Decameron

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Decameron

Fino alla metà del Novecento, la critica letteraria glorificò Giovanni Boccaccio nel quale vide il creatore del genere della novella che – secondo questa tradizione – dal Decameron in poi s’impone come modello della narrativa moderna. Bisogna distinguere due ragioni dietro questa visione: la prima è quella del nazionalismo culturale che vuole fare di Boccaccio – assieme a Dante e Petrarca – uno dei fondatori dell’Europa moderna che s’allontana dalle tenebre medievali per orientarsi verso la luce del Rinascimento italiano; la seconda è semplicemente la conoscenza incompleta delle opere precedenti le quali, marginalizzate nelle epoche successive e difficilmente accessibili nelle copie manoscritte, interessano poco gli studiosi che preferiscono concentrarsi sui testi stampati. Mentre la prima posizione viene superata grazie alla progressiva unione politica in Europa, alla diffusione delle teorie postcoloniali, e all’intensa attività di ricerca dei medievisti che ci permette di percepire quell’era in modo completamente diverso, nella scia di tale attività anche la conoscenza dei testi conservati solo in forma manoscritta è grandemente aumentata.
Infatti, esistono delle raccolte di racconti – che non si chiamano ancora novelle e spesso sono in latino – prima dell’evoluzione del genere narrativo nel ‘300. La compilazione più celebre e più diffusa di questo tipo è certamente la Disciplina clericalis del medico ebreo Moses Sephardí originario di Huesca in Aragón che, dopo la sua conversione al cattolicesimo nel 1106, cambia il suo nome in Petrus Alfonsi oppure Petrus Toletanus perché residente a Toledo in Castiglia. Probabilmente in seguito alla richiesta del re Alfonso I° d’Aragona (1104-34), questa raccolta viene riunita verso il 1115 in una versione linguistica che non conosciamo, ma subito trasposta dall’autore in latino e provvista di un’introduzione programmatica. Conformemente al pensiero medievale, Petrus Alfonsi presenta la sua iniziativa come una missione spirituale per la quale invoca la protezione divina: „Deus igitur in hoc opusculo mihi sit in auxilium qui me librum hunc componere et in latinum transferre compulit.“ (Petrus Alfonsi: Die Kunst, vernünftig zu leben. Disciplina clericalis. Dargestellt und aus dem Lateinischen übertragen von Eberhard Hermes. Zürich 1970, p. 137)
Ognuna delle storielle contenute nella Disciplina clericalis è un’elaborazione narrativa e didattica di un proverbio, di una fiaba, di un aneddoto, di una biografia esemplare oppure di precetti pedagogici, per insegnare i valori da rispettare e i vizi da evitare. Di solito, come nelle disputazioni scolastiche, dopo la formulazione di una questione morale, un personaggio competente (il padre, il docente, il filosofo di corte, ecc.) racconta un fatto breve a una persona in cerca di una risposta (il figlio, lo studente, il re, ecc.) per illustrare in questa maniera certe nozioni oppure idee filosofiche. Così p. es. nel capitolo De septem artibus, probitatibus, industriis, il maestro spiega ai suoi studenti la struttura delle discipline scientifiche nelle scuole medievali, le arti sociali e le regole del comportamento:
Unus ex discipulis interrogavit magistrum suum et dixit: Cum septem sint artes et septem probitates et septem industriae, vellem ut haec mihi sicut se habent enumerares. Magister: Enumerabo. Hae sunt artes: Dialectica, arithmetica, geometria, phisica, musica, astronomia. De septima vero diversae plurimorum sunt sententiae quaenam sit. Philosophi qui prophetias non sectantur, aiunt nigromantiam esse septimam. Aliqui ex illis videlicet qui prophetiis non credunt, philosophiam volunt esse septimam, quae res naturales vel elementa mundana praecellit. Quidam qui philosophiae non student, grammaticam esse affirmant. Probitates vero hae sunt: Equitare, natare, sagittare, cestibus certare, aucupare, scaccis ludere, versificari. Industriae hae sunt: Ne sit vorax, potator, luxuriosus, violentus, mendax, avarus et de mala conversatione. Discipulus: Hoc tempore puto neminem huiusmodi esse. (p. 153)

La Disciplina clericalis di Petrus Alfonsi deve aver suscitato un interesse molto ampio perché è conservata in più di 60 manoscritti medievali, e già nel primo secolo della sua diffusione nella versione latina viene tradotta in francese. Seguiranno poi nel corso del Tre- e Quattrocento, per confermare questo successo, delle traduzioni in spagnolo, catalano, guascone, italiano, tedesco, inglese e persino in islandese.
Particolarmente indicativa per una buona comprensione della tradizione narrativa dell’alto medioevo si rivela l’analisi delle fonti alle quali Petrus Alfonsi attinge per i suoi argomenti: l’elemento tecnico p. es. di un pappagallo che distrae una donna intenta a commettere un adulterio in assenza del marito con una serie di 70 racconti finché il ritorno del coniuge non la faccia tornare alla ragione, proviene da una raccolta indiana intitolata Sukasaptati. Inoltre, la Disciplina clericalis ricava numerosi argomenti dalle sentenze proverbiali dei medici arabi Hunain ibn Ishaq (809-873) e Al Mubassir (1019-97), tale la situazione narrativa del dialogo tra padre e figlio oppure re e filosofo. Sembrano inserirsi anche elementi autobiografici in queste storielle quando p. es. l’ebreo Moisè e il cristiano Pietro, cioè protagonisti dai nomi dello stesso autore, discutono di dettagli istruttivi della vita spirituale dell’epoca.
Verso la metà del Duecento altre tre raccolte orientali che Petrus Alfonsi aveva già conosciuto nelle loro trasformazioni nordafricane, penetrano in Europa attraverso le loro elaborazioni persiane, siriane oppure bizantine. La prima è una specie di speculum principum dell’ottavo secolo di un certo Ibn al-Muqaffa intitolato Calila e Dimna che contiene nei 5 libri della versione latina numerosi elementi del famosissimo Pancatantra indiano, una raccolta anonima del quinto secolo. In conformità con questa versione latina nasce poi, su incarico del principe ereditario Alfonso III, una traduzione in spagnolo che si concentra nei suoi dialoghi illustrativi sul mondo degli animali che, alla maniera delle favole, tematizzano momenti interessanti della vita umana.
La seconda fonte orientale che ispira la narrativa europea del tardo medioevo è la storia di Barlaam et Josaphat compilata in greco bizantino nel nono secolo da Giovanni da Damasco, consigliere alla corte del califfo, poi monaco nel monastero di Mar Saba presso Gerusalemme e senz’altro il teologo più eminente del suo tempo. All’inizio del racconto, il re indiano Abenner viene a sapere da un astrologo che suo figlio Joasaph si convertirà al cristianesimo, religione considerata eretica e altamente contraria agli interessi del trono. Per scongiurare questa minaccia, il re fa isolare suo figlio all’interno del palazzo per impedire che venga a contatto con i principi essenziali della religione cristiana, in particolare la compassione con i poveri e i malati, vista come un atteggiamento critico nei confronti delle strutture politiche del regno. Nonostante tutto, il predicatore ambulante Barlaam riesce a portare le parole del vangelo al giovane principe e infine battezzare lui, e con lui tutta la classe dirigente del reame. Dopo aver rinunciato ai suoi diritti reali, Joasaph muore nella veste di eremita e si confonde così con la figura storica dell’imperatore Ashoka (~273-237 a. C.) il quale, dopo una carriera turbolenta da comandante particolarmente crudele, si pente e si ritira in un eremo buddista. Il vero nucleo della storia di Barlaam et Josaphat sembrano quindi essere delle leggende religiose largamente diffuse in India prima dell’invasione islamica.
Il suo impatto nella tradizione letteraria è però talmente forte che i due protagonisti, Barlaam e Josaphat, saranno venerati come autentiche figure di santi nella chiesa orientale e trovano il loro posto nel capitolo 175 della Legenda aurea. In questa enciclopedia biografica più voluminosa dei santi cristiani intitolata Vitae sanctorum sive Legenda Aurea, il monaco domenicano Jacopo da Varagine (1230-98) elenca dal 1260 in poi tutti i personaggi del calendario liturgico secondo il proverbiale schema di „vita, morte e miracoli“, menzionando anche dettagli scandalosi della loro carriera come delitti capitali oppure adulteri reiterati. I 182 capitoli molto estesi contengono i fatti biografici dai martiri della chiesa primitiva fino ai tempi dell’autore, precisamente fino a Pietro da Verona morto nel 1252.
Infine, la terza raccolta recepita dalla narrativa europea è il cosiddetto libro di Sendebar (oppure Syntipas in greco), penetrato nelle sue versioni arabe nell’area bizantina, si diffonde di là nella traduzione latina di Giovanni d’Alta Silva con il titolo greco di Dolopathos (~1184) dalla quale deriva verso il 1280 il cosiddetto Libro dei sette savi. Questa raccolta, tramandata in numerose elaborazioni popolari, contiene 14 racconti che prendono spunto dalle vicende di una giovane imperatrice che s’innamora del figliastro il quale però rifiuta le sue avances. Per vendicarsi dell’umiliazione subita, la donna cerca di calunniare il figlio presso il padre il quale, dominando la sua ira, vuol sentire anche gli argomenti della difesa prima di pronunciare la sentenza. Allora, i sette filosofi citati nel titolo, ispirati da personaggi famosi dell’antichità, raccontano ognuno una parabola destinata a far nascere nella mente dell’imperatore delle perplessità quanto riguarda la versione dei fatti presentata dalla moglie. Con riferimento alle vicende della cornice si apre il discorso di ognuno dei consiglieri che racconta, come il predicatore in chiesa, il suo exemplum:
La mattina si levò l’uno dei filosofi, e con grande riverenza andò allo imperadore e salutollo. Il quale rispose villanamente, dicendoli: Avete voi così insegnato a mio figliuolo? Io lo faccio appendere per la gola, e quello farò anco di voi. [...] Disse lo filosofo: Un cavaliere avea un suo levriere molto bello, giovene e compito e di tutta bontà, ed avea uno fanciullino il quale facea nutrire in cuna. Addivenne un giorno che in Roma si dovè fare un tornamiento. Il cavaliere gli andò per vedere, e la donna e le servigiali montorno di sopra per vedere, e lassarono lo fanciullo e ’l levreri solamente in casa. La casa era molto vecchia, sì che d’una crepatura delle mura uscì uno serpente molto grande e terribile per divorare lo fanciullo. E lo cane veggiendo ciò volea difendere lo fanciullo, e combattea per questo con lo serpente: e così combattendo ad uno, la cuna del fanciullo si rivolse sotto sopra, sì che lo fanciullo rimase sotto sano e salvo. E faciendo la grande battaglia lo cane e lo serpente, alla fina il cane uccise il serpente, e rimase lo cane forte impiagato. (Bologna 1968, S. 7-9)

