in materia di sicurezza risente dei meccanismi di riparto fra stato e regione della potestà legislativa e regolamentare caratterizzata da alcune difficoltà che spesso non rendono fluida la collaborazione che dovrebbe esserci fra le citati istituzioni.
La riforma del Titolo V della Costituzione italiana, avvenuta con la promulgazione della legge costituzionale n° 3/2001, non ha prodotto i risultati sperati di una modernizzazione del sistema amministrativo italiano che va inquadrato in una riforma più organica e maggiormente condivisa dalle forze politiche. Occorre procedere con urgenza a riformare la seconda parte della nostra costituzione repubblicana calibrando un ordinamento istituzionale che tenga conto dei notevoli cambiamenti socio-politico-economico che hanno caratterizzato la società italiana dal secondo dopoguerra ai giorni nostri. La riforma dovrà saper armonizzare le istanze di una società pluralista e multiculturale alla quale la macchina burocratica amministrativa dovrà saper trovare soluzioni e risposte che portino il mondo produttivo nazionale ad una moderna e leale collaborazione con i tanti Paesi che agiscono nel panorama internazionale.
Senza questo necessario passaggio, più volte auspicato dai vari governi che si sono succeduti, ma mai realizzato, sarà difficile rendere operativa la riforma della materia della sicurezza sui luoghi di lavoro che possiede delle implicazioni riguardanti le diverse problematiche che si intrecciano fra di loro. Si pensi solo ai tanti soggetti, pubblici e privati, che devono attuare la riforma nonché le tante discipline che connotano la sicurezza della salute di milioni di lavoratrici e lavoratori.
In attesa delle riforma che verrà bisogna fare i conti con il T.U. approvato dal Parlamento che rappresenta la base di partenza per la sua sperimentazione sul campo. Solo dopo una fase di attuazione, durante la quale si potranno misurare gli effetti prodotti, si potrà procedere ad un’analisi di essi in base ai quali si dovrà procedere a consolidare o modificare le norme che di volta in volta si saggeranno nelle varie realtà produttive del paese. Deve essere una sperimentazione a più voci ognuna delle quali, con lealtà e competenza, sappia suggerire aggiustamenti per regolare al meglio i risultati applicativi che le norme sapranno fornire “AI SISTEMI” di gestione della prevenzione e della sicurezza sui luoghi di lavoro. Dovrà trattarsi di una sorta di audit continui e costanti che sappiano monitorare il fenomeno della sicurezza e suggerire soluzioni fattibili e condivise dei “PUNTI CRITICI” della relazioni fra i soggetti attuatori della normativa che sicuramente emergeranno. La forza del dialogo costruttivo sarà la chiave di volta per superare i punti critici per perfezionare il dialogo fra sistemi e, di conseguenza, eliminare o ridurre al minimo i rischi insiti nei luoghi di lavoro.
Infatti, anche se il testo unico, soggettivamente, non ha il coraggio di affrontare i nodi istituzionali più di fondo, e, oggettivamente, non ha neanche il “rango” normativo per sciogliere nodi costituzionali, esso può riuscire a sprigionare sul piano istituzionale una sua forza dinamica, perché al suo interno è possibile rinvenire una “visione” funzionale e in movimento dei rapporti interistituzionali, grazie alla quale viene predisposta una serie di snodi e di accorgimenti tecnici per colmare lacune normative e incognite gestionali del complesso apparato regolativo.
Occorre verificare, a oltre tre anni dell’emanazione del primo decreto, come si presenta oggi l’andamento della gestione e della regolazione caratterizzate dalla presenza dello Stato e dei rappresentanti delle due parti sociali (lavoratori – datori di lavoro). Il tripartitismo è stato il termine più utilizzato per descrivere le relazioni fra stato e parti sociali, ma non sono mancati interventi che per descrivere in maniera più appropriata le relazioni hanno utilizzato la figura geometrica del quadrilatero che si è ottenuto con lo sdoppiamento dello stato in due tronconi : stato e regioni. In effetti il quadrilatero rappresenta meglio la realtà delle relazioni che oggi in Italia caratterizza l’applicazione del T.U. in materia di sicurezza suoi luoghi di lavoro.
Nonostante le tante difficoltà rappresentate nel corso dei due giorni dell’incontro di studio nel rapporto “quadri laterale” è stato sottolineato dagli autorevoli interventi la “potenzialità della forza dinamica” che si può cogliere nel teso unico sulla sicurezza.
Un altro principio da tenere bene in considerazione nell’applicazione del T.U. è quello della uniformità della tutela dei lavoratori sul territorio nazionale. (art. 1 della legge n° 123/2007 che ha fissato i principi ed i criteri direttivi entro i quali il Governo Prodi ha operato per redigere il T.U.). Tale principio non fa altro che riprendere quanto contenuto nell’art. 117 della Costituzione italiana – comma 2, lettera “m” : lo stato, nell’esplicare la sua attività legislativa esclusiva, deve determinare “i livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale.
L’evocazione del territorio entro il quale lo stato deve garantire pari diritti di sicurezza a tutti i lavoratori (anche quelli stranieri) fa subito balzare alla mente il cerchio concentrico di territorio più a diretto contatto con i lavoratori da proteggere che ha competenza legislativa : la regione.
Ogni regione è caratterizzata da una propria autonomia organizzativa ed amministrativa che si esprime nello statuto regionale, adottato nel rispetto degli obblighi e vincoli imposti dalla normazione nazionale e sovranazionale. I livelli locali di autonomia regionale sono caratterizzati da specifiche filiere produttive, da differenti strutture economiche, da una variegata tipologia di imprese, da differenziate caratteristiche dei mercati del lavoro.
La funzione di sintesi e raccordo che lo stato deve assicurare mediante l’azione stato centrica deve tendere a ridurre ad unità i vari sistemi di gestione della sicurezza sui luoghi di lavoro presenti nelle varie regioni al fine di assicurare almeno i livelli minimi per tutti i lavoratori che prestano la propria attività sul territorio nazionale.
Un ruolo importante per la valutazione dell’impatto delle norme del T.U. sui vari territori è rappresentato dalla costituzione e dalla attività dei Comitati di coordinamento regionali che sono a diretto contatto con le problematiche sorte in questi primi anni dell’applicazione del T.U.. I comitati rappresentano uno degli snodi decisivi per quanto riguarda tutta la problematica del raccordo interistituzionale e per il monitoraggio delle attività di prevenzione poste in essere da imprese e amministrazioni pubbliche.
Un altro importante ruolo nella cooperazioni fra i diversi sistemi, che si estrinsecano ai diversi livelli, è rappresentato dal Coordinamento interregionale.
L’attività dei citati coordinamenti non può prescindere dal piano nazionale della prevenzione 2010-2012 approvato dalla Conferenza Stato-Regioni nell’aprile 2010. La mancata programmazione di attività di prevenzione nel corto, medio e lungo periodo è uno dei punti critici della “FILIERA DELLA PREVENZIONE” che deve consentire ad una cabina di regia centrale (della quale di sente la mancanza) di ricondurre a sintesi le varie attività delle regioni in materia, di sviluppare al meglio quelle virtuose traducendole in proposte operative per i territori che richiedano interventi sussidiari, di studiare buone prassi da applicare ai vari sistemi produttivi delle regioni. Insomma un’azione sinergica e funzionale che sappia ridurre al minimo i punti critici, sappia valorizzare il dialogo interistituzionale e fra le istituzione e gli operatori del settore che devono percepire la pubblica amministrazione non come “MATRIGNA OSSESSIVA” ma una compagna di viaggio del rischio imprenditoriale che riesce ad orientare le scelte produttive verso produzioni eco-sostenibili ed in armonia con l’ambiente esterno ed interno della realtà produttiva.
A distanza di oltre tre anni dall’entrata in vigore del T.U. le critiche più accese, formulate dai vari soggetti attuatori delle norme in esso contenute, riguardano il nodo della ripartizione delle competenze legislative fra Stato e Regioni. Non c’è dubbio che l’incompletezza della riforma costituzionale in senso federalista accentua le difficoltà di attuazione delle norme contenute nel T.U.
La tutela della sicurezza sui luoghi di lavoro rappresenta il contenuto di un valore costituzionalmente garantito di grande rilevanza anche in prospettiva di valori sovranazionali, giuridicamente vincolanti, trasfusi nel diritto di ogni lavoratore europeo di godere “di condizioni di lavoro, sane, sicure e dignitose” (art. 31 della Carta dei diritti fondamentali dell’U.E. – Nizza 7 dicembre 2000)
A causa della scarsa chiarezza circa il riparto di competenza nella materia fra Stato, Regioni e Province autonome molto spesso la Corte Costituzionale è chiamata in causa per dirimere i conflitti di competenza fra i diversi livelli degli Enti della Repubblica italiana.
Paragrafo 2 – La carenza di un sistema di coordinamento fra i soggetti istituzionali
Manca una vera e propria cabina di regia che assicuri, in maniera virtuosa, il collegamento fra Stato, Regioni e Autonomie locali. Le formule adottate dal T.U. individuano aree di competenza molto ampie e totalizzanti come ad esempio “l’ordinamento civile (art. 117. Comma 2, lettera l), Cost.). Altre volte sono inedite : “tutela e sicurezza sul lavoro” (art. 117, terzo comma, Cost.). La netta separazione per materia, voluta dal disegno costituzionale, ha suscitato perplessità e la Corte Costituzionale ha dato spesso un’interpretazione di “materie-funzione” o “materie trasversali”. Emblematico di tale orientamento è la “determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale” (art. 117, comma 2°, lett. e), Cost.)
La Corte Costituzionale sancisce quindi un intreccio di competenze sulla materia destinato a creare conflitti fra Stato e Regioni, risolti dalla Corte molto spesso a favore dello Stato giustificando la sua visione stato centrica dalla necessità di garantire una gestione unitaria delle esigenze sovra regionali attraverso l’allocazione al centro di funzioni legislative/amministrative. Lo Stato nell’accentrare le competenze deve assicurare il principio di sussidiarietà (intervenire solo quando è necessario), di proporzionalità (senza comprimere troppo le potestà del livello regionale), di ragionevolezza (solo quando è ragionevole un intervento dello stato; ad esempio di fronte ad inadempienze degli obblighi comunitari delle regioni). Lo spirito di leale collaborazione è fondamentale per evitare inutili conflitti che sfociano spesso con ricorsi alla Corte Costituzionale svilendo lo spirito e i principi che animano le norme sulla sicurezza sui luoghi di lavoro. Il metodo della condivisione preventiva e partecipata di una crono programmazione in materia di sicurezza sui luoghi di lavoro eviterebbe inutili contrapposizioni. Il coinvolgimento preventivo di tutte le istituzioni sui progetti di controllo e prevenzione del fenomeno sicurezza e salute sui luoghi di lavoro da parte dello stato deve divenire un sistema di relazioni continuo e costante. Tale sistema deve prevenire i dubbi di costituzionalità sulla iniziative legislative dello stato.
I conflitti tra Stato e Regioni hanno visto la Corte Costituzionale pronunciarsi in senso “centralistico” anche nelle diverse sfaccettature di cui la materia della sicurezza sul lavoro si caratterizza di competenza esclusiva o residuale delle regioni. La “determinazioni dei livelli di assistenza” o “la tutela della concorrenza” (art. 117, comma 2, lettere m) e d), Cost.) sono stati gli argomenti della Corte per evidenziare il mancato rapporto di leale collaborazione di regioni che hanno legiferato in merito. Vi sono alcune ambivalenze che caratterizzano la materia : la salute e la sicurezza sul lavoro è un diritto fondamentale della persona per cui non è possibile tollerare disparità di trattamento sul piano territoriale nazionale. Ad ogni lavoratore o lavoratrice deve essere garantito un posto di lavoro sicuro e igienicamente sano, in qualsiasi regione si trovi a dare il proprio contributo lavorativo per la produzione nazionale.
La sicurezza sul lavoro non si presta agevolmente a schematiche e rigide distinzioni, presentando al proprio interno sia aspetti di competenza esclusiva statale, sia aspetti di competenza regionale, concorrente o residuale. Pertanto la legislazione che le regioni hanno prodotto in materia è stata valutata con favore dalla Corte Costituzionale quando, nel rispettare i principi fondamentali della potestà legislativa statale, ha individuato profili di integrazione e sviluppo dell’intervento statale quali : studio del fenomeno, monitoraggio e analisi statistica della materia, misure di sostegno ai lavoratori - ed ai loro familiari - vittime delle lesioni lavoro/correlate, costituzione di organismi per il rilevamento e la valutazione degli effetti di tali misure sulla salute dei prestatori di lavoro, programmazione e definizione delle funzioni ispettive affidate ai Dipartimenti di Prevenzione delle Aziende Sanitarie Locali.
