Divina commedia

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Divina commedia

Il mondo di Dante… breve viaggio all’Inferno!

Informazioni di carattere generale

Il titolo dell’opera

Il titolo originario dell’opera è Comedìa o Commedia. L’aggettivo “divina” fu aggiunto a partire dall’edizione veneziana del 1555 stampata da Giolito e Dolce. Più difficile è motivare la scelta del titolo dantesco, in quanto l’autore stesso offre indicazioni controverse. Nel De Vulgari eloquentia egli riprende la classificazione classica e medievale degli stili: uno stile elevato adatto alla tragedia, uno mediano per la commedia, uno umile per l’elegia. Ciò indicherebbe dunque una scelta in base a criteri stilistici, ma se tale indicazione può essere accettabile per le prime due cantiche, non lo è per la terza, in cui il registro è più elevato. In seguito Dante fornisce altre motivazioni riguardo al titolo della sua opera. Esse si trovano soprattutto nell’Epistola a Cangrande (il signore di Verona dedicatario del Paradiso) ove si dà come titolo il seguente: Incipit Comoedia Dantis Alagherii, fiorentini natione, non moribus (Comincia la Commedia di Dante Alighieri, fiorentino di nascita, non di costumi). Poi viene spiegata la definizione e il significato di commedia: “La commedia è un genere di narrazione poetica differente da tutti gli altri. Differisce dunque dalla tragedia in questo, che la tragedia all’inizio è pacata e tranquilla e alla fine è grave e orribile. La commedia invece presenta all’inizio elementi aspri, ma la sua materia termina felicemente. […] E’ dunque chiaro perché la presente opera è intitolata Commedia. Infatti, se guardiamo alla materia, essa è orribile e grave all’inizio, poiché tratta dell’Inferno, felice, gradita e accetta alla fine perché tratta del Paradiso”. Questa definizione riguarda dunque non tanto lo stile quanto la materia trattata. A parziale giustificazione di tali incongruenze, occorre osservare che probabilmente il disegno dell’opera si è evoluto progressivamente finendo per esulare dai canoni fissati in anticipo. Nel Paradiso, ad esempio, non compare mai la parola “comedìa”, come nelle prime due cantiche, per definire l’opera, ma la definizione è “sacrato poema”, che indica un’opera poetica in generale.
(tratto da: Dante Alighieri, La Divina Commedia,  ed. integrale a cura di Alessandro Marchi, Paravia, Varese 2005, pag. IX)

La composizione

[…] L’Alighieri dapprima (1294-95) aveva pensato di comporre un poema paradisiaco in onore della beata Beatrice, verosimilmente di stampo allegoristico:  e l’aveva iniziato in latino ma per volgerlo poi tosto in volgare, il quale gli parve meglio rispondente alle sue capacità; altri interessi poi lo distolsero e gli fecero dimenticare l’assunto. La riemersione di quel primo abbozzo fra le carte fiorentine e la sua restituzione al poeta allora esule in Lunigiana (1306) riaccesero l’Alighieri a quell’idea: che però veniva profondamente modificata nell’impostazione ed ampliata a tutti e tre i regni dell’Oltretomba.
Stesi i primi due canti (dove permangono alcuni pochi elementi del primitivo abbozzo) già in Lunigiana, passato quindi Dante in Casentino, dopo un breve momento di interruzione riprese in mano l’opera aggiungendovi altri cinque canti: e decise di pubblicare quel primo gruppo (1308) – e i primi sette canti non furono perciò più ritoccabili – nella speranza che la loro conoscenza riuscisse a favorirgli l’amnistia da parte dei Neri. Seguì un altro e più accentuato, stacco; poi l’Inferno fu steso fino al canto XVI: ed anche questa parte fu messa in circolazione, nell’ultimo periodo del soggiorno casentinese (1311).  I momenti più drammatici dell’impresa di Arrigo VII videro Dante abbandonare il Casentino, e l’opera nuovamente interrotta. La stesura della seconda parte dell’Inferno, anche stilisticamente ben diversa, fu più compatta; e l’intera cantica fu licenziata alla fine del 1314 (o primi mesi del 1315), quando l’Alighieri era ospite a Ravenna di Guido da Polenta; e la fulgida vittoria di Montecatini (agosto 1315) spinse il poeta a far avere ad Uguccione della Faggiuola copia della cantica.
Anche il Purgatorio, benché steso in periodo per l’esule meno turbolento (buona parte del 1315 e la prima metà del 1316) e senza gravi problemi di interruzione, fu pubblicato per gruppi di canti: dapprima i primi cinque (1315), poi un secondo gruppo (forse VI-XIII), infine gli altri (1316). Per il Paradiso il poeta inviò a Cangrande i primi otto canti (composti prima che il poeta si volgesse allo scaligero come al nuovo protettore), quindi un altro gruppo (se non due) fino al ventesimo, infine gli ultimi tredici. Quando l’Alighieri potè far avere allo Scaligero la cantica nella sua interezza (poco prima del 25 agosto 1320), la accompagnò con un’epistola ove affermava il desiderio di scriverne un commento, unitamente ad “alia reipublice utilia”: la Monarchia. Però egli attese invano che il Paradiso fosse pubblicato da Cangrande, allora preso da ben altre preoccupazioni: il poema nella sua integralità fu edito solo postumo (primavera 1322) a cura del figlio Jacopo a Ravenna.
Da questa minuta ricostruzione vengono illuminati, rivelandone le più riposte ragioni, giudizi politici ed inversioni di rotta; esclusa la revisione generale di ciascuna cantica prima della pubblicazione, avvenuta invece per gruppi di canti, ne escono finalmente spiegate incongruenze, contraddizioni e mutamenti di opinioni. Ne risulta insomma il quadro di un poema sofferto, lacerato, frutto di un lungo travaglio che fece davvero il poeta “per più anni macro”; e il ritratto, anche più sofferto, di un uomo, che la retorica ha reso mito, abituandoci  ad immaginarlo tutto d’un pezzo, immune dalla debolezza degli uomini: e che qui abbiamo incontrato umano, e patetico, e singolarmente sventurato.
Non tutti saranno pronti ad ammettere che nel “poema sacro” ricorrano errori e contraddizioni, preferendo forse il velo pietoso ed ipocrita di più sfumate elocuzioni. Ma è poi vero che la poesia, la grande poesia, non si nutra anche di errori e contraddizioni? Talvolta anzi la rendono più genuina, e perciò più fresca e più vera; e questa indagine, frutto tutta di mentalità e di metodo filologici, ha ambìto a capire intimamente la ragione del testo: e dunque dell’autore e della sua poesia.
(tratto da: Giorgio Padoan, Il lungo cammino del “Poema Sacro”, Studi Danteschi, Leo S. Olschki Editore, Firenze 1993, pagg. 122-123)

Il viaggio oltremondano

Nell’opera in questione viene narrato il viaggio compiuto da Dante dalla notte dell’8 aprile a quella del 14 dello stesso mese del 1300, che coincide col periodo pasquale di quell’anno. Tale data è facilmente desumibile dall’inizio del poema, in quanto Dante dice di trovarsi a metà della vita umana (alla quale secondo la concezione del tempo, ricavata dalla Bibbia, si attribuiva una durata media di settant’anni). Dunque al momento di intraprendere il viaggio il poeta ha trentacinque anni, ed essendo nato nel 1265, la data d’inizio del viaggio medesimo non può essere che il 1300. Secondo alcuni critici, tra cui il Sapegno, il viaggio sarebbe iniziato il 25 marzo, a Firenze, il primo giorno dell’anno, in quanto nella città toscana vigeva la datazione ab incarnazione (vale a dire al momento del concepimento di Cristo) anziché a nativitate (cioè dalla nascita di Cristo stesso). Il 1300 è anche l’anno del primo Giubileo, indetto da papa Bonifacio VIII. Questa ricorrenza religiosa, di origine ebraica, prevedeva l’indulgenza plenaria (cioè la remissione della pena dovuta per i peccati) a chi si fosse recato in pellegrinaggio a Roma.
Il viaggio oltremondano, che Dante dice di aver intrapreso, nasce quindi da un profondo bisogno di purificazione, di espiazione, di rigenerazione morale e spirituale, bisogno che non è solo individuale ma anche di gran parte delle coscienze del tempo e che s’inserisce in un clima storico e politico di crisi istituzionale, sul piano sia politico (decadenza dell’istituzione imperiale) sia religioso (prevalenza del potere temporale da parte del Papato su quello spirituale con conseguente  mondanizzazione della Chiesa, i cui effetti erano la simonia, il nepotismo, la corruzione, ecc.). I riflessi di tale condotta religiosa erano il disordine sociale e politico. La Firenze di Dante, con l’intenso e il rapido sviluppo commerciale ed economico avvenuto soprattutto a partire dalla seconda metà del Duecento, costituisce un microcosmo di tale disordine morale, che investe la società nel suo insieme e che vede l’abdicazione ai vecchi valori cavallereschi di cortesia, magnanimità, valore militare e il diffondersi generalizzato della sete di ricchezze e delle conseguenti aspre lotte intestine all’interno della stessa città. Dante medesimo resterà coinvolto in queste guerre interne tra Guelfi bianchi e neri, quando, ricoprendo la carica di Priore delle Arti (1300), sarà esiliato con falsa accusa di baratteria, lanciatagli dopo che i Neri, grazie alle subdole manovre di Bonifacio VIII, avevano ripreso il potere.
Dante, nel suo messaggio profetico, annuncia la venuta di un “veltro”, cioè di un riformatore spirituale che avrebbe riportato l’umanità sulla retta via. Lui stesso, col quale il “veltro” potrebbe identificarsi, si sente investito di una missione profetica e divina, come gli confermerà il suo avo Cacciaguida in paradiso, volta alla rigenerazione spirituale dell’umanità.
(tratto da: Dante Alighieri, La Divina Commedia,  ed. integrale a cura di Alessandro Marchi, Paravia, Varese 2005, pagg. IX-X)

La cosmologia dantesca

            Riguardo al modo di concepire il cosmo, Dante si rifà sostanzialmente alla teoria dell’astronomo greco Tolomeo, vissuto nel II secolo d.C., e detta appunto tolemaica o geocentrica, la cui validità sarà messa in discussione solo da Copernico (1473-1543). La terra è ritenuta sferica e si trova al centro dell’universo, che in pratica coincide col sistema solare. Essa fa parte del mondo sublunare (quello al di sotto del cielo della Luna) ed è separata da quello celeste dalla sfera del fuoco. Al di sopra di essa ruotano nove sfere concentriche, comprese da una decima, l’Empireo, immobile e sede di Dio e dei beati. I pianeti sono incastonati nei vari cieli a cui danno il nome. La terra è costituita da due emisferi, quello artico o boreale, o delle terre emerse, e quello antartico o australe o delle acque. Il primo è abitato, a differenza del secondo completamente disabitato. I confini del primo sono costituiti a est dal fiume Gange e ad ovest dalle Colonne d’Ercole (l’attuale stretto di Gibilterra).
Nei pressi di Gerusalemme, che si trova esattamente al centro delle terre emerse dell’emisfero boreale, si trova l’ingresso dell’inferno; questo è costituito da una immensa voragine a forma d’imbuto, formatasi in occasione della ribellione a Dio di una parte degli angeli guidati da Lucifero; essi vennero infatti precipitati sulla terra, che, per evitare di riceverli, si aprì dando luogo appunto alla suddetta voragine. La massa di terra eccedente andò a costituire la montagna del purgatorio, al centro dell’emisfero delle acque, raggiungibile tramite un cunicolo (o “natural burella”) che collega il centro della terra, ove si trova Lucifero, con la spiaggia del purgatorio.
(tratto da: Dante Alighieri, La Divina Commedia,  ed. integrale a cura di Alessandro Marchi, Paravia, Varese 2005, pagg. XI)

L’inferno

            È costituito da nove cerchi che vanno via via restringendosi, alcuni dei quali sono suddivisi in gironi, in bolge o fosse e in zone. La porta dell’inferno immette nell’antinferno, il luogo dove sono collocati gli ignavi, non ritenuti degni, per la loro sostanziale vigliaccheria o incapacità di prendere posizione, di stare nell’inferno vero e proprio. Quest’ultimo è delimitato dal fiume Acheronte, attraverso il quale il demonio Caronte ha il compito di traghettare le anime dei morti.
Successivamente troviamo il primo cerchio che coincide con il limbo, il luogo dove si trovano i bambini non battezzati, e coloro che, essendo vissuti prima di Cristo, non hanno potuto abbracciare la fede cristiana. Dal secondo cerchio in poi cominciano a essere puniti i peccatori veri e propri secondo una classificazione generale, elaborata sulla scorta dell’etica di Aristotele, in base al tipo di peccato:

  • peccati d’incontinenza (quelli puniti dal secondo al quinto cerchio: lussuria, gola, avarizia e prodigalità, ira e accidia);
  • di violenza (puniti nel settimo cerchio, suddiviso in tre gironi: dei violenti contro il prossimo e le sue cose, dei violenti contro se stessi, dei violenti contro Dio e la natura);
  • di fraudolenza (comprende l’ottavo cerchio, ove sono puniti coloro che hanno usato la frode contro chi non si fida, suddiviso in dieci bolge: quelle dei ruffiani e seduttori, adulatori, simoniaci, indovini, barattieri, ipocriti, ladri, consiglieri fraudolenti, seminatori di discordia, falsari; il nono cerchio, ove sono puniti i traditori di coloro che hanno usato la frode contro chi si fida, ed è suddiviso in quattro zone: Caina [traditori dei parenti], Antenora [della patria], Tolomea [degli ospiti], Giudecca [dei benefattori]).

Resta a parte il sesto cerchio. Ove sono collocati gli eretici. Sono presenti anche altri due fiumi, lo Stige, che forma una palude tra il quarto e il quinto cerchio, sotto le mura della città di Dite, e il Flegetonte, nel primo girone del settimo cerchio, ove sono immersi gli omicidi. Da ricordare anche la palude ghiacciata di Cocito che occupa il nono cerchio. Lucifero, in forma d’immenso mostro con tre teste, dalle ali di pipistrello, è collocato al fondo dell’inferno, che coincide col centro della terra. Muove costantemente le ali per mantenere ghiacciata la palude e strazia nelle tre bocche Bruto, Cassio (traditori e uccisori di Cesare) e Giuda (traditore di Cristo).
Nell’inferno vige la legge penale del contrappasso.
(tratto da: Dante Alighieri, La Divina Commedia,  ed. integrale a cura di Alessandro Marchi, Paravia, Varese 2005, pagg. XI)

L’epistola a Cangrande della Scala (traduzione di Nicola Maggi)

Al magnifico e vittorioso Signore, messer Cangrande della Scala, del sacratissimo Principato cesareo nella città di Verona e di Vicenza vicario generale; il suo devotissimo Dante Alighieri, fiorentino di nazione, non di costumi, prega vita lungamente felice e perpetuo incremento del nome glorioso.
[…] Per ciò, chi intende fare alcun proemio alla parte di un’opera, ben si conviene che prima dica qualche cosa del tutto a cui quella porzione appartiene. Così io, desiderando ragionare alquanto, a mo’ di proemio, della sopra detta parte della Comedia (il Paradiso), ho pensato esser utile dir prima qualche cosa di tutto il lavoro, perché più compiuta e più chiara riesca la introduzione alla parte. Frattanto, sei sono le cose da cercarsi in ogni opera dottrinale: il subbietto, l’agente, la forma, il fine, il titolo del libro e il genere di filosofia […].
Per maggior chiarità del discorso è in prima da notare che questa opera non ha un sol significato, ma più d’uno ne ha; cioè è polisensa: dacché l’un senso si ha per lettera, l’altro per le cose della lettera significate: e il primo  è però letterale, l’altro allegorico, ovver morale o anagogico. Le quali significazioni si possono, a maniera di esemplo, veder in que’ versi: “Quando Israele si partì dall’Egitto e la casa di Giacobbe da un popolo barbaro, la nazione giudea venne consacrata a Dio e Israele diventò suo dominio”. Dove, se si rimane alla lettera, abbiam significato lo esodo de’ figlioli d’Israello dall’Egitto, a tempo di Moise; se alla allegoria, la redenzione nostra per Cristo; se al senso morale, la conversione dello spirito dal pianto e dalla tristizia del peccato allo stato di grazia; se l’anagogico, il trarsi dell’anima santa dal servaggio presente corruttibile stato alla libertà della eterna gloria. E quantunque variamente si chiamino questi mistici stati, tutti in genere, posson dirsi allegorici perché dal senso letterale o storico lontani: dacché allegoria viene da άλλοίος , greca voce che nel latino vale alieno o diverso.
Fermato questo ne conséguita che doppio debb’esser il subbietto intorno al quale discorrano gli alterni sensi. Epperò è da cercare primamente il subbietto di questa opera quanto alla lettera; poi quanto alla sentenza sua allegorica. Quanto alla lettera esso è dunque questo: lo stato delle anime dopo morte, considerato semplicemente; poiché di quello e intorno a quello il processo di tutta l’opera intende; e quanto al senso allegorico, n’è soggetto l’uomo, che per suo libero arbitrio bene o male operando, aspetta il premio o il castigo della Giustizia.
Duplice poi ne è la forma, quella del trattato e quella del trattare. La prima si divide in tre parti, e però è triplice; ché tutta l’opera si divide in tre Cantiche, ciascuna delle quali in Canti e i Canti in ritmi. Il modo della trattazione è poetico, fittivo (immaginifica), descrittivo, digressivo (che presenta delle digressioni), transuntivo (riassuntiva) e, oltre a ciò definitivo, divisivo (capace di predicare vari aspetti di un oggetto), probativo (che spiega quello che dice quando ciò è possibile), improbativo (che non spiega ciò che è materia di fede), positivo di esempli […].
Il fine dell’opera e di parte di essa può esser molteplice, ovvero prossimo e remoto: ma, evitando ogni sottigliezza, brevemente diremo esser fine del tutto e della parte il rimovere i viventi dallo stato di miseria per drizzarli a quello della felicità.
Finalmente il genere di filosofia, al quale il tutto e la parte son vòlti, è la morale pratica, o l’etica; però che non alle speculazioni, ma alle opere fu intrapreso tutto il lavoro […].
(tratto da: Alighieri Dante, DanteTutte le opere, a cura di I. Borzi, G. Fallani, N. Maggi, S. Zennaro, Newton (Grandi Tascabili Economici Newton) Roma 2005, pagg. 1178-1191.