Al loro ritorno a casa, stupefatti davanti al bambino ferito e il cane insanguinato, i genitori pensano prima a un attacco dalla parte dell’animale domestico infuriato per qualche ragione e, convinti del suo comportamento snaturato, vogliono cacciarlo. In un secondo momento, dopo aver trovato in un angolo della camera il serpente ucciso, capiscono di aver sbagliato e riconoscono nel loro cane un modello di fedeltà e di devozione. Così, il filosofo illustra che l’imperatore non deve fidarsi delle apparenze ma cercare la verità dietro un velo gettato dalla sfortuna oppure da una persona maliziosa.
Da parte sua, l’imperatrice risponde a ognuna delle sette parabole con un racconto atto a dimostrare l’astuzia dei falsi consiglieri e i pericoli legati a una fiducia esagerata in loro. L’ultima, e decisiva, storia spinge l’imperatore a riconoscere con l’innocenza del figlio la perfidia della moglie, e a condannare questa come adultera e calunniatrice.
Ovviamente, l’intenzione di tali racconti è quella d’istruire, di offrire consigli e d’insegnare le maniere di rispettare le regole della religione cristiana e della società umana, come lo fa anche la raccolta intitolata Fior di Virtù che appare tra il 1300 e il 1323 e viene attribuita dalla critica moderna a Tommaso Gozzadini. Nei 40 capitoli perfettamente simmetrici di questo florilegio che tratta delle diverse forme di virtù e di vizi, si trovano sempre una favola, diverse sentenze morali e un esempio di comportamento umano che mettono in rilievo i valori che costituiscono l’argomento del rispettivo capitolo. La traduzione in tedesco di Hans Vintler dal titolo Pluemen der tugent (1411) contiene inoltre una serie di commenti personali necessari per spiegare le vicende ai lettori oltralpi. La prima edizione stampata di questo bestseller medievale nel 1471 apre la lunga serie di 58 edizioni solo nel corso del Quattrocento.
La denominazione di novella per questo genere di racconti morali appare verso la fine del Duecento per definire le digressioni narrative che vengono inserite in trattati morali oppure in discorsi filosofici. Bonvesin da la Riva (prima del 1250 – dopo il 1315), professore di retorica, chiama p. es. il suo dialogo sulla grazia divina nel titolo latino De peccatore cum Virgine e nel sottotitolo volgare Una zentil novella, insistendo così sul carattere didattico del racconto, senza però servirsi della tecnica della suspense che sarà in seguito tipica per il genere. In maniera simile, Francesco da Barberino (1264-1348) nel suo Reggimento e costumi di donna (1318) chiama i racconti inseriti nell’argomentazione morale un picciol esempio oppure una novella, esattamente come l’exemplum che, inserito nella predica in latino, serve a spiegare in volgare il messaggio morale del brano biblico in questione. Questi esempi tramandati raramente nei manoscritti perché riservati alla diffusione orale, si concentrano secondo le regole della retorica sulle emozioni di un pubblico considerato incapace di capire un concetto astratto ma appunto per questo più facilmente trascinato dai sentimenti suscitati nel racconto. Sono soprattutto i membri dell’ordine dei predicatori, cioè i domenicani, che fanno largo uso di questa retorica, trascrivendo anche i primi testi per le loro compilazioni omiletiche indirizzate a un pubblico laico.
Fra i rappresentanti più eminenti di questo movimento in Italia contano Jacopo Passavanti (~1302-1357) e Domenico Cavalca (1270-1342). Passavanti cita nel suo Specchio di vera penitenza (1354) 48 exempla divisi nelle categorie morali che devono illustrare: sogni, umiltà, scienza, superbia e vanagloria. Nelle sue numerose opere teologiche e omiletiche come Lo specchio della croce, La medicina del cuore, La disciplina delli spirituali, Atti degli Apostoli volgarizzati e Dialogo di S. Gregorio, Cavalca inserisce aneddoti conosciuti, sfruttandoli come parabole delle idee teologiche che vuole commentare. Prendiamo un brano dai Frutti della lingua (~1342) che riprende una vicenda della vita d’Alessandro Magno che s’incontra regolarmente nelle biografie più o meno romanzate del personaggio storico:
N° 51 Alessandro Magno e il valore del dono
Leggiamo d’Allessandro imperadore che diede ad un povero gentile uomo che lli domandava limosina un bel castello. Della qual cosa riprendendolo al quanto i suoi baroni e dicendo ch’elli avea dato piú che a colui non si convenia di ricevere, rispose loro e disse: – Io non mirai quello che si convenisse a lui di ricevere ma quello che ssi convenia a me di dare.

Esempi di comportamenti eccezionali, provenienti dalla tradizione letteraria dell’antichità, in particolare i Facta et dicta memorabilia di Valerio Massimo dell’epoca di Tiberio, vengono attualizzati per servire da modelli autorevoli perché sanciti dal passato e per illustrare i valori universali della società umana come li prescrivono i comandamenti della chiesa cattolica. Più che la loro perfezione retorica, l’autenticità di queste storie garantite dalle fonti e dalla persona che le cita, attribuisce loro un forte elemento persuasivo per muovere gli animi nella direzione della salvezza eterna.
La prima raccolta a portare nel suo titolo la denominazione del genere novella è indubbiamente il cosiddetto Novellino dal sottotitolo di Ciento novelle antike (1280-1300), una compilazione di racconti ancora molto vicini nel loro spirito agli exempla delle prediche medievali. L’intenzione spirituale dietro queste storie si manifesta apertamente nell’introduzione che annuncia una specie di florilegio da offrire alle comunità cristiane riunitesi per imitare i primi seguaci di Cristo:
Questo libro tratta d’alquanti fiori di parlare, di belle cortesie e di be’ risposi e di belle valentie e doni, secondo che, per lo tempo passato, hanno fatto molti valenti huomini.
Quando lo nostro Signore Gesù Cristo parlava umanamente con noi, in fra l’altre sue parole, ne disse che dall’abbondanza del cuore parla la lingua. Voi, ch’avete i cuori gentili e nobili, in fra li altri, acconciate le vostre menti e le vostre parole nel piacere di Dio, parlando, onorando e temendo e laudando quel Signore nostro, che n’amò, prima che elli ne criasse, e prima che noi medesimi ci amassimo. E se, in alcuna parte, non dispiacendo a Lui, si può parlare, per rallegrare il corpo e sovvenire e sostentare, facciasi con più onestade e con più cortesia, che fare si puote. Ed acciò che li nobili e gentili sono, nel parlare e nell’opere, quasi com’uno specchio, appo i minori, acciò che il loro parlare è più gradito, però che esce di più dilicato stormento, facciamo qui memoria d’alquanti fiori di parlare, di belle cortesie e di belli risposi e di belle valentie, di belle donari e di belli amori, secondo che, per lo tempo passato, hanno fatto già molti.