La giustizia amministrativa (Consiglio di Stato) predilige, a differenza del giudice delle leggi, una certa cedevolezza in materia di prevenzione e sicurezza sui luoghi di lavoro dell’intervento statale a favore di quello regionale valorizzandolo al massimo. Lo Stato deve solo fornire i principi fondamentali della materia (“tutela e sicurezza del lavoro” – art. 117 – comma 3 – Cost.) essendo abilitato ad una mera attività ricognitiva della normativa vigente in tema prevenzionistico con caratteri di cedevolezza nei confronti dell’attività legislativa e regolamentare regionale.
Una lettura costituzionalmente orientata delle norme contenute nel T.U. deve tener conto della salvaguardia del diritto di uguaglianza di tutti i lavoratori e pertanto la presenza dello stato deve garantire “livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali (art. 117 – comma 2 – lett. m), Cost.). Si tratta di capire se l’intervento statale deve essere di tipo minimalista o teso ad allargare la sfera di competenza esclusiva statale. La leale collaborazione è la chiave di volta per fissare il giusto equilibrio fra competenze statali e regionali ed evitare in tal modo inutili ed improduttivi conflitti.
Le indicazioni del Consiglio si Stato (parere negativo sullo schema di decreto legislativo attuativo dell’art. 3 della legge 299/2003) avevano fatto presagire alla formulazione di un testo unico in materia di sicurezza sui luoghi di lavoro meramente ricognitivo/compilativo sulla materia. Così non è stato. Il T.U si presenta come un complesso normativo capace di fornire un riassetto e una riforma delle norme vigenti in materia : un vero e proprio “Codice della sicurezza”.
Per evitare le ambiguità che caratterizzano le norme del T.U. in materia di ripartizioni di competenze fra stato e regioni è necessario il meccanismo della consultazione preventiva della Conferenza Stato-Regioni in ordine agli schemi di disegni di legge e di decreto legislativo o di Regolamento del Governo che, anche se non obbligatoria, funge da collante fra le varie competenze e previene i conflitti. Fissare la linea di confine in maniera condivisa è la premessa fondamentale per un proficuo lavoro cooperativo e collaborativo fra le diverse istituzioni dello stato che produrrà certamente effetti positivi sul principio della certezza del diritto. E’ inutile nascondersi che il modello di un “federalismo cooperativo” in materia di sicurezza sui luoghi di lavoro avrà successo nella misura in cui preverrà il principio della tutela dell’integrità fisica della persona (uomo, donna, apprendista, immigrato, dipendente, autonomo, ecc.) sull’assetto negativo delle simmetrie politiche tra governo centrale e governi regionali. Bisogna elevare a metodo la pratica dell’inclusione per dare voce a tutti i soggetti istituzionali e non che possono fornire un contributo fattivo alla soluzione delle problematiche del rischio lavorativo. In una società pluralista e multiculturale bisogna fare sintesi delle buone pratiche e tradurle in norme cogenti da far rispettare ad ogni latitudine e longitudine della nostra amata repubblica.
Le ambiguità contenute nelle norme del T.U. si ripercuotono in maniera negativa anche su un importante settore qual è quello dell’attività di vigilanza e controllo espletata dalle regioni mediante i Dipartimenti di Prevenzione delle Aziende Sanitarie Locali. Anche per tali competenze regionali scatta la necessità statale di definire standard di prestazioni omogenei su tutto il territorio nazionale anche alla luce della considerazione che l’esercizio della funzione amministrativa di vigilanza è condiviso dalle ASL medesime con le strutture ispettive ministeriali (Ministero della Salute e Ministero del Lavoro).
Gli standard posti dallo Stato per assicurare il medesimo livello essenziale delle garanzie sociali in maniera indifferenziata su tutto il territorio nazionale rappresentano gli equilibri di rango costituzionale fra diversi interessi in gioco e nel caso di specie fra la tutela dell’integrità psico-fisica dei lavoratori e la libertà di iniziativa economica dei datori di lavoro.
La tutela della concorrenza del mercato è un’altra problematica della quale le regioni devono tener conto nell’esercizio delle proprie prerogative legislative e regolamentari nella materia della sicurezza sui luoghi di lavoro per evitare ricadute negative sull’omogeneità della libertà competitiva sul territorio di tutto il paese.
Il rispetto di quanto contenuto alla lettera l) del comma 2 dell’art. 117 della Costituzione Repubblicana, cioè un ordinamento civile e penale disciplinato in maniera omogenea su tutto il territorio nazionale, funge da linea di confine invalicabile per l’iniziativa decentrata delle regioni sulla materia. Non è possibile quindi per le regioni derogare, anche in melius, sulla nozione di datore di lavoro prevista dall’art. 2 – comma 1 – lettera b), del decreto legislativo 81/2008 con riferimento alle amministrazioni regionali ove l’organo di vertice è individuato dal T.U. o in quello politico o in quello amministrativo come ad esempio avviene nelle Aziende Sanitarie Locali.
In conclusione, la combinazione dell’”ordinamento civile e penale” e della “tutela della concorrenza” induce ad escludere la legittimità di leggi regionali volte a prescrivere direttamente misure tecniche preventive ulteriori rispetto a quelle statali e di generale applicazione nel proprio territorio di riferimento, come pure di disposizioni idonee a minare l’uniformità di disciplina delle responsabilità civili, penali e amministrative delle persone fisiche e giuridiche in punto di sicurezza del lavoro.
Riserve statuali esclusive sono ascrivibili ad ulteriori materie che intergagiscono con le norme del T.U. : il processo penale con “le norme processuali”(art. 61), la documentazione tecnico-amministrativa e le statistiche degli infortuni e le malattie professionali (artt. 53 e 54) con il “coordinamento informativo e statistico dei dati”, la costituzione del Sistema Informativo Nazionale della Prevenzione (SINP) (art. 8) e il sistema istituzionale (art. 5 e seguenti) con “l’organizzazione amministrativa dello Stato e degli Enti nazionali”
Tale quadro di riferimento di competenze dello Stato finisce per sacrificare gli spazi offerti alle regioni dell’attività legislativa e regolamentare sulla materia nonché quelli relativi alla vigilanza pubblica che potrebbe essere condizionata “dalla determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni” e dallo stesso “ordinamento civile”, allorché la vigilanza si esplichi sul rispetto degli obblighi datoriali di sicurezza nel rapporto di lavoro.
Nonostante gli spazi offerti dal comma 3 dell’art. 117 della Cost. che prevede la potestà legislativa concorrente in materia di sicurezza sui luoghi di lavoro la realtà ha evidenziato un massiccio condizionamento da parte del legislatore nazionale che ha ridotto le scelte del legislatore concorrente. Ciò è la conseguenza del paradosso relativo alla materia della sicurezza rappresentato da un lato dall’inclinazione dell’intervento di regioni e autonomie locali che si intreccia con l’esigenza di assicurare una protezione uniforme su tutto il territorio nazionale della salute e sicurezza sui luoghi di lavoro e dunque non conciliabile con una differenziazione della disciplina a livello territoriale.
Ma qual è il livello e quali sono gli effetti dell’iniziativa residuale e concorrente delle regioni considerati i residui margini offerti da una impostazione stato centrica in materia? Esistono prospettive ulteriori di sviluppo della normazione regionale tese ad elevare gli standard di tutela ?
Il nucleo protettivo della normazione nazionale può e deve essere rafforzato dall’attività delle regioni al fine di adattarlo alle esigenze di differenziazione richieste dai singoli contesti territoriali e dalle realtà locali.
Sarebbe così possibile varare campagne informative e di sensibilizzazione, azioni di studio e monitoraggio ovvero di prevenzione e contrasto dei fenomeni ovvero prevedere forme di consulenza e assistenza mirata a imprese e lavoratori, magari appartenenti a particolari settori produttivi oppure a categorie a rischio o ancora iniziative per il potenziamento o lo scambio di informazioni, pure a livello informatico, tra i soggetti pubblici operanti sul territorio.
Si potrebbero altresì introdurre norme “premiali” orientate a incentivare sul piano economico l’adozione di certe misure di sicurezza, oppure disposizioni dirette a subordinare l’affidamento di contratti pubblici di appalto all’adeguamento dell’impresa a determinati parametri protettivi dell’ambiente di lavoro persino più elevati di quelli nazionali. Dentro un tale contesto c’è ampio spazio per regole incrementali della tutela, tali da promuovere la presenza anche di ulteriori soggetti della sicurezza o da rafforzare le funzioni di quelli già esistenti. In tal caso, non si porrebbero problemi di illegittima incursione nelle aree di riserva statale : l’innalzamento dei livelli protettivi verrebbe, infatti, realizzato indirettamente, sollecitando o rendendo conveniente l’adozione volontaria di certi comportamenti particolarmente virtuosi, e senza prescrivere il generale e obbligatorio rispetto di nuove e più severe misure tecniche preventive.
Nelle materie di competenza esclusiva delle Regioni un’importanza fondamentale assumono le materie dell’istruzione e la formazione professionale sulle quali è possibile innestare interventi regionali attuativi dei principi contenuti nel T.U. in materia di sicurezza sui luoghi di lavoro. La formazione dei lavoratori e dei loro rappresentati (art. 37 del decreto legislativo 81/2008) deve essere svolta dalle regioni nel rispetto del principio di leale collaborazione da praticare in sede di Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome di Trento e Bolzano. Ciò per l’evidente presenza di profili di riserva statale relativamente alle materie di cui alle lettere m) e l) dell’art. 117, comma 2, della Costituzione. Le iniziative legislative, regolamentari ed amministrative delle regioni devono essere finalizzate a rafforzare la cultura della prevenzione in campo educativo a partire da iniziative svolte nelle scuole dell’obbligo ove si possa intervenire con progetti mirati così come avviene attualmente sulle norme che disciplinano la materia della circolazione stradale.
I Comitati regionali di coordinamento, previsti dall’art. 7 del decreto legislativo 81/2008, dovranno essere organizzati in virtù dei singoli e peculiari aspetti produttivi dei vari territori differenziando la composizione degli stessi, integrando la composizione del Comitato con specifiche figure professionali che si rendessero necessarie per un più puntuale e articolato funzionamento di esso. Allo stesso Comitato si potrebbero assegnare ulteriori compiti e funzioni di quelli previsti dalla normativa di riferimento. Lo stesso livello differenziato di organizzazione e funzionamento potrebbero avere le Aziende Sanitarie Locali rafforzando le relative attività sia promozionali, di cui all’art. 10 del decreto legislativo n° 81/2008, che di vigilanza e controllo previste dall’art. 13 del medesimo decreto. Le regioni potrebbero farsi carico di assicurare al meglio il rapporto di collaborazione fra i vari Enti pubblici che insistono sul proprio territorio : Aziende Sanitarie Locali, Direzioni Provinciali e Regionali del Lavoro, Comandi dei Vigili del Fuoco, ecc.., svolgendo un’importante opera di raccordo e coordinamento al fine di avviare e monitorare continuamente il sistema prevenzionistico di livello decentrato.
In tema di sicurezza sui luoghi di lavoro le regioni, a partire dalla riforma costituzionale, hanno provveduto a legiferare emanando discipline più o meno estese e complete in materia, piuttosto articolate e composite. L’attività legislativa citata si riferisce, per la maggior parte delle norme regionali, al periodo di vigenza del decreto legislativo n° 626/1994 e successive modificazioni ed integrazioni; tali norme sono stata abrogate dal T.U. ora in vigore e pertanto si tratta di verificare la compatibilità della normativa regionale con le nuove disposizioni contenute nel T.U.. Solo una parte delle varie normative regionali disciplina organicamente la materia, mentre la restante parte, si limita a regolamentare singoli settori o profili specifici oppure riconduce la materia nella più vasta legislazione sull’occupazione e sul mercato del lavoro regionale. Le regioni sono attente a promuovere la regolarità del lavoro e buone prassi nell’applicazione delle norme antinfortunistiche che responsabilizzino i datori di lavoro. Alcune volte si tratta di semplici norme programmatorie ed altre volte sono più cogenti e puntuali ma tutte finalizzate all’obiettivo del miglioramento dei livelli di sicurezza sui luoghi di lavoro mediante l’implementazione sul territorio regionale delle norme contenute nel T.U. tese alla promozione di ulteriori livelli di intervento e garanzia rispetto a quanto previsto dalla normativa statale.
Le leggi regionali in vigore tendono a disciplinare essenzialmente le attività di studio, ricerca, informazione, formazione a disporre programmi straordinari di controllo e prevenzione degli infortuni e delle malattie professionali. Inoltre dette leggi sono orientate a disciplinare interventi di tipo organizzativo con la creazione di nuovi apparati destinati a particolari funzioni di monitoraggio o di ascolto del livello territoriale o la predisposizione di sistemi integrati per la sicurezza, fondati sul coordinamento interistituzionale a livello regionale. Le funzioni dei vecchi Comitati di coordinamento regionale, istituiti in base a quanto contenuto nel decreto legislativo n° 626/1994, sono stati rivisitate alla luce delle nuove norme contenute nel T.U. adeguandone prerogative, composizione e funzionalità.