Un’indagine sul male del mondo

Il fondamento etico della Commedia: La Divina Commedia si regge su di una struttura etica, su di un’opposizione assoluta: bene contro male. Il difficile e avventuroso viaggio è soprattutto un percorso morale, una riconquista etica attraverso l’acquisizione della piena consapevolezza del male. Solo conoscendolo a fondo, esso può essere rifiutato. Per due terzi (Inferno e Purgatorio) la Commedia è una rassegna della fenomenologia del male, un’indagine capillare, minuziosa, classificatoria sulla sua natura multiforme, secondo le gradazioni di gravità che gli sono proprie, fino alla contemplazione e alla presa di coscienza del male assoluto, metafisico, materializzato in Lucifero al centro della terra. Si parte dal male per arrivare al bene. Il male nella sua concretezza visibile è il buio, quello dell’oscurità della selva (“mi ritrovai per una selva oscura”), o “l’aere perso” del “cieco carcere” infernale, dal quale sono bandite le stelle; ma a livello morale è il prevalere degli istinti, non più guidati e corretti dalla ragione, che hanno spinto l’uomo Dante “in basso loco”, nella “selva selvaggia”. Per uscire dalla condizione di bruto occorre il pieno recupero delle facoltà razionali, dominatrici degli istinti di natura animalesca.

La fenomenologia del male: Il male è l’eccesso, la smoderatezza, la mancanza di senso della misura, il disconoscere la funzione calmieratrice e saggia della temperanza. In questo senso il male può assumere aspetti differenti: è l’amore quando diventa sessualità sfrenata, non più sorretta da alcun principio morale (lussuria, come nel caso della tragica e appassionante vicenda di Paolo e Francesca rievocata nel V dell’Inferno o per le anime della settima cornice del Purgatorio); è l’ingordigia compiaciuta di chi sfoga le proprie brame edonistiche sul cibo, la bulimia elevata a principale ragione di vita che sottrae preziose risorse di cibo a chi vive di una dieta povera, capace a stento di placare la fame (i golosi del terzo cerchio dell’Inferno o quelli della sesta cornice del Purgatorio); è l’avarizia (quarto cerchio infernale, quinta cornice del Purgatorio), elevata a sistema di vita nel disconoscimento della natura del denaro quale strumento per vivere e nella sua identificazione, invece, di scopo unico della vita, un idolo pagano a cui tutto sacrificare; è il suo contrario, la prodigalità (assimilata all’avarizia e punita nello stesso luogo): lo sperpero scriteriato, indifferente ai bisogni materiali dei più, che non dispongono nemmeno del necessario; è il lasciarsi annebbiare dai fumi dell’ira (quinto cerchio infernale, terza cornice del Purgatorio), che rendono smodate, sproporzionate, spesso violente, le nostre azioni rispetto a quanto richiesto dalle circostanze; è il tarlo paralizzante dell’accidia (stessa collocazione dell’ira nell’Inferno, quarta cornice nel Purgatorio), che impigrisce l’animo fino all’inazione, fino all’intorpidimento morale; è la violenza contro l’uomo, la natura, Dio nelle forme dell’omicidio e del suicidio, della sodomia, della blasfemia (settimo cerchio infernale). Il male è l’inganno, la frode, il tradimento perpetrato a danno degli altri, magari carpendo la loro buonafede, che può assumere una multiforme se non infinita varietà di comportamenti illeciti (ottavo e nono cerchio infernale); la loro materializzazione è esemplificata dal mostro Gerione che Dante e Virgilio incontrano sul limitare del settimo cerchio dell’inferno (XVII, 1-3 e 10-15).

“Ecco la fiera con la coda aguzza,
che passa i monti e rompe i muri e l’armi!
Ecco colei che tutto ‘l mondo appuzza!”.
[…]
La faccia sua era faccia d’uom giusto,
tanto benigna avea di fuor la pelle,
e d’un serpente tutto l’altro fusto;
due branche aveva pilose insin l’ascelle;
lo dosso e ‘l petto e ambedue le coste
dipinti avea di nodi e di rotelle.

Nella raffigurazione del mostro dalle tre nature (umana, di serpente, leonina) il male è colto nei suoi aspetti subdoli, ingannevoli; l’intenzione malefica è nascosta nel suo contrario (la faccia dell’uomo per bene), ma si rivela nel corpo di serpente (animale biblico, personificazione del demonio), nella coda biforcuta pronta a colpire, così come nelle leonine zampe artigliate, strumento di offesa per recare danno a chi non se lo aspetta. I “nodi” e le “rotelle” dai vividi colori sembrano, con le loro geometrie, richiamare i raggiri, le arzigogolate manovre tipiche di chi intende ingannare qualcuno. Il disprezzo verso questa tipologia di male è metaforicamente tradotto in una forte sensazione olfattiva, resa da un verbo scelto dal registro volgare (appuzza) che rende appieno il disgusto fisico e morale insieme.

Il male individuale causa dei mali della società e della Chiesa: Ma per Dante i vizi e i peccati appena ricordati non hanno solo un valore individuale, non riguardano unicamente la sfera privata, non sono un fatto personale da risolvere nell’intimo della propria coscienza; essi hanno un effetto destabilizzante sulla società, ne minano le fondamenta, ne turbano l’ordinato assetto regolato dalle leggi che devono ispirarsi a criteri di giustizia umana, quale riflesso di quella divina. Il disordine morale individuale si ripercuote e si amplifica sul consesso civile con conseguenze nefaste sulla vita pubblica. Il male è in primo luogo la corruzione di chi ricopre cariche pubbliche (baratteria, canti XXI e XXII dell’Inferno). Paradossalmente il fustigatore di tale vizio è lo stesso Dante che, accusato falsamente di tale reato, ha pagato duramente con l’esilio, preannunciatogli dall’avo Cacciaguida nel XVII del Paradiso: “Tu proverai sì come sa di sale lo pane altrui; e come duro calle è lo scendere e ‘l salir per l’altrui scale” (vv. 58-60). Il male è la lupa (allegoria dell’avarizia o cupidigia) che “mai non empie la bramosa voglia e dopo ‘l pasto ha più fame che pria” (Inferno I, 98-99), quella cupidigia che è alla base di tanti comportamenti illeciti e che ha attecchito col suo tarlo inestinguibile anche nella Chiesa, nel seno della quale eminenti pastori sono preda della simonia (il vituperato commercio di cariche ecclesiastiche), volta ad arricchire magari i propri consanguinei attraverso disinvolte pratiche nepotistiche, che li avvantaggiano cioè nel raggiungimento di cariche ecclesiastiche (a tale riguardo si vedano i versi 52-117 del canto XIX dell’Inferno e i versi 22-66 del canto XXVII del Paradiso).

Il male è ingerirsi in ambiti che non sono propri: i casi del Papa e dell’Imperatore: Il male è andare oltre la sfera di competenza, ingerendosi in questioni non di propria pertinenza, dando luogo a uno snaturamento della propria missione. È il caso dei papi simoniaci, richiamato sopra, che interferiscono col potere temporale, prerogativa esclusiva dell’imperatore. Arrogandosi compiti non più spirituali ma politici, costoro si lasciano invischiare in intrallazzi e beghe mondane che fanno loro smarrire l’ideale evangelico della povertà, della semplicità, della prevalenza dei valori spirituali e morali su quelli falsi della ricchezza, del potere, dei piaceri. Ma è anche il caso degli imperatori che trascurano il dovere di prendersi cura dell’impero, senza cercare di riaffermare la propria autorità su chi se n’è appropriato ingiustamente; ecco allora il grido disperato di “Roma che piagne vedova e sola, e dì e notte chiama: Cesare mio, perché non m’accompagne?” (Purgatorio VI, 112-114); o l’accorata apostrofe all’Italia (“Ahi serva Italia, di dolore ostello, nave sanza nocchiere in gran tempesta, non donna di province ma bordello!” – Purgatorio VI, 76-78): l’Italia è dunque una nave senza guida (quella dell’imperatore) in una grande tempesta, non più signora di province, ma luogo di malvagità e corruzione. Ai papi spetta quindi il potere spirituale, agli imperatori quello temporale, senza sovrapposizioni, in quanto se ciò avviene, se cioè “è giunta la spada col pasturale, e l’un con l’altro insieme per viva forza mal convien che vada” (Purgatorio XVI, 109-111): quando il potere temporale è congiunto con quello spirituale nella stessa persona necessariamente entrambi procedono malamente.

Il male è la modernità e l’abbandono degli antichi valori: Il male è anche l’abbandono di “valore e cortesia”, come afferma Marco Lombardo, cortigiano saggio e generoso, nel canto XVI del Purgatorio, cioè il valore militare e la generosità, due tipiche virtù cavalleresche ormai sempre più rare. Esse sono ormai state soppiantate dalla brama dei “subiti guadagni”, del rapido arricchirsi, favorito dalla nuova realtà comunale borghese che ha sostituito la vecchia classe nobiliare feudale e ha introdotto nuove mentalità e nuovi costumi di vita. Dante non sembra rassegnarsi a questo cambiamento che, dal suo punto di vista conservatore, gli fa apparire “lo mondo… ben così tutto diserto d’ogne virtute… e di malizia gravido e coverto” (Purgatorio, XVI, 58-60).
Il male è l’eccesso di fiducia nelle proprie capacità razionali per raggiungere la verità: Inizialmente abbiamo affermato che per ritrovare la via del bene occorre il pieno recupero delle facoltà razionali, dominatrici degli istinti di natura animalesca. Ma l’uomo che, insuperbito di tale riscatto, intenda confidare esclusivamente nella propria intelligenza per arrivare all’ambizioso e ambito obiettivo della verità suprema, corre il rischio di sopravvalutare se stesso, creatura imperfetta, debole, caduca, quindi bisognosa di aiuto, al fine di essere orientato nel difficile, intricato e fuorviante percorso esistenziale. Dante fa affidamento su se stesso e sulle proprie capacità intellettuali: “O Muse, o alto ingegno, or m’aiutate” (Inferno II, 7), invoca nell’accingersi alla lunga narrazione del difficoltoso e impegnativo viaggio; l’alto ingegno è il suo, ma non può essere sufficiente, tanto che si avvarrà di un’esperta guida, Virgilio, e di un’altra addirittura beata (Beatrice, la grazia divina) per concludere con l’ausilio di un santo (san Bernardo). Chi commetterà l’errore di presumere di far tutto da solo, sarà destinato a perire, come l’indomito Ulisse (Inferno XXVI), pur animato e sospinto dalla nobile causa della sete di conoscenza, una sete inestinguibile nella realtà terrena, appagabile completamente solo in quella ultraterrena:

gittò voce di fuori, e disse: “Quando
mi dipartì da Circe, che sottrasse
me più d’un anno là presso a Gaeta,
prima che sì Enea la nomasse,
né dolcezza di figlio, né la pieta
del vecchio padre, né ‘l debito amore
lo qual dovea Penelopé far lieta,
vincer potero dentro a me l’ardore
ch’i’ ebbi a divenir del mondo esperto,
e de li vizi umani e del valore;
ma misi me per l’alto mare aperto
sol con un legno e con quella compagna
picciola da la qual non fui diserto.
[…]
“O frati”, dissi “che per cento milia
perigli siete giunti a l’occidente,
a questa tanto picciola vigilia
d’i’ nostri sensi ch’è del rimanente,
non vogliate negar l’esperienza,
di retro al sol, del mondo sanza gente.
Considerate la vostra semenza:
fatti non foste a viver come bruti,
ma per seguir virtute e canoscenza” […]”.
(tratto da: Dante Alighieri, La Divina Commedia,  ed. integrale a cura di Alessandro Marchi, Paravia, Varese 2005, pagg. 28-31)

La configurazione interiore della “Divina Commedia”
Chi, dopo una lettura attenta della Divina Commedia si volge indietro a considerare l’intero poema, vede spiegarsi davanti agli occhi l’immagine di una immensa peregrinazione. Giova molto, infatti, al possesso approfondito di un testo poetico guardarsi indietro ed enuclearne le linee fondamentali: come se avessimo percorso un paese montuoso, visto pascoli, boschi, abissi, cime e da un’ultima vetta apparisse ai nostri occhi la struttura fondamentale, il “segno”, come direbbe Holderlin, di tutto il sistema montuoso… Chi ha vissuto così la Divina Commedia, ha incontrato spiriti soli o in ischiera, ha provato l’oscurità o il tormento, ma anche la crescente liberazione  e l’infinità della luce, e alla fine si volge indietro, scorge la linea di una peregrinazione che conduce attraverso tutti i regni dell’essere e sintetizza ciò che chiamiamo mondo e vita umana.
L’Iliade ci appare come una grande distesa ondosa. La lunga lotta per la città ne è non solo il contenuto, ma anche il “segno”. Tale è l’ampiezza del suo respiro che il lettore non pensa affatto che qui si narri semplicemente un episodio della guerra troiana, in particolare l’ira di Achille; involontariamente egli vede nel poema tutta la guerra e il destino degli eroi: la Grecia intera rifulge lì intorno. L’Eneide sta sotto il segno della migrazione e della fondazione, determinata dalle forze del fato e della pia ubbidienza. Tutto vi è ridotto all’essenziale: personaggi ed avvenimenti sono rigorosamente delineati e da essi procede l’imponente realtà storica dell’impero romano. Il Re Lear è come un blocco di destino. Già nelle prime scene, per chi sa vedere, è contenuto il tutto, e il seguito significa soltanto lo svolgimento che ineluttabilmente si compi. Se invece dalla lontananza del ricordo si ripensa alla Divina Commedia si vede l’uomo Dante scendere, per amore della sua salvezza, nell’Inferno con tutte le energie in tensione, risalire il monte della purificazione ed essere sollevato attraverso tutti i cieli, sperimentando tutta la colpa, la sofferenza, la grazia e la gloria, finché il suo cammino termina bruscamente in un ultimo improvviso appagamento.
Ma vogliamo essere ancor più precisi. Poiché le cose belle manifestano tutta la loro bellezza solo quando sono contemplate nell’esatta luce: anche l’Odissea è peregrinazione, viaggio. Determinata, sì, dal fato e colma del peso della nostalgia, eppure tutta animata dal gusto dell’avventura. Quel destino, infatti, è quello appunto di Odisseo, prototipo di tutti coloro che affrontano gli spazi aperti; e la nostalgia è soltanto un tratto del suo carattere, l’altro è la brama e la vastità del mondo. La peregrinazione di Dante, invece, non ha nulla dell’avventura, ma è profondamente seria, poiché vi si gioca il destino eterno della persona. Esso avviene per grazia e consenso di Dio, ma anche nel segno della sua giustizia e del suo incondizionato comando. Perciò tutto in essa è raccolto e conciso. Mai una calma divagazione o una febbrile scoperta. Sempre risuona l’esortazione: “Avanti, il tempo è breve!”. Giustamente è stato osservato che l’opera lascia l’impressione di una tensione sempre crescente, nonostante l’ampliarsi degli orizzonti, cosicché l’inaudita chiusa, che non ha davvero nulla di simile nella poesia di tutti i tempi, è insieme vissuta come il venir meno della forza umana. Dopo gli ultimi versi del trentatreesimo canto del Paradiso tutto, argomento ed energie, è veramente alla fine, ma anche tutto è compiuto e giunto alla pienezza. Questa meta evoca e determina l’intera vicenda della Divina Commedia.
Un moto possente percorre il poema. Esso però non scaturisce dalla volontà personale del pellegrino o, per essere esatti, anche da essa, ma solo perché scaturisce dalla volontà di Dio.
La vicenda ha inizio nel momento in cui Dante lotta con mortali lacci. Dopo la morte di Beatrice egli è decaduto dall’alto imperativo, che l’amore di lei aveva significato per lui. Con l’immagine di lei, egli ha perduto anche la propria, e il senso dell’esistenza minaccia di sfuggirgli. Questa è la selva oscura del primo canto. Egli può superare il pericolo più immediato ed esce a fatica dalla selva. Ma i demoni del male che gli balzano incontro dall’esterno e insieme gli si sollevano nell’intimo gli impediscono di raggiungere il colle luminoso, l’altezza a cui è destinato. Appare allora Virgilio, maestro per Dante di poesia e creatore del mito di Roma, e porta un messaggio: Dante non può raggiungere direttamente la cima del colle: Dio, e in Dio Beatrice e la propria salvezza. Il male è l’ostacolo e deve essere domato. Così la via che conduce ala conquista della più personale autenticità di Dante deve passare attraverso la più remota lontananza: il mondo. Dante dovrà misurare tutta l’esistenza; ma com’essa è nell’eternità. Egli dovrà percorrere l’Inferno, il monte della purificazione e l’ordine delle sfere celesti per conoscervi la storia e la vita degli uomini, ma non più in speculo et in aenigmate, bensì giudicate da Dio e perciò manifestate.
Il messaggio significa grazia. Nessuno con le proprie forze può varcare i confini. Tentarlo sarebbe fantasticheria o magia. È dato varcarli veramente soltanto a chi muore o a colui cui è concessa la visione; quella visione che si deve compiere non solo nello sguardo della contemplazione, ma anche nel fare e nel divenire interiore.
Così Dante fin dal primo momento si assoggetta a una guida e a un comando. Per parte sua il monte sarebbe perduto; giunge però un messaggero che promette salvezza e lo esorta a seguirlo: Virgilio (Inferno 1, 61-63).
Virgilio ora racconta che a sua volta gli è giunto un messaggero: Beatrice (Inferno II, 52-75). Ella – creatura celeste e insieme tutta umana, immersa nell’amore di Dio e tuttavia così calda d’affetti per il suo amico che gli occhi, pur beata, le si riempiono di lagrime quando parla “soave e piana” delle ambasce di lui (Inferno II, 116) – è scesa nell’Inferno da Virgilio e l’ha pregato di voler soccorrere Dante. Ma anche Beatrice non agisce solo per l’impulso personale della donna amante, poiché ella stessa è inviata da Lucia, la vergine e martire siracusana che Dante ha in grande venerazione e considerazione come la personificazione della grazia, quella forza luminosa che viene dall’alto e muove il volere (Inferno II, 97-102). Lucia viene, a sua volta, per incarico della Madre del Signore (Inferno II, 94-99). Ma questo incarico ha potuto essere dato solo perché Maria, colei che intercede in tutti i bisogni umani, ha spezzato con la semplice potenza della sua intercessione il “duro giudizio” dell’eterna giustizia. Qui siamo alle origini, oltre le quali non si può risalire: al mistero della decisione divina, rappresentato come in una infinita lontananza oltre, in alto, dentro.
Da questo aldilà cui non si può giungere partendo dalla selva e dai suoi impedimenti; dalla libertà di Dio sottratta ad ogni potenza terrena e solo da sé nascente, viene l’altro moto, anzi il primo, quello che suscita e crea. Ma non in modo diretto, folgorante e sconvolgente, bensì mediante persone. L’inviato diventa a sua volta colui che invia e trasmette l’ordine. Una catena di mani soccorritrici giunge dall’altezza inaccessibile di Dio fino alla concretezza presente del luogo, dell’ora e del bisogno di questo uomo particolare. È già grazia che Dante non sia perito nei terrori della selva. Ciò che egli prova, l’esser riuscito come un naufrago a raggiungere la riva allo stremo delle forze, è la manifestazione terrestre visibile di una vicenda segreta che dal mistero di Dio giunge a lui lungo la santa catena dell’amore soccorrevole. Il superamento del grande pericolo è il risultato unitario degli aiuti inviati e della lotta di Dante nella selva.
Ciò che viene da Dio continua poi sempre a operare. In ogni momento del suo pellegrinaggio Dante può tendere al suo fine solo perché è chiamato e come portato. Ciò appare anzitutto nelle sue guide. Egli non va mai solo, non perché sia debole – cristianamente non autonomo, mentre l’eroe pagano è ardito – ma perché l’uomo tanto più diviene se stesso, quanto più la grazia domina in lui. Appunto in questo suo osare con la grazia stanno l’eroismo e l’ardimento, nella misura in cui questi concetti qui non mutano di significato.
Virgilio guida attraverso l’Inferno, fino al fondo del peccato. Guida sino all’estrema svolta che si opera nella piena conoscenza del male e lungo l’ascesa della “natural burella”, che segue a quel rivolgimento. E infine su per le balze del monte della purificazione, dove il pellegrino vede come il bene trapassi nell’essere, si realizzi, nella forma dell’espiazione. Dopo il passaggio della parete di fuoco, Virgilio lo lascia libero: Dante ora è fatto arbitro di se stesso e può render conto di sé a Beatrice (Purgatorio 27, 127-141). Dopo il soave intermezzo nella libertà del Paradiso terrestre, dove Dante s’incontra con Matelda che è come la personificazione del sacro giardino (Purgatorio 28, 37-39, e 31, 91-105). Dante è di nuovo guidato: Beatrice lo solleva di cielo in cielo, fino all’Empireo, spazio dell’assoluta trascendenza. Là essa ritorna al suo posto e a Dante s’avvicina Bernardo, il maestro della contemplazione (Paradiso 31, 55-69). Questi implora per il pellegrino ormai purificato l’intercessione della Regina del Cielo che gli ottiene l’ultima conoscenza la quale di nuovo non si attua nella forma di una penetrazione per impulso proprio, ma come una folgorazione che avviene nel suo spirito (Paradiso 33).
Il pellegrino può dunque procedere solo perché la grazia gli è venuta incontro e continuamente lo soccorre. Questo è possibile in ogni momento per opera della grazia, senza che per altro Dante sembri essere soltanto portato, ché anzi egli fino all’ultimo impegna tutte le sue forze.
Il pellegrinaggio parte dalla terra e arriva al cielo. È bella la descrizione di Dante che, poco prima dell’ultima ascesa, vede giù in basso la terra (Paradiso 22, 133-153). Il punto di partenza è sempre lì presente e percepibile. Sempre lo circonda una realtà storica, sebbene assunta nell’eternità. Sempre avvertiamo il grande trapasso dell’uomo dal tempo all’eterno, poiché tutti gli innumerevoli spiriti che Dante incontra sono venuti appunto dalla terra. Nello stesso tempo però il richiamo del cielo continua a farsi sentire all’uomo che vi tende e lo attira verso l’alto.
Questo aprirsi del cielo si esprime in modo speciale nelle figure degli angeli.
(tratto da: Guardini Romano, Dante, Morcelliana, Brescia 19994, pagg. 13-19)


Prima lezione: canto I
Il proemio generale al poema
Il canto I dell’Inferno è generalmente considerato come un proemio generale al poema, mentre il II è il proemio della sola prima cantica. E infatti, il canto II si apre con una specie di breve protasi, che, come vedremo, non può riferirsi se non alla sola cantica infernale; questa in tal modo sarà costituita da 33 canti, come le due cantiche seguenti. Tuttavia, la descrizione vera e propria dell’Inferno comincia solo col canto III, che s’inizia appunto con le terribili parole che Dante vede scritte al sommo della porta dell’inferno; i primi due canti ci danno gli antecedenti e le ragioni del grande viaggio ultraterreno.
Il poema sarà pieno di paesaggi, di personaggi, di situazioni estremamente concreti; anche nei casi (deve esser detto subito che essi non sono troppo frequenti) in cui il dato poetico ha uno o più contenuti allegorici, non per questo cessa d’essere concreto. Ma per comprendere bene i due canti iniziali, e specialmente il primo, bisogna non tentare neppure di riprodurre nella nostra fantasia immagini naturalistiche. La selva, il sonno in cui cade il viandante, e che gli fa abbandonare la via giusta, il colle e il sole che lo illumina, le fiere che gli impediscono il cammino verso la salvezza: tutto ciò non ha riferimento se non esterno con le selve, i colli, le fiere della nostra comune esperienza; emblemi volutamente schematici, non hanno vigore figurativo in sé, se non in qualche particolare: la loro ragion d’essere consiste solo nei valori astratti che concretizzano. La concretezza espressiva è una necessità costante dell’espressione poetica medievale e di Dante.
Ma non si tratta, da parte di Dante, di fredde escogitazioni intellettualistiche. È un po’ quella “logica per immagini” che va scoprendo la moderna antropologia culturale. Uno che veda, in determinate situazioni, la bandiera del suo paese, non deve ricorrere a un’operazione intellettuale anche elementare per stabilire l’identità fra quel drappo e il paese; quel drappo non “significa”, ma “è” il suo paese. Così il cristiano di fronte a una croce. Allo stesso modo, Dante non deve stabilire intellettualisticamente l’identità selva-peccato: i due termini per lui sono interscambiabili. Tanto più che queste concretizzazioni egli non le inventa: sono quelle della tradizione biblica ed esegetica e anche di poeti profani particolarmente amati; fanno insomma parte del linguaggio poetico-religioso comunemente accettato e adoperato, che Dante si limita a sostanziare col suo genio, così come sostanzia ogni altro linguaggio tradizionale. Il poeta parte, già con il primo verso, da un versetto del profeta Isaia: “Ego dixi: In dimidio dierum meorum vadam ad portas Inferi” (38, 10): e vedremo che anche la precisazione cronologica del viaggio, apparentemente piana (a 35 anni), è non solo mutuata dal profeta, ma ricca di molteplici significati, relativi anche alle condizioni storiche di Dante e del suo tempo. L’identificazione della vita con un’ “immensa silva plena insidiarum et periculorum” (Agostino, Confessioni 10, 35) era nella tradizione letteraria e religiosa; Dante stesso vi aveva attinto, prima che nella Commedia, nel Convivio: “l’adolescente, che entra ne la selva erronea di questa vita” (Convivio IV, 14, 2): una selva, dunque nella quale se non ben guidati, si perde la strada. Persino che la selva sia amara, Dante dice con parole dell’Ecclesiaste (7, 27).  Numerose le fonti scritturali anche dell’identificazione del peccato col sonno: basterà citare l’epistola di S. Paolo Ai Romani (13, 11): “hora est iam nos de somno surgere”. Già il salmista aveva levato gli occhi al monte, per averne aiuto (Levavi oculos meos in montes, unde veniet auxiluim mihi, Salmo 120, 1); e ripetutamente nella Bibbia s’incontra il simbolo del colle. Così è ovvio (e sarà un ricorso frequente nel poema), dovendo concretizzare visivamente Dio e la sua grazia, ricorrere al sole: lo aveva detto esplicitamente Dante nel Convivio (III, 12, 7): “Nullo sensibile in tutto lo mondo è più degno di farsi essemplo di Dio che ‘l sole”; notte e tenebre sono per converso espressioni di peccato e smarrimento. Se “vivere ne l’uomo è ragione usare” (Convivio IV, 7, 11) il buio della selva oscura è figurazione tradizionalmente ovvia della perdita della ragione, cioè del libero arbitrio: da questo buio l’uomo spera di liberarsi attingendo alla luce del sole, cioè la grazia di Dio, ma le passioni – e massime la cupidigia, l’attaccamento ai beni terreni (la lupa) – lo risospingono verso il buio. Finalmente, anche le tre fiere Dante trova in Geremia  (V, 6): “Il leone della selva ti ha aggredito, il lupo vespertino ti ha devastato, il leopardo è in agguato…” La “testa alta” del leone dantesco non trasporta la nostra fantasia, come vuole un fine lettore, verso l’imponemza monumentale dell’animale vivo, ma è anch’essa emblema; è connotato tradizionale della superbia, che ritorna in tanti luoghi della Commedia: per non dir altro, nella pena stessa dei superbi del Purgatorio, la cui testa è piegata, per punizione, dal sasso che trasportano. In questo canto Dante non si avvale, come in tanti altri casi, del linguaggio biblico come d’una delle molte componenti del suo vocabolario poetico-spirituale, ma lo fa direttamente suo proprio, parole e significati. Con questo non si vuole dire che qui Dante non segue quella che sarà una delle regole principi del suo poetare, specie nel Paradiso, cioè rendere l’ultrasensibile mediante il sensibile, approfondendo quest’ultimo secondo l’esperienza umana: infatti il naufrago dei versi 22-24 è approfondito fisicamente (lena affannata) e psicologicamente (si volge a l’acqua perigliosa e guata); ma tali approfondimenti sono assai rari in questi versi proemiali che, come abbiamo detto, deliberatamente puntano sulla suggestione emblematica.
Che Dante, nel collocare il suo viaggio ultraterreno ai suoi 35 anni, alla metà esatta di quello che già per i Salmi era il corso medio della vita, segua il profeta Isaia, è certo significativo: non solo perché con ciò Dante poneva immediatamente il suo poema su un livello altissimo, ne dichiarava subito il carattere di alta edificazione religiosa, ma forse anche in un senso più specifico. Egli inserisce la Commedia nel vivo del profetismo che era tanta parte della vita religiosa medievale, come denuncia di peccato, incitamento alla severa meditazione e al pentimento, affermazione di speranza, anzi di certezza: Dio non può tardare a intervenire. Tutto il poema dice questo, e il canto I ne preannuncia le linee essenziali: esso non narra la grande avventura d’un singolo; il singolo che parla in persona propria vuole impersonare tutti gli uomini: il suo smarrimento e il suo viaggio non si hanno nel corso della sua vita, ma della vita di tutti: “nostra vita”, non “mia”[…].
Il 1300 è un anno cruciale per Dante, per Firenze, per l’umanità. È l’anno del suo priorato, il culmine dunque della sua azione politica, nel quale tuttavia il poeta riconosceva l’origine delle sua dolorose vicende; una svolta nella sua vita: l’esilio del 1302 non ne è che una conseguenza. Proprio nel calendimaggio del 1300 le fazioni cittadine, “dopo una lunga tencione / verranno al sangue”: dunque una data dolorosamente cruciale per Firenze. E infine, il 1300 è l’anno del primo giubileo: un’occasione, che mai prima d’allora la cristianità nel suo complesso aveva goduto, di poter ottenere la remissione totale dei precedenti peccati. Un anno, dunque, in cui Dante giunge al culmo dell’età sua, di là del quale non vi è che discesa verso la morte, e quindi gli si fa imperioso il bisogno di pensare al suo destino ultraterreno; e in cui l’umanità può, se vuole, ricominciare per così dire da capo, e iniziare una nuova fase del vivere. Di là delle fazioni, di là delle guerre, nel godimento della pace che solo l’imperatore può garantire, l’uomo potrà realizzare il proprio “intelletto possibile”, cioè la conquista piena di quel che le sue forze gli permettono, nella quale consiste la felicità terrena; e insieme conseguire la felicità celeste, mondo ormai di peccati e ben determinato a sconfiggere gli istinti e le passioni, mediante la riconquista della ragione, cioè del libero arbitrio […].
Segno culturale, senza persona, è anche la più famosa e discussa figurazione profetica della Commedia, posta alle soglie del poema: il veltro. Anche qui Dante propriamente non inventa; un prossimo intervento indiretto o diretto di Dio, particolarmente della Trinità, per metter ordine nel mondo giunto all’estremo della corruzione, era da secoli nell’aspettativa del Medioevo religioso. Basti ricordare solo che di tale aspettativa erano pieni i tempi di Dante, nella più o meno legittima interpretazione che di Gioacchino da Fiore (da Dante stesso detto “di profetico spirito dotato”, Paradiso 12, 141) facevano i francescani “spirituali”, cioè quelli più rigorosamente legati alla regola del fondatore dell’ordine […]. La decifrazione dell’allusione del veltro, volutamente oscura, e quindi l’identificazione del personaggio, non è veramente necessaria alla comprensione dei passi. Né Dante poteva mirare a un’univoca identificazione da parte dei suoi lettori: questi, se avessero potuto individuare con certezza nel veltro non dico una persona determinata ma anche un ufficio, l’imperatore o il papa, si sarebbero necessariamente divisi: gli uni avrebbero consentito nella speranza, gli altri l’avrebbero respinta e forse irrisa; mentre a Dante premeva una sola cosa: inculcare a tutti la sua certezza, che presto, in un modo o nell’altro, direttamente o no, Dio sarebbe intervenuto nel mondo per mettervi ordine.
Due erano le caratteristiche essenziali che il veltro aveva nel pensiero di Dante: essere emanazione della Trinità (essere nutrito dalle tre persone, “sapienza, amore e virtute”) in conformità al profetismo medievale; e avere il suo strumento in Roma. La Trinità si serve dell’Impero per la sua opera di salvazione […].
(tratto da: Alighieri Dante, La Divina Commedia, ed. con pagine critiche a cura di U. Bosco e G. Reggio, Le Monnier, Firenze, 2002, pagg. 1-5)
Proposta in aula

  • La selva oscura: confronto e discussione a partire dalle suggestioni dei dipinti di Doré e Guttuso.
  • La selva oscura come metafora della crisi dei valori nella società medievale. Quale rapporto con la società attuale? Quali sono i “luoghi della crisi” nell’esperienza dei giovani?
  • “Io non so ben ridir com’i’ v’intrai”. Quando non c’è più il senso del peccato, si può entrare in un “tunnel del male” senza accorgersi. Esiste ancora il senso del peccato?
  • La “lonza, il leone e la lupa” impediscono a Dante di accedere al bene. Sono peccati  attuali? Con quali peccati ritieni possono essere scambiati?
  • “Perché non sali il dilettoso monte”? Dante vede la salvezza e tuttavia da solo non riesce a raggiungerla. Quanto è importante l’aiuto di una persona esterna? Ci si può salvare da soli? Perché Virgilio? Chi rappresenta?
  • Virgilio promette a Dante di arrivare alle “beate genti”, ma l’itinerario non è il più breve. Anzi, il cammino è irto di difficoltà, e dovrà attraversare il regno del male. Perché Virgilio ritiene che sia così importante che Dante conosca il male?

 

Testi utili

Umberto Galimberti, L’ospite inquietante – il nichilismo e i giovani, Feltrinelli, Milano 2007.
Carlo Maria Martini, Ritrovare se stessi (il capitolo 3, “Il peccato”, pagg. 71-102) Piemme, Casale Monferrato 1996.
Edgar Lee Masters, Antologia di Spoon River (alcune poesie sono utili), Einaudi, Torino 2005

 

           


Seconda lezione: Canti VIII-IX
La città di Dite e il Messo celeste
Che tra l’VIII e il IX canto la fantasia di Dante si cimenti in una vera e propria “sacra rappresentazione”, è osservazione di molti che va approfondita. Il grigio di una palude brulicante di ombre che si dilaniano a vicenda; sul fondale, il rosso di mura che sembrano di ferro rovente, con le loro torri di difesa: questa è la scena di essa. Numerosi personaggi dialoganti (Dante stesso, Virgilio, i diavoli, le Furie, il Messo); netta la distinzione in scene, che possono addirittura essere raggruppate in “atti” o momenti successivi dell’azione.[…]
Nel primo momento dell’azione (VIII 82-130) un numero straordinario di diavoli si fa sulle porte; essi, “da ciel piovuti”, angeli scaraventati nell’Inferno per la loro ribellione a Dio, son sempre pronti a rinnovarla: respingono Dante che è ancor vivo, acconsentendo soltanto che Virgilio, che lo aveva chiesto, ma solo lui, avanzi per parlar con loro appartatamente, “segretamente”. Il discepolo spaventato scongiura il maestro di non lasciarlo solo nell’Inferno, come i diavoli vorrebbero; Virgilio, che è ancora certo di vincere la nuova opposizione come aveva vinto le precedenti, lo rassicura. Ma questi guardiani non cedono neppure dopo che Virgilio nel colloquio appartato ha loro detto (non è difficile immaginarlo) che il viaggio di Dante è voluto dal cielo; gli chiudono le porte sul petto; egli torna indietro, ormai non più fiducioso, e addolorato (il “m’adiri” del v. 121 vale “mi dolga”, come la lingua del tempo permetteva). Impallidisce (IX 1-15); ma vedendo la perplessità del discepolo tenta di dominare la sua; allo stesso modo, per non aumentare il timore di lui, tronca un soliloquio (Pur a noi converrà vincer la punga,/ cominciò el, se non … Tal ne s’offerse), ma non senza che il timore diventi, in attesa dello sperato aiuto, ansia (Oh quanto tarda a me ch’altri qui giunga!): reticenza che il discepolo coglie: “I’ vidi ben sì com’ei ricoperse/ lo cominciar con l’altro che poi venne…”, e la sua paura ne è accresciuta.
A questo punto l’azione ha come una battuta di arresto, riempita da un dialogo tra i due (vv.16-33): il discepolo con ingenua astuzia cerca di appurare, senza offendere il maestro, se questo è veramente pratico del luogo; il maestro asseconda il gioco, risponde al quesito generale, ma infine lo rassicura direttamente: sì, è andato un’altra volta nella Giudecca, nel cerchio più basso dell’Inferno: “ben so ‘l cammin; però ti fa sicuro”. Aggiunge alcune notizie sulla palude e sulla città, che a questo punto sono in verità superflue, tanto che il Porena, forse troppo sottilmente, ha pensato che Virgilio quando dà al discepolo quelle e altre notizie (E altro disse, ma non l’ho a mente) lo fa per occuparlo e distrarlo in qualche modo.
Nel secondo momento dell’azione (vv. 34-60) si assiste all’improvvisa apparizione sull’alto d’una torre delle tre orribili Furie, che per la rabbia, come gli iracondi della palude sottostante, graffiano e battono sé stesse; gridano alto, invocano Medusa che faccia di pietra l’intruso. Virgilio ordina al discepolo di volgersi, di chiudersi gli occhi con le mani per fuggire lo sguardo pietrificante; non contento lo volta egli stesso, aggiunge le sue alle mani di lui.
In un’altra breve pausa dell’azione, Dante non personaggio ma scrittore esorta il lettore a prestare particolare attenzione alla scena seguente; quindi si ha il terzo e ultimo atto (vv. 64-103). Giunge aspettato un Messo del cielo,  preceduto da un suono che incute spavento; è come un vento, anzi è egli stesso un vento che travolge tutto e fa fuggire tutti dinanzi a lui. È un angelo: avanza sicuro, sdegnato per l’audacia dei diavoli ancora una volta ribelli; gli basta toccare una porta con una verghetta perché si apra; rimbrotta sprezzante i diavoli; senza degnare d’una parola o d’uno sguardo i due poeti, volta le spalle, torna verso la palude sulla quale aveva camminato venendo, e scompare […].
Dante dunque ci invita ad ammirare la dottrina che si nasconde sotto il velame dei suoi versi strani: versi, cioè, che narrano eventi straordinari su cui conviene soffermarsi; non mai prima tentata da alcuno. L’invito ha sbrigliato la fantasia e acuito la sottigliezza dei commentatori d’ogni tempo; ma anche i più vicini cronologicamente a Dante, e quindi al suo modo di vedere e d’immaginare, avanzano soluzioni assai diverse tra loro. Ci si è anzitutto chiesto se l’invito si riferisca a quel che lo precede (alle Furie e a Medusa; e perché non anche alla sconfitta di Virgilio e alla paura di Dante?) o a quel che segue (Messo); o se si riferisca a tutto l’episodio nel suo complesso; quest’ultima è l’ipotesi che incontra oggi i maggiori consensi. Ma la stretta analogia con un’altra esortazione inserita in un dramma del Purgatorio (Aguzza qui, lettor, ben li occhi al vero/ che ‘l velo è ora ben tanto sottile, /certo che ‘l trapassar dentro è leggero, VIII 19-21) ci persuade alla conclusione che esso riguarda l’ultima parte della rappresentazione, cioè l’arrivo del Messo.
C’è anzitutto da sottolineare la perfetta rispondenza delle due esortazioni e delle due scene. Intanto, una rispondenza anche verbale; agli “ ’ntelletti sani” cui si riferisce il primo appello ai lettori, risponde nell’altro la dichiarata necessità di ‘aguzzare gli occhi’; alla “dottrina” fa riscontro il “vero”; al “velame” il “velo”. Corrispondono anche gli schemi delle due scene: come i diavoli difensori di Dite scompaiono al solo apparire dell’angelo, così nel Purgatorio il serpente tentatore dilegua al solo frusciare delle ali degli angeli che gli si muovono contro. L’uno è munito d’una semplice “verghetta”; gli altri di spade senza punta. Ma importante soprattutto è notare che né l’una né l’altra scena hanno bisogno, per essere capite, di particolari approfondimenti: perché dunque proprio qui le esortazioni del poeta? […].
Dei 19 appelli che Dante fa nella Commedia al lettore, solo questi due lo invitano a fare attenzione a quel che segue; gli altri son volti ad altri obiettivi. Evidentemente questi appelli sono connessi con la natura di sacra rappresentazione delle due scene seguenti, anzi, di rappresentazione d’un genere speciale, nelle quali si assiste direttamente, secondo un gusto diffusissimo nelle letterature medievali, a un intervento angelico contro le forze infernali […].
Tutto ciò non ci dispensa tuttavia dal cercare di penetrare la simbologia della sacra rappresentazione dei canti VIII e IX. È anzitutto da escludere che il simbolo delle Furie (come anche di Medusa) abbia relazione soltanto con i peccatori del sesto cerchio (eretici) giacché esse sorgono a difesa dell’intera città di Dite, cioè di tutto il basso Inferno: infatti è detto esplicitamente che esse sono serve “de la regina del’etterno pianto”, cioè, regina, appunto, dell’Inferno. Si deve poi osservare che per la loro figurazione Dante non poteva non partire da Virgilio e da Ovidio, che le avevano poste sulle porte dell’Averno; ed è da dire che esse non sono in fondo diverse, se non per l’intensità della rabbia, dai diavoli che s’incontreranno nella stessa città di Dite e da quelli dei cerchi precedenti, anche se sono orribili e spaventose, non grottesche come alcuni dei diavoli sin qui incontrati. Questi impersonavano i peccati puniti nei cerchi di cui erano a guardia; i diavoli che appaiono ora, e le Furie che li assecondano, non possono non impersonare i peccati della città di Dite, cioè i più gravi: da ciò la maggiore virulenza della loro opposizione, la maggiore protervia. Tuttavia ciò può non bastare, dal momento che il significato delle Furie deve necessariamente comprendere anche Medusa da esse invocata. Quest’ultima ha anche nel poema dantesco l’ufficio di pietrificare attribuitole dai classici; se si dà alle Erinni (come pure Dante chiama le Furie) il significato che avevano nella mitologia greca, se cioè le si considera personificazioni dei rimorsi, tutto sembrerebbe semplice e chiaro: i rimorsi portano alla disperazione della salvezza; questa è il peccato massimo, che pietrifica, cioè costringe all’inazione spirituale, preclude pertanto la via della salvezza. Virgilio fa chiudere gli occhi al discepolo perché non veda Medusa, cioè non cada nella disperazione, e glieli fa aprire alla speranza che reca il Messo arrivante […].
Par certo tuttavia che questi versi “strani” nascondano anche un altro significato. Sembra che in questo canto ritorni, con più ampia e diversa struttura e articolazione, il tema del canto II: là dove Dante, dopo essersi accinto all’ardua impresa del viaggio oltremondano, al momento di entrare nel “cammino alto e silvestro” disvuole ciò che prima aveva voluto, si adombra dinanzi al pericolo. Così ora, quando deve entrare nell’Inferno più nero, cioè nel momento culminante del viaggio, dinanzi all’opposizione dei demoni e alla sconfitta di Virgilio, Dante torna a disvolere; si sconforta (VIII 94); perde la sicurezza che altre volte, come è raccontato proprio nel canto II, Virgilio gli aveva ridata (v. 98); è disfatto (v. 100); rimane in forse (v. 110); vuol tornare immediatamente indietro: “e se ‘l passar più oltre ci è negato,/ ritroviam l’orme nostre insieme ratto” (vv. 101-102). Ora, l’effetto dello sguardo di Medusa sarebbe stato appunto quello d’inchiodare il pellegrino al punto in cui era giunto: Medusa dunque gli avrebbe impedito di proseguire sulla via della conoscenza del male, che avrebbe portato al suo ripudio; e Dante, appunto, prima ancora dell’apparizione delle Furie e di Medusa, era disposto a rinunciare al viaggio; era stato cioè sovrappreso da una crisi di “viltà” nel senso che conosciamo di pusillanimità. Non per nulla la parola, che era stata replicatamente usata da Virgilio alla prima crisi (l’anima tua è da viltade offesa, II 45; perché tanta viltà nel cor allette…?, II 122), e ripetuta al momento di varcar la porta dell’Inferno (ogne viltà convien che qui sia morta, III 15), ritorna qui a designare lo stato d’animo del disanimato viaggiatore: “Quel color che viltà di fuor mi pinse” (IX 1). Ritorna nei due episodi anche la parola di opposto senso: i diavoli sono sdegnati che Dante sia “sì ardito”, da osare di entrare nel regno dei morti; abbia avuto, cioè quel “buono ardire” (II 131) che Virgilio nella prima occasione gli aveva ispirato. Riappare altresì la parola chiave: “temo che la venuta non sia folle” aveva detto prima (II 35); e ora i diavoli:  “sol si ritorni per la folle strada”. Dante, dunque, dispera di proseguire per una crisi di pusillanimità nata dalla cattiva coscienza; l’identificazione di Medusa con la disperazione si ripropone per altra via, come nemica della magnanimità umana e religiosa che caratterizza l’uomo degno di tal nome. Né è difficile, infine, comprendere ciò che si nasconde anche sotto la scena della sconfitta di Virgilio, maestro di magnanimità: questa ha, come sappiamo, il suo limite;  a un certo momento della via verso la salvezza non basta più la ragione, sia pure mossa dalla Grazia e agente in nome di essa; occorre che la Grazia, Dio stesso, si manifesti e agisca direttamente.
(tratto da: Alighieri Dante, La Divina Commedia, ed. con pagine critiche a cura di U. Bosco e G. Reggio, Le Monnier, Firenze, 2002, pagg. 138-144)


Proposta in aula

Data la tipologia dei temi trattati in questi due canti, la proposta in aula passa, dopo un necessario inquadramento delle scene, ad una discussione sui temi emergenti dalle stesse. È facile che, dati questi argomenti, gli interventi possano andare “sul personale”… Bisogna pertanto creare preliminarmente un clima in aula di rispetto reciproco su quanto potrà esser detto. Non siamo tutti uguali e le difficoltà di uno possono sembrare sciocchezze ad un altro, e viceversa. Può essere utile, per “rompere il ghiaccio”, chiedere agli allievi di sciogliere l’enigma dei “versi strani”, magari indirizzandoli fornendo alcuni indizi. Oppure si può partire da un fatto di cronaca (permette agli studenti di non esporsi in prima persona), e lo si analizza cercando di tener conto, nei limiti del possibile, delle suggestioni che Dante offre.

  • Gesù dice che è “all’interno del cuore dell’uomo” che si trovano le “impurità” che lo contaminano: abbiamo il coraggio di vederle/ riconoscerle oppure no?
  • Quali sono le difficoltà/rimorsi che abbiamo vissuto nella nostra vita che ci possono “paralizzare”? Come possiamo uscire da un senso di colpa non ben elaborato?
  • Possiamo farcela da soli? Quanto è importante avere un aiuto esterno a noi?
  • “Tu non puoi capire quello che provo”! La ragione non è sempre sufficiente… a chi rivolgersi allora?
  • Nei momenti di difficoltà la tentazione di tornare indietro sui propri passi è sempre presente… Dove trovare la forza per andare avanti?
  • Disperazione e speranza… Come ridare speranza a chi oggi, nelle difficoltà di tutti i giorni, è disperato? Qual è la speranza cristiana?

 

Testi utili

A. Cencini-A Manenti, Vivere riconciliati, aspetti psicologici (Parte prima), EDB, Bologna 1999.
AA.VV., Teoria e prassi del colloquio e dell’intervista, a cura di G. Trentini (cap. 4, “Il repertorio dei meccanismi di difesa”), La Nuova Italia Scientifica, Roma 1991.


Terza lezione: Canto XVII

I violenti contro Dio: canti XIV-XVII
Nei canti dal XIV al XVII Dante ci parla dei violenti contro Dio: dei colpevoli di violenza diretta contro di lui; dei violenti contro natura, figlia di Dio; e di quelli contro natura e arte, figlia della natura, e quindi “a Dio… quasi nepote”. Il poeta estende a tutte queste varie specie di violenti  la punizione che secondo la Genesi Dio decretò contro i sodomiti e altri viziosi della città di Sodoma e Gomorra: una pioggia di fuoco. Per conto suo il poeta aggrava la pena biblica immaginando che i violenti giacciano su un sabbione che la pioggia ignea rende ardente: sicché il loro tormento si raddoppia. La differenza nelle varie pene dei vari violenti contro Dio sta nei loro diversi atteggiamenti: i colpevoli di violenza diretta stanno supini sotto il fuoco e, dato che la loro punizione consiste appunto in ciò, dobbiamo necessariamente immaginarli immobili; quelli contro natura (i sodomiti) si aggirano continuamente; i violenti contro natura e arte (usurai) stanno seduti, raccolti in sé stessi. I violenti contro Dio nelle loro tre specie penano in un solo cerchio, anzi in un sol girone del cerchio, il terzo.
I colpevoli di violenza diretta contro Dio, di cui si parla nella prima parte del XIV canto sono i “bestemmiatori” o “spregiatori”. Le connotazioni del loro peccato sono tre: il negare Dio; l’imprecazione o ingiuria contro di lui; il disprezzo intimo. La parola ingiuriosa deve derivare da un disprezzo che stia nell’intimo dell’uomo, d’altro canto, il disprezzo deve estrinsecarsi nella parola.
La seconda parte del canto costituisce come una grande parentesi nella descrizione del girone dei violenti contro Dio. Costeggiando strettamente la boscaglia dei suicidi per non esporsi alla pioggia di fuoco che cade sulla landa, i due poeti arrivano a un punto in cui dalla boscaglia vien fuori un rio, un ruscello orrendamente rosso, il Flegetonte, il cui fondo, i declivi delle due sponde, i margini o argini da cui è stretto sono di pietra, non di rena. Le sue emanazioni smorzano, spengono le fiamme sopra di sé: in tal modo il pellegrino ancor vivo può attraversare il sabbione senza essere leso né dalla rena infuocata né dalla pioggia di fuoco. Virgilio afferma solennemente che quel rio è cosa mirabile, anzi la più degna di attenzione fra tutte le cose viste dacché sono entrati nell’Inferno. Come si apprende dal canto, l’origine del rio proviene dalle lacrime goccianti dalle fessure che solcano la statua del Veglio di Creta. La sua importanza coinciderebbe con l’importanza che allegoricamente riveste il Veglio stesso; e infatti, a Dante che domanda perché il ruscello sia degno di tanta attenzione, Virgilio risponde con la descrizione del Veglio. Da esso derivano il Flegetonte, l’Acheronte, lo Stige e il Cocito.
Nell’isola di Creta, una montagna; nella montagna un vecchio, dritto, imponente, uomo e statua insieme: volge le spalle a Dammiata, all’Oriente, donde la civiltà umana proviene, e guarda a Roma come a suo specchio. La testa d’oro, le braccia e il petto d’argento, rame poi insino all’inguine; ferro le gambe e il piede sinistro; ma il destro è di terracotta. Tranne che la testa, le altre quattro parti dell’uomo-statua sono rotte, e dalle fessure gocciano lacrime che, come abbiamo detto, formano i fiumi infernali. Questa delle lacrime è invenzione di Dante; il resto è tratto da un passo della Bibbia, dove è descritta una statua esattamente uguale a questa di Dante, sognata dal re Nabucodonosor. Creta, la terra del Veglio, è posta in mezzo al mare, un paese geograficamente determinato e vicino, ma la cui rievocazione è proiettata sullo sfondo d’una favola, che rimanda all’età dell’oro. Plinio e poi S. Agostino dopo di lui, avevano fornito a Dante un altro elemento, parlando d’un uomo dritto in piedi, altissimo, che sarebbe stato trovato nelle viscere d’una montagna a Creta. La grandiosa statua rappresenta l’umanità nel suo progressivo decadimento, una volta perduta l’innocenza dell’età dell’oro. L’umanità attuale, che poggia, sì, sul piede di ferro dell’Impero, ma anche su quello di terracotta della Chiesa, che guarda a Roma come suo specchio.
Anche il biblico Daniele aveva interpretato la statua del sogno di Nabucodonosor come significante le condizioni del regno sotto di lui e sotto i suoi successori. Vi sono altre interpretazioni. Secondo Riccardo di S. Vittore la statua biblica rappresenterebbe l’umanità invecchiata nel peccato, dopo che Adamo ed Eva l’ebbero commesso. Integro è ormai solo l’oro del libero arbitrio; per il resto, l’umanità è ferita: nella ragione (l’argento), nella volontà (il rame), negli affetti sensitivi (il ferro), e specialmente nella concupiscenza (la terracotta). Le lacrime di cui l’umanità gronda per effetto del peccato originale si confondono con quelle dei peccati attuali.
C’è nella figura del Veglio un nucleo incontrovertibile, ed è la decadenza dell’uomo, la miseria progressiva e attuale della storia degli uomini, il dolore che per essi nasce dai loro stessi peccati, loro punizione in questa e nell’altra vita. Intorno a questo nucleo il poeta crea un alone di cose che s’intuiscono profonde e vere, ma che non è possibile univocamente definire.

Nel canto XV Dante rievoca affettuosamente e in modo riconoscente Brunetto Latini, che egli considera un maestro. Un maestro al quale Dante deve molto, oggetto per lui di ammirazione e reverenza non solo d’origine intellettuale, ma anche sentimentale e morale; ma un maestro che ora il poeta scopre colpevole d’un turpe vizio. Della sodomia di Brunetto Latini non abbiamo altra notizia se non in questo canto.
Nel canto XVI non solo continua la grezza materia del precedente (i sodomiti), ma permane anche l’atteggiamento sentimentale del poeta – ammirazione, rispetto, pietà – verso uomini valenti, anche se peccatori. Dalla torma che sopraggiunge sul sabbione, e che comprende uomini politici e d’arme, si staccano tre ombre, che, avendolo dall’abito riconosciuto come fiorentino, corrono verso Dante scongiurandolo di fermarsi. Hanno avuto da Guglielmo Corsiere, giunto recentemente tra essi, tristi notizie di Firenze; poiché ignorano il presente, desiderano, anche se non sperano, di aver notizie migliori. Tra le tre ombre vi sono Tegghiaio Aldobrandi e Iacopo Rusticuci, che con Farinata sono tra i Fiorentini del tempo passato di cui il poeta aveva chiesto notizie subito, al primo concittadino incontrato nell’Inferno, a Ciacco. Anche di questi sodomiti del canto XVI, come di Brunetto, conosciamo il peccato solo dai versi danteschi.
Nel canto XVI viene resa esplicita inoltre la diagnosi della decadenza fiorentina: ne è causa l’immigrazione in città di famiglie del contado (la gente nuova), e la trasformazione dell’economia da feudale e terriera in mercantilistica e industriale, con i “subiti guadagni” che questa rende possibili e quindi appetibili.
Un lungo indugio narrativo caratterizza la seconda parte del canto XVI. Dopo che i tre Fiorentini sono scomparsi, i due poeti si avvicinano all’orlo del VII cerchio. Il rumore della cascata del Flegetonte nel cerchio VII era stato detto prima simile a quello di api entro arnie; ora, man mano che la cascata si avvicina, il rumore cresce sì da impedire di parlare: l’attesa ha così un sottofondo musicale in crescendo. Su invito del maestro, Dante si toglie una corda di cui era cinto, che Virgilio getta nel baratro come “cenno” a un suo misterioso abitatore. Questo infatti sale nuotando nell’aria e approda all’orlo superiore. La figura, ancora indistinta, è descritta nel canto successivo.
Finalmente, agli inizi del canto XVII, il mostro appare: è un serpente con faccia d’uomo (anzi, d’uomo “giusto”, non peccatore, tale che si è indotti a fidarsi di lui); ma un serpente che ha anche vellose branche leonine, un corpo striato d’intrecci di linee (nodi) e di cerchietti (rotelle) a vari colori, una coda avvelenata, con la punta aguzza e forcuta, simile alle pinze d’uno scorpione. In Dante si confondono reminescenze classiche con le bibliche e con dati tradizionali della cultura medievale, componendosi in linee proprie al gusto del Medioevo, la cui arte religiosa è feconda di simili mostri. Il mitico Gerione è, con i centauri, le Arpie e altri mostri, nel vestibolo dell’Averno di Virgilio: da questo e da altri poeti classici derivò a Dante l’immagine d’un essere tricorporeo. Dalle locuste dell’Apocalisse trasferì al suo Gerione il viso umano e la somiglianza per la coda allo scorpione; inoltre un essere simile è stato additato in un passo del Tresor di Brunetto Latini. Forse Dante pensava anche alle rappresentazioni comuni di belve nelle stoffe orientali. Si consideri l’affollarsi delle similitudini a servizio di questa rappresentazione concreta: drappi orientali, tessiture di Aracne, barche tratte parzialmente a riva, castoro in agguato per catturare i pesci.
Quanto al simbolo, questa volta non ci sono problemi: che simboleggi la frode, lo dice lo stesso poeta. Il Gerione dei classici non era un frodatore; ma una tradizione di cui è erede il Boccaccia ne fa un re che accoglie gli ospiti con volto benigno e poi li uccide. Chiari sono anche i valori simbolici dei particolari: il viso d’uomo giusto, il trarre ala riva del baratro solo la testa, appunto, e il busto, ma non la coda (il fraudolento mette in mostra l’aspetto migliore di sé, e nasconde le sue armi), i nodi e le rotelle (i raggiri), e altro.
Descritto il mostruoso animale, Virgilio invita Dante ad andare “tutto solo” a vedere da vicino gli usurai, seduti sotto la pioggia di fuoco sull’orlo del cerchio. Virgilio, dal canto suo, si apparta a parlare con Gerione, affinché questi trasporti i due viaggiatori nel cerchio successivo.
Gli usurai sono opportunamente collocati nell’orlo del cerchio dei violenti: sono dunque tra i violenti i più vicini ai fraudolenti, giacchè partecipano anche delle tendenze peccaminose di questi. Usurai per la Chiesa del tempo di Dante e per Dante non sono propriamente quelli che definiamo “strozzini”, ma tutti coloro che traggono denaro dal denaro. La liberalità è una costituente della “cortesia”; sicché l’eccessivo attaccamento al fatto economico, specie nella forma anche religiosamente riprovevole dell’interesse sulle somme date in prestito, è esattamente l’opposto d’un’essenziale virtù cavalleresca.
Il poeta immagina che questi peccatori abbiano appesa al collo una “tasca”, un sacchetto da conservar danari, che reca lo stemma della famiglia di ciascuno. Nello statuto dell’Arte del cambio di Firenze (1299) si prescriveva che i prestatori dovessero stare “presso un tavolo o un banco con una borsa e un libro”; l’altra città, Padova, che con Firenze qui è designata come precipua sede di usurai, prescriveva che il magistrato reo di concussione fosse portato “nel palazzo con la borsa al collo”.
Attraverso gli stemmi, sono designate alcune famiglie, che i documenti ci dicono tutte potenti per commercio di denaro. Agli occhi di Dante bastava che un loro membro fosse tale perché tutta la famiglia ne fosse disonorata. Tutti nobili, dunque, gli usurai? No, naturalmente. Ma Dante vuol colpire appunto tanto coloro che vantavano nobiltà antica (gli Obriachi) quanto quelli che di recente l’avevano conseguita o a cui era stata confermata (Catello di Rosso Gianfigliazzi, Arrigo di Reginaldo Scrovegni, Giovanni di Buiamonte dei Becchi erano stati fatti cavalieri in età dantesca): tutti avevano ritenuto compatibile l’usura con la nobiltà, con la cavalleria. Gli usurai aspettano due dei loro, ancor vivi nel 1300, un Vitaliano, forse Del Dente, genero del fondatore della fortuna economica degli Scrovegni, e Giovanni di Buiamonte.
Finito l’incontro con gli usurai, Dante ritorna verso Gerione. L’episodio degli usurai è pertanto tutto inserito in quello di Gerione. L’isolamento della scena è certo voluto da Dante, probabilmente per far risaltare la scena e insieme con essa il disprezzo che egli ha per l’attaccamento al denaro, contro i generosi costumi d’un tempo. Il disprezzo è tale che la fantasia del poeta propone per descrivere gli usurai tutta una serie d’immagini di bestie. Se essi cercano di difendersi con le mani dalla pioggia di fuoco e dalla sabbia ardente, son paragonati a cani che d’estate “son morsi o da pulci o da mosche o da tafani”. Gli stemmi delle famiglie son tutti animaleschi (leone, oca, scrofa, caproni); l’episodio infine si conclude con le boccacce dello Scrovegni, ancora una volta paragonato a un animale: “Qui distorse la bocca e di fuor trasse la lingua, come bue che ‘l naso lecchi”.
Alla fine del XVII canto, e per ben 37 versi, si descrive analiticamente il lento discendere di Gerione, il suo doppio movimento, circolare e dall’alto in basso. Gerione, per composito che sia il suo corpo, non ha ali. Il poeta per questo tragitto nell’aria non aveva evidentemente altri termini di riferimento se non il nuoto e la navigazione: da qui l’infittirsi, per tutto l’episodio di Gerione, di vocaboli e immagini acquatiche (“notando”; “proda”; “riva”; “burchi”; navicella che si stacca dalla spiaggia indietreggiando…). Si noti, oltre la descrizione “tecnica” della discesa, la scena della paura destata nel poeta da Gerione che egli cavalca e dal vuoto nel quale s’immerge, e infine dai fuochi e dai piani del fondo sottostante, che comincia a vedere e a udire; e, correlativa, l’affettuosa sollecitudine paterna del maestro che lo incoraggia e, prevenendo la preghiera, lo tiene abbracciato durante il tragitto. Infine si badi come la rapidità con cui dopo aver assolto il suo compito il mostro dilegua, simile a una saetta lanciata da un arco, serva a sottolineare per contrasto la lentezza della precedente discesa.  
(tratto da: Alighieri Dante, La Divina Commedia, ed. con pagine critiche a cura di U. Bosco e G. Reggio, Le Monnier, Firenze, 2002, pagg. 223-227; 253-257; 268-270)

Commento al canto XVII
Canto architettonicamente complesso, se è vero che le sue strutture portanti poggiano saldamente sui due canti adiacenti, specie il XVI, e che tuttavia possiede una cifra unitaria, quell’atmosfera magico-rituale e insieme realistico-simbolica che fin dalla chiusa del XVI  viene irradiata dal personaggio di Gerione. Alla polivalente ritualità della corda fa riscontro il prodigioso incarnarsi della tipologia della Frode in una figura plastica, che sembra rientrare piuttosto nella sfera onirica che in sistema di modelli letterari; alla graduale e quasi medianica apparizione di Gerione-palombaro dal fondo dell’abisso, quella delle dieci bolge dell’ottavo cerchio, sempre più vicine col loro orribile corredo di pianti e pene. Ma l’unità (o la compattezza) del XVII va poi rivendicata anche a livelli più profondi o meno appariscenti, nella sua stessa pasta e tensione metaforica. Nonostante le forti implicazioni metafisiche (l’allegoria della Frode ecc.), il canto resta fedele a un registro figurato che diremmo animalesco, quindi espressionistico (nel senso di una progressiva deformazione della realtà convenzionale); e ciò in corrispondenza con la fisionomia stessa del mostro degradante dall’umano verso il ferino e poi addirittura il vegetale o l’inanimato. Dalla faccia d’uom giusto si passa infatti al serpente, alle branche leonine, ai nodi e alle rotelle di drago (quasi arabeschi vegetali paragonabili ai tappeti persiani e alle tele di Aracne), alla forca caudale armata di aculei simili a quello dello scorpione; dai domestici burchi al selvaggio bivero. L’eclettismo di Dante si misura dunque in una fantastica contaminazione di elementi classici, biblici e medievali, di tradizioni orali e figurative, e di certi tratti realistici che danno alla “sozza immagine di froda” l’impronta prevalente, quella zoologica (sia pure una zoologia da incubo): così in quella sorniona attesa di castoro all’agguato, nel vibrare caudale di enorme artropode.
Se ne ha conferma sia nella sequenza occupata dall’incontro con gli usurai, che dal v. 28 al v. 78 interrompe la presentazione del portentoso e muto guardiano, sia nella ripresa del tema di Gerione, quando il mostro da grande macchina immobile si fa lucertolone e marchingegno volante. Se dunque l’azione principale viene reinserita (dopo il collaudato espediente di una pausa a fine drammatico) proprio nel punto dove era stata interrotta, essa ritrae echi o accordi dall’intermezzo degli usurai e soprattutto – dopo quei petulanti scoppi di gesti e voci – un’intensa suggestione di silenzio e d’isolamento. Rientrano così nel registro animalesco il paragone coi cani assillati dagli insetti e poi col “bue che ‘l naso lecchi”; il bestiario araldico in chiave culinaria (sangue-burro) delle tasche appese come deformi appendici al collo dei dannati (leone-oca-scrofa-becchi): elementi assai più significativi dell’ovvio contrappasso. Costoro sono infatti costretti alla posizione che era loro consueta in vita, acquattati e rannicchiati a covare il denaro, quasi in un illusorio banco dei pegni; con a portata di mano una borsa-marsupio che, per lo stemma gentilizio che vi sta impresso, è il segno patente della cieca degradazione dei singoli nel culto del denaro e della bestiale mortificazione delle casate. Non più protagonisti  di pingui operazioni finanziarie né contornati dagli agi terrestri, ma oziosi nel tormento avvilente del fuoco, essi rappresentano – per la peculiarità stessa della pena sedentaria – quasi gli ultimi violenti e i primi fraudolenti: se è vero che l’usura in quanto ingiuria contro Dio nell’arte, con la rinuncia al lavoro, non può prescindere dall’inganno. Ma sono insieme, nella loro squallida anonimia, i miserabili campioni se non della gente nuova (appartenendo a famiglie antiche ed opulente), almeno dei subiti guadagni (in quanto nobili dediti a professioni borghesi per avidità e ricchezza).
Coerentemente, al paragone col malarico nell’attesa tremebonda dell’accesso della febbre quartana (espressivo della paura più morale che fisica di Dante posto per la prima volta di fronte al mistero insidioso della Frode), fa riscontro la riduzione drammatica degli “exempla” ovidiani (Fetente ed Icaro), e soprattutto una nuova serie di supporti naturalistici. Così i paragoni con la navicella (ove si riprende in chiave dinamica il “segnale” dei burchi tirati in secco), con l’anguilla (dove analogo procedimento chiama in causa l’immagine statica del castoro), infine col falcone deluso delle sue speranze di preda. E quest’ultimo sancisce il passaggio da Gerione-navicella (nel suo cauto sganciarsi dall’orlo del sabbione) a Gerione-macchina volante (nel lento discendere a spirale nel vuoto), a Gerione-freccia, con quel suo dileguarsi nell’ombra; al tempo stesso in cui illumina l’autorevole psicologia della fiera costretta al ruolo di “robot”, umiliata a veicolo attraverso il burrone.
Le ragioni morali si sono così incarnate in una delle costruzioni più sicure della fantasia dantesca, capace di associare al realismo plastico un vigoroso espressionismo pure assecondando le emozioni di un’esperienza visionaria ed onirica. E in conclusione la polivalenza culturale e simbolica di Gerione si traduce in una demoniaca incarnazione della vitalità organica ai confini con l’inorganico, nell’intreccio di forme animali tra loro irriducibili (uomo-leone-serpente-scorpione, cioè mammiferi-rettili-aracnidi) con paragoni che giustappongono il mondo vivente (castoro-anguilla-falcone) a quello della materia (burchi-navicella-tappeti).
(tratto da: Alighieri Dante, Commedia, Inferno, ed. a cura di E. Pasquini e A. Quaglio, Garzanti, Milano 2002, pagg. 194-196)


 

Proposta in aula

  • Sei d’accordo con la rappresentazione del male fatta da Dante? Ti sembra in qualche modo attuale? Quali episodi della cronaca potrebbero rientrare in questa casistica?
  • Raffigura graficamente (disegno “reale” o “astratto”) la figura di Gerione.
  • Come riconoscere il male, quando si presenta con la “faccia d’uom giusto”?
  • Come spiegare il peccato a chi non ha più senso del peccato? (vale soprattutto per gli aspetti che, oggi, non sono più ritenuti “peccaminosi” a causa di cambiamenti sociali che sono in atto ed in continua evoluzione).

 

Testi utili

Per la parte relativa a Gerione, i seguenti racconti dalla Bibbia:

  • La tentazione di Adamo ed Eva
  • Erode e i Magi

Per  quanto riguarda il tema dell’usura, si rimanda al materiale che sarà fornito nella seconda parte del corso.


Quarta lezione: Canto XXVI

Analisi del testo

L’apostrofe a Firenze: I primi dodici versi del canto si ricollegano a quello precedente e sono uno sfogo amaro e ironico nei confronti della propria città, a cui Dante è legato da un rapporto di amore e odio. L’apostrofe, motivata dall’aver incontrato ben cinque fiorentini tra i ladri, è giocata sulla metafora del volo (“Godi Fiorenza, poi che se? Si grande / che per mare e per terra batti l’ali” vv. 1-2) e l’ironia attraverso il ricorso alla litote (“e tu in grande orranza non ne Sali”, v. 6) per mettere in luce la cattiva fama della propria città. Viene aggiunta una profezia di funesti eventi punitivi che già le città rivali si augurano nei suoi confronti, anche se è bene che ciò accada il più presto possibile, “da che pur essere dee!”, in quanto, con l’avanzare dell’età, tale sciagura sarà più dolorosa da sopportare per il poeta.
Il preludio all’episodio di Ulisse: Segue un accenno, per altro non infrequente soprattutto nel basso inferno, alle difficoltà deambulatorie nel risalire gli scalini che conducono al ponte dell’ottava bolgia, difficoltà che richiedono una perizia quasi da alpinista, tra l’altro dotato dell’aiuto delle sole mani. Ora un nuovo scenario si prospetta agli occhi del viaggiatore,. I versi che seguono, fino oltre la metà del canto, sono in gran parte descrittivi e didascalici e hanno una precisa funzione preparatoria, sia dal punto di vista dello stile sia dell’atmosfera, all’episodio culminante di Ulisse. Il pellegrino esordisce con un’espressione di dolore, provato anche al solo ricordo dello spettacolo che si presenta ai suoi occhi (si badi che non l’ha ancora descritto), tanto che deve tenere a freno la propria immaginazione poetica affinché sia assistita dalla virtù. La pausa narrativa, col fermarsi del tempo della storia, serve ad acuire le aspettative del lettore e, in quell’accenno, sembra di cogliere anche un’anticipazione del tema morale del canto, la necessità di sapersi mantenere entro i limiti propri della natura umana, attraverso la virtù che deve guidare l’ingegno, cioè l’attività intellettuale, perché essa non sia volta a scopi negativi. C’è subito un’elevazione di registro, per sottolineare l’importanza di qualcosa che deve accadere, attraverso l’uso di procedimenti retorici (la paronomasia “mi dolsi, e ora mi ridoglio”, la metafora “drizzo la mente”, il costrutto latineggiante “m’invidi”).
Le due similitudini delle lucciole e del carro di fuoco: Segue la descrizione della nuova bolgia, in cui elemento predominante è il fuoco, con un campo lungo, attraverso due articolate similitudini. La prima agreste, quasi serenamente bucolica, è incentrata sul pacato sguardo del contadino dall’alto di un colle nel momento del crepuscolo estivo, sguardo che si posa sui campi e sulle viti, i luoghi del suo duro lavoro, ora impreziositi dal suggestivo spettacolo delle miriadi di lucciole vaganti. La seconda, più drammatica e solenne, richiama l’immagine del carro di fuocoche rapì all’improvviso il profeta Elia. Ma nell’inferno si tratta niente meno che di fiamme nascondenti ciascuna un peccatore: lo spettacolo diventa dunque singolare e tale da suscitare forti emozioni nello stesso tempo, tanto che Dante sente il bisogno d’attaccarsi a una sporgenza della roccia per non cadere giù.
Virgilio mediatore fra Dante e i due greci: Cominciano a questo punto le spiegazioni del maestro per soddisfare le richieste del discepolo, il quale, tra le fiamme, ne ha notata una atipica in quanto biforcuta, proprio come quella che si elevò sulla pira di Eteocle e Polinice, i due fratelli tebani animati da inestinguibile odio anche da morti. Il richiamo classico, come quello biblico precedente di Elia e del carro di fuoco, continua a elevare il tono del discorso. Virgilio a questo punto, investito ufficialmente della funzione di docente che gli è propria, tiene una piccola lezione di mitologia e storia greca, riepilogando sinteticamente i misfatti fraudolenti dei due greci che si celano dietro la fiamma a due punte: l’inganno del cavallo, la morte di Deidamia, il furto del Palladio. I pochi eruditi accenni del maestro entusiasmano a tal punto il discepolo, che manifesta enfaticamente il desiderio che i due si avvicinino per parlare a loro. Virgilio accetta la giusta richiesta del discepolo, ma non si lascia scavalcare completamente nel suo ruolo e nella sua autorità di magister e si propone quale mediatore per contattare i due peccatori. Si tratta infatti di greci, con la lingua dei quali Dante non ha affatto dimestichezza. C’è anche il problema della naturale ritrosia e superbia dei greci verso gli stranieri. Insomma, Dante riconosce pienamente al maestro la legittimità dell’intervento mediatorio e si pone in paziente attesa e ascolto senza avanzare obiezioni. L’esordio di Virgilio è adeguato all’avvicinarsi del momento clou di tutto il canto.
Il racconto di Ulisse: Prima che Ulisse cominci a parlare, viene descritto, in termini quasi fisici, il fenomeno della fuoriuscita delle parole dalla fiamma nel suo contorcersi e nel suo scoppiettio che diventa varco alle parole. Finalmente, le parole si materializzano alle orecchie tese di Dante. La narrazione comincia senza preamboli; ci troviamo nel vivo dell’azione, con un rapido flash-back relativo al soggiorno dell’eroe greco presso Circe, la maga che aveva trasformato in porci alcuni dei suoi compagni. Poi subito la motivazione della nuova avventura, sentita come un fuoco che brucia dentro e che non può essere spento nemmeno dalla somma degli affetti più cari, quali la dolcezza del figlio, la pietà per il vecchio padre e l’amore per Penelope.  Neppure il nodo degli affetti familiari può trattenere Ulisse dal diventar esperto dei vizi umani e delle virtù. Nell’assecondare questa sua insopprimibile esigenza, non fa altro che sviluppare compiutamente la propria natura di uomo, esemplata da una sete di conoscenza. Una conoscenza proiettata verso ciò che è ignoto e lontano, attraverso una nuova avventura reale e intellettuale. Il mare è lo scenario adeguato, ma la sfida è sproporzionata: l’affrontare il mare con una sola nave e un piccolo numero di compagni, seppure fidati.
L’orazione “picciola” di Ulisse: Nei compagni evidentemente vi sono delle esitazioni, dovuti all’età e alla stanchezza, ma basta una piccola orazione a convincerli, piccola ma molto persuasiva, quasi un comando travestito da preghiera. L’ordine è nascosto nell’imperativo “Considerate”; in realtà è un’imposizione indiretta perché, dopo averli indotti a considerare la propria origine e natura di uomini destinati appunto a seguir la virtù e la conoscenza, i compagni non possono rifiutarsi di obbedire, anzi diventano più convinti del loro capo.
Il viaggio verso l’ignoto e il naufragio: La velocità temeraria che assume la nave dopo il passaggio dello stretto è la traduzione concreta dell’entusiasmo suscitato dalla piccola orazione negli animi dei marinai. Del viaggio si percepisce solo il momento notturno, il tempo è scandito dall’avvicendarsi delle lune; per il resto cogliamo solo l’implicito silenzio su di un mare sconfinato, che sembra avvolgere ogni verso di queste due terzine. Poi una visione indistinta che suscita sentimenti di gioia subito volti in dolore e disperazione. L’antitesi ristretta all’interno del verso, dà l’idea della repentinità del cambiamento di stato d’animo. Un turbine di vento li avvolge, solleva la nave come un fuscello per tre volte, numero divino, e l’imbarcazione s’inabissa avvolta dalle acque da ogni parte.
La celebrazione della grandezza umana e dei suoi limiti: Come ben vide Fubini, nell’impresa di Ulisse risalta la grandezza dell’umanità prima dell’avvento di Cristo, ma anche la sua insufficienza, perché non può essere sostenuta dalla Rivelazione divina. In Ulisse si celebra l’uomo ma anche i suoi limiti. In ciò consiste il dramma dantesco di Ulisse, nel quale in parte si riconosce lo stesso Dante, che in certo periodo della sua vita si è lasciato suggestionare dall’orgoglio intellettuale di poter raggiungere la verità attraverso la sola via filosofica. Quanto all’infrazione del presunto divieto divino, essa sarebbe presente se Ulisse avesse conosciuto la luce della Grazia divina. Egli, se non fosse per il peccato di frode, apparterrebbe alla schiera egli spiriti magni nel limbo. Il limite posto da Ercole, secondo recenti studi di Maria Corti, sembra non esserci mai stato nell’antichità e sia stato introdotto solo dagli arabi per motivi commerciali. Tale limite è superato da Ulisse non per infrangere un divieto, quanto per soddisfare la propria sete di sapere, cioè per attuare pienamente la legge della natura umana e il suo destino di uomo. Se l’impresa è fallimentare, la motivazione che l’ha ispirata è nobilissima. Così il volo è “folle”, temerario, perché teso verso un’impresa impossibile, ma ciò non comporta un atteggiamento sacrilego da parte dell’eroe, in quanto egli non ha potuto ricevere l’aiuto illuminante di Dio. Dante condanna Ulisse ma è coinvolto emotivamente nel suo dramma, in quanto in parte vi si identifica. Entrambi hanno compiuto un viaggio, l’eroe greco ha esplorato, nella sua esperienza pagana, l’ambito naturalistico e fisico; il poeta, nella sua dimensione cristiana, ha proseguito oltre quel limite proprio della ragione umana e ha indagato quello spirituale e metafisico arrivando alla verità rivelata da Dio che illumina ogni mistero.
(tratto da: Dante Alighieri, La Divina Commedia,  ed. integrale a cura di Alessandro Marchi, Paravia, Varese 2005, pagg. 262-264)


 

Proposta in aula

L’episodio narrato da Dante si presta bene per una discussione in classe. Gli studenti possono essere invitati a riflettere sulle seguenti tematiche:

  • Figlio, padre e moglie vengono “dopo”… quale ordine di valori nella vita?
  • “Ma misi me…” è corretto puntare tutto su se stessi?
  • Ardore di divenire esperto… la dinamica del desiderio di conoscenza e l’uomo.  C’è un limite oltre il quale la conoscenza non si deve spingere? Quali sono oggi gli ambiti in cui la conoscenza a volte “oltrepassa” i limiti?
  • La conoscenza, la scoperta ecc, sono indici di “umanità”. Sei d’accordo?
  • Ulisse coinvolge i suoi compagni alla folle impresa con una orazione piccola… un discorso fatto bene può condurre ad un grande male. Ci sono esempi nella vita attuale di orazioni piccole ma ingannatrici?
  • Ulisse e il viaggio come metafora della vita. Con quale atteggiamento Ulisse si presta ad effettuare il viaggio. Quale differenza ad esempio con Abramo?

 
Testi utili

L’episodio di Ulisse si presta bene oggi, per quanto concerne l’idea di limite da non oltrepassare, per introdurre temi legati a problemi etici e bioetici. Segnalo questi  testi, ma un qualunque buon manuale sulla bioetica può andar bene:
M. Aramini, Manuale di bioetica per tutti, Paoline, Milano 2006.
A. Genovesi, La scienza al di là del bene e del male – le nuove sfide della ricerca e la questione morale, Fondazione Achille e Giulia Boroli, Novara 2004.
M. Mori, Bioetica – 10 temi per capire e discutere, Bruno Mondadori, Milano 2002. (questo autore non sta dalla “nostra parte”)

Mi sembra utile comunque anche avere le idee chiare sulla figura di Ulisse classica e sulle rivisitazioni del mondo moderno. A tal proposito un buon testo è:

M.Lentano-S.Orlandi, a cura di, Storie meravigliose – il mito e le sue metamorfosi (relativamente ad Ulisse, pagg. 19-60), Bruno Mondadori, Vicenza 2009.

 


 

Bibliografia

Alighieri Dante, DanteTutte le opere, a cura di I. Borzi, G. Fallani, N. Maggi, S. Zennaro, Newton (Grandi Tascabili Economici Newton) Roma 2005.
Alighieri Dante, La Divina Commedia,  ed. integrale a cura di Alessandro Marchi, Paravia, Varese 2005.
Alighieri Dante, La Divina Commedia, Inferno, ed. con pagine critiche a cura di U. Bosco e G. Reggio, Le Monnier, Firenze 2002.
Alighieri Dante, Commedia, Inferno, ed. a cura di E. Pasquini e A. Quaglio, Garzanti, Milano 2002.
Guardini Romano, Dante, Morcelliana, Brescia 19994.
Padoan Giorgio, Il lungo cammino del “Poema Sacro”, Studi Danteschi, Leo S. Olschki Editore, Firenze 1993.
Padoan Giorgio, Introduzione a Dante, Sansoni, Firenze 19922.


 

Gli apocrifi nel contesto sociale,
 economico e artistico medievale

I Vangeli apocrifi

Il termine “apocrifo” designava una volta quei libri che erano destinati ad una cerchia particolare di lettori, agli iniziati di una qualche corrente di pensiero, un po’ come erano ad esempio presso i Romani i libri sibillini e lo ius pontificum. Ma da un certo periodo in poi i cristiani se ne servirono per designare scritti sospetti di eresia, non conformi all’insegnamento ufficiale e quindi, in generale, poco raccomandabili, anzi da escludere non solo dalla lettura liturgica, ma anche dalle mani dei fedeli.

Libri canonici e libri apocrifi

Per i greci il termine “canone” designa la norma, la forma perfetta, lo scopo prefisso, la misura, il criterio per giudicare, misurare, ecc. ogni cosa. Vi è qui qualcosa di caratteristicamente greco: nel mondo c’è un ordine, una misura, una bellezza; quest’ideale e questa perfezione, distribuiti in modi diversi e proporzionati alla loro natura, si riscontrano in grado diverso in ogni essere. In questo senso di norma, di retto giudizio e regola di vita, il termine canone ebbe un ulteriore sviluppo nella Chiesa dei primi secoli. Fin dal principio infatti del suo sviluppo e diffusione, nella necessaria verità, si sentì il bisogno dell’unità: erano indispensabili unitarie norme dottrinali e morali. Più di una volta e in diversi luoghi capitò che quanto finora era ritenuto giusto, e cioè cristiano, fosse poi giudicato eretico e quindi da rifiutare. Si diede dunque un “canone” che designava le norme fondamentali obbligatorie per tutti coloro che professavano la religione cristiana. Si tratta del canone della verità che abbraccia le verità fondamentali della predicazione della Chiesa; del canone della fede che indica le verità fondamentali da credere; del canone della Chiesa o canone ecclesiastico, che comprende i due precedenti designando l’insegnamento e la vita cristiana. Nella Chiesa primitiva il canone equivaleva, in pratica, a santo, divino, senza errore determinante. L’ultimo passo di questo sviluppo ci giunge per la prima volta verso l’anno 360, dall’articolo 59 del sinodo di Laodicea che vieta di leggere in chiesa salmi e libri che non siano canonici: i libri dell’Antico e del Nuovo Testamento della metà del I secolo costituiscono un insieme detto canone, termine che divenne presto sinonimo di Bibbia.
Al canone vennero contrapposti gli apocrifi, cioè quegli scritti che dalla Chiesa non furono “canonizzati”. Ma questo non è un termine che si impose molto presto, è anzi abbastanza recente. Inizialmente i libri che oggi chiamiamo apocrifi erano detti “non canonici”, “dubbi”, “contestati”, “libri che non si possono leggere”…
Il termine apocrifo probabilmente faceva parte della terminologia gnostica pagana. Esso significa qualcosa che “è tenuto nascosto a causa della sua preziosità” o “a causa del suo contenuto riprovevole” e, più tardi, “di origine ignota”. È noto che gli gnostici avevano una dottrina segreta, libri esoterici, criptogrammi, e in essi vi era la tendenza a collegare la filosofia greca a scritti del Vicino Oriente detti appunto “i libri apocrifi”. Anche Clemente Alessandrino accenna, probabilmente, ad opere gnostiche allorché parla di “libri apocrifi”: non si tratta comunque di scritti la cui lettura sia proibita agli Ebrei o ai cristiani, ma di libri segreti e preziosi per gli gnostici.
Quando gli scrittori ecclesiastici si servirono di questo termine, respingendo qualsiasi dottrina esoterica gnostica, gli diedero u senso peggiorativo. Così per Ireneo, apocrifo è sinonimo di “falsificato” e per Tertulliano è sinonimo di “falso”, ma l’uso del termine è ancora abbastanza ambiguo. Non mancano infatti scrittori ecclesiastici che designavano come “apocrifi” quei libri dell’Antico Testamento che, assenti dal canone ebraico ed almeno allora non accettati come sacri dagli Ebrei palestinesi, facevano tuttavia parte della Bibbia dei LXX, cioè, a quanto pare, erano accettati dagli Ebrei alessandrini. Inizialmente contestati (in modi e gradi diversi fino al concilio di Trento) i libri dell’Antico Testamento, poi canonizzati, detti oggi tra i cattolici deuterocanonici, ma denominati apocrifi dai protestanti.
Si incontrano poi testimonianze che includono tra gli apocrifi opere come la prima e seconda lettera di Clemente, la lettera di Barnaba, la Didachè, le lettere di Ignazio, il Pastore di Erma confondendo così, con gli apocrifi, scritti che erano discussi e non appartenenti al canone ecclesiastico, ma la cui lettura era tutt’altro che proibita.
Abbastanza presto nella storia della Chiesa il termine apocrifo ha un suo significato abbastanza preciso designando tutti quegli scritti che in modo e veste letteraria abbastanza diversi, ma sempre ad imitazione della letteratura biblica, circolavano rivendicando per sé un’autorità sacra a volte superiore agli stessi scritti canonici. Pare non vi siano dubbi che, almeno gli apocrifi più antichi, intendevano imporsi come norma di fede e di vita e cioè intendevano sostituire  e completare”autenticamente” la letteratura ufficialmente accettata dalla Chiesa o introdurre idee proprie di una delle varie correnti di pensiero allora comuni.
Brevemente possiamo dire che gli apocrifi del Nuovo Testamento sono quegli scritti che non fanno parte del canone biblico del Nuovo Testamento ma che dal titolo, dalla presentazione, dal modo con cui trattano l’argomento e da altri elementi interni (stile, genere letterario) ed esterni si presentano come testi canonici, tacitamente o espressamente rivendicando un’autorità sacra pari a quelli del canone o intendono sostituirli o completarli.

Antichi elenchi di testi canonici e apocrifi
Uno sguardo agli inizi della formazione del canone biblico cristiano dà un’idea abbastanza chiara e precisa del problema affrontato agli inizi del cristianesimo e del grande numero di opere apocrife che circolavano. Avendo di mira opere apocrife, Ireneo scriveva:
Non è affatto lecito affermare, che essi (cioè gli apostoli e in particolare gli evangelisti) predicarono il vangelo prima di averne un’esatta conoscenza, come certuni hanno la temerarietà di affermare, blaterando con boria di essere essi i revisori degli apostoli. I fatti sono ben diversi perché, dopo che il Signore nostro risuscitò da morte, alla discesa dello Spirito santo essi furono rivestiti di particolare vigoria, ebbero la pienezza dei doni, ricevettero una perfetta capacità di conoscenza e si portarono fino ai confini della terra…Ora se qualcuno non aderisce al loro insegnamento, disprezza coloro che hanno parte con il Signore, disprezza lo stesso Cristo Signore, disprezza il Padre e si condanna da se stesso… come fanno gli eretici. (Adv. Haeres., 3,1)

Con non minore preoccupazione di separare i libri rispecchianti i tre canoni dagli altri ( e cioè i canonici dagli apocrifi), scriveva Origene:
Una volta nel popolo ebraico molti presumevano di avallare il dono profetico, mentre in realtà erano falsi profeti… ma tra il popolo c’era la grazia del discernimento degli spiriti, in forza della quale alcuni erano accolti come profeti, mentre altri venivano regolarmente respinti… Così ora, nel Nuovo Testamento molti hanno tentato di scrivere il vangelo; anzi, che moltissimi ne siano stati scritti lo sappiamo dalla prefazione di Luca… La Chiesa possiede quattro vangeli, le sette antiche numerosissimi, tra i quali uno è scritto secondo gli Egiziani, un altro secondo i Dodici Apostoli; anche Basilide ebbe la sfrontatezza di scrivere un vangelo e intitolarlo al proprio nome… Conosco anche un vangelo che s’intitola secondo Tommaso, uno secondo Mattia e ne abbiamo letti parecchi altri, e ciò per non sembrare che noi in certe cose siamo degli ignoranti di fronte a certuni, che per il fatto di conoscere tali scritti credono di sapere chissà cosa. Ma tra tutti questi scritti noi non approviamo altro, se non quello che la Chiesa approva. (In Lc hom., praefatio)
Testi di questo genere, testimonianti la lotta per discernere il “canonico” dall’”apocrifo” (inteso questo soprattutto come opera eretica) si potrebbero facilmente moltiplicare.
Eusebio di Cesarea ci ha tramandato un elenco quadripartito così concepito:

  1. libri omologumeni, cioè accettati da tutte le chiese, “ai quali – scrive – se lo si crede opportuno, si può aggiungere l’Apocalisse di Giovanni”;
  2. libri antilegumeni, cioè oggetto di contestazione, sebbene siano accolti da molti (si tratta dei cosiddetti libri deuterocanonici);
  3. libri adulterati, cioè scritti apocrifi citati da vari scrittori ecclesiastici, circolanti nelle chiese, ed anche se non sono certamente tra i canonici non contengono idee eretiche, hanno cioè carattere ortodosso; tra questi cita il Vangelo degli Ebrei, l’Apocalisse di Pietro, gli Atti di Paolo, l’Apocalisse di Giovanni, il Pastore di Erma ed altri;
  4. libri di carattere eretico che intendono sostituire gli scritti canonici e si fregiano perciò con il nome di apostoli; tra questi cita il Vangelo di Pietro, il Vangelo di Tomaso, il Vangelo di Mattia, gli Atti di Giovanni ed altri (Hist. eccles., 3,25).

Agostino conosce ormai il canone biblico ufficiale; ha superato i dubbi più gravi del dotto Eusebio, ma sa bene quanta letteratura circoli con nomi e tendenze allettanti e come, di fronte a qualche scritto non sia, poi, così facile giudicare se possa essere considerato genuinamente cristiano oppure no, e quindi come siano familiari certe esitazioni. Enuncia così una norma non semplice da seguire, ma certo rivelatrice. Eccone il testo:
Un diligente studioso della Sacra Scrittura sarà colui che l’avrà letta per intero e l’avrà conosciuta… almeno attraverso la lettura sia pure soltanto dei libri cosiddetti canonici; giacché gli altri li leggerà con più sicuro metodo, quando, in fatto di dottrina, si sarà munito di fede vera, affinché essi non creino dei preconcetti nella ancor sua debole mente, e con il gioco di generi letterari fittizi e fantastici non creino in lui qualche pregiudizio.
Sui libri canonici della Sacra Scrittura segua il più possibile l’autorità di quelle chiese nel cui numero si trovano quelle che meritano di essere sede di apostoli e ne hanno ricevuto epistole. Sui libri canonici si atterrà dunque alle seguenti regole: quei libri che sono accettati da tutte le chiese cattoliche li preferirà a quelli accettati soltanto da alcune; tra i libri non da tutti accettati, preferisca quelli che hanno il gradimento del maggior numero di chiese autorevoli a quelli che hanno il gradimento di un minore numero di chiese e queste sono meno autorevoli; se poi scoprirà che alcuni libri godono del favore di un grande numero di chiese mentre sono meno graditi in quelle più autorevoli, che a loro volta ne hanno degli altri – sebbene non sia facile trovare una simile coincidenza – penso che tutti quei libri debbano ritenersi di uguale autorità. (De doctr. christ., 2,8)

Diversi sono gli elenchi che nell’antichità circolavano con “liste” di testi considerati apocrifi. Nel VII secolo circolava la Lista dei sessanta libri canonici, che in calce riportava un elenco di 25 testi apocrifi tra Antico e Nuovo testamento. Niceforo, patriarca di Costantinopoli dall’anno 806 all’818, in appendice alla sua Cronografia porta un triplice elenco: dei libri canonici, dei libri non “canonizzati” e discussi, e dei libri apocrifi. Questo elenco, a differenza degli altri, dà anche il numero degli stinchi, o righe, di cui consta ogni singolo libro.
L’elenco di gran lunga più abbondante di scritti apocrifi del Nuovo Testamento è senza dubbio il cosiddetto decreto gelasiano, scritto che si vale del nome di papa Gelasio (m. 496) ma, forse, non è autentico. Tra l’altro contiene un elenco dei libri della Bibbia ed un elenco di scritti apocrifi, opere riguardanti personaggi dell’Antico Testamento, opere teologiche più o meno eterodosse ripudiate dalla chiesa romana. La lista non pretende di essere completa, come è detto fin dall’inizio:
Tutte le altre opere (quelle cioè che non fanno parte del canone) scritte o propalate da eretici e scismatici, non sono accettate dalla Chiesa cattolica apostolica romana. Riteniamo opportuno menzionare espressamente alcune, così come ci vengono in mente, che i cattolici devono evitare: (ne riporto una quindicina a titolo di esempio, il testo li divide in 60 punti)

- l’itinerario che va sotto il nome dell’apostolo Pietro, e denominato i nove libri di San Clemente è apocrifo;
- gli atti sotto il nome dell’apostolo Tomaso sono apocrifi:
- il vangelo sotto il nome di Giacomo il Minore è apocrifo;
- il vangelo sotto il nome di Tomaso, del quale si servivano i manichei, è apocrifo;
- il libro sulla nascita del Salvatore, su Maria o sull’ostetrica è apocrifo;
- tutti i libri fatti da Leucio, discepolo del diavolo, sono apocrifi;
- il libro sulle figlie di Adamo, detto leptogenesi è apocrifo;
- l’apocalisse attribuita a Paolo è apocrifa;
- il libro dal titolo: testamento di Giobbe è apocrifo;
- il libro dal titolo: penitenza di Origene è apocrifo;
- il libro: fisiologo, scritto dagli eretici e corrente sotto il nome di Ambrogio è eretico;
- la lettera di Gesù ad Abgar è apocrifa;
- la lettera di Abgar a Gesù è apocrifa;
- lo scritto dal titolo: proibizione di Salomone è apocrifo;
- tutti gli amuleti, scritti non già – come blaterano – in nome degli angeli, ma dei demoni sono apocrifi.

Origine e forma della letteratura apocrifa
Prescindendo dalla letteratura detta apocrifa in modo molto improprio, in un senso che oggi non è più accettato e non corrisponde alla definizione data all’inizio, è logico domandarsi quali siano state le ragioni della letteratura apocrifa propriamente detta.
Le opere più antiche sorsero certo per gli stessi motivi e le identiche finalità della letteratura canonica, erano fondate sulle stesse tradizioni e corrispondevano agli stessi bisogni e non v’è dubbio che abbiano avuto un primo periodo di esistenza a fianco agli scritti che furono “canonizzati”: la catechesi primitiva non era certo affiancata solo da questi scritti.
La stretta affinità tra il genere e la forma letteraria di questi scritti con quelli canonici porta ad un’altra osservazione: le differenze di contenuto e di impostazione non rappresentano un semplice problema letterario. Rivelano qualcosa di assai più profondo, la diversità cioè dell’ambiente, del cosiddetto Sitz im Leben o “situazione vitale” della struttura della comunità in cui sono sorti e alla quale erano destinati.  Naturalmente anche qui vi è una notevole diversità tra gli scritti più antichi assai poco interessati in correnti filosofiche e preoccupati dallo scivolare in narrazioni fantastiche e romanzate, in genere attenti e rispettosi del comune materiale tradizionale, e gli scritti più o meno apertamente, deliberatamente e decisamente intenti a colorire con idee gnostiche, apocalittiche ecc, tanto i dati tradizionali che le parole di Gesù. Vogliamo dire che, nella questione presente, oltre al problema contenutistico è necessario valutare anche quello formale e letterario, nonché la situazione vitale.

  • Un motivo dell’origine e della moltiplicazione degli apocrifi fu il legittimo desiderio di scrivere detti e fatti della vita di Cristo, e dare ad essi amplificazione, adattamenti all’Antico Testamento, amplificazioni di spunti novellistici nonché una certa indulgenza alla curiosità: aspetti questi che, nel materiale tradizionale, se proprio non erano trascurati, non avevano quelle accentuazioni degli apocrifi. Tutto questo inquadrato nella situazione vitale. È noto, ad esempio, che i cosiddetti 2vangeli dell’infanzia” in Matteo e Luca sono un prodotto tardivo rispetto all’altro materiale, soprattutto alla storia della passione – morte – risurrezione – apparizioni che costituirono il centro del kèrigma cristiano. Ma era ben comprensibile che larghi strati del popolo, in ogni paese, desiderassero sapere molto di più sulla madre di Gesù, sulla sua nascita, sulla fanciullezza, sulla sua famiglia, su suo padre. Vi erano molte altre cose che stuzzicavano la curiosità degli uditori pagani e dei fedeli. Ad esempio l’educazione di Maria e la sua verginità, la vita d’oltre tomba, la sorte dei morti prima di Cristo, la storia degli apostoli ed in particolare di qualcuno più legato a questo paese, a quella chiesa particolare o a qualche corrente di pensiero; sapere se e come la divinità di Gesù fu sempre così stranamente celata o se invece non si sia manifestata subito. A mano a mano che apparivano e si diffondevano gli scritti canonici tra la grande massa, si è tentati di pensare, la letteratura apocrifa, almeno quella più contenuta e sobria, si sentiva sempre più a suo agio proprio perché quelli mancavano di tante cose. Né si possono dimenticare gli usi e costumi locali, gli interessi di certi strati di fedeli.
  • Gli scritti apocrifi ebbero anche un compito letterario di notevole importanza: prepararono e in parte fissarono i generi e le forme letterarie della prima letteratura cristiana per la predicazione evangelica. Ciò non significa un apporto di nuove correnti letterarie nel mondo greco-romano d’allora, ma corrisponde ad una situazione particolare venutasi a creare con la diffusione del cristianesimo. Prendiamo un esempio: i centri cristiani gnostici, assai più di altri centri cristiani, si erano immedesimati con le istanze del mondo in cui vivevano; la predicazione cristiana e la letteratura acquistarono una forma (e un contenuto) nuovo in forza di un necessario e spontaneo adattamento del cristianesimo a questo modo, e viceversa.
  • I libri canonici e le tradizioni in essi confluite, hanno determinato la fisionomia della Chiesa. Tuttavia nei primi secoli vi erano anche altre tradizioni relative ai detti e ai fatti di Gesù, altre forme di predicazione e di catechesi; le comunità cristiane si diversificavano molto per origine e tradizione, strutturazione, problematiche e fisionomia. Esisteva una diversità di tradizione orale, di situazioni e di esigenze che, più o meno felicemente o problematica-mente, riuscivano dialetticamente a convivere e a comporsi. Queste diversità comportarono spontaneamente diverse presentazioni del vangelo, di atti apostolici, di lettere apostoliche, di apocalissi ecc., corrispondenti alle tradizioni, al modo di vivere e di pensare delle comunità. Ma a mano a mano che si stringevano di più i vincoli dell’unità e che si imponevano i libri canonici, la letteratura apocrifa venne marginalizzata e diventò, coscientemente o meno, sempre più tendenziosa. Molti cristiani conoscevano il vangelo solo sotto quella forma che noi oggi chiamiamo apocrifa, e non v’è dubbio che le opere più antiche furono scritte da persone che erano in perfetta buona fede.

 

Quanto alla forma della letteratura apocrifa e soprattutto quella dei vangeli, che è la più originale e importante, c’è da osservare che la letteratura evangelica canonica sorse in un ambiente cristiano, rappresentò qualcosa di letterariamente singolare e unico nel suo genere, e corrispondeva ai bisogni della predicazione e del culto. Vi è chi vede nella letteratura apocrifa la genuina continuazione e sviluppo di questa prima letteratura evangelica, adulterata poi da quella greco-romana.

  • Una delle prime forme letterarie dei vangeli apocrifi era quella dei sinottici. Se poi si tratti di una vera dipendenza degli apocrifi dai canonici o se questa affinità derivi invece dalla tradizione comune, è un problema assai complesso. Un dato sicuro sembra si possa additare nella constatazione che anche nella letteratura evangelica apocrifa più tardiva si sente chiaramente l’influsso della tradizione orale marciana e matteana (vangeli ebreo-cristiani).
  • In una serie di opere vi è presente sempre il seguente schema: gli apostoli con delle pie donne dopo la risurrezione si recano su di un monte, qui appare il Salvatore circonfuso di gloria; i presenti sono colpiti da stupore; inizia poi un dialogo originale in quanto è più che altro una “conferenza stampa”. Gesù glorioso, rispondendo alle domande dei presenti, svela i misteri, scioglie i problemi e illumina tutte le oscurità che ancora albergavano nell’animo loro affinché possano in seguito annunziare il vangelo con tutte le nozioni e con tutta la sicurezza e chiarezza indispensabili. La forma letteraria del dialogo non è casuale: corrisponde al concetto fondamentale che il Maestro è solo Gesù risorto; e questo ci spiega perché tali scritti siano così poco interessati alla vita terrestre, storica, di Gesù, mentre quasi unicamente sono dedicati alla ricerca e presentazione del Salvatore celeste. In generale, i soggetti toccati sono: la conoscenza del principio, della via, dello scopo tanto dell’uomo quanto del cosmo. (Dialogo del Salvatore, Lettera dei Dodici Apostoli, Vangelo di Tomaso…)
  • Una terza forma di vangeli apocrifi è quella che estrae qualche evento dalla vita di Gesù e lo sviluppa ampiamente con elementi presi in parte dalla tradizione, ed altri puramente leggendari, incurante molto spesso della più elementare cornice storica e geografica in cui visse e operò Gesù. (Vangeli della natività, Vangeli dell’infanzia, Vangelo di Nicodemo…) In genere questi vangeli non hanno una tendenza ideologica ben definita, e sorsero allo scopo di suscitare, sostenere e intrattenere l’interesse del popolo cristiano e fare opera di edificazione. Non sono soltanto una grande espressione della religiosità popolare del tempo in cui sorsero, bensì i loro autori hanno avuto una parte determinante  nella formazione della pietà popolare dei secoli successivi.

Importanza della letteratura apocrifa
Queste diverse forme letterarie, pur nella forzatamente schematica esposizione data, testimoniano l’importanza di tale letteratura in quanto attestano la molteplice diversità della predicazione cristiana soprattutto nei primi secoli.
Se il valore storico diretto è, generalmente parlando, assai tenue e, il più delle volte, nullo, ci permettono tuttavia un contatto diretto con i sentimenti, gli stati d’animo, le reazioni, le ansie, gli ideali di moltissimi cristiani d’Oriente e di Occidente, ci rivelano le tendenze, le correnti morali e religiose di moltissime chiese, o almeno di larghi strati di esse, completando, supplendo, e a volte rettificando quanto ci è giunto da altre fonti. Si pensi ad esempio al significato nuovo che stiamo scoprendo nei frammenti dei vangeli ebreo-cristiani, ed in altri vangeli apocrifi che costituiscono praticamente l’unica fonte per la conoscenza di certe correnti cristiane palestinesi (e non solo limitate alla Palestina) oggi documentate dalla stessa archeologia.
Uno storico della Chiesa, della liturgia e dei dogmi, non può oggi prescindere dalla letteratura apocrifa. L’antichità di alcuni scritti impone già da sé sola una seria riflessione. La maggioranza, che data dal III al IV secolo, ci tramanda le credenze di quegli antichi cristiani al di là, o comunque indipendentemente, di quello che era l’insegnamento ufficiale. In più di un testo o di un evento tramandatoci solo dagli apocrifi ci troviamo di fronte a materiale che risale alle più antiche e autentiche tradizioni cristiane. Prescindendo da quelli che sono errori manifesti o pure fantasie, non è certo giusta la persuasione di coloro che respingono praticamente tutto. Ma a parte questo che presuppone minute e pazienti ricerche ed una non comune sensibilità  cristiana, il contatto con l’immaginazione popolare di quei secoli è sempre un grande vantaggio. Anche se in questi scritti si possono scorgere adulterazioni, trasfigurazioni, contaminazioni, ecc., essi sono pur sempre il riflesso di notevoli strati popolari e completano quel quadro ufficiale che abbiamo da altre fonti.
Certi articoli della fede cristiana e cattolica hanno spesso negli apocrifi la più brillante asserzione, così ad esempio la verginità di Maria, nei vangeli della natività, la discesa di Cristo agli inferi, nei vangeli sulla passione-morte-risurrezione, la assunzione di Maria negli apocrifi sulla dormizione, ecc.
Non solo l’opposizione contro gli apocrifi, scatenatasi, come s’è visto, a cominciare dal IV secolo (e soprattutto in Occidente) non poté distruggere la grande vitalità di questa letteratura, ma essa ebbe modo di influire, in grado diverso, nella letteratura cristiana, nell’arte, nella pietà cristiana e nella stessa liturgia.
Dagli apocrifi per esempio abbiamo: i nomi dei genitori di Maria, Gioacchino ed Anna venerati dalla Chiesa come santi (16 agosto e 26 luglio); la presentazione di Maria al tempio (21 novembre); la nascita di Gesù in una grotta, e la presenza del bue e dell’asino; i tre magi e i loro nomi; i nomi dei due malfattori crocifissi con Gesù, Dima (o Dimaco) e Gesta (ma è attestato anche il nome Tito); il nome del soldato (o centurione) che colpì Gesù con la lancia, Longino; la storia della Veronica. E l’elenco potrebbe ben allungarsi.
L’influsso esercitato dagli apocrifi nell’arte è particolarmente ampio e vistoso: fin dai primi inizi nell’arte palestinese e in quella delle catacombe romane, negli artisti bizantini come in quelli rinascimentali.
Per l’influsso sulla letteratura si pensi alla Legenda aurea di Jacopo da Varagine (una sorta di sintesi degli scritti apocrifi) che estese il suo influsso per tutto il Medioevo tanto nella letteratura quanto nell’arte. La letteratura apocrifa si fa sentire in grandi opere quali la Divina Commedia di Dante, il Paradiso perduto di Milton e molte altre. Il fatto che la lotta accanita del magistero “cattolico” non sia riuscita a sradicare dagli apocrifi le simpatie che godevano presso il popolo e si limitò poi a rilevarne gli errori, dimostra il prestigio di cui godevano. Nonostante le condanne viste, le parole di  Gerolamo sui “delirii degli apocrifi” e sui “sogni degli apocrifi”, le parole di Agostino “hanno qualche verità, ma a causa delle molte cose false non godono di alcuna autorità”, e le riserve e condanne di persone come Alcuino, Bernardo di Chiaravalle, Pier Damiani, Tommaso d’Aquino, ecc., parecchi apocrifi non dispiacevano certamente a vari maestri cattolici soprattutto per l’abbondanza di notizie che contengono sulla vita e l’attività degli apostoli, sull’infanzia di Maria e di Gesù, ecc.
Per concludere, gli apocrifi del Nuovo Testamento contribuiscono alla conoscenza delle correnti religiose, delle dottrine, delle tendenze spesso eterodosse esistenti tra i cristiani dei primi secoli; la lettura di questi scritti, oltre a rivelare la fede semplice del popolo, ne rivela pure le ansie e le curiosità, ci fa comprendere molti monumenti dell’arte e della letteratura cristiana, suggerisce inoltre che non tutto in essi è fantasia ma contengono qualcosa di autentico e venerabile, anche al di là di quello che è il loro innegabile valore di testi di letteratura popolare.
(tratto da:  Apocrifi del Nuovo Testamento, a cura di Luigi Moraldi, ed. Piemme)

 

 

Gli apocrifi e l’arte
Albero di Jesse (Leggenda Aurea)
La questione della genealogia di Gesù è complessa. Matteo computa quaranta generazioni di antenati, ma David va conteggiato due volte, come anello di congiunzione fra i discendenti di Abramo e l’avvio della stirpe regale, e con l’aggiunta di Gioacchino (o, in qualche caso dello stesso Gesù) si raggiunge il numero di 42, divisibile in tre: le 14 generazioni da Abramo a David, i 14 re da David a Iosias e i 14 antenati di Cristo successivi al ritorno dall’esilio babilonese, da Iechonias a Giuseppe. Il nome di “albero di Jesse” ha origine dalla profezia di Isaia, che parla del “virgulto che crescerà dalla radice di Jesse”, altro nome per Isai, il padre di David, che viveva a Betlemme. D