Boccaccio opere

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Boccaccio opere

Giovanni Boccaccio

e la sua ricezione europea


1. La vita di un intellettuale
Nessun grande autore della letteratura italiana ha lasciato tracce biografiche così lacunose e contraddittorie come Giovanni Boccaccio. E non perché Boccaccio non parli mai di se stesso: anzi, ha disseminato nelle sue opere un gran numero di riferimenti alla propria vita. Il problema è che quando Boccaccio parla di Boccaccio, anche nelle sue lettere, ne fa sempre il personaggio di una finzione letteraria, altamente inattendibile per il biografo. La stessa cronologia delle opere di Boccaccio non è che una serie di ipotesi basata soprattutto su elementi di intertestualità interna. Fantasioso nelle indicazioni sulla propria vita, reticente sulle proprie opere, Boccaccio è uno scrittore modernamente intento alla messa in scena: tende ad annullare i dati extra- o paraletterari, sembra irridere gli storici e i filologi che si occupano di lui.
Ciò malgrado, nel corso degli ultimi due secoli gli studiosi sono riusciti a elaborare idee abbastanza convincenti sia riguardo alla vita dell’autore che alla cronologia delle sue opere. Giovanni Boccaccio nasce a Firenze o a Certaldo, oppure secondo alcune interpretazioni isolate a Parigi, fra il giugno e il luglio del 1313, figlio illegittimo di un mercante e agente della famosissima compagnia dei Bardi, una delle più grandi banche e ditte di commercio internazionale dell’epoca. Del padre esiste un dato biografico sicuro e preciso: nel luglio del 1338 ha terminato la sua collaborazione con i Bardi dopo aver diretto per anni la filiale napoletana della loro banca. Dopo aver imparato nelle scuole di Firenze il calcolo e le più elementari regole di grammatica latina, Giovanni viene inviato dal padre, con buona probabilità, nel 1327 a far pratica a Napoli. Accanto ai suoi studi di diritto civile e canonico, il giovane Boccaccio frequenta anche le lezioni di poesia di Cino da Pistoia (~1270-1337), celebre poeta del Dolce Stil Nuovo e amico di Dante Alighieri e Francesco Petrarca, il quale insegna nel 1330-31 nella capitale del Regno. Nei giorni di lavoro, come gli altri giovani agenti, sta al banco per ricevere clienti, pesare e cambiare le varie monete e saldare le lettere di credito. Dopo le dimissioni o il licenziamento Boccaccio padre torna nel 1338 a Firenze, ma il figlio non lo segue, rimane a Napoli ancora per più di due anni, presumibilmente fino all’inverno fra il 1340 e il 1341. Probabilmente già prima di iniziare gli studi di giurisprudenza, grazie alle sue consuetudini alla Corte angioina Boccaccio ha preso a frequentare la Biblioteca reale, grande centro della cultura partenopea, che il re Roberto (~1278-1343), grazie alla sua passione libresca, aveva notevolmente arricchito.
Che il padre osteggiasse gli interessi letterari del figlio e lo volesse mercante o almeno giudice è un fatto biografico che Boccaccio tramanda senz’altro in maniera esagerata. Sembra però confermata almeno parzialmente dal fatto che, non appena liberatosi dal controllo paterno, Boccaccio si scatena lanciandosi a tempo pieno nei suoi progetti letterari. Infatti, in conformità alle congetture menzionate, si profila questo come il momento in cui Boccaccio emerge definitivamente come scrittore. Nel 1339, lavora al Filocolo, cominciato probabilmente l’anno prima, che sarà il primo romanzo della letteratura italiana. Poi inventa l’ottava rima e inizia due poemi di “amore e guerra”: Teseida e Filostrato. Contemporaneamente, scrive le sue prime opere in latino: 4 brevi dictamina e l’Elegia di Costanza, una piccola allegoria mitologica sotto forma di carme funebre. Ispirandosi ai modelli neolatini dei secoli XII e XIII, il giovane poeta si esprime in suoi versi dattilici ritmici che prendono spunto dal cosiddetto epitaffio di Omonea, una lapide sepolcrale del primo secolo d. C., che si trova ora nel Museo Capitolino:
Tu qui secura procedis mente, parumper
siste gradum, quero, verbaque pauca lege; (Giovanni Boccaccio: Tutte le opere. A cura di Vittore Branca. Milano: Mondadori 1964-94; vol. V.1, 404)