Le norme regionali si orientano verso un’ottica premiale degli imprenditori virtuosi subordinando l’assegnazione di determinati incentivi al raggiungimento di migliori e più efficaci standard di sicurezza oppure subordinandone l’erogazione alla ricerca di accordi fra le parti sociali. Inoltre le leggi regionali sollecitano gli imprenditori a misure aggiuntive o migliorative per la salute e la sicurezza dei la lavoratori e delle lavoratrici mediante la leva dei contratti pubblici subordinando la scelta del contraente all’adozione di sistemi di organizzazione delle imprese che si muovono nella direzione dell’aumento di garanzia di dette misure.
La giurisprudenza costituzionale tende a valorizzare il principio di leale collaborazione nel rapporto tra Stati e Regioni : la sua elasticità e la sua adattabilità lo rendono particolarmente idoneo a regolare in modo dinamico e costruttivo i rapporti in questione, attenuando i dualismi ed evitando eccessivi irrigidimenti. Il ruolo politico delle Conferenze e degli accordi è la via da seguire per concretizzare il principio di leale collaborazione che, a detta della Corte Costituzionale, è la linea direttrice per l’applicazione “più coerente con la sistematica delle autonomie costituzionali, giacchè obbedisce ad una concezione orizzontale/collegiale dei reciproci rapporti più che ad una concezione verticale/gerarchica degli stessi”.
La prassi applicativa delle norme contenute nel T.U. nella produzione normativa regionale deve tener conto delle inevitabili connessioni con la specificità delle culture, dei sistemi economici-produttivi e dei mercati del lavoro locali, diversificando le impostazioni di principi e criteri direttivi ispiratori della sicurezza sui luoghi di lavoro. La svolta federalista, approciata dalla riforma del Titolo V della Costituzione, deve lasciare spazio alle potenzialità normative del livello regionale che si affiancano alla legislazione statale in funzione attuativa, di adattamento, di integrazione e specificazione, nonché di promozione delle relative disposizioni nazionali. I versanti di integrazione e cooperazione virtuosa sono rappresentati dall’informazione, la consulenza e l’assistenza ai soggetti della sicurezza , lo studio, la ricerca, il monitoraggio ed il sostegno alla prevenzione. La regolamentazione ed il potenziamento di forme di coordinamento organizzativo interistituzionale devono incrementare gli standard di tutela della sicurezza sui luoghi di lavoro a livello territoriale tramite norme premiali che sappiano incentivare l’adozione volontaria di comportamenti virtuosi, anche mediante rinvio ad appositi strumenti negoziali quali patti territoriali, protocolli, contratti collettivi.
I vari sistemi di protezione e promozione della salute sui luoghi di lavoro sono ispirati da principi di sussidiarietà verticale (fra Enti dello Stato) e orizzontali (fra Enti dello Stato e cittadini) nei quali le Regioni devono trovare il protagonismo per esprimere propri modelli territoriali di governo e di governance. In tal modo la potestà normativa diventa strumento importante per la costruzione di un modello organizzativo che sappia far dialogare al meglio i vari sistemi che insistono nell’organizzazione della sicurezza sui luoghi di lavoro : il sistema istituzionale, il sistema integrato, il sistema di gestione aziendale, il sistema della rappresentanza e delle relazioni collettive, il sistema sanzionatorio. Le più avanzate esperienze territoriali in tema di sicurezza sui luoghi di lavoro devono essere utilizzate al meglio per sviluppare un sistema generale, che perfezionato per adattarlo ai livelli locali, possa creare un circolo virtuoso che riduca drasticamente l’esposizione ai rischi correlati alle attività lavorative.
Sarebbe interessante una prima ricognizione su scala regionale prima e nazionale poi per verificare l’impatto della legislazione premiale sulla riduzione degli infortuni e delle malattie professionali. Lo stesso monitoraggio andrebbe svolto relativamente agli interventi regionali in materia di formazione e la qualità dei suoi contenuti, nonché la consulenza e assistenza tecnica alle imprese sul territorio. Quest’ultimo aspetto va considerato e saldato con la promozione dei “modelli di organizzazione e gestione della sicurezza e salute sul lavoro” (SGSS) previsti espressamente dall’art. 30 del decreto legislativo 81/2008.
Il sistema istituzionale disegnato dal legislatore statale, nonostante le sue indubbie potenzialità, si presenta complesso e sovraffollato, dunque, di difficile gestibilità; pur tuttavia, esso si presta a rivestire valenza centrale in un’ottica multilivello della sicurezza del lavoro, improntato, cioè, al principio della collaborazione ineteristituzionale. Anche lo Stato dovrebbe dare segnali in tal senso, giacchè l’alternativa alla cooperazione e la conflittualità, e il conflitto giurisdizionale davanti alla Corte Costituzionale, anche a prescindere dall’esisto, risulta assai spesso funesto per l’efficacia e la tempestività dell’implementazione delle decisioni assunte. Oggi il principio di cooperazione istituzionale ai diversi livelli, dopo aver connotato l’elaborazione ed il contenuto della riforma prevenzionistica, ha insomma bisogno di permeare l’intera attività di messa a regime del nuovo modello prevenzionistico e ciò a partire dalla realizzazione concreta del nuovo sistema istituzionale di cui al decreto legislativo n° 81/2008. Ne va del successo della riforma stessa e, soprattutto, della tenuta di quel delicato assetto di competenze normative ai vari livelli, che vi è stato posto sul fondo.
CAPITOLO SECONDO
SICUREZZA PARTECIPATA : L’INTERAZIONE DEI VARI SISTEMI DEL DIRITTO DELLA SICUREZZA SUL LAVORO
Paragrafo 1 – Il sistema istituzionale
I principi ispiratori ed i criteri direttivi del T.U. in materia di sicurezza sui luoghi di lavoro hanno costruito in Italia un sistema istituzionale ispirato al modello tripartito tipico delle convenzioni internazionali del lavoro.
Come già detto in precedenza il nostro sistema istituzionale in materia è meglio rappresentato dalla figura geometrica di un quadrilatero poiché la funzione dello Stato è sdoppiata fra lo Stato stesso e le Regioni
L’art. 5 del T.U. prevede la costituzione e le modalità di funzionamento del Comitato per l’indirizzo e la valutazione delle politiche attive per il coordinamento nazionale delle attività di vigilanza in materia di salute e sicurezza sul lavoro. Il Comitato è istituito presso il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali che, al momento della promulgazione del T.U., comprendeva anche le funzioni del Ministero della Salute successivamente reso autonomo nei suoi poteri.
Il Comitato è composto da rappresentanti dei due Ministeri di cui sopra ai cui si aggiungono rappresentanti di altri Ministeri : Ministero delle Infrastrutture e Trasporti, Ministero dell’Interno. Ne fanno parte rappresentanti delle Regioni e delle Province Autonome di Trento e Bolzano.
Alle riunioni del Comitato partecipano, con funzioni consultive, un rappresentante dell’I.N.A.I.L. (Istituto Nazionale per l’Assicurazione conto gli Infortuni sul Lavoro e le malattie professionali), uno dell’I.S.P.E.S.L. e uno dell’Istituto di Previdenza per il settore Marittimo (I.P.S.E.M.A.).
L’art. 6 del T.U. prevede un altro importante organo collegiale costituito a livello centrale sempre presso il Ministero del Lavoro che è “La Commissione consultiva permanente per la salute e sicurezza sul lavoro”. E’ composta da rappresentanti di vari Ministeri, delle Regioni e delle Province Autonome di Trento e Bolzano, delle organizzazioni sindacali dei lavoratori comparativamente più rappresentative a livello nazionale, delle organizzazioni sindacali dei datori di lavoro comparativamente più rappresentative a livello nazionale.
I suddetti organismi collegiali dovrebbero svolgere una funzione importante nel monitoraggio e nella programmazione di piani di attività tesi al miglioramento delle condizioni di salute e sicurezza sul lavoro. Inoltre dovrebbero programmare il coordinamento della vigilanza a livello nazionale e garantire lo scambio di informazioni tra i soggetti istituzionali al fine di promuovere l’uniformità dell’applicazione della normativa vigente su tutto il territorio nazionale.
Nella prima fase applicativa delle funzioni affidate ai citati organismi collegiali è emersa una certa difficoltà del buon funzionamento di essi considerato che spesso il gran numero dei componenti non consente procedure snelle e rapide per la formulazione dell’attività di monitoraggio e programmazione. Un esempio delle difficoltà di funzionamento è rappresentato dal ritardo con il quale sono state emanate le linee guida per la valutazione dei rischi legati allo stress lavoro/correlato che hanno visto la luce solo nel novembre 2010. La suddivisione di tali organismi in sottocommissioni costituite per materie e competenze specifiche forse porterebbe a maggiori e migliori risultati.
Migliore sorte hanno avuto i Comitati Regionali di Coordinamento previsti dall’art. 7 del T.U. i quali, seppure in diversa forma e veste, già funzionavano durante la vigenza del decreto legislativo n° 626/94, ora abrogato. Anche per i Comitati regionali rimane molto da fare ma è certo che assicurano meglio, a livello territoriale, il raccordo e la cooperazione fra datori di lavoro e lavoratori tesi a migliorare le condizioni di luoghi di lavoro più sicuri.
Una lacuna da colmare al più presto è rappresentata dal mancato funzionamento del Sistema Informativo Nazionale per la Prevenzione nei luoghi di Lavoro (S.I.N.P.) la cui gestione tecnica è garantita dall’I.N.A.I.L.. Il mancato coordinamento dei dati relativi alla sicurezza sui luoghi di lavoro inficiano l’attività dei vari soggetti istituzionali che, a vario titolo, devono orientare, programmare, pianificare e valutare l’efficacia delle attività di prevenzione degli infortuni e delle malattie professionali. Anche l’attività di vigilanza viene depotenziata dalla mancanza di un sistema integrato delle informazioni indisponibili negli attuali sistemi informativi, specifici archivi e banche dati unificate.
Gli Enti pubblici nazionali, aventi compiti in materia di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro sono l’ISPESL, l’INAIL e l’IPSEMA. Essi esercitano le proprie attività, anche di consulenza, in una logica di sistema con il Ministero del Lavoro, il Ministero della Salute, le Regioni e le Province autonome di Trento e Bolzano.
L’I.N.A.I.L. – Istituto Nazionale per le Assicurazioni contro gli Infortuni sul Lavoro - ha la finalità di ridurre il fenomeno infortunistico. Svolge i seguenti compiti:
L’I.S.P.E.S.L. – Istituto Superiore per la Prevenzione e la Sicurezza del Lavoro - è Ente di diritto pubblico nel settore della ricerca. E’ organo tecnico-scientifico del Servizio Sanitario Nazionale di ricerca, sperimentazione, controllo, consulenza, assistenza, alta formazione, informazione e documentazione in materia di prevenzione degli infortuni e delle malattie professionali, sicurezza sul lavoro e di promozione e tutela della salute negli ambienti di vita e di lavoro, del quale si avvalgono gli organi centrali dello Stato e le Regioni. Le ultime leggi finanziarie del Governo Berlusconi hanno notevolmente ridimensionato gli investimenti nel settore della ricerca penalizzando, in tal modo, anche l’importante ruolo di studio e di approfondimento scientifico dell’ISPESL nella materia della prevenzione degli infortuni e delle malattie professionale.
L’IPSEMA è l’Istituto di Previdenza del Settore Marittimo che svolge la propria attività con la finalità di ridurre il fenomeno infortunistico. E’ gestore dell’Assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionale nel settore marittimo. Raccoglie e registra, ai fini statistici ed informativi, i dati degli infortuni sul lavoro, concorre alla realizzazione di studi e ricerche, eroga prestazioni. Anche le attività dell’IPSEMA sono state sottoposte ad una notevole cura dimagrante determinata dalla riduzione di finanziamenti operata dalle ultime leggi finanziarie nazionali.
L’art. 12 del T.U. prevede l’istituzione della Commissione per gli interpelli presso il Ministero del Lavoro e delle politiche sociali che è composta da rappresentanti del Ministero della Salute, del Ministero del Lavoro, delle regioni e province autonome.
Alla Commissione spetta il compito di rispondere ai quesiti di ordine generale sull’applicazione della normativa in materia di salute e sicurezza sul lavoro e le risposte rese, in ordine ai quesiti richiesti, costituiscono criteri interpretativi e direttivi per l’esercizio delle attività di vigilanza. Alla Commissione possono rivolgersi gli organismi associativi a rilevanza nazionale degli enti territoriali e degli enti pubblici nazionali, le organizzazioni sindacali dei datori di lavoro e lavoratori comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, i Consigli nazionali degli Ordini o Collegi Professionali.
Ad oggi l’attività della Commissione non ha prodotto i risultati sperati e l’attività di risposta ai quesiti è sconosciuta alla maggior parte degli Enti nazionali e regionali che si occupano della materia. Nell’attività di controllo e prevenzione dei Dipartimenti di Prevenzione delle Aziende Sanitarie Locali non esiste alcun riferimento a suggerimenti e proposte provenienti dalle risposte della commissione per gli interpelli.
L’art. 13 del T.U. conferma la competenza generale attribuita alle Aziende Sanitarie Locali, sul territorio di propria competenza, in materia di vigilanza sull’applicazione della legislazione in materia di sicurezza sui luoghi di lavoro mediante i Dipartimenti di Prevenzione. Nelle varie Unità Operative dei Dipartimenti di Prevenzione prestano la propria attività lavorativa medici, ingegneri e Tecnici della Prevenzione che programmano ed eseguono l’attività di vigilanza ed ispezione nei cantieri edili, nelle fabbriche, nelle aziende agricole, nelle strutture pubbliche ed in tutti i siti produttivi ove si svolge attività lavorativa tutelata dalle norme in materia di sicurezza ed igiene sui luoghi di lavoro.
Un punto critico in materia di vigilanza è rappresentato dalla commistione di organi istituzionali che hanno competenza in materia : Aziende Sanitarie Locali, Uffici Ispettivi del Lavoro, Vigili del Fuoco, INAIL, Carabinieri, Polizia di Stato, Regioni mediante il Corpo Minerario. Si amplificano, quindi, i problemi connessi alla sovrapposizione, alla duplicazione ed alla disomogeneità degli interventi sul territorio. Anche e soprattutto per tale ragione è urgente il funzionamento di una cabina di regia, sia a livello nazionale che regionale, che sappia ricondurre ad unità i tanti interventi sul territorio che quotidianamente vengono posti in essere
dai citati organi istituzionali creando spesso confusione e disorientamento fra i soggetti privati. Bisogna fornire agli operatori del settore (datori di lavoro e lavoratori) certezza del diritto assicurando su tutto il territorio nazionale modelli uniformi di programmazione delle attività di prevenzione che comunque tengano conto delle peculiarità dei settori produttivi che insistono sui territori delle varie regioni e province autonome. Solo la cooperazione interistituzionale può favorire quel processo di integrazione virtuosa fra i tanti soggetti che operano nel settore della prevenzione sui luoghi di lavoro.
Repressione e prevenzione devono trovare un minimo comune denominatore per esaltare al massimo la prevenzione. Un efficace ed efficiente modello preventivo si ottiene valorizzando al massimo le attività di formazione ed informazione. Il miglioramento gestionale del sistema della sicurezza e della tutela della salute dei lavoratori rappresenta un obiettivo raggiungibile purchè aumenti la consapevolezza che i Servizi pubblici di prevenzione e sicurezza negli ambienti di lavoro devono spostare il proprio asse di intervento sulla gestione della sicurezza in azienda utilizzando gli strumenti a loro disposizione, che vanno da quelli repressivi a quelli preventivi di assistenza ed informazione. Ma l’esperienza che può fornire oggi un Dipartimento di Prevenzione di un’Azienda Sanitaria è basata essenzialmente su piccoli progetti locali di informazione rivolti anche a micro-aziende. Tutto è affidato però alla buona volontà dei Tecnici della Prevenzione e molto spesso i risultati sono riduttivi. Per tale motivo è necessario un intervento consistente del livello nazionale e delle regioni in modo da poter portare avanti grandi progetti formativi/informativi.
Un ulteriori elemento di crisi dell’attività di vigilanza è rappresentato dalla carenza di personale di vigilanza ed ispezione, spesso coordinato male. Nel territorio di competenza dell’Azienda Sanitaria Locale di Matera circa il 50% dei cantieri non vengono controllati; è questo il dato che emerge dalla relazione finale sui primi diciotto mesi di attività presentata dal Direttore Generale della predetta Azienda Sanitaria alla riunione della Conferenza dei Sindaci relativa all’anno 2010.
Bisogna rendere operativo al più presto il sistema informativo nazionale della prevenzione perché consente alle amministrazioni pubbliche di inserire informazioni fondamentali per programmare le rispettive attività di vigilanza e controllo. In tal modo si eviterebbe che le poche risorse, messe a disposizione della prevenzione, vengano disperse ed inoltre si impedirebbe lo svolgimento di attività di prevenzione che si sovrappongano fra loro o addirittura che siano in contrasto.
Occorre semplificare gli adempimenti previsti dal T.U. senza andare a scapito dei livelli di tutela. Per fare ciò la informatizzazione dei servizi pubblici è una risorsa fondamentale che accorcia i tempi burocratici e consente alle aziende di accedere ai servizi pubblici in modo più celere e comodo, senza dover sacrificare una parte della produttività aziendale a causa dell’inefficienza della macchina amministrativa pubblica. Occorre limitare il numero degli adempimenti per le imprese evitando che si moltiplichino attività che hanno la stessa natura e lo stesso obiettivo.
Bisogna certificare il sistema di qualificazione delle imprese : non ci si può inventare imprenditori nei settori a rischio nei quali si deve elevare il livello di attenzione ai fini della salute e della sicurezza sui luoghi di lavoro.
Occorre concentrare l’attenzione non solo sul piano tradizionale degli elementi di rischio quali quello fisico, chimico e biologico ma anche sui comportamenti pericolosi legati all’organizzazione del lavoro (il cosiddetto rischio trasversale). L’Unione Europea ha rilevato che circa il 60% degli infortuni e le malattie professionali avvengono a causa di procedure scorrette dell’organizzazione del lavoro. Le indicazioni della Commissione consultiva per la valutazione dello stress lavoro-correlato, emanate con lettera circolare del 18 novembre 2010, sono una buona base di partenza per l’integrazione del documento della valutazione dei rischi. Bisognerà attuare una verifica dei risultati dopo una prima applicazione della metodologia di valutazione al fine di integrare o correggere eventuali punti critici contenuti nella lettera circolare.
Paragrafo 2 – Il sistema integrato della prevenzione sui luoghi di lavoro
Dalla lettura del T.U. appare chiaro che il legislatore ha voluto caratterizzare le norme del nuovo “Codice della sicurezza sui luoghi di lavoro” con il dialogo costruttivo che ci deve essere fra i soggetti istituzionali e fra essi e i soggetti privati (datori di lavoro e lavoratori). Soprattutto nel Titolo I del T.U. i soggetti istituzionale sono chiamati ad un ruolo di integrazione reciproco attuando il principio costituzionale della sussidiarietà verticale ed orizzontale.
Le Regioni e le Province autonome di Trento e Bolzano sono chiamate a svolgere un ruolo importante all’interno del sistema integrato istituzionale, sia direttamente, mediante l’esercizio della potestà legislativa e regolamentare, e sia indirettamente attraverso il canale rappresentativo della Conferenza Stato-Regioni.
Dalla emanazione del T.U. ad oggi il principio della leale collaborazione fra le istituzioni statali e regionali sembra essere la bussola che orienta il confronto democratico. Condividere piuttosto che dividere sembra essere l’imperativo categorico che i vari soggetti istituzionali si sono dati.
La strategia legislativa del T.U. è caratterizzata dalla tecnica inclusiva del ruolo delle Regioni che, pur nel ruolo residuale e concorrente con lo Stato, sono chiamate a svolgere un compito importante di indirizzo e coordinamento sul proprio territorio mediante attività di informazione e promozione nella materia della sicurezza sui luoghi di lavoro. Le regioni svolgono il loro ruolo anche mediante funzioni organizzative, gestionali, regolative e soprattutto mediante l’attività di vigilanza e controllo sui luoghi di lavoro.
I rappresentanti delle regioni sono chiamati a far parte a pieno titolo del Comitato per l’indirizzo e la valutazione delle politiche attive e per il coordinamento nazionale delle attività di vigilanza in materia di salute e sicurezza sul lavoro previsto dall’articolo 5 del T.U. nonché della Commissione consultiva permanente per la salute e sicurezza sul lavoro contemplato dall’art. 6 del T.U..
Rappresentanti delle regioni e delle province autonome sono presenti anche nel Sistema informativo nazionale per la prevenzione (SINP).
Le funzioni di indirizzo e coordinamento a livello territoriale sono svolte dai Comitati regionali di coordinamento, previsti anche dall’abrogato decreto legislativo n° 626/1994, in cui sono presenti i rappresentanti delle parti sociali.
I rappresentanti delle parti sociali sono presenti in tutti le Commissioni e Comitati di livello nazionale e regionale.
Come si nota il legislatore nazionale ha “obbligato” i soggetti istituzionali e i rappresentanti dei datori di lavoro e dei lavoratori ad un dialogo costante e continuo teso ad un innalzamento virtuoso degli standard di sicurezza sui luoghi di lavoro. La logica è quella della responsabilizzazione delle imprese rispetto al tema della sicurezza in un quadro di coerenza normativa nazionale.
Il legislatore con l’emanazione del T.U. ha voluto compiere una scelta di sistema che coinvolga soggetti istituzionali e privati con pari dignità nell’elaborazione di strategie prevenzionistiche al passo con l’incedere delle tecnologie applicate al sistema produttivo realizzando, in tal modo, il principio della massima sicurezza tecnologicamente possibile così come previsto dall’art. 2087 del codice civile.
Il legislatore nazionale ha scommesso sulla condivisione/coogestione della materia relativa alla sicurezza sui luoghi di lavoro fra organi e funzioni in capo a soggetti istituzionali e sociali. L’esperienza pratica fornirà una risposta sugli aggiustamenti da porre in essere per raggiungere risultati più efficaci che possano rendere i luoghi di lavoro sempre più sicuri dalle insidie legate all’attività lavorativa. Attualmente si tratta di recuperare i tanti ritardi accumulati nella concreta attuazione delle norme contenute nel T.U. che non garantiscono ancora l’avvenuto compimento della sistematica integrazione fra i tanti attori che interagiscono nel settore. L’esempio più eclatante è rappresentato dal parziale funzionamento del Sistema Informativo Nazionale della Prevenzione (SINP) : la gestione informatica di tutte le problematiche che riguardano la sicurezza sul lavoro è fondamentale per il dialogo continuo fra le istituzioni teso ad incrementare i livelli di sicurezza sui luoghi di lavoro. L’aggiornamento continuo del Sistema Informatico realizza la coerenza dei tanti sistemi regionali con il sistema nazionale evitando sovrapposizione o duplicazioni di interventi che producono spesso sconcerto fra gli operatori del settore.
Bisogna stimolare al massimo a livello territoriale la responsabilità sociale sul tema della prevenzione con interventi diretti verso settori o tipologie di lavoro più a rischio quali l’edilizia, l’agricoltura, i lavori flessibili o atipici, quello svolto dai lavoratori extracomunitari. Gli interventi normativi coordinati fra Stato e Regioni devono portare ad una maggiore sensibilità sul tema della sicurezza sui luoghi di lavoro diffondendo sul territorio comportamenti virtuosi incentivati da politiche della sicurezza a livello regionale. Per i datori di lavoro che incrementano la qualità e la quantità della sicurezza mediante l’adozione e il monitoraggio continuo di sistemi di sicurezza certificati, le regioni devono adottare politiche premiali con la previsioni di incentivi economici.
Ma anche gli enti istituzionali nazionali devono contribuire ad elevare gli standard di sicurezza mediante iniziative incentivanti per datori di lavoro virtuosi e sensibili al tema. In questa ottica è stata salutata con soddisfazione l’iniziativa dell’I.N.A.I.L. che, nel corso dell’anno 2010, ha pubblicato il bando che prevede sessanta milioni di euro di incentivi a fondo perduto per strutturare progetti che aumentino la sicurezza e la salute sui posti di lavoro. Fra gli interventi che sono stati finanziati sono compresi l’implementazione e la certificazione di sistemi di gestione secondo la norma internazionale BS HOSAS 18001. Sul sito internet dell’INAIL è stato possibile verificare se la propria azienda o organizzazione possedeva i requisiti per ottenere gli incentivi e, di conseguenza, presentare la propria richiesta attraverso una procedura telematica. L’esempio riportato è rappresentativo dell’esigenza che il dialogo fra istituzioni pubbliche e soggetti privati avvenga in maniera rapida e snella; le modalità informatiche sono quelle che più di tutte raggiungono l’obiettivo della rapidità e dell’efficacia della comunicazione intersoggettiva.
Alcune regioni quali l’Emilia e Romagna, la Campania, la Liguria, con apposite leggi regionali hanno incentivato il sistema della sicurezza sui luoghi di lavoro con norme premiali per i datori di lavoro che dimostrino di elevare gli standard di sicurezza rispetto ai livelli minimi di cui alle norme di rango nazionale ed in armonia con queste ultime.
Nella legge della Campania 14/2009 è previsto un meccanismo finalizzato alla certificazione di “Alta qualità del Lavoro” delle imprese che vengono iscritte ad un apposito registro sulla base della valutazione della regolarità del loro piano di conformità alle norme di prevenzione adottati e certificati. Nella stessa ottica premiale esplica i suoi effetti la legge regionale dell’Emilia e Romagna n° 2/2009 con l’erogazione di incentivi economici ai committenti che affidano lavori ad imprese che elevino gli standard di sicurezza.
Anche la legge n° 30/2007 della regione Liguria premia con incentivi economici i datori di lavoro che pongono in essere le buone pratiche per la sicurezza sui luoghi di lavoro che realizzino livelli di tutela maggiori rispetto a quelli discendenti dagli obblighi di legge.
Gli esempi fatti relativi alle regioni sopra menzionate si prestano ad una valutazione positiva in un quadro sistematico della sicurezza sui luoghi di lavoro poiché la normazione regionale si svolge nella logica della continuità e non della sovrapposizione rispetto al quadro regolativo nazionale. Ciò consente un virtuoso innalzamento degli standard di sicurezza sui luoghi di lavoro nella logica della responsabilità sociale delle imprese e del privilegio di modelli di prevenzione rispetto alla logica repressiva/invasiva.
E’ logico che vanno accertati i risultati che si raggiungeranno in tali regioni per verificare se l’aumento del senso di responsabilità delle aziende che investono in prevenzione, anche mediante gli incentivi pubblici, determinerà la diminuzione di infortuni e malattie professionali.
I modelli di organizzazione e gestione previsti dall’art. 30 del T.U. sono punti di riferimento anche per i sistemi premiali previsti dalle regioni. E’ importante che gli organi di vigilanza e controllo delle regioni verifichino costantemente che detti modelli siano quotidianamente monitorati al fine di raggiungere l’obiettivo della diffusione capillare della cultura della prevenzione che deve penetrare in tutti i gangli del ciclo produttivo aziendale investendo la totalità dei soggetti della produzione : dall’Amministratore delegato fino all’ultimo degli impiegati ed operai.
Paragrafo 3 – Il sistema di gestione aziendale della prevenzione con riferimento specifico ai modelli gestionali previsti dal T.U. in materia di sicurezza sui luoghi di lavoro (Decreti legislativi n° 81/2008 e n° 106/2009)
La sicurezza è l’obiettivo al quale mirano tutte le misure antinfortunistiche e comprende tutte le specie di prevenzione. La sorveglianza è l’attività esterna di controllo diretta alla verifica della conformità dei comportamenti alle norme.
Particolare importanza rivestono nella materia anche i concetti di rischio e pericolo. Il rischio è la probabilità che si raggiunga il limite potenziale di danno, nelle condizioni di impiego o di esposizione di un determinato fattore (rischi fisici, chimici, biologici, psicologici, ambientali, specifici, fisiologici e patologici, individuali, grandi rischi).
Il pericolo invece non è legato a comportamenti soggettivi potenzialmente dannosi ma alla natura immanente (pericolosa) di certi elementi legati alla produzione e all’ambiente di lavoro.
Per quanto attiene ai rischi è opportuno rappresentare che di essi occorre una valutazione complessa e strategica in azienda, alla quale partecipata tutta la struttura organizzativa/funzionale dell’azienda stessa, allo scopo di identificare le fonti di pericolo e dei rischi per la sicurezza e la salute dei lavoratori e destinare ad essi i mezzi e le risorse necessari.
Nella valutazione dei rischi e dei pericoli il temine “misura” rappresenta la predisposizione oggettiva di strumenti atti a proteggere il lavoratore mentre il termine “cautela” si riferisce all’attività di controllo alla condotta responsabile del lavoratore.
E’ stato necessario illustrare brevemente alcuni concetti fondamentali da tenere in considerazione nella predisposizione di un sistema di gestione della prevenzione di livello aziendale per fare chiarezza nel panorama normativo affollato degli strumenti di gestione della sicurezza sul lavoro.
Da più parti era avvertita l’esigenza della modifica della precedente impostazione sanzionatoria contenuta nell’abrogato decreto legislativo n° 626/1994 che privilegiava la valenza afflittiva sul piano della politica criminale per i comportamenti non conformi alle norme dei datori di lavoro in materia di protezione dei lavoratori.
Uno degli aspetti più innovativi intervenuti con l’emanazione del T.U. è rappresentato dall’accentuazione dell’approccio integrato alla tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro : si introducono nuovi strumenti gestionali della prevenzione in azienda e vengono riconosciuti e valorizzati diversi sistemi, procedure e modelli organizzativi già diffusi nella prassi.
“Un esempio emblematico di tale evoluzione normativa è costituito dalla procedura di valutazione dei rischi con la conseguente elaborazione del documento aziendale : attraverso l’individuazione e la programmazione delle misure di sicurezza, infatti, si punta a realizzare un sistema (obbligatorio) di gestione prevenzionistica. Gli articoli 28 e 29 del T.U. non hanno solo completato ed arricchito lo scarno dettato dell’art. 4 del decreto legislativo n° 626/1994 che, per la prima volta, ha scomposto l’obbligo unitario del datore di lavoro in una sequenza di comportamenti solutori, ma hanno attribuito una nuova tipicità a quello che il legislatore ha definito – testualmente – “lo strumento operativo di pianificazione degli interventi aziendali e di prevenzione “ (art. 28, comma 2, lett. a) del decreto legislativo n° 81/2008).
In sintesi la valutazione dei rischi consente di accertare l’esistente e di definire lo standard attuale dell’applicazione della disciplina protettiva, ma contiene anche un impegno al miglioramento nel tempo e all’accrescimento del livello di garanzia per i lavoratori, seguendo una logica di adempimento dinamico del dovere di sicurezza.”
Il T.U. ha introdotto un sistema parallelo nella gestione della sicurezza aziendale; da un lato lo schema gestionale obbligatorio e dall’altro sistemi di gestioni adottati su base volontaria (sistemi di gestione in materia di salute e sicurezza – SGSL - elaborati e certificati da enti ed organismi privati). Pertanto coesistono sia le linee guida UNI-INAIL del 2001 e sia le norme elaborate con la procedura British Standard OHASAS 18001/2007, espressamente previsti dall’art. 30 del T.U.. Detti sistemi sono oggi quelli più usati dalle aziende anche perché raccomandati dal legislatore nazionale in sede di prima applicazione del T.U. Ulteriori modelli di gestione della sicurezza o l’adeguamento e l’adattamento di schemi gestionali già collaudati potranno essere definiti dalla competente Commissione consultiva permanente per la salute e la sicurezza sul lavoro così come prevede espressamente l’art. 30 del T.U..
Non vi è dubbio che il legislatore nazionale guarda con favore ai modelli di gestione sopra citati poiché sono capaci di promuovere l’effettività della tutela dei lavoratori. Tale atteggiamento favorevole ha di fatto prodotto una proliferazione di modelli di gestione con Enti privati che affollano il mercato della produzione di detti sistemi di gestione. Per evitare confusione e sovrapposizioni pericolose fra SGSL e “modelli organizzativi” previsti dall’art. 30 del T.U. occorre fare chiarezza sulla natura e valenza giuridica di ognuno di essi. L’esatta considerazione di ognuno dei sistemi in questione è importante poiché la rispondenza di essi con quelli tipizzati dal legislatore (Linee guida UNI-INAIL ; British Standard OHSAS 18001) produce l’efficacia esimente rispetto alla responsabilità amministrativo-penale prevista dal decreto legislativo n° 231/2001, estesa ai reati in materia infortunistica in base all’art. 300 del T.U..
Il decreto legislativo n° 231/2001, in attuazione della legge delega 300/2000, nel recepire norme di rango comunitario, ha introdotto la responsabilità da reato delle persone giuridiche sotto l’etichetta di “responsabilità amministrativa”, alterando i principi ed i criteri per l’individuazione della responsabilità penale che l’art. 27 della Costituzione Repubblicana italiana accredita alla singola persona fisica non lasciando alcuno spazio per le persone giuridiche. Si tratta di una forma di responsabilità simile a quella di tipo penale disciplinata nella forma tipica del diritto punitivo : predisposizione di precetti e sanzioni per gli enti che non li rispettano.
“I precetti rivolti all’ente dal decreto legislativo n° 231/98 si ricavano dalla disciplina dei presupposti e delle condizioni di esonero da responsabilità, e possono essere così sintetizzati : tu, ente, devi evitare che certi tipi di reato siano commessi dai tuoi uomini, nel tuo interesse o tuo vantaggio; la tua responsabilità “amministrativa” si gioca alla luce del tuo effettivo modello di organizzazione ed azione.
L’apprestamento di idonei modelli organizzativi è dunque qualcosa di più che un mero onere del soggetto che agisce (interesse all’osservanza, per evitare l’eventuale sanzione per l’eventuale evento lesivo). E’ qualcosa cui l’ente è tenuto per la protezione di interessi tutelati dall’ordinamento : elaborare modelli di organizzazione ed azione idonei alla prevenzione degli eventi vietati. E’ il linguaggio degli obblighi, e non quello degli oneri, cha dà conto in modo completo della posizione giuridica dell’ente di fronte all’ordinamento giuridico.
L’adozione ed efficace attuazione di idonei modelli organizzativi è strumentale al dovere di evitare la commissione di reati, allo stesso modo delle regole cautelari rispetto alla responsabilità per colpa.
La doverosità degli adempimenti nel sistema del decreto legislativo n° 231/2001 è esplicitamente affermata nella normativa di sicurezza ed igiene del lavoro contenuta nel T.U. “
L’inadempienza di doveri di buona organizzazione non è di per sé sanzionata, ma è ciò che l’ordinamento rimprovera a colpa dell’ente; è l’inosservanza di regole cautelari che ha portato alla realizzazione del fatto illecito. Il problema della responsabilità delle persone giuridiche va impostato in chiave di “colpevolezza di organizzazione”, come giustamente fa la dottrina.
Nuovi orizzonti sono stati aperti dall’inserzione di figure importanti di delitto : omicidio colposo e lesioni colpose cagionati con violazione della normativa sulla sicurezza ed igiene del lavoro. Ancorchè la responsabilità amministrativa dell’ente sia limitata a queste specifiche figure di delitto, gli adempimenti richiesti chiamano in causa l’insieme dei precetti finalizzati alla prevenzione di eventi di morte o malattia da lavoro. Il dovere di sicurezza, che l’art. 2087 del codice civile pone in capo all’imprenditore datore di lavoro - persona fisica o persona giuridica, non fa differenza – si specifica, nel caso che tale soggetto sia un ente collettivo, nel dovere di predisporre ed efficacemente attuare idonei modelli di organizzazione e di gestione della sicurezza, dei quali la nuova normativa del T.U. (art. 30) detta la disciplina generale.
Ma quali sono i requisiti che detti piani devono possedere per valere come esimenti della responsabilità civile e penale dei datori di lavoro?
Non bisogna farsi ingannare dal tenore letterale della norma che introduce una sorta di presunzione di conformità introdotta dall’art. 30 del T.U. secondo la quale i sistemi di gestione coerenti con quelli tipizzati dal legislatore (Linee guida UNI-INAIL e British Standard OHSAS 18001 si “presumono conformi ai requisiti” richiesti per l’esonero della responsabilità amministrativa-penale prevista dal decreto legislativo 231/2001.
Ma chi accerta la rispondenza del singolo sistema di gestione della sicurezza del caso specifico ai requisiti previsti dalla norma? La natura presuntiva di conformità dei modelli gestionali non può limitare l’attività di prevenzione del rischio-reato sia da parte degli organi pubblici di vigilanza e controllo sia in sede giudiziale. Solo i modelli espressamente richiamati dal legislatore, se correttamente predisposti, attuati e monitorati, saranno capaci di fungere da esimenti nel caso di verifica di infortuni sul lavoro o malattie professionali. Gli altri modelli organizzativi che si richiamano alle norme cogenti vanno verificati caso per caso alla concreta possibilità di costituire un’efficace ed efficiente sistema di controllo dei rischi legati all’attività lavorativa. Il meccanismo presuntivo, congegnato dal legislatore nazionale, non è in grado di determinare un’autentica inversione dell’onere probatorio nel giudizio di responsabilità penale a carico della persona giuridica. L’adozione, l’idoneità e la concreta attuazione devono essere valutate, dall’organo giurisdizionale e dagli apparati pubblici di controllo, in relazione ad ogni singolo contesto aziendale giudicandolo adeguato alla complessità e peculiarità del singolo processo produttivo.
I controlli del giudice e degli organi di vigilanza dovranno essere specifici ed individualizzati poiché il dovere di garantire la sicurezza sui luoghi di lavoro non si esaurisce in un’attività solutoria iniziale e statica, ma deve perdurare nel tempo e adeguarsi coerentemente ai tanti mutamenti del contesto produttivo aziendale che possono variare in maniera più o meno significativa.
“La colpa di organizzazione è autonoma rispetto a quella dell’autore della fattispecie di reato. Essa rappresenta la proiezione sintetica-espressiva di omissioni o azioni individuali che vengono trasposte sul piano della responsabilità collettiva per intuibili ragioni di efficienza e di funzionalità del sistema punitivo.”
Il giudice non può essere condizionato nel suo libero convincimento da una presunzione ex ante di efficacia dei modelli di gestione della sicurezza ma il suo giudizio dovrà valutare l’efficienza di tali modelli disconoscendo gli adempimenti fittizi o cartacei che sovrabbondano nel libero mercato caratterizzante la materia dei piani di sicurezza aziendale. Molti soggetti si improvvisano esperti della materia pur non avendo la minima cognizione dell’importanza della sicurezza sui luoghi di lavoro.
Il dovere di vigilanza del datore di lavoro può essere ritenuto assolto in caso di adozione ed efficace attuazione del modello di verifica e controllo della prevenzione solo se conforme al testo normativo e alla reale situazione produttiva aziendale per la quale è stato redatto. L’adesione volontaria ad un sistema gestionale della prevenzione non deve significare per il datore di lavoro una condizione di vantaggio di cui avvalersi ora per l’azione premiale messa in campo dalla pubblica amministrazione ora per esimersi da responsabilità penale di carattere gestionale. Sono in gioco grossi interessi economici sulla materia pertanto la bontà di un sistema di gestione della sicurezza deve essere valutato con serietà dal datore di lavoro per attenuare le conseguenze derivanti dall’utilizzo di strumenti organizzativi per mitigare o escludere il rimprovero per colpa sia ai fini penali e amministrativi ma anche sul piano della responsabilità civile.
Rimane ora da verificare gli effetti delle tecniche di pianificazione della sicurezza sui luoghi di lavoro nella valutazione della colpa civile del datore di lavoro. Il contenuto degli obblighi previsti dal T.U. in materia di predisposizione ed attuazione di un efficace ed efficiente sistema di sicurezza posto a carico del datore di lavoro è un mix composito di regole, procedure e di comportamenti organizzativi. Sono dunque strumenti di misurazione del corretto adempimento contrattuale e, in particolare, del grado di diligenza impiegato nella tutela dell’integrità psico-fisica dei lavoratori, secondo il dettato dell’articolo 2087 del codice civile.
La polemica giuridica sulla capacità dei modelli organizzativi adottati dalle aziende di assolvere di tutela dell’art. 2087 del codice civile è molto attuale anche alla luce della recente sentenza di 1° grado che ha visto condannare, nello scorso aprile, l’Amministratore Delegato della THYSSEN KRUPP a sedici anni e mezzo di reclusione per il delitto di omicidio volontario, determinato da dolo eventuale, per la morte dei setti operai deceduti nella notte fra il 5 e il 6 di dicembre 2007. Contestualmente sono stati condannati il responsabile della sicurezza, il responsabile dello stabilimento di Torino e alcuni membri del comitato esecutivo dell’azienda per omicidio e incendio colposi (con colpa cosciente) e omissione delle cautele antinfortunistiche. Nella predetta vicenda giudiziaria un ruolo importante per giungere alle citate condanne ha giocato la mancata attuazione dei sistemi di gestione della sicurezza che è stata ritenuta dai giudici grave per gli eventi mortali che si sono verificati nello stabilimento produttivo di Torino.
La critica che viene mossa in materia è rappresentata dalla equiparazione che il legislatore ha voluto fare, mediante l’emanazione delle norme del T.U., delle Linee guida elaborate dall’INAIL con il sistema HOSAS 18001 che promana da un organismo internazionale qualificabile come para-pubblico. Da molti operatori del settore (soprattutto pubblici) l’equiparazione è stata considerata alquanto generosa poiché consente ai modelli organizzativi atipici, progettati dalla singola impresa, di possedere la stessa forza esimente, in materia penale, di quelli riconosciuti dalla legge o comunque provvisti di crismi di carattere pubblicistico, in barba al principio di legalità.
Occorre un consistente lavoro di analisi per affrontare il tema dell’equiparazione di sistemi di gestione della sicurezza che richiede conoscenze multidisciplinari capaci di affrontare il nodo delle modalità di influenza dei singoli sistemi aziendali sulla concreta realizzazione della pretesa del lavoratore alla tutela della propria salute e sicurezza sui luoghi di lavoro. Un ruolo importante per valutazioni di questo tipo può essere svolto dalle varie Commissioni e Comitati istituzionali previsti dal T.U. sia di livello nazionale che regionale in cui sono presenti professionalità tecniche in grado di valutare la rispondenza di detti sistemi alla reale tutela della salute dei lavoratori.
“ Una conquista di civiltà giuridica è stata riscoperta dell’art. 2087 del codice civile che ha ristabilito la centralità della protezione della persona che lavora, ammettendo un’azione direttamente esercitabile nei confronti del datore sub specie di diritto soggettivo che sta dentro il recinto del contratto di lavoro, e non fuori dallo schema sinallagmatico.”
La corretta redazione e applicazioni di sistemi di sicurezza, secondo modalità proceduralizzate, semplificate, standardizzate o asseverate potrà riguardare esclusivamente la relazione esistente tra l’impresa e l’apparato istituzionale garantendo la soddisfazione degli obblighi di legalità imposti dagli organi della pubblica amministrazione. Il debito nei confronti dei lavoratori contenuto nell’art. 2087 del codice civile comunque rimane inalterato poiché essi sono titolari del bene giuridico della salute che, secondo l’art. 32 della nostra Costituzione, costituisce un interesse della collettività, ma è anzitutto un diritto fondamentale della persona.
Gli strumenti di gestione della sicurezza, soprattutto se validati da competenti organi pubblici, non possono essere sottovalutati se forniscono un concreto sostegno nell’applicazione delle norme di sicurezza senza però enfatizzare la funzione dei modelli di gestione fino ad intaccare il principio di responsabilità al quale è improntato l’intero settore delle garanzie apprestate dal diritto nazionale e comunitario che considera la salute e la sicurezza del lavoratore una precisa ed insostituibile scelta di campo.
I sistemi di gestione della sicurezza prevedono l’intreccio di responsabilità distribuite fra diversi soggetti della struttura aziendale a cominciare dal datore di lavoro per proseguire verso gli altri soggetti che, nei limiti dell’incarico professionale conferito, organizzano, sovraintendono o vigilano sulle prestazioni lavorative i quali sono investititi in proprio delle attribuzioni e delle conseguenti responsabilità, assumendo una posizione di garanzia autonoma e collegata alla rispettiva funzione. In tal modo l’obbligo di sicurezza, previsto dall’art. 2087 del codice civile, viene trasfuso nell’organizzazione aziendale e nell’esercizio del potere di gestione. Rimane così defilato il requisito della “titolarità dell’impresa”, “della titolarità del rapporto di lavoro”, “della titolarità dei poteri decisionali” che rappresentavano il primo criterio di imputazione giuridica durante la vigenza del decreto legislativo n° 626/1994.
La responsabilità civile del datore di lavoro è intesa come di natura contrattuale comprendente la disposizione che impone l’obbligo di sicurezza. Pertanto la responsabilità del datore di lavoro assumerebbe la natura di garanzia oggettiva o senza colpa in quanto l’elemento soggettivo dell’illecito risulterebbe provato nel momento in cui la lesione della salute del lavoratore fosse ricollegabile ad una qualsiasi carenza del sistema di gestione della sicurezza.
Ma secondo la giurisprudenza consolidata e la dottrina maggioritaria non è possibile ancorare un rimprovero per inadempienza delle prescrizioni legislative se non è riscontrabile il dato soggettivo almeno della colpa intesa coma violazione degli obblighi di diligenza nell’apprestare misure tecnico-organizzative, gestionali o di esperienza tese alla salvaguardia dell’integrità psico-fisica del lavoratore.
Pertanto se il datore di lavoro vuole liberarsi dalla presunzione legale di colpa deve dimostrare che il danno al lavoratore è dipeso da causa a lui non imputabile, dimostrando di aver adempiuto al suo obbligo di sicurezza, apprestando tutte le misure idonee per evitare il danno. E’ sul debitore di sicurezza che ricadono i rischi derivanti dalle carenze organizzative e strutturali, dalle disfunzioni della prevenzione, dalle negligenze di controllo e monitoraggio continuo.
Anche nel settore penalistico viene rafforzata la dimensione della responsabilità oggettiva. Il processo mediante il quale si stima il rischio e successivamente si sviluppano le strategie per governarlo, posto in capo alla persona giuridica, e l’utilizzo di modelli aziendali incidono sullo schema tradizionale della colpa quale violazione dell’obbligo impeditivo dell’evento.
L’ordinamento civile e penale preferisce valorizzare la colpa di disorganizzazione, responsabilizzando la struttura aziendale direttamente, anziché la colpa individuale derivante dalla violazione del contratto di lavoro.
L’obbiettivo di politica criminale dell’intervento punitivo attuato dal legislatore consiste nel sollecitare l’introduzione di sistemi di gestione diretti ad impedire gli illeciti penali così come quelli civili, secondo la logica riparatoria-organizzativa che contrassegna la reazione dell’ordinamento alla lesione del bene salute.
Gli strumenti di gestione della sicurezza, predeterminati e standardizzati, sono considerati spesso dai datori di lavoro come adempimento degli obblighi previsti dall’art. 2087 del codice civile che possono limitare il controllo del giudice o degli organi pubblici di vigilanza ed ispezione. Bisogna invece considerare le opportunità che si possono coglier sul piano probatorio al fine di attestare l’assenza di colpa del debitore della sicurezza che abbia apprestato le misure idonee assicurando un sistema aziendale per l’adempimento di tutti gli obblighi giuridici relativi alla salute e alla sicurezza dei lavoratori che siano capaci di cogliere i rischi ed i pericoli insiti nel reale ciclo produttivo. Bisogna pretendere un sistema di sicurezza che veda tutti gli attori della sicurezza aziendale previsti dal T.U. collaborare fattivamente al monitoraggio costante e continuo dell’applicazione e, a seconda delle dimensioni aziendali e della complessità del ciclo produttivo, procedere ad audit di sistema per eliminare eventuali punti critici e diminuire ai minimi termini i rischi insiti nell’attività lavorativa.
Paragrafo 4 – Il sistema della rappresentanza e delle relazioni collettive
La riforma introdotta dal T.U. in materia di sicurezza sui luoghi di lavoro riconosce il fondamentale contributo che le parti sociali possono e devono dare alla filiera della sicurezza. Le aree nella quali le parti sociali intervengono sono quelle di indirizzo e valutazione delle politiche di prevenzione, del sistema informativo, delle attività promozionali, degli appalti, del sistema di qualificazione delle imprese, dei modelli di organizzazione e di gestione della sicurezza, della formazione, dell’intervento nel processo penale. E’ pertanto un ruolo importante quello delle parti sociali che si esplica sia nella contrattazione decentrata, sia negli organismi paritetici, sia nelle varie Commissioni e Comitati interistituzionali dei quali sono chiamati a far parte i rappresentanti dei datori di lavoro e dei lavoratori.
Nell’ambito aziendale “gli attori” della sicurezza individuati dal T.U. sono molteplici : il datore di lavoro, che è il regista dell’organizzazione prevenzionistica, il lavoratore, il dirigente, il preposto, i componenti del servizio di prevenzione e protezione dai rischi (SPP), il Responsabile del servizio di prevenzione e protezione (RSPP), il medico competente, il Rappresentante dei lavoratori per la sicurezza (RLS).
Il T.U. prevede l’istituto della delega degli obblighi di sicurezza in capo al datore di lavoro. Il principio fondamentale di detto istituto è quello dell’effettività: la delega si deve tradurre nell’effettiva operatività del delegato al quale sono stati riconosciuti poteri decisionali e di spesa in ordine alla messa in sicurezza dell’ambiente di lavoro, la forma scritta e la data certa; sono questi i requisiti essenziali della delega.
Il delegato dovrà possedere l’idoneità tecnica nel senso specialistico rispetto alle funzioni delegate : è chiaro che le competenze in materia di igiene e sicurezza sui luoghi di lavoro di una centrale termica non potranno essere delegate ad un manager esperto sotto il profilo organizzativo, ma ad un tecnico che sia in grado di gestire le problematiche connesse a questa tipologia particolare di rischi.
Non si può far coincidere l’obbligo di vigilanza del datore di lavoro con un costante controllo sull’attività del delegato poiché si svuoterebbe la funzione della delega. Solo quando il delegante sia venuto a conoscenza, direttamente o indirettamente, di comportamenti negligenti o della sopravvenuta inidoneità del delegato e non sia intervenuto, non potrà invocare l’efficacia scriminante della delega.
L’art. 16 del T.U. stabilisce che l’obbligo di vigilanza da parte del delegato si considera assolto ove il datore di lavoro abbia adottato ed efficacemente attuato il modello di verifica e controllo previsto dalla normativa sulla responsabilità degli enti.
L’attuazione del modello organizzativo e la presenza di un organo di vigilanza, destinato a svolgere il controllo sull’attuazione del modello, sostituisce efficacemente il controllo che il delegante dovrebbe svolgere sul corretto espletamento delle funzioni trasferite al delegato. Il sistema di controllo va comunque costantemente monitorato da parte del datore di lavoro che, nel caso riscontri punti critici del modello adottato o variazioni sostanziali del ciclo produttivo, dovrà adottare le opportune e necessarie misure correttive.
Il T.U. ha ampliato gli obblighi di sicurezza del datore di lavoro estendendoli dai lavoratori subordinati ai lavoratori autonomi, ai collaboratori familiari, ai soci delle società, ai piccoli imprenditori.
Considerati i tanti soggetti che interagiscono nel sistema della sicurezza è necessario un coordinamento fra essi al fine di consolidare la cultura della prevenzione. La cooperazione deve riguardare sia il livello istituzionale che il livello aziendale mediante una sorta di sistemi di vasi comunicanti in un’ottica di integrazione di ruoli e di confronto con le organizzazioni dei datori di lavoro e dei lavoratori.
Il confronto bilaterale fra istituzioni pubbliche e rappresentanti delle parti sociali deve portare alla predisposizione di buone pratiche di organizzazione e gestione della sicurezza senza però sostituirsi all’attività ispettiva degli organismi pubblici. In buona sostanza l’attività degli organismi paritetici deve essere di natura promozionale ed integrativa di quella ispettiva.
Il ruolo delle rappresentanze dei lavoratori per la sicurezza svolto negli organismi paritetici deve essere ricondotto al necessario raccordo tra sicurezza ed organizzazione del lavoro (rischio trasversale) che si concretizza nel fondamentale obbligo, di carattere preventivo e ricorrente, della valutazione dei rischi ed alla logica partecipativa, mediante il fattivo coinvolgimento dei diversi soggetti interessati.
“ La programmazione della prevenzione dovrebbe pertanto scaturire da una gestione condivisa con i lavoratori e le loro specifiche rappresentanze : lo spirito della normativa comunitaria (recepita nel nostro paese) è infatti quello che, con felice espressione, si è chiamato il passaggio “dalla nocività conflittuale alla sicurezza partecipata”. E’ sulla funzionalità ed i limiti di tale prospettiva che occorre riflettere nella consapevolezza che la consultazione e la partecipazione non sono formule astratte, ma presuppongono una comune volontà di agire ed un affidamento reciproco tra le parti.”
E’ chiaro che non è possibile prescindere dalla professionalità e dalla specializzazione di tutti gli “attori” della sicurezza perché l’intervento preventivo raggiunga i risultati voluti. Oltre a tali requisiti tecnici occorre far maturare in tutti i soggetti coinvolti nel ciclo produttivo aziendale il senso di responsabilità che si deve pretendere nella predisposizione e monitoraggio della filiera della sicurezza. Ogni piccolo errore, una lieve disattenzione, nonché la sottovalutazione di rischi e pericoli può esser fatale per la vita o l’incolumità psico-fisica dei lavoratori che il T.U. estende ben oltre il lavoro subordinato : “tutti i lavoratori subordinati ed autonomi (art. 3 – comma 4 -).
Accanto al coinvolgimento dei rappresentanti dei lavoratori negli organismi paritetici di livello territoriale occorre una proficua consultazione e partecipazione di essi sul luogo di lavoro in un’ottica promozionale della cultura della prevenzione.
Il T.U. valorizza al massimo il confronto negoziale fra le parti sociali e le istituzioni. Gli organismi di rappresentanza sono luoghi privilegiati per la programmazione di attività formative, per l’elaborazione e la raccolta di buone prassi ai fini della prevenzione, per l’assistenza alle imprese finalizzata all’attuazione degli adempimenti in materia, lo sviluppo di azioni inerenti alla salute e alla sicurezza sui luoghi di lavoro.
Gli organismi paritetici, purchè dispongano di personale con specifiche competenze tecniche in materia di sicurezza sui luoghi di lavoro, possono effettuare sopralluoghi negli ambienti di lavoro rientranti nel territorio e nei comparti produttivi di competenza. Tale attività, avente carattere promozionale, sono finalizzate a fungere da supporto alle imprese alle quali gli organismi paritetici rilasciano una apposita attestazione di asseverazione dell’adozione e dell’efficace attuazione dei modelli di organizzazione e gestione della sicurezza, di cui all’art. 30 del T.U., della quale gli organi di vigilanza pubblica possono tener conto al fine della programmazione delle proprie attività. La certificazione di conformità dei suddetti modelli potrà, fra l’altro, avere efficacia esimente ai fini della responsabilità amministrativa delle persone giuridiche disciplinata dal decreto legislativo n° 231/2001. Si intuisce chiaramente l’importanza della certificazione di conformità ai fini giurisdizionali, per cui il legislatore ha preteso che gli organismi paritetici siano dotati di strutture tecniche e personale qualificato con competenze tecniche specifiche.
L’errore umano è molto spesso causa di infortuni e malattie professionali. Il T.U. fornisce validi strumenti per monitorare il contesto organizzativo all’interno del quale le persone lavorano al fine di rimuovere le situazioni di criticità che predispongono all’errore. L’analisi dei mancati infortuni, un audit continuativo, che vada oltre la riunione periodica annuale, una vigilanza partecipata dei lavoratori e delle loro rappresentanze risultano decisivi per ridurre il rischio lavorativo. Le imprese e la pubblica amministrazione devono capire che la sicurezza sul lavoro prevede dei costi immediati che se proficuamente attuati comportano dei risparmi, oltre che di vite umane, anche in termini di risorse pubbliche destinate a compensare le lesioni subite dai lavoratori.
Le regole e le sanzioni non bastano se non si coglie il significato delle quali sono portatrici o se si dubita sulla loro effettiva applicazione. Occorre perciò interrogarsi sulle cause del mancato decollo dell’approccio partecipativo nell’esperienza nazionale italiana. Alcune resistenze mai sopite di una parte del mondo datoriale, la scarsa diffusione di esperienze, competenze, strumenti per l’implementazione della cultura della sicurezza sono le cause principali dell’attuazione del modello partecipativo della prevenzione dei rischi lavorativi presenti sui luoghi di lavoro. Occorre porre rimedio alla mancata e concreta attuazione dei tanti istituti previsti dal T.U. che rimangono ancora sulla carta ed inoltre bisogna far circolare l’idea che la prevenzione non è un semplice adempimento burocratico/amministrativo ma è il confronto quotidiano con la realtà produttiva nella quale le esigenze della libera iniziativa economico/imprenditoriale deve essere correlata con l’esigenza di garantire l’integrità psico-fisica dei lavoratori e la sicurezza ambientale, intesa in senso lato.
Insomma uno sviluppo eco-sostenibile e eco-compatibile che sappia guardare al futuro attuando il principio precauzionale a difesa delle generazioni presenti attualmente, sia nel mondo produttivo che in altri ambienti di vita, nonché di quelle che verranno.
Paragrafo 5 – Il sistema sanzionatorio.
Come già affermato in precedenza il grado di civiltà di un ordinamento giuridico si misura con la capacità del legislatore di utilizzare la sanzione penale come estrema ratio per il controllo sociale teso alla difesa dei beni giuridici che di volta in volta si vogliono tutelare.
Il T.U. realizza questo principio di civiltà giuridica. Infatti, teoricamente, la leale collaborazione fra i soggetti istituzionali, la fattiva cooperazione degli attori della sicurezza che agiscono sul palcoscenico aziendale e fra questi ultimi e le istituzioni, dovrebbero garantire la corretta predisposizione, l’effettiva e l’efficace attuazione di sistemi di gestione della sicurezza capaci di attutire il rischio lavorativo a valori molti prossimi allo zero.
Ma è risaputo come le ipotesi di scuola siano diverse dalla realtà che quotidianamente vede coinvolti decine di lavoratori che, in tutto il Paese, vedono intaccata la propria integrità psico-fisica ora da eventi traumatici e violenti ora da malattie correlate all’attività lavorativa.
In tal caso si attivano le procedure tese ad individuare responsabilità civili e penali che, una volta accertate per via giurisdizionale, fungono da premessa per il risarcimento dei danni subiti dal lavoratore, subordinato o autonomo che esso sia, o ai suoi superstiti in caso di decesso determinato da cause correlate all’attività lavorativa.
Le peculiarità dell’apparato sanzionatorio penale nel settore della sicurezza sui luoghi di lavoro sono rappresentate da “uno scopo concreto, non punitivo” che ha poco a che vedere con la funzione di deterrenza che siamo abituati ad attribuire alla sanzione penale.
La critica maggiore che viene mossa al sistema sanzionatorio introdotto dal varo del T.U. è rappresentata dalla incongruenze che mostrano un legislatore delegante incerto o almeno confuso sul modello sanzionatorio da adottare.
Il primo criterio che il legislatore delegato ha cercato di tener presente è quello condivisibile che le sanzioni debbono essere modulate in funzione del rischio e utilizzando strumenti che favoriscono la regolarizzazione e l’eliminazione del pericolo da parte dei soggetti obbligati, confermando il sistema previsto dal decreto legislativo n° 758/1994.
Il secondo criterio contenuto nella legge delega n° 123/2007 suggerisce di prevedere le sanzioni dell’arresto e dell’ammenda solo nel caso in cui le infrazioni ledano interessi generali dell’ordinamento, senza però indicare quali sono tali interessi generali tanto che anche la Corte Costituzionale ha ritenuto tale espressione inidonea ad indicare con precisione i criteri ai quali si possa far riferimento per stabilire quali condotte meritino la sanzione penale e quali invece possano essere considerate infrazioni di carattere amministrativo. Se le infrazioni sono solo formali, e cioè non mettono in pericolo “interessi generali dell’ordinamento”, se cioè non corrisponde un effettivo rischio per l’incolumità e la salute, perché impegnare la giustizia penale nella repressione di condotte tutto sommato non rilevanti?
La prima contraddizione che si nota nel T.U. è che non è rispettato il criterio diretto ad ottenere l’eliminazione dei pericoli ad opera del contravventore con la procedura prevista dal decreto legislativo 758/1994. Infatti il T.U. contempla una fascia di infrazioni di particolare gravità da punire con la pena dell’arresto fino a tre anni.
Il decreto legislativo n° 106/2009 ha ridotto la pena dell’arresto da diciotto mesi a quattro o otto mesi per i datori di lavoro che non effettuano la valutazione dei rischi in collaborazione con il responsabile del servizio prevenzione e protezione, e con il medico competente in aziende ove il rischio lavorativo è più elevato. Le tipologie di aziende sono espressamente elencate all’art. 31. La modifica è stata apportata soprattutto a seguito delle pressanti sollecitazioni operate dai rappresentanti dei datori di lavoro che ritenevano troppo severa la pena dell’arresto fino a diciotto mesi.
I correttivi introdotti dal decreto n° 106/2009 consentono l’applicazione delle norme tese a favorire l’eliminazione dei pericoli ad opera del contravventore, sia che si tratti di contravvenzioni punite con pene alternative e sia che si tratti di quelle punite con la sola pena dell’ammenda. Per le restanti contravvenzioni punite con la sola pena dell’arresto non vi sarà la prospettiva dell’estinzione della contravvenzione a seguito dell’eliminazione dei rischi per i lavoratori. Non sembra certo un buon modello di apparato sanzionatorio ispirato a modelli di razionalità e di trattamenti ugualitari.
Il legislatore ha individuato alcune fattispecie penali (poche per la verità) punite più gravemente rispetto ad ipotesi ritenute meno rilevanti ma tale scelta avrebbe dovuto essere accompagnata da una vasta depenalizzazione di tutti quei comportamenti che costituiscono violazioni meramente formali da individuare con criteri sicuri e non burocratici.
Il sistema sanzionatorio del T.U. mette in evidenza la problematica rappresentata nell’introduzione della presente tesi dell’irragionevolezza del diverso trattamento che viene riservato a seconda che la violazione dell’integrità psico-fisica del lavoratore sia determinata da causa violenta (infortunio) o da esposizione agli agenti di rischio (malattia professionale). L’art. 302 del T.U. dispone che il giudice, su richiesta dell’imputato, possa sostituire la pena detentiva nel limite di dodici mesi con il pagamento di una somma determinata con i criteri di ragguaglio dell’art. 135 del codice penale. La sostituzione può avvenire quando siano state eliminate tutte le fonti di rischio e le conseguenze del reato, ma non quando dalla violazione sia derivato un “infortunio” sul lavoro con conseguenze mortali o lesioni gravi e gravissime e non anche quando la conseguenza della condotta contraria alle prescrizioni sia una “malattia professionale” che abbia prodotto conseguenze mortali, gravi o gravissime. Pertanto il legislatore non pone sullo stesso piano le conseguenze sanzionatorie derivanti dall’infortunio con quelle determinate dalla malattia professionale prevedendo una immotivata indulgenza per queste ultime. Non razionale appare inoltre la commutazione nella sola ammenda indipendentemente dalla tempestività con la quale il contravventore provveda ad eliminare il rischio che può dunque intervenire a distanza di anni e magari alla vigilia del processo.
Altro punto critico del sistema sanzionatorio si coglie nelle modalità di individuazione dei soggetti destinati ad essere sanzionati e gli obblighi a cui sono sottoposti la cui violazione farà scattare la sanzione. Le sanzioni potranno essere applicate, oltre che al datore di lavoro, anche ai dirigenti e ai preposti che in concreto svolgano le funzioni tipiche del datore di lavoro, pur essendo sprovvisti di regolare investitura. Il T.U. sembrerebbe confermare l’orientamento consolidato della Corte di Cassazione che guarda alle effettive funzioni svolte all’interno dell’azienda più che agli incarichi formali. Ma è possibile concepire in un ordinamento giuridico un datore di lavoro di diritto ed uno di fatto? Non c’è dubbio che se vi è un soggetto che decide e spende questi e non altri è il datore di lavoro. La norma si presta ad essere utilizzata dai datori di lavoro che investono altri soggetti con l’attribuzione di poteri che si dicono illimitati, anche se colui che li concede conserva i poteri di supervisione e di sostanziale decisione. Per evitare simili aggiramenti della norma il T.U., così come la precedente normativa, individua alcuni specifici adempimenti che non sono delegabili e rimangono pertanto di esclusiva competenza del datore di lavoro. Il più importante di essi è la redazione del piano di valutazione dei rischi per la quale il datore di lavoro può avvalersi di altre figure aziendali e/o anche di professionisti esterni all’azienda, ma la responsabilità per la scelta dei suoi collaboratori rimane in capo al datore di lavoro (culpa in eligendo e culpa in vigilando). Per le ragioni appena rappresentate appare immotivata la sanzione nei confronti del medico competente che abbia violato i suoi obblighi di partecipazione alla valutazione dei rischi di cui all’art. 25 del T.U.. La precedente disciplina, in vigore prima dell’intervento correttivo avvenuto con l’emanazione del decreto legislativo n° 106/2009, confermava un principio tipico dell’ordinamento secondo cui gli obblighi di attuazione in materia di prevenzione gravano sulla linea operativa e non si trasferiscono sui consulenti, ancorché obbligatoriamente nominati dal datore di lavoro. Della mancata o carente valutazione dei rischi risponde il datore di lavoro o non il medico competente che prima era esonerato da responsabilità penale in ordine ai suoi compiti di consulenza nei confronti del datore di lavoro. Il legislatore ha voluto introdurre una sanzione esemplare per spronare il medico competente ad essere più puntuale nei suoi compiti relativi alla prevenzione dei rischi aziendali? Ma ciò viola palesemente i principi di uguaglianza e ragionevolezza contenuti nelle norme costituzionali; non può essere individuata una responsabilità di tipo oggettiva del medico competente poiché in contrasto con la civiltà dei principi giuridici posti a base della moderna considerazione della colpevolezza : per muovere un giudizio di rimproverabilità all’autore del reato occorre l’elemento soggettivo, almeno a titolo di colpa. Deve essere il datore di lavoro ad attivarsi per ottenere la necessaria collaborazione del medico competente poiché può pretendere la partecipazione alla valutazione dei rischi del suo consulente in quanto possiede uno strumento decisivo : la possibilità di sostituirlo con altro medico competente più diligente o disponibile.
Il meccanismo del sistema sanzionatorio voluto dal legislatore punta sul meccanismo di estinzione del reato mediante i comportamenti collaborativi del datore di lavoro che si prodiga per eliminare i rischi per la sicurezza accertati. Infatti la sanzione che ricorre in numero maggiore nel T.U. resta ancora la pena alternativa dell’arresto o dell’ammenda con la conseguente applicabilità delle norme contenute nel decreto legislativo 758/1994 che consentono la non punibilità a condizione dell’eliminazione del pericolo da parte del datore di lavoro.
Il complesso delle sanzioni previste ha alleviato l’apparato sanzionatorio con la drastica riduzione dei comportamenti sanzionati penalmente : sono sparite le centinaia di contravvenzioni previste dalla precedente disciplina in vigore prima dell’emanazione del T.U., è diminuito in maniera rilevante il numero delle violazioni punite con sanzioni alternative, oggi sostituite con la pena della sola ammenda, è stato depenalizzato un consistente numero di contravvenzioni, oggi punite con la sanzione amministrativa.
L’art. 301-bis del T.U. prevede l’estinzione agevolata degli illeciti amministrativi mediante il pagamento di una somma pari alla misura minima prevista dalla legge, quando abbia provveduto a regolarizzare la propria posizione nel termine indicato dall’organo di vigilanza, eliminando i rischi connessi alla violazione o le conseguenze di essa.
Il principio premiale rivolto a datori di lavoro inclini alla leale collaborazione con gli organi pubblici è ribadito all’art. 302-bis del T.U. che prevede l’obbligo, da parte degli organi di vigilanza, di impartire disposizioni esecutive ai fini dell’applicazione delle norme tecniche e delle buone prassi, quando il datore di lavoro le abbia volontariamente adottate o richiamate espressamente in sede ispettiva, tutte le volte che ne riscontrino la non corretta applicazione e salvo che il fatto non costituisca reato. In tal caso è obbligatorio il confronto fra gli organi di vigilanza e il datore di lavoro che dovrà dimostrare come l’applicazione volontaria delle buone prassi, tese all’eliminazione o alla riduzione dei rischi sul lavoro, sono rispondenti alle esigenze dell’attività produttiva. Il problema che si pone per gli organi di vigilanza ed ispezione è quello relativo al non rispetto di quanto previsto da dette norme volontarie nel caso esso costituisca reato. E’ naturale che se la violazione della norma tecnica costituisse reato, sarebbe inevitabile procedere con la prescrizione e non con la disposizione. Nel caso in cui il datore di lavoro non ottemperi alla disposizione dell’organo di vigilanza, in materia di sicurezza ed igiene sul lavoro, è prevista la pena dell’arresto o dell’ammenda.
La novità più importante del T.U. è contenuta nell’art. 300 : si applicheranno le disposizioni sulla responsabilità amministrativa delle persona giuridiche di cui al decreto legislativo n° 231/2001 ai reati di omicidio colposo o lesioni colpose gravi o gravissime commessi con violazione delle norme sulla tutela della salute e sicurezza sul lavoro.
Sono sanzioni che sono essenzialmente di carattere pecuniario ed interdittivo per le persone che rivestono funzioni di rappresentanza, di amministrazione o di direzione dell’ente nel cui ambito è avvenuta la violazione delle norme sulla sicurezza. Si tratta quindi di persone soggette alla direzione e al controllo dell’ente medesimo.
La ratio della norma è quella di colpire episodi criminosi che si presentano come frutto di carente organizzazione dell’impresa.
Non c’è dubbio che la gamma delle possibili misure interdittive è più efficace ed è munita di una carica deterrente maggiore che avevano le tradizionali sanzioni. L’interdizione dell’esercizio dell’attività definitiva o temporanea, la sospensione o la revoca delle autorizzazioni o delle licenze e concessioni, il divieto di contrattare con la pubblica amministrazione, l’esclusione dalle agevolazioni, dai finanziamenti, dai contributi o sussidi, il divieto di pubblicizzare bene o servizi, sono tutte misure capaci di scoraggiare la cattiva organizzazione aziendale che rende possibili o addirittura probabili gli infortuni sul lavoro.
L’applicazione delle sanzioni interdittive descritte è possibile se vi è il coinvolgimento dell’organizzazione dell’ente nel reato commesso da un suo dipendente. Si dovrà accertare nel caso concreto il collegamento fra la condotta della persona fisica e l’ente, rappresentato dall’interesse o dal vantaggio che l’ente può trarre dalla condotta incriminata. Sono comunque da scongiurare interpretazioni che possano tradursi in una sorta di “responsabilità oggettiva” dell’ente, resa possibile dal tenore letterale dell’art. 6 del decreto legislativo n° 231/2001 che esonera da responsabilità gli enti che abbiano adottato misure organizzative e gestionali idonee a prevenire la commissione degli illeciti.
L’efficacia e l’effettività delle sanzioni solo apparentemente è affidata alla quantità di pena che la norma prevede che non ha mai fermato nessun criminale, anche quelli con il colletto bianco. Neppure l’attenuazione delle pene edittali può essere giudicata come un abbassamento della guardia nel settore degli infortuni e malattie professionali. Il legislatore ha aggravato o attenuato le pene solo sulla base della spinta dell’onda d’urto proveniente dai soggetti portatori di interessi sulla materia. Durante il cammino di approvazione del T.U. la Confindustria e le Associazioni dei datori di lavoro hanno levato grida di protesta sulla presunta svolta repressiva che si voleva imprimere. Ma non era vero; anzi era vero esattamente il contrario. Erano diminuite le fattispecie criminose e ridotto drasticamente il numero delle violazioni sanzionate penalmente.
La verità è che la pena edittale ha un ruolo secondario. I criteri che garantiscono o indeboliscono la tenuta del sistema sanzionatorio sono altri. Le misure interdittive che provocano un danno economico notevole all’impresa, fino alla definitiva scomparsa dal mondo produttivo, rappresenta un deterrente molto più efficace di una modesta pena detentiva o pecuniaria. Quasi nessuno più si impressiona se in luogo della pena dell’arresto di sei mesi ne viene comminata una di un anno, oppure anziché l’ammenda di mille euro viene comminata una di tremila euro.
Anche un certo lassismo o alcuni margini di incertezza del T.U. possono favorire condotte improntate alla commissione di reati nella materia della sicurezza sui luoghi di lavoro. Ad esempio si rinuncia a punire la visita medica preassuntiva (art. 41) o si garantisce ai costruttori di macchine prive dei requisiti essenziali di sicurezza che la denunzia penale non verrà inoltrata se non dopo che l’autorità di vigilanza sul mercato, cioè un organismo amministrativo, avrà stabilito che la macchina è pericolosa (art. 70 – 4° comma).
Il sistema sanzionatorio funzionerà al meglio quanto maggiore sarà la capacità degli organi pubblici di adottare misure cautelative di carattere giuridico che non si discostino dalle norme sociali ritenute vincolanti per tutti i consociati.
Il concetto di colpevolezza è già insito nell’ordine sociale e morale prima che giuridico. La prevenzione generale deve tendere al consolidamento della coscienza normativa dei consociati; non dunque una qualunque prevenzione generale ma la migliore possibile rapportata alla garanzia dell’ordine costituzionale. Bisogna colmare le divergenze fra le esigenze reali di sicurezza sui luoghi di lavoro e negli ambienti di vita e quelle normative dettate dai fini speculativi politici delle maggioranze politiche del momento. Bisogna evitare la strumentalizzazione della politica criminale, per fini di prevenzione generale, che possono introdurre fattispecie di responsabilità oggettiva in contraddizione con i principi di civiltà giuridica che impongono di accertare la colpevolezza quale elemento presente nel caso concreto, tenendo conto della modalità di manifestazione dell’evento, del nesso di causalità fra condotta ed evento, della complessità del ciclo produttivo aziendale, della redazione ed effettiva applicazione di idonei sistemi di sicurezza.
L’integrità psico-fisica dei lavoratori è un bene fondamentale; la sua difesa sui luoghi di lavoro deve essere sentito come un obbligo etico-morale, prima che giuridico da tutta la collettività che deve essere investita da attività di informazione e promozione della salute sui luoghi di lavoro sin dalle prime classi delle scuole dell’obbligo.
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Fonte: http://www.unpisi.it/docs_sedenotnorm/Tesi_Fedele.doc
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Autore del testo: Fedele
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