Le 100 storie che seguono sono destinate a essere diffuse in una missione evangelica, a profitto di quelli che non hanno accesso a un altro tipo d’istruzione e capiscono solo il senso figurativo delle lezioni morali. Le parabole che raccontano con parole emozionanti le storie del loro tempo, mirano a insegnare alle menti semplici l’armonia con la creazione e l’innocenza che permette di seguire, con la benedizione di Dio, la via del paradiso. L’interazione orale nella comunità cristiana – nell’introduzione si usa solo il verbo di parlare, mai quello di leggere – composta di persone più o meno colte dovrebbe ricordare la presenza del redentore in terra: „Quando lo nostro Signore Gesù Cristo parlava umanamente con noi“.
Il programma del Decameron di Giovanni Boccaccio che si manifesta nelle dichiarazioni introduttive dell’autore, si distacca espressamente da ambizioni simili. Composto tra 1349 e 1353, la raccolta boccacciana consta – come il Novellino – di 100 novelle divise però secondo una struttura nuova, come annuncia il titolo:
Comincia il libro chiamato DECAMERON, cognominato PRENCIPE GALEOTTO, nel qual si contengono cento novelle in diece dì dette da sette donne e da tre giovani uomini.
(Cito sempre dall’edizione di Mario Marti. 2 vol. Milano: Rizzoli 1974)

Ritroviamo in questo titolo la predilezione di Boccaccio per i neologismi di derivazione greca perché significa infatti 10 giornate (δέκα ‛ημέραι), richiamando chiaramente il modello dello Hexameron, titolo comune a varie opere ascetiche medievali che trattano delle sei giornate della creazione del mondo. Quest’allusione a un eventuale contenuto religioso viene però subito distrutta ironicamente dall’aggiunta di Prencipe Galeotto perché si riferisce al personaggio letterario (Prince Galehaut) che, nelle diverse versioni del Lancelot oppure Lancilotto, favorisce gli amori del protagonista con la regina Genièvre. Il carattere altamente libertino del libro è perfettamente familiare al pubblico dell’epoca perché Dante Alighieri attribuisce alla lettura del libro l’adulterio di Paolo Malatesta e Francesca da Rimini nel canto V dell’Inferno della Commedia. Per questo motivo, la parola di galeotto acquisisce assai presto il significato di ruffiano, una persona oppure una cosa che provoca il peccato sessuale.
A parte il titolo ambiguo, il proemio presenta, in uno stile che imita la prosa d’arte latina, l’intenzione dell’opera che si vuole un tributo morale dovuto all’umanità:
Umana cosa è aver compassione degli afflitti; e come che a ciascuna persona stea bene, a coloro è massimamente richiesto, li quali già hanno di conforto avuto mestiere, e hannol trovato in alcuni: fra’ quali, se alcuno mai n’ebbe bisogno, o gli fu caro, o già ne ricevette piacere, io son uno di quegli. (p. 3)

Questa prima frase riprende al livello dello stile grave, normalmente riservato alle opere filosofiche, l’idea di un proverbio medievale che Boccaccio stesso, parlando delle sue letture, cita nella sua Epistola IV del 1339, scritta sul monte Falerno presso l’urna di Virgilio, poeta delle passioni amorose fatali: “Solatium est miseris sotios habere penarum” (vol. V.1, 538).
Mancano quindi nella motivazione di Boccaccio completamente le riflessioni di carattere religioso che hanno lasciato il campo alla solidarietà umana, ai doveri civili nei confronti di chi si trova in difficoltà. Nell’argomentazione di Boccaccio, lo sguardo umile e devoto rivolto in alto, nelle sfere celesti, viene sostituito dallo sguardo commosso di chi prova simpatia per gli altri esseri umani e sente la necessità di un’azione immediata invece della visione di una vita migliore nell’al di là. Tutti i sofferenti hanno il diritto di chiedere il nostro sostegno e meritano il nostro impegno morale – e le donne in particolare per i motivi menzionati nell’introduzione:
E chi negherà, questo, quantunque egli si sia, non molto più alle vaghe donne che agli uomini convenirsi donare? Esse dentro a’ dilicati petti, temendo e vergognando, tengono l’amorose fiamme nascose, le quali quanto più di forza abbian che le palesi coloro il sanno che l’hanno provate: et oltre a ciò, ristrette da’ voleri, da’ piaceri, da’ comandamenti de’ padri, delle madri, de’ fratelli e de’ mariti, il più del tempo nel piccolo circuito delle loro camere racchiuse dimorano, e quasi oziose sedendosi, volendo e non volendo in una medesima ora seco rivolgono diversi pensieri, li quali non è possibile che sempre sieno allegri. (p. 4s.)

Il richiamo universale degli afflitti all’assistenza degli altri si concentra quindi a una particolare categoria di persone, le donne innamorate, le lettrici ideali dell’opera, perché oziose e sentimentali, esposte maggiormente alle tentazioni perché isolate dal mondo e senza la distrazione offerta dalla vita sociale e professionale. Si trovano anche, dall’altra parte, in condizioni ideali per la lettura individuale, silenziosa e contemplativa la quale, come lo studio dei testi religiosi, le guiderà nelle loro attività e saprà distrarle dai pensieri peccaminosi. Le novelle offriranno a queste donne sedute nelle loro camere per leggere il libro, esattamente come le prediche in chiesa, degli exempla utili e dilettevoli:
Nelle quali novelle, piacevoli et aspri casi d’amore, et altri fortunosi avvenimenti se vedranno, così ne’ moderni tempi avvenuti come negli antichi; delle quali le già dette donne, che queste leggeranno, parimente diletto delle sollazzevoli cose in quelle mostrate, et utile consiglio potranno pigliare, in quanto potranno cognoscere quello che sia da fuggire, e che sia similmente da seguitare le quali cose senza passamento di noja non credo che possano intervenire. Il che se avviene (che voglia Iddio che così sia) ad Amore ne rendano grazie, il quale, liberandomi da’ suoi legami, m’ha conceduto il potere attendere a’ loro piaceri. (p. 5)

Bisogna ricordare che le parole di Boccaccio riprendono fedelmente il programma formulato nell’Ars poetica d’Orazio che definì, ai tempi d’Augusto, il compito dei poeti con le parole seguenti:
aut prodesse volunt aut delectare poetae
aut simul et iucunda et idonea dicere vitae. (v. 333-334)

In questo scambio d’informazioni, simpatia e assistenza tra gli uomini, Dio non si trova più al centro delle attività, ma osserva quello che succede ricompensando con la sua benedizione le iniziative caritative. Da schiavi sottomessi ciecamente alla volontà divina gli uomini si trasformano, nella visione di Boccaccio, in esseri autonomi, responsabili e finalmente liberi.
Inoltre, sembra anche molto indicativa in questo brano dell’introduzione la scelta dei verbi: l’autore insiste su leggere, per consiglio pigliare da questa lettura e infine conoscere quello che è da fuggire o da seguitare. Non solo è cambiata la situazione perché non troviamo più l’idea della collettività presente nell’introduzione al Novellino, ma è cambiata pure la maniera di leggere: la tradizione dall’antichità fino al tardo medioevo insegnava una lettura declamatoria, ad alta voce, resa tra l’altro necessaria dalla scrittura senza spazi tra le parole, mentre Boccaccio sta pensando manifestamente a una lettura silenziosa, meditativa durante la quale la persona s’immerge completamente nel testo.
Le vicende raccontate nella cornice del Decameron iniziano con la descrizione della peste a Firenze. Come in tutte le opere dell’epoca, anche nel Decameron l’interpretazione di stampo religioso, punitivo e correttivo dell’epidemia forma il sottofondo della sua descrizione. Ma, al contrario delle speculazioni teologiche o astrologiche, Boccaccio si concentra semmai sulle cause immediate della peste e della sua diffusione e sulla descrizione dei sintomi che sono redatti con particolare precisione e con significativa competenza scientifica perché l’autore è fra i pochi a distinguere p. es. le diverse manifestazioni della malattia e le sue modalità di contagio. Infatti, l’introduzione al Decameron rappresenta una preziosa testimonianza per l’intersezione non insolita in quell’epoca di discipline molto dissimili, cioè medicina e poesia. Tommaso del Garbo, medico fiorentino e amico di Petrarca, presenta nel suo Consiglio contro a pistolenza, insieme a prescrizioni igieniche, paralleli interessanti con Boccaccio, suggerendo fra altre norme di profilassi anche l’allegrezza della mente, cioè il non pensare alla morte grazie a occupazioni dilettevoli che confortino l’animo. Sarà proprio questo il primo motivo dei giovani protagonisti del Decameron per lasciare la città e fuggire il progressivo imbarbarimento degli abitanti, caduti nelle più atroci superstizioni.
Infatti, i pochi abitanti ancora in buona salute fanno vita ritiratissima o, al contrario, come in una danse macabre, si divertono freneticamente, quasi sfidando il male. Perché tutti, quelli rinchiusi nelle loro case come quelli travolti da un desiderio insano di godimento, dimenticano ogni forma di simpatia o di compassione con gli altri, gli ammalati sono abbandonati alla loro miserabile sorte. A questo quadro orribile, l’autore contrappone il desiderio di vita e di onestà di sette giovani donne rimaste sole al mondo (Pampínea, Filomena, Fiammetta, Emilia, Lauretta, Neífile e Elissa) che accettano la proposta di andare a vivere in una villa in campagna per salvarsi dalla tristezza e evitare la contemplazione dei degenerati costumi dei loro concittadini. A questo gruppo si aggiungono tre giovani uomini (Pánfilo, Filóstrato e Dionèo), anche loro rimasti senza legami di famiglia. Il luogo in cui vogliono ritirarsi diventa per loro un giardino paradisiaco in cui passano le dieci giornate in cui il pericolo del contagio è più alto e l’epidemia infuria contro la popolazione della regione.
Niente li garantisce dalla morte fuori di città, come riconosce anche Pampinea, ma sperano grazie a passatempi piacevoli di ritrovare nella villa la possibilità di vivere umanamente. Si distinguono così da tante altre brigate che si formano solo con intenti di godimento e stordimento, cioè d’annullamento della ragione, davanti all’incombere della morte, riducendosi al livello delle bestie. Questa dignità umana preservata durante il soggiorno forzato nella villa farà anche dei dieci, al loro ritorno in città, coronati di fronde di quercia, il simbolo di due virtù cardinali, della sapientia e della fortitudo, cioè saggezza e prodezza. Infatti, l’omaggio che ricevono i protagonisti del Decameron dopo il passaggio dell’epidemia, non ha niente a che vedere con una catarsi postapocalittica, ma si basa sulla ricostruzione del mondo e delle sue istituzioni civili: conservare la dignità attraverso la parola retoricamente stilizzata, stare onestamente insieme e rispettare le regole della solidarietà umana, un’etica, insomma, elaborata dagli stessi esseri umani che vi aderiscano liberamente.
Per non cadere vittime della malinconia – malattia spirituale considerata altrettanto grave che la peste – decidono che ogni giorno siano eletti una regina o un re che dispongano le occupazioni della giornata. Pampínea, la prima regina, propone che ciascuno, nell’ora più calda della giornata, all’ombra degli alberi, racconti una novella che sia allo stesso tempo dilettevole e utile. Per evitare quindi le patologie legate alla solitudine e al pessimismo forsennato, i protagonisti del Decameron si confidano a una specie di logoterapia che deve confortare la mente e garantire l’equilibro dell’anima vegetativa. Nella stessa misura in cui la religione promette una vita migliore dopo le miserie dell’esistenza presente a quelli che sono pronti a aver fiducia nella sua parola, l’arte – e in particolare la poesia – diventa sostegno psichico per tutti quelli che sanno decifrare i suoi messaggi e credono nel suo potere. L’interpretazione particolare della realtà che permettono le arti, conferisce ai loro seguaci la speranza di poter affrontare coraggiosamente le difficoltà della vita e di imparare qualcosa dagli esempi degli altri, positivi o negativi che siano. Tutta la gamma tematica delle cento novelle del Decameron, raggruppate a seconda delle giornate, rispetterà fedelmente questa concezione quasi missionaria, di diventare fonte di diletto e di lezione morale.
Eletta regina della prima giornata, Pampínea lascia libera scelta dell’argomento delle novelle di questo primo gruppo di cui molte si concentrano sul tema di una risposta pronta e intelligente. Esemplare per questa tematica, e anche per la maniera tipica di Boccaccio di scegliere un racconto largamente presente nella tradizione medievale e di trasformarlo per dargli un’interpretazione nuova, è la terza novella della prima giornata, ispirata dalla raccolta medievale Gesta Romanorum e dal Novellino. Perché il sultano Saladino teme un rifiuto da parte dell’usuraio ebreo Melchisedec dal qual vuol farsi prestare dei soldi, tenta di tendergli un tranello per condannarlo alla morte e poter quindi confiscare i suoi beni a proprio profitto, senza dover chiedergli un credito e pagarne gli interessi. Il sultano domanda quindi all’ebreo quale religione sarebbe quella vera:
«Valente uomo, io ho da più persone inteso che tu se’ savissimo e nelle cose di Dio senti molto avanti; e per ciò io saprei volentieri da te quale delle tre leggi tu reputi la verace, o la giudaica o la saracina o la cristiana.» (I.3, p. 46)

Sentendosi minacciato e non potendo preferire una delle tre religioni senza commettere il sacrilegio di cui vuole servirsi il sultano per eliminarlo, l’ebreo risponde con la parabola dei tre anelli:
Il valente uomo, che parimente tutti gli amava, né sapeva esso medesimo eleggere a quale più tosto lasciarlo volesse, pensò, avendolo a ciascun promesso, di volergli tutti e tre sodisfare; e segretamente ad un buon maestro ne fece fare due altri, li quali sì furono simiglianti al primiero, che esso medesimo che fatti gli aveva fare appena conosceva qual si fosse il vero; e venendo a morte, segretamente diede il suo a ciascun de’ figliuoli. Li quali dopo la morte del padre volendo ciascuno l’eredità e l’onore occupare, e l’uno negandolo all’altro in testimonianza di dover ciò ragionevolmente fare, ciascuno produsse fuori il suo anello; e trovatisi gli anelli sì simili l’uno all’altro, che qual fosse il vero non si sapeva conoscere, si rimase la quistione, qual fosse il vero erede del padre, in pendente, ed ancor pende. (I.3, p. 47)

Da prova spettacolare di un’intelligenza astuta che sa parare nel momento giusto gli attacchi contro la propria posizione e giocarsi mirabilmente di avversari inferiori, Gotthold Ephraim Lessing trasformerà nel suo poema drammatico Nathan der Weise (1779) questa situazione in una lezione di tolleranza illuministica nei confronti delle confessioni e delle idee altrui. L’autore stesso confessa nella sua introduzione di essersi servito del Decameron boccacciano, fonte ricchissima d’ispirazione teatrale: „Allerdings ist die dritte Novelle des ersten Buches, dieser so reichen Quelle theatralischer Produkte, der Keim, aus dem sich Nathan bey mir entwickelt hat.“ (Vorrede und Abhandlung zu Nathan dem Weisen. In: Sämtliche Schriften, vol. 16, p. 444).
Terminati i dieci racconti della prima giornata, viene eletta regina della seconda giornata Filomena la quale fissa come tematica del suo regno i vari casi della sorte con lieto fine. Tutti gli altri accettano, solo Dióneo richiede il privilegio di scegliere liberamente l’argomento e di raccontare sempre per ultimo, privilegio che gli viene concesso dalla brigata. Neífile, regina della terza giornata, propone di raccontare le vicende di chi acquista una cosa molta desiderata oppure ne riacquista una perduta. La prima novella della terza giornata comincia con un’osservazione generale sulla natura umana e sulla situazione delle monache in particolare per far capire la divergenza fondamentale tra la natura umana in generale, sottoposta a una sorte inesorabile, e la società civile che impone a se stessa le sue categorie e le sue regole convenzionali:
Masetto da Lamporecchio si fa mutolo e diviene ortolano d’un monistero di donne, le quali tutte concorrono a giacersi con lui.
Bellissime donne, assai sono di quegli uomini, e di quelle femine che sí sono stolti, che credono troppo bene che, come ad una giovane è sopra il capo posta la benda bianca ed indosso messole la nera cocolla, che ella più non sia femina né più senta de’ feminili appetiti se non come se di pietra l’avesse fatta divenire il farla monaca; e se forse alcuna cosa contra questa lor credenza n’odono, così si turbano, come se contra natura un grandissimo e scellerato male fosse stato commesso, non pensando né volendo avere rispetto a se medesimi, li quali la piena licenza di potere far quel che vogliono non può saziare, né ancora alle gran forze dell’ozio e della sollecitudine. (III.1, p. 186)

Masetto, giovane bello e gagliardo, sente dire per caso da un vecchio nella locanda del paese che in un piccolo monastero di suore abbastanza lontano, c’è bisogno di un ortolano:
Per che, molte cose divisate seco, imaginò: «Il luogo è assai lontano di qui e niun mi vi conosce; se io so far vista d’esser mutolo, per certo io vi sarò ricevuto.» Ed in questa imaginazione fermatosi, con una sua scure in collo, senza dire ad alcuno dove s’andasse, in guisa d’un povero uomo se n’andò al monistero; dove pervenuto, entrò dentro e trovò per ventura il castaldo nella corte, al quale, faccendo suoi atti come i mutoli fanno, mostrò di domandargli mangiare per l’amor di Dio e che egli, se bisognasse, gli spezzerebbe delle legne. (III.1, p. 188)

Credendolo muto e sordo e perciò da una parte insensibile alle tentazioni e dall’altra incapacitato a raccontare fuori quello che succede dentro le mura del convento, la badessa gli dà il lavoro. Parlando liberamente dinnanzi a lui perché convinte che non senta, le monache si sentono sicure della sua discrezione a proposito di eventuali loro fantasie:
Or pure avvenne che costui un dí avendo lavorato molto e riposandosi, due giovanette monache che per lo giardino andavano, s’appressarono là dove egli era, e lui che sembiante facea di dormire cominciarono a riguardare. Per che l’una, che alquanto era più baldanzosa, disse all’altra: «Se io credessi che tu mi tenessi credenza, io ti direi un pensiero che io ho avuto più volte, il qual forse anche a te potrebbe giovare.» L’altra rispose: «Di’ sicuramente, ché per certo io nol dirò mai a persona.» Allora la baldanzosa incominciò: «Io non so se tu t’hai posto mente come noi siamo tenute strette, né che mai qua entro uomo alcuno osa entrare, se non il castaldo che è vecchio e questo mutolo; ed io ho più volte a più donne che a noi son venute udito dire che tutte l’altre dolcezze del mondo sono una beffa a rispetto di quella quando la femina usa con l’uomo. (III.1, p. 189)

Avendo sperato da sempre in una tale opportunità, Masetto si mette più che volentieri a disposizione delle iniziative delle monache:
Masetto udiva tutto questo ragionamento, e disposto ad ubidire, niuna cosa aspettava se non l’esser preso dall’una di loro. Queste, guardato ben per tutto e veggendo che da niuna parte potevano esser vedute, appressandosi quella che mosse avea le parole a Masetto, lui destò, ed egli incontanente si levò in pié; per che costei, con atti lusinghevoli presolo per la mano, ed egli faccendo cotali risa sciocche, il menò nel capannetto, dove Masetto senza farsi troppo invitare quel fece che ella volle. La quale, sí come leale compagna, avuto quel che volea, diede all’altra luogo, e Masetto, pur mostrandosi semplice, faceva il lor volere; per che, avanti che quindi si dispartissono, da una volta insù ciascuna provar volle come il mutolo sapeva cavalcare, e poi, seco spesse volte ragionando, dicevano che bene era così dolce cosa e più, come udito aveano; e prendendo a convenevoli ore tempo, col mutolo s’andavano a trastullare. (III.1, p. 190)

A un largo gruppo di monache si aggiunge per ultima la badessa. Quando poi, molti anni dopo, Masetto, stanco e per le troppe fatiche, finge di riacquistare la parola, persa – come pretendeva – per una malattia, si confida con la badessa, trova un accordo con le suore, viene sostituito nel monastero da un ortolano nuovo e torna al suo paese:
Così adunque Masetto vecchio, padre e ricco, senza aver fatica di nutricare i figliuoli o spesa di quegli, per lo suo avvedimento avendo saputo la sua giovanezza bene adoperare, donde con una scure in collo partito s’era, se ne tornò, affermando che così trattava Cristo chi gli poneva le corna sopra il cappello. (III.1, p. 191s.)

La scarsa moralità dei religiosi, dovuta secondo l’autore alla natura umana in generale, che però suscita conflitti sociali e inganni di ogni tipo, rappresenta uno dei temi centrali del Decameron, e sarà anche, ai tempi della Controriforma e della costituzione dell’Index librorum prohibitorum, uno degli elementi più esposti agli attacchi.
All’inizio della quarta giornata, l’autore fa un’introduzione di carattere personale per difendersi dall’accusa di amar troppo le donne e di scrivere cose non convenienti né alla sua età né alla sua arte, insistendo di nuovo sul valore morale e sull’utilità pratica delle favole. In questa giornata si ricordano, sotto la guida di Filóstrato, le avventure amorose finite tragicamente, per la maggior parte situate in un ambiente cortese. La protagonista della prima novella, Ghismonda, figlia di Tancredi, principe di Salerno, rimane vedova in un’età molto giovane. Il padre, non volendo separarsi da lei, tarda a darle un altro marito, ignorando per egoismo le pulsioni naturali di una giovane donna:
E dimorando col tenero padre, sì come gran donna, in molte dilicatezze, e veggendo che il padre, per l’amor che egli le portava, poca cura si dava di più maritarla, nè a lei onesta cosa pareva richiedernelo, si pensò di volere avere, se esser potesse, occultamente un valoroso amante. (IV.1, p. 275)

Allora, Ghismonda s’innamora di un certo Guiscardo, paggio del padre, di nascita umile, ma di carattere nobile. Gli amanti s’incontrano alcune volte di nascosto, finché un giorno, Tancredi li sorprende. Profondamente irritato da un tale comportamento contrario a tutte le regole sociali, il padre fa imprigionare Guiscardo e chiede una giustificazione alla figlia la quale, ribellandosi contro il genitore, risponde in maniera piuttosto inaspettata perché, lontano dall’implorare la misericordia del padre, rivendica con energia quello che spetta alla sua giovinezza:
Egli è il vero che io ho amato ed amo Guiscardo, e quanto io viverò, che sarà poco, l’amerò; e se appresso la morte s’ama, non mi rimarrò d’amarlo; ma a questo non m’indusse tanto la mia feminile fragilità, quanto la tua poca sollecitudine del maritarmi e la vertù di lui. Esserti dové, Tancredi, manifesto, essendo tu di carne, aver generata figliuola di carne e non di pietra o di ferro; e ricordarti dovevi e déi, quantunque tu ora sii vecchio, chenti e quali e con che forza vengano le leggi della giovanezza; e come che tu, uomo, in parte ne’ tuoi migliori anni nell’armi esercitato ti sii, non dovevi di meno conoscere quello che gli ozi e le dilicatezze possano ne’ vecchi, non che ne’ giovani. (IV.1, p. 278s)

In più, la giustificazione per aver scelto per amante un uomo di condizione umile si trasforma in una dichiarazione contro l’aristocrazia di sangue:
Guiscardo non per accidente tolsi, come molte fanno, ma con diliberato consiglio elessi innanzi ad ogni altro, e con avveduto pensiero a me lo ‘ntrodussi e con savia perseveranza di me e di lui, lungamente goduta sono del mio disio. (IV.1, p. 279)

Associandosi a una discussione iniziata dai filosofi medievali ed esaminata da Tommaso d’Aquino dal punto di vista della teologia cristiana, Boccaccio approfitta dell’occasione per pronunciarsi chiaramente in favore di una nobilitas animi e contro la nobilitas sanguinis della società feudale:
Ma lasciamo or questo e riguarda alquanto a’ princìpi delle cose: tu vedrai noi d’una massa di carne tutti la carne avere, e da uno medesimo creatore tutte l’anime con igual forze, con igual potenze, con iguali vertù create. La vertù primieramente noi, che tutti nascemmo e nasciamo iguali, ne distinse; e quegli che di lei maggiore parte avevano ed adoperavano nobili furon detti, ed il rimanente rimase non nobile. (IV.1, p. 279)

Così, Ghismonda, alla fine, si dichiara decisa a seguire la stessa sorte che il padre vorrà imporre a Guiscardo, cioè affrontare piuttosto la morte che sottomettersi alle convenzioni sociali e non lasciarsi privare della libertà di decidere della propria sorte, anche se questa libera scelta mette fine alla propria esistenza:
L’ultimo dubbio che tu movevi, cioè che di me farti dovessi, ciaccial del tutto via: se tu nella tua estrema vecchiezza a far quello che giovane non usasti, cioè ad incrudelir, se’ disposto, usa in me la tua crudeltà, la quale ad alcun priego porgerti disposta non sono, sì come in prima cagion di questo peccato, se peccato è; e per ciò che io t’accerto che quello che di Guiscardo fatto avrai o farai, se di me non fai il simigliante, le mie mani medesime il faranno. (IV.1, p. 280)

Persistendo nella sua visione dell’ordine sociale, il padre fa uccidere Guiscardo e manda alla figlia in una coppa il cuore dell’amante. Essa riempie la coppa di lacrime, vi aggiunge un veleno, beve questa miscela e muore. Al padre pentitosi ormai troppo tardi non resta che rispettare l’ultimo desiderio della figlia di essere sepolta nella stessa tomba insieme all’amante. Imperterrita come il padre, Ghismonda lancia così un ultimo messaggio al mondo.
La quinta giornata, sotto il reggimento di Fiammetta, ha per tema la conclusione felice delle disavventure amorose. La nona novella p. es. racconta di Federigo degli Alberghi che s’impoverisce per amore di una giovane vedova, Giovanna, che lo respinge però per fedeltà al marito defunto e si ritira per caso in una villa vicina alla casa di Federigo. Quando suo figlio malato le dice che solo il possesso del bel falcone di Federigo lo avrebbe guarito, la madre si vede costretta a richiedere questo favore particolare all’uomo che aveva respinto. Federigo si prepara allora alla visita della donna amata:
Ed oltre modo angoscioso, seco stesso maledicendo la sua fortuna, come uomo che fuor di sé fosse, or qua ed or là trascorrendo, né denari né pegno trovandosi, essendo l’ora tarda ed il disidéro grande di pure onorar d’alcuna cosa la gentil donna, e non volendo, non che altrui, ma il lavorator suo stesso richiedere, gli corse agli occhi il suo buon falcone, il quale nella sua saletta vide sopra la stanga; per che, non avendo a che altro ricorrere, presolo e trovatolo grasso, pensò lui esser degna vivanda di cotal donna. E però, senza pensare, tiràtogli il collo, ad una sua fanticella il fe’ prestamente, pelato ed acconcio, mettere in uno schedone ed arrostir diligentemente; e messa la tavola con tovaglie bianchissime, delle quali alcuna ancora avea, con lieto viso ritornò alla donna nel suo giardino, ed il desinare che per lui far si potea, disse essere apparecchiato. (V.9, p. 395)

Alla fine del pasto, la donna esprime finalmente il suo desiderio che l’ha spinta a prendere contatto con lui, e Federigo si dispera di non poterlo più soddisfare. Dopo la morte del figlio, quando Giovanna si vede costretta dalle circostanze a sposarsi di nuovo, sceglie Federigo perché questi si era dimostrato di animo nobile nei suoi confronti. È questa la novella che è servita alla critica tedesca dell’Ottocento per formulare la cosiddetta teoria del falcone (Falkentheorie) a proposito della tecnica narrativa di Boccaccio. Un oggetto oppure un animale domestico, come appunto il falcone di Federigo, simboleggia nella trama del racconto tutta la carica emotiva della vicenda per diventare il vettore degli scambi di valori o sentimenti tra i protagonisti, portando in sé il baricentro dei rapporti fra i personaggi.
Per la sesta giornata, la regina Elissa propone il tema di chi con parole spiritose o con saggio provvedimento si libera da situazioni più o meno spiacevoli, tematica quindi assai vicina a quella della prima giornata. Dióneo, re della settima giornata, impone a sua volta il tema delle beffe giocate dalle mogli ai loro mariti, continuando così il vasto panorama dei tradimenti intimi. Per l’ottava giornata, Lauretta ripropone questo tema della beffa, ma questa volta non più limitata alle situazioni del giorno precedente. Proclamata regina della nona giornata, Emilia lascia infine libera la scelta dell’argomento delle novelle. Spetta infine a Pánfilo il regno della decima giornata, il quale chiede agli altri di raccontare storie di atti liberali e magnifici compiuti per generosità d’animo. È questa la giornata che, più di ogni altra, mette in azione personaggi di grande rilievo, come principi e re dei quali si richiede appunto questa virtù. Finita l’ultima novella di cui parleremo fra poco in dettaglio perché rappresenta un caso particolare, il re propone alla brigata di tornare il giorno successivo a Firenze.
L’immenso successo che incontra il Decameron presso il pubblico si manifesta nella larga diffusione del testo nei manoscritti e nelle prime traduzioni in lingue volgari oppure, per alcune novelle, in latino.
Soprattutto le storie di Cimone (V.1), di Tito e Gisippo (X.8) e di Tancredi (IV.1), le prime due tradotte solo da Filippo Beroaldo (1453-1505) e l’ultima anche da Leonardo Bruni Aretino (1370-1444), furono diffuse in Europa in latino sui canali delle scuole e delle università, in edizioni principalmente di due tipi: o in fascicoli smilzi ed economici contenenti una sola novella, con grandi margini per appunti, destinati a studenti alle prime armi col latino, oppure incluse in fitte raccolte di testi per lo studio della retorica, ad uso delle facoltà delle artes, cioè di filologia. Verso la fine del Trecento, Antonio d’Arezzo traspone l’opera intera in latino, una versione che purtroppo non ci è pervenuta.
I 60 manoscritti del Tre- e Quattrocento che tramandano il testo originale, vengono diffusi per la maggior parte in un circuito estraneo a quello letterario tradizionale, legato spesso a un ambiente mercantile e cittadino. Imitato in seguito dalle Trecento novelle (1392-1396) di Franco Sacchetti oppure le Novelle (dopo 1400) di Giovanni Sercambi, il Decameron s’inserisce nella lista dei bestseller del periodo degli incunaboli. Il momento più critico nella fortuna della raccolta boccacciana è l’avvenimento della censura istituita dal Concilio di Trento, perché il Decameron viene elencato nel primo Index auctorum, et librorum della censura vaticana, stampato a Roma nel 1558, sotto la voce dell’autore: “Boccatij Decades, seu Nouellae centum quae hactenus cum intollerabilibus erroribus impressae sunt, et quae in posterum cum eisdem erroribus imprimentur.” Questi errori intollerabili già stampati in passato e che potrebbero ancora essere stampati in futuro, si riferiscono a tutti i personaggi ecclesiastici che, nei diversi racconti, si prestano per il loro comportamento poco conforme o al riso o alla critica morale.
Per non menare troppo in tentazione il pubblico italiano affezionato al Decameron e arrivare a un compromesso si prevede dalla prima edizione dell’Index librorum prohibitorum stabilito alla fine del Concilio e stampato a Venezia nel 1564, un’eventuale emendazione che porti rimedio alla situazione: “Boccacij Decades, seu nouellae centum, quandiu expurgatae ab ijs, quibus rem Patres commiserunt, non prodierint.” Per controllare questa purgazione augurata e permettere ai fedeli cattolici anche in futuro la lettura dell’opera boccacciana, l’Inquisizione romana commissiona nel 1573 a degli esperti fiorentini, tra i quali Vincenzo Borghini, il compito di risistemare il testo dell’originale, eliminando ogni forma d’eventuale incriminazione del clero cattolico, sostituendo tutti i monaci viziosi e preti perfidi con dei commercianti altrettanto libertini. Mentre quest’edizione rimane un’esperienza isolata perché suscita ampie polemiche tra i censori e gli esperti, la versione curata da Leonardo Salviati che modifica in maniera incisiva 48 novelle, conosce dal 1582 in poi una diffusione più lunga.
Mentre in Spagna una prima traduzione integrale in catalano vede la luce nel 1429, seguita da quella parziale in castigliano nel 1450, la Francia diventa uno dei territori più importanti per la diffusione dell’opera boccacciana. Dopo una prima trasposizione di Laurent de Premierfait verso 1414, probabilmente sulla base del testo latino d’Antonio d’Arezzo, intitolata Les Cent Nouvelles segue un’imitazione con il titolo delle Cent Nouvelles Nouvelles di un anonimo verso 1462. Marguerite de Navarre, sorella del re di Francia e lei stessa autrice di una raccolta intitolata Heptaméron (1559), ordina ad Antoine Le Maçon la traduzione integrale del 1545. Inoltre, il Decameron serve da fonte d’ispirazione ai novellieri del ‘500 come Bonaventure Des Périers per Les Nouvelles Recreations et Joyeux Devis (1558) e Jacques Yver Le printemps (1572), ai romanzieri del ‘600 e anche al celebre Jean de La Fontaine per i suoi Contes en vers (1685).
Sappiamo che le opere di Boccaccio in generale, e il Decameron in particolare, penetrano molto presto in Germania perché l’umanista Amplonius Ratinck di Erfurt che soggiorna in Italia per ottenere il dottorato di giurisprudenza, annota nei suoi appunti del 1401 l’acquisto di un manoscritto boccacciano. Nel corso del ‘400 si stabilisce un interesse sostenuto per questi testi che si manifesta in numerose copie dell’originale, in traduzione parziale e anche nella pubblicazione di novelle isolate, integrate spesso in trattati morali. Per la fortuna delle opere boccacciane in Germania sarà decisiva l’edizione illustrata della prima traduzione integrale in tedesco presso Johann Zainer nel 1473 a Ulm. Questo Decamerone, deutsch von Arigo, pseudonimo dietro il quale la critica moderna vede un certo Heinrich Österreicher, sarà ristampato con il titolo Das buch der hundert nüwen Historien dal 1509 al 1646 almeno 20 volte.
Sembra particolarmente indicativa l’interpretazione delle novelle di Boccaccio in Germania nella prima fase di ricezione, durante il ‘400, perché si trovano sempre integrate in riflessioni sul comportamento umano, sollevando l’autore al rango di un filosofo morale paragonabile a Seneca o Petrarca. Questa visione viene condivisa da Hans Sachs che ricorre ampiamente all’autore fiorentino: In tutto, 51 canti maestrali (Meistergesänge), 33 poesie gnomiche (Spruchgedichte), 13 favole carnevalesche (Fastnachtspiele), 6 commedie e 2 tragedie del famoso maestro cantore di Norimberga possono essere ricondotti, nei loro protagonisti o contenuti, al Decameron. Non sappiamo però in quale versione, originale o tradotta, oppure in quale adattamento le storie di Boccaccio siano arrivate fino all’autore norimberghese il quale, curandosi poco del messaggio dell’originale, si concentra di solito sul senso letterale del racconto.
In una seconda fase, durante il ‘500, l’interesse si sposta verso l’integrazione dei racconti oppure solo di motivi boccacciani nella tradizione delle facezie (Schwankliteratur) dove prosegue, con i mezzi dell’ironia tipica per il genere, a prevalere la carica morale dei racconti. Dell’ondata di testi spiritosi della seconda metà del ‘500 possiamo ritenere, fra i numerosi adattamenti, il Rollwagenbüchlein (1555) di Georg Wickram, la Gartengesellschaft (1556) di Jakob Frey, il Wegkürtzer (1557) di Martin Montanus, il Rastbüchlein (prima del 1558) di Michael Lindener e Wendunmuth (1563) di Hans Wilhelm Kirchhoff.
La terza parte di questo capitolo dedicato al Decameron di Boccaccio iniziato con la descrizione della tradizione medievale sulla quale si basa l’opera e completato con il riassunto delle innovazioni capitali nella concezione programmatica e nella tecnica narrativa della raccolta, è dedicata a un caso eccezionale quanto riguarda la fortuna e la trasformazione di una novella singola. Si tratta della decima novella della decima giornata, cioè l’ultima, chiamata anche la Griseldis, particolarmente prominente non solo quanto riguarda la sua posizione ma anche per l’elaborazione esemplare di un argomento morale di maggior rilievo.
Infatti, la novella racconta un’incredibile prova di magnanimità in forma di pazienza sovrumana dalla parte di una donna. L’autore l’annuncia così nel solito riassunto introduttivo:
Il marchese di Saluzzo, da’ prieghi de’ suoi uomini costretto di pigliar moglie, per prenderla a suo modo, piglia una figliuola d’un villano, della quale ha due figliuoli, li quali le fa veduto d’uccidergli; poi, mostrando lei essergli rincresciuta ed avere altra moglie presa, a casa faccendosi ritornare la propria figliuola come se sua moglie fosse, lei avendo in camicia cacciata e ad ogni cosa trovandola paziente, più cara che mai in casa tornàtalasi, i suoi figliuoli grandi le mostra e come marchesana l’onora e fa onorare. (X.10, p. 722)

La questione centrale della vicenda ispirata almeno parzialmente dalle opere in lingua francese di Marie de France, attiva alla corte inglese nella seconda metà del 12° secolo, viene introdotta come parte della caratterizzazione di Gualtieri, il protagonista maschile:
Già è gran tempo, fu tra’ marchesi di Saluzzo il maggior della casa un giovane chiamato Gualtieri, il quale, essendo senza moglie e senza figliuoli, in niuna altra cosa il suo tempo spendeva che in uccellare ed in cacciare, né di prender moglie né d’aver figliuoli alcun pensiero avea; di che egli era da reputar molto savio. La qual cosa a’ suoi uomini non piacendo più volte il pregaron che moglie prendesse, acciò che egli senza erede né essi senza signor rimanessero, offerendosi di trovargliel tale e di sì fatto padre e madre discesa, che buona speranza se ne potrebbe avere, ed esso contentarsene molto. A’ quali Gualtieri rispose: «Amici miei, voi mi stringete a quello che io del tutto aveva disposto di non far mai, considerando quanto grave cosa sia a poter trovare chi co’ suoi costumi ben si convenga, e quanto del contrario sia grande la copia, e come dura vita sia quella di colui che a donna non bene a sé conveniente s’abbatte. (X.10, p. 722)

Gualtieri acconsente finalmente a prendersi una moglie, ma al contrario di ogni consuetudine del tempo, pretende di scegliersela in tutta indipendenza sociale ed economica. E, infatti, allo stupore generale, sceglie Griselda, la figlia di un contadino, portandola via dal padre completamente nuda per rivestirla riccamente e investirla così simbolicamente della sua nuova posizione. L’idea fondamentale di Gualtieri è di mettere sua moglie alla prova e, benché Griselda, nonostante le sue origini modeste, occupi molto bene il suo posto di marchesa e sia benvoluta da tutti, queste prove sono durissime:
La giovane sposa parve che co’ vestimenti insieme l’animo ed i costumi mutasse. Ella era, come già dicemmo, di persona e di viso bella, e così come bella era, divenne tanto avvenevole, tanto piacevole e tanto costumata, che non figliuola di Giannùcolo e guardiana di pecore pareva stata, ma d’alcun nobile signore, di che ella faceva maravigliare ogni uom che prima conosciuta l’avea; […] (X.10, p. 725)

Nasce una figlia di cui il marchese dice di vergognarsi per l’umile discendenza della madre. La fa prelevare da un servo, apparentemente per farla uccidere. Lo stesso succede poco dopo alla nascita di un figlio. La madre soffre crudelmente, ma non lo manifesta e di fronte al marito si dimostra sempre lieta e sommessa. In realtà, i due bambini sono educati da parenti del marito a Bologna. Quando la figlia è arrivata all’età nubile, Gualtieri sottopone la moglie all’ultima prova, dicendo di voler passare a nuove nozze, questa volta degne del suo rango. Caccia Griselda dal castello vestita solo di una camicia, facendola simbolicamente ritornare alle sue origini sociali, per farla tornare poco dopo, ordinandole di preparare la festa di nozze e accogliere la nuova moglie:
Gualtieri, veggendo che ella fermamente credeva, costei dovere essere sua moglie, né per ció in alcuna cosa men che ben parlava, la si fece sedere allato e disse: «Griselda, tempo è ormai che tu senta frutto della tua lunga pazienza e che coloro, li quali mi hanno reputato crudele ed iniquo e bestiale, conoscano che, ciò che io faceva, ad antiveduto fine operava, volendoti insegnar d’essere moglie ed a loro di saperla tenere, ed a me partorire perpetua quiete mentre teco a vivere avessi; il che, quando venni a prender moglie, gran paura ebbi che non m’intervenisse; e per ciò, per pruova pigliare, in quanti modi tu sai ti punsi e trafissi. (X.10, p. 730)

Torturata da queste prove insensate, inventate deliberatamente dal marito per sondare le qualità psichiche della moglie prima privandola dei figli e poi rimandandola dai genitori per prendere una moglie più giovane, Griselda non sopporta soltanto le avversità atroci con la stessa serenità con la quale aveva salutato la buona fortuna. Sostenendosi con l’aiuto delle sue virtù tipicamente femminili di pazienza, costanza e gratitudine, essa non esprime mai il più piccolo desiderio di vendetta e accetta con un’equanimità inalterabile il suo destino. La novella finisce però con un commento molto ambiguo che capovolge all’ultimo momento il messaggio del racconto che fino alle ultime righe sembra essere la glorificazione assurda delle virtù femminili di pazienza e sommissione:
Che si potrà dir qui, se non che anche nelle povere case piovono dal cielo de’ divini spiriti, come, nelle reali, di quegli che sarien più degni di guardar porci che d’avere sopra uomini signoria? Chi avrebbe altri che Griselda potuto col viso non solamente asciutto ma lieto, sofferir le rigide e mai più non udite pruove da Gualtier fatte? Al quale non sarebbe forse stato male investito d’essersi abbattuto ad una che, quando fuor di casa l’avesse in camicia cacciata s’avesse sì ad un altro fatto scuotere il pilliccione, che riuscito ne fosse una bella roba. (X.10, p. 731)

Infatti, la conclusione amara sposta il significato della novella da un eventuale insegnamento per le donne d’imitare il modello della protagonista per diventare mogli perfette, a una dura lezione per gli uomini i quali, nella loro ricerca della coniuge ideale, non dovrebbero consultare solo i propri impulsi per non rischiare di espiare la giusta punizione del loro egoismo.
Francesco Petrarca, amico paterno e maestro spirituale di Boccaccio, riconosce subito il valore eccezionale di questa novella e manda all’autore un messaggio di ambiguo elogio, come abbiamo visto nel primo capitolo. Infatti, per renderla non solo accessibile a un pubblico internazionale ma innanzitutto per nobilitarla, conferendole la perfezione stilistica voluta dall’umanesimo latino, Petrarca la traspone in latino, con un titolo che dà risalto alle capacità di ubbidienza e alla fede della protagonista. Infatti, De insigni oboedientia et fide uxoria, incorporata in una lettera del traduttore all’amico, trasforma il contenuto del racconto di modo che il matrimonio di Griselda diventa una parabola del rapporto tra Dio e l’uomo in generale:
Hanc historiam stilo nunc alio retexere visum fuit, [...] ut legentes ad imitandam saltem femine constanciam exitarem, ut quod hec viro suo prestitit, hoc prestare Deo nostro audeant.

Nella versione di Petrarca, la soggezione totale di Griselda la quale, all’esempio di Giobbe nel Vecchio Testamento, soffre tutte le torture assegnatele senza mai lamentarsi, diventa la metafora del buon cristiano che affronta con lieto viso tutti i colpi della divina provvidenza:
Abunde ego constantibus viris ascripserim, quisquis is fuerit, qui pro Deo suo sine murmure patiatur quod pro suo mortali coniuge rusticana hec muliercula passa est.

Petrarca interpreta quindi l’attitudine eccezionale di Griselda come un’illustrazione della propria filosofia morale, esposta nel De remediis utriusque fortunae, sottolineando nella sua conclusione la possibile metafora religiosa che ne farebbe una leggenda cristiana sullo stesso livello dei martirologi della tradizione medievale.
Brevi dehinc inopi sponse tantum divini favoris affulserat, ut non in casa illa pastoria sed in aula imperatoria educata atque edocta videretur; atque apud omnes supra fidem cara et venerabilis facta esset, vixque his ipsis qui illam ab origine noverant persuaderi posset Ianicole natam esse, tantus erat vite, tantus morum decor, ea verborum gravitas ac dulcedo, quibus omnium animos nexu sibi magni amoris astrinxerat.

Grazie alla versione latina di Petrarca, alla quale si aggiunge nel ‘400 una traduzione latina più fedele di Leonardo Bruni Aretino, la storia di Griselda si stacca immediatamente dalla ricezione del resto del Decameron per entrare nel filone religioso delle parabole evangeliche e inserirsi finalmente nel fondo della letteratura popolare. Apprezzando Petrarca per la sua didattica morale e allo stesso tempo sensibilizzato da una serie di trattati medievali sul matrimonio, il pubblico europeo scopre in questa lotta fra virtù e fortuna non più tanto il senso che gli volle dare Boccaccio, bensì un racconto allegorico delle condizioni della vita umana, in particolare quella della donna destinata a inchinarsi umilmente davanti alle durezze della sua esistenza come figlia obbediente, moglie devota e madre affezionata.
Nel 1385-89, Philippe de Mézières ne integra una traduzione francese nel suo Livre de la vertu du sacrement de mariage et réconfort des dames mariées per presentare Griseldis come esempio a tutte le spose e mogli:
[...] un exemple solennel et plaisant à Dieu non tant seulement aus dames mariées d’amer parfaictement leurs maris mais à Toute ame raisonnable et devote d’amer entierement Jhesuchrist, son espous immortel.

Anche se, allo stesso tempo, la prima versione inglese nei Canterbury Tales di Geoffrey Chaucer segue nella sua elaborazione della storia piuttosto l’originale boccacciano, la ricezione britannica accetterà finalmente l’interpretazione petrarchesca, come si vede p. es. nel dramma di Thomas Dekker Patient Grissild della fine del ‘500.
Anche le prime versioni tedesche che si basano chiaramente sul testo di Petrarca, quella di Erhart Grosz verso il 1432 intitolata Grisardis e la seconda di Albrecht von Eyb nel 1472, privilegiano questa concezione della preparazione morale al matrimonio. Il fascino letterario della storia originale permette però anche una diffusione parallela della novella originale, p. es. nella traduzione di Heinrich Steinhöwel, Historia Griseldis, stampata ad Augusta nel 1471, e ancora quella di Johann Fiedler, Marggraf Walther, stampata a Dresda nel 1653. Quando Charles Perrault l’incorpora, nel 1695, nei suoi Contes en vers la storia di Griselidis ha assunto definitivamente lo statuto della fiaba popolare. La diffusione ampia dell’argomento favorisce anche la sua trasformazione in opere teatrali, dalla Grysel. Ain schöne Comedi von der demütigkait vnd gehorsame der Weyber gegen jren Ehmännern, zu nutz vnd dienst der Jugent gemacht vnd gstelt (1546) di Hans Sachs fino a un poema drammatico di Friedrich Halm (1835) e la commedia Griseldis (1909) di Gerhart Hauptmann.
Nel 1701, il poeta veneziano Apostolo Zeno scrive un libretto intitolato Griselda che nel 1718 sarà rappresentato con la musica di Antonio Maria Bononcini alla corte imperiale di Vienna, e poi rielaborato nel 1735 da Carlo Goldoni per Antonio Vivaldi. Sempre nel ‘700, il poeta tedesco Ludwig Heinrich Nicolay si appropria il soggetto per farne la sua romanza morale Griseldis (1788), e ancora la romanziera popolare Hedwig Courths-Mahler ne ricava una versione melliflua all’inizio del ‘900.
In ogni caso, la traduzione di Petrarca De insigni oboedientia et fide uxoria non rappresentò solo un eccezionale riconoscimento di stima per l’opera del suo amico, ma decise sicuramente della fortuna europea della novella.

 

Fonte: http://homepage.univie.ac.at/alfred.noe/Boccaccio/Boccaccio-4.docx

Sito web da visitare: http://homepage.univie.ac.a

Autore del testo: Noe

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