In questi primi esperimenti poetici in latino già si manifesta chiaramente il caratteristico bilinguismo dell’autore – tra l’altro tipico per il periodo dell’umanesimo da Petrarca fino a Pietro Bembo – che lungo tutta la sua carriera intreccerà costantemente nella sua produzione letteraria il latino e il volgare, invigorendoli a vicenda.
Infine, nel mese di dicembre del 1339, invia a Francesco de’ Bardi la sua Epistola napoletana, un breve testo scherzoso sul carattere degli uomini e la funzione della letteratura. La prima parte, una lettera in un toscano molto retorico, vuole dimostrare con alcuni esempi ricavati dallo storiografo antico Valerio Massimo che anche i più grandi uomini usavano talvolta giocare per rilassarsi. Nella seconda parte, in napoletano, l’autore racconta i festeggiamenti per una nascita avvenuti nel quartiere in cui abita, documentando quello che succede: “Loco sta abbare Ja’ Boccaccio, como sai tu, e nín juorno, ní notte perzí, fa schitto ca scribere.” (V.1, 864)
L’Epistola napoletana è dunque un testo interessante per diversi aspetti. Come esempio di burla letteraria, come testo narrativo di impronta realistica nella descrizione dei festeggiamenti, come iperbole del gusto tipico di Boccaccio di creare degli alter ego e inserirli nei propri testi. Con l’abate Ja’ Boccaccio, Giovanni fa la caricatura di se stesso come scrittore e studioso che contiene inoltre una reminiscenza della voce del padre nel suo tentativo di distogliere il figlio dagli studi letterari: “Aggiolìlle ditto chiù fiate e sòmmene boluto incagnare con isso buono buono.” (V.1, 864)
All’inizio del 1341, Giovanni viene richiamato da Napoli a Firenze, una trasferta alla quale contribuiscono di sicuro alcune circostanze che avevano, negli anni precedenti, modificato i rapporti tra i due poteri e mutata la situazione della famiglia del padre. I legami politici e economici che per tanti anni avevano stretto i banchieri e la Signoria di Firenze alla dinastia angioina, si erano quasi andati spezzando. Dopo 13 anni – gli anni decisivi della giovinezza – Giovanni torna a Firenze da uomo ormai esperto dei costumi del mondo, da studioso ricco di cultura e di erudizione, da prosatore e poeta in latino e volgare che in Italia già non aveva pari (non dimentichiamo che Petrarca si trova ancora in Francia). Deve eppure sembrargli di ripiombare nelle angustie della vita mercantile da cui ormai si era lusingato di essere evaso, e di ricadere in una grettezza umana che amerà umorescamente caricatureggiare. Dalla libera vita culturale napoletana in cui si era conquistato un posto e una fama, passa di nuovo alla costrizione e alla dipendenza economica nella casa paterna, oscurata in più da disgrazie familiari e da difficoltà finanziarie. La produzione letteraria del primo Boccaccio – periodo che finisce con il ritorno a Firenze – è una poesia che vuole sedurre le dame – intellettualmente e se possibile anche in modo più tangibile – e brillare nella società cortese esibendo una molteplice erudizione. Dalla vivace capitale angioina, mediatrice fra Occidente e Oriente, sede di una splendida corte e di un fiorente Studio, il giovane poeta ritorna in una città culturalmente depressa, profondamente instabile in senso economico e politico. L’era della potenza delle grandi compagnie a livello europeo è ormai al tramonto: gravi difficoltà e fallimenti parziali fanno presagire i crolli del 1345.
Recalcitrando e protestando, lamentandosi e invocando impossibili evasioni, Boccaccio si avvia verso la fine del 1341 alla comprensione del mondo culturale e sociale fiorentino e tenta di inserirvisi. Oltre che un ambiente letterario, si schiude a Boccaccio una società mercantile sì, ma gioiosa e galante, invaghita delle cortesi frivolezze che egli aveva conosciuto e cantato a Napoli.
In questo contesto si situa la sua prima opera di geografia in latino, De Canaria et insulis reliquis ultra Hispaniam in Oceano noviter repertis: La cultura medievale non aveva conservato, per circa un millennio, che l’eco puramente letteraria delle fonti classiche ove era fatta menzione delle fortunatae insulae, finché una spedizione del genovese Lanzarotto Malocello non le ricondusse, verso il 1336, entro il perimetro del mondo conosciuto e praticabile. Fra l’estate e l’autunno del 1341 una nuova spedizione, allestita con il concorso del re di Portogallo Enrico IV, raggiunse e parzialmente esplorò le Canarie e forse anche Madera e le Azzorre. Boccaccio divulga queste notizie in una breve descrizione a profitto del pubblico mercantile fiorentino.
Dall’altra parte, la via più facile e naturale che gli si offre per suscitare l’attenzione dei Fiorentini è quella di partecipare al culto dantesco e inserirsi nella scia di quella nuova letteratura allegorico didattica che, quasi sconosciuta a Napoli, era nata in Toscana dai modelli dello Stil Nuovo e delle opere di Dante Alighieri. Infatti, durante il tirocinio letterario, il giovane Boccaccio mantiene lo sguardo fisso sull’astro del divino poeta, di modo che Petrarca gli scriverà più tardi che Dante “tibi adulescentulo primus studiorum dux et prima fax fuerit” (Fam. XXI.15). Voluto probabilmente come esercizio poetico e gesto di venerazione, Boccaccio riassume in terza rima il contenuto della Commedia:
“Nel mezzo del cammin di nostra vita”,
smarrito in una valle l’auttore,
e la sua via da tre bestie impedita,
Virgilio, de’ latin poeti onore,
da Beatrice gli apparve mandato,
liberator del periglioso errore. (V.1, 161)

Il nuovo corso di Boccaccio scrittore è ormai chiaro: aspira a conquistare insieme uno stile e l’approvazione della società fiorentina attraverso un realismo militante e una concezione di nobiltà non più di sangue ma di anima. S’impegna quindi di idealizzare e oggettivare risolutamente, sulle orme di Dante, le esperienze amorose fino a delineare un itinerario morale dell’uomo dai beni vani e mondani all’Amore e alla Virtù.
All’inizio del 1345, Firenze viene travolta dal fallimento dei Bardi e dei Peruzzi, provocato dalla sfortunata guerra condotta in Francia da re Edoardo di Inghilterra, debitore insolubile di milioni di fiorini d’oro. Una catastrofe economica che il cronista Giovanni Villani descrive in parole drammatiche: “Per lo quale fallimento […] fu alla nostra città di Firenze maggiore ruina e sconfitta, che nulla che mai avesse […] e perdessi e desolossi per questa cagione d’ogni potenza la nostra repubblica.” (XII.55) Dopo questo colpo di sfortuna, a Boccaccio che aspira a una decorosa sistemazione si aprono solo le opportunità di un impiego alle corti della vicina Romagna. A Ravenna nel 1345-46 e a Forlì nel 1346-47 termina finalmente il suo volgarizzamento della terza e quarta decade di Tito Livio, progetto iniziato anni prima a Napoli. Si tratta di un’esperienza essenziale e decisiva per il padre della prosa italiana perché matura su Livio non solo la sintassi e lo stile ma apprende anche la visione storica degli uomini che ispireranno la celebre introduzione al Decameron.
Di sicuro, Boccaccio è di ritorno a Firenze durante la terribile peste, cominciata nel marzo del 1348. L’epidemia rappresenta un memento spettacolare per la sua orrenda bestialità e per l’eroismo della popolazione che ne è colpita perché, nel giro di poche settimane, riduce la città a poco più di un terzo dei suoi abitanti. La stessa famiglia di Boccaccio viene gravemente troncata: muoiono la matrigna Bice e il padre, affettuosamente commemorato. Però ne nascerà anche, probabilmente nei 4 anni successivi, l’opera più celebre dell’autore, la sua raccolta di 100 novelle, intitolata Decameron e situata proprio nella Firenze e i suoi dintorni del periodo della peste.
Nei primi anni 50, Boccaccio compie numerose ambasciate alla soddisfazione delle autorità fiorentine, incarichi pubblici tra i quali la missione di gran lunga più gradita è quella presso l’amico e maestro Petrarca. Alla fine di marzo del 1351, Boccaccio giunge a Padova, latore di lettere ufficiali che comunicano la revoca della condanna del padre di Petrarca e della conseguente confisca dei beni della famiglia Petracco avvenuta nell’ottobre del 1302. La Repubblica di Firenze invita il celebre figlio dell’esiliato a ritornare in patria, offrendogli una delle cattedre dell’università istituita nel 1349. Presentata da Boccaccio, l’ormai riconosciuto principe della cultura fiorentina, l’offerta viene però declinata dal visibilmente commosso poeta laureato che invece decide di accettare l’invito del papa Clemente VI di recarsi a Avignone. Ciò nonostante, il rincontro di Padova significa una svolta decisiva nel rapporto dei due più grandi poeti italiani del loro tempo che rimarranno in contatto costante fino alla morte di Petrarca. Purtroppo, la corrispondenza tramandataci testimonia male della singolarità dei loro legami perché si conservano solo poco più di 30 lettere di Petrarca a Boccaccio, e appena una mezza dozzina di Boccaccio a Petrarca.
Boccaccio sente per Petrarca una devozione senza limiti e un’ammirazione cieca: cieca perché non sempre ben fondata sulla dottrina e sui contributi eruditi del maestro. Nella maturità, quando si applica principalmente alla cultura classica, assimila più la materia che le forme, i metodi o le mete. Boccaccio sembra troppo entusiasta, troppo intuitivo e troppo poco propenso a piegarsi alle esigenze di rigoroso studio segnate da Petrarca. Quanto alla letteratura volgare, i due poeti sono su posizioni notevolmente distanti, anche se entrambi si sforzano di avvicinarsi e cercare punti d’incontro. Da canto suo non v’è dubbio che Petrarca ama molto Boccaccio come amico, ma tutto fa pensare che lo rispetti poco come scrittore. Lo ama perché ne apprezza l’umanità, è sicuro della sua ammirazione e sa che potrà sempre contare su di lui. Ma in fondo lo rispetta poco perché lo ritiene intellettualmente inferiore e ha scarsa fiducia nel valore letterario degli scritti dell’amico.
Le luci e le ombre delle relazioni tra i due poeti appaiono in modo particolarmente cospicuo nelle quattro lettere che costituiscono l’ultimo libro delle Seniles di Petrarca. Il maestro è ormai molto anziano e Boccaccio, preoccupato per la sua salute, insiste a invitarlo a riposare dai suoi studi e a lasciar spazio ai giovani. Petrarca si irrita e per dimostrare all’amico che è capace non solo di continuare i suoi lavori di sempre, ma addirittura di intraprenderne di nuovi, nel 1373 gli risponde con una versione latina dell’ultima novella del Decameron, la storia di Griselda, cui antepone una critica impietosa di tutta l’opera e un’arrogante lezione di letteratura. Basta leggerne l’inizio:
Librum tuum quem nostro materno eloquio ut opinor olim iuvenis edidisti, nescio quidem unde vel qualiter ad me delatum vidi. […] Quid ergo? Excucurri eum festini viatoris in morem hinc atque inde circumspitiens nec subsistens. […] Delectatus sum ipso in transitu.

Difficilmente si può essere più sgradevoli ed esprimere più limiti, riserve e cautele; Boccaccio la prenderà – come sempre nei confronti del maestro – con la dovuta sottomissione.
Il decennio 1352-1361, prima del ritiro a Certaldo, è il periodo insieme più fiorentino e più europeo della vita e dell’attività di Giovanni Boccaccio: ci limitiamo a menzionare l’incarico d’ambasciatore della Repubblica presso il papa ad Avignone nel 1354, il soggiorno a Milano come ospite di Petrarca nel 1359, le brevi trasferte del 1362 e 1371 a Napoli, del 1363 e 1365 a Venezia e, infine, del 1370 a Montecassino.
Verso il 1350 si delinea la concezione e si prepara la stesura delle Genealogie deorum gentilium, un immenso trattato di mitologia, poi del De casibus virorum illustrium e del De claris mulieribus, due raccolte di biografie morali secondo la filosofia dello stoicismo. Si tratta di testi che saranno elaborati e rielaborati quasi fino alla morte dell’autore, secondo le sollecitazioni nate da nuove impostazioni spirituali e letterarie, da nuove acquisizioni d’erudizione e di cultura, lievitate da nuove letture. Sono queste le grandiose opere che faranno collocare risolutamente Boccaccio, come Petrarca, quale autore classico accanto alla letteratura greca e latina nei palchetti delle biblioteche dell’Europa civile fino ai primi del ‘700. Questi pesanti tomi lasciano all’età seguente la prova della sua inesauribile e affascinante erudizione e della sua storiografia agitata in colori e in gesti di tragedia e ne impregnano la cultura. Sono queste le opere che solleciteranno numerose versioni nelle principali lingue dell’Europa occidentale che permetteranno d’interpretare l’attualità politica sullo sfondo del grande modello.
Boccaccio stesso si rende conto della sua importanza come vettore della cultura emergente dell’umanesimo, come annota Vittore Branca nel suo contributo per The Oxford Companion to Italian Literature (2002, p. 72): “Boccaccio was so conscious of the decisiveness of his achievement that, for the first and only time in his career, he could not resist a moment of humble pride in his discussion of poetry in his Genealogiae deorum gentilium (15.7):”
Ipse […] fui qui primus meis sumptibus Homeri libros et alios quosdam Grecos in Etruriam revocavi, ex qua multis ante seculis abierant non redituri. Nec in Etruriam tantum, sed in patriam deduxi. (XV.7.5; vol. VIII, 1542)

Infatti, Boccaccio fa della propagazione di una nuova cultura letteraria a Firenze la missione dell’ultimo periodo della sua vita. Per consacrare la letteratura discesa da Dante e da Petrarca, considerati i più grandi figli della Repubblica, raccomanda la concordia civile ai governanti. Al fine di illustrare la strumentalizzazione politica dei letterati moderni si dedica, dopo il deciso rifiuto di Petrarca nel 1351 a Padova, a un ventennale lavoro intorno a Dante, cittadino che la patria aveva cacciato 50 anni prima. Da questo impegno discendono due autentici manifesti, il Trattatello in laude di Dante e le Esposizioni sopra la Comedia, composti tra il 1351 e il 1374, ossia nello spazio compreso fra il ritorno dall’incontro con Petrarca e le conversazioni a Certaldo con il giovane umanista Coluccio Salutati.
Non è certo la ricerca di un tempo perduto che lo sospinge, durante questi anni, a rifugiarsi sempre di più a Certaldo, quanto un’aspirazione alla pace, al silenzio esteriore e interiore. Sembra manifestarsi progressivamente la risoluzione di uno spirito deluso dalla vita pratica e ormai incline a riserbarsi alle meditazioni più ricche e alle consolazioni più vere. Dopo aver ritrovato e rappresentato col suo genio narrativo la più vivace e grandiosa commedia dell’uomo e dell’umanità cerca ora l’occasione di ritrovare finalmente se stesso.
Nonostante le difficoltà materiali e spirituali, nonostante una grave malattia, Boccaccio anche in questo periodo non rallenta il suo assiduo impegno di studio: copia e chiosa Terenzio e vari altri scrittori latini, aggiorna e riordina letture e nuovi acquisti culturali. E soprattutto sviluppa e compie quelle laudi della poesia che, concepite e avviate già da 15 anni, si trovano negli ultimi due libri delle Genealogie deorum gentilium. L’impostazione di questo scritto è nettamente polemica: l’autore vuole sgominare i negatori della poesia. Attacca in maniera ironica tutto un catalogo di avversari: gli ignoranti che si vantano tali, gli ambienti teologici che deprimono le lettere come seduzioni mondane, i mercanti che le disprezzano perché non producono ricchezze, e gli ipocriti che accusano la poesia di essere inutile, vana per le sue favole e pericolosa per i suoi elementi lascivi.
Confutando tutti questi argomenti, Boccaccio espone il suo concetto di poesia, una visione tuttora in gran parte aderente ai principi dell’estetica medievale. La facoltà poetica è un fervore nel concepire e nell’esprimere cose immaginate in modo alto e eccellente, un fervore “qui ex sinu Dei procedens” è però concesso a pochissimi, come dono eccezionale. La poesia costituisce dunque l’anima del mondo, il poeta deve essere di conseguenza un vate. Ma a questo alto compito non basta quel divino fervore, cioè l’ispirazione, perché è assolutamente necessaria in più la conoscenza dei precetti grammaticali e retorici. Costatando finalmente che “mera poesis est quicquid sub velamento componitur et exponitur exquisite” evoca in maniera inequivocabile la figura di Dante Alighieri.
Nelle intenzioni culturali di Boccaccio, la tappa ulteriore che deve trasfigurare Dante nel sommo patrono della comunità fiorentina è contenuta nelle Esposizioni sopra la Comedia: esito delle lezioni pubbliche, finanziate dal comune, svolte fra l’ottobre 1373 e i primi mesi dell’anno successivo nella chiesa di Santo Stefano in Badia, scelta per la sua vicinanza alle case della famiglia Alighieri. Purtroppo, questo corso sull’opera maggiore di Dante non darà i risultati auspicati perché provoca le ire di un fronte variegato di oppositori: le autorità cittadine non gradiscono che l’esilio del poeta e le sue invettive contro la patria siano ricordati nei loro dettagli; i teologi si dichiarano ostili alla glorificazione di un laico; e gli umanisti, in sintonia con la posizione di Petrarca, considerano Dante un modello ormai superato. Attaccato da ogni parte, Boccaccio si vede costretto a interrompere le lezioni, ufficialmente per malattia, arrestandole al commento del canto XVII dell’Inferno.
Nel 1374, Boccaccio si ritira definitivamente a Certaldo, dove muore il 21 dicembre 1375. Da eminente figura della cultura fiorentina viene rappresentato in un affresco di Andrea del Castagno (~1421-57). La sua ultima iniziativa culturale a profitto della patria è quella di lasciare la sua biblioteca al monastero di Santo Spirito a Firenze.


Le opere
Opere in volgare:
1333                Rime
1334                Caccia di Diana, poemetto mitologico in terza rima
1335                Filostrato, poema in ottave
1336-38          Filocolo, romanzo in prosa in 5 libri
1339-41          Teseida delle nozze di Emilia, poemetto in ottave
1341-42          Comedia delle ninfe fiorentine / Ninfale d’Ameto, opera mitologica
1342                Amorosa visione, poema in terzine
1344-45          Elegia di madonna Fiammetta, romanzo
1345-46          Ninfale fiesolano, poema in ottave
1349-53          Decameron, raccolta di 100 novelle
1354-65          Corbaccio, trattato in prosa
1373                Esposizioni sopra la Commedia di Dante, trattato

Opere in latino:
1338-39          Elegia di Costanza, carme funebre
1342-45          De Canaria et insulis reliquis ultra Hispaniam in Oceano noviter repertis, geografia
1348-49          De vita et moribus Domini Francisci Petracchi de Florentia, biografia
1350-55          De origine, vita, studiis et moribus viri clarissimi Dantis Aligerii fiorentini poete illustris / Trattatello in laude di Dante, biografia
1350-65          Genealogie deorum gentilium, trattato mitologico
1351-67          Bucolicum carmen, 16 ecloghe
1355-74          De montibus, silvis, fontibus, lacubus, fluminibus, stagnis seu paludibus et de diversis nominibus maris, geografia
1360                De casibus virorum illustrium, biografie morali
1361-62          De claris mulieribus, biografie morali

 

Fonte: https://homepage.univie.ac.at/alfred.noe/Boccaccio/Boccaccio-1.docx

Sito web da visitare: https://homepage.univie.ac.at/

Autore del testo: A.Noe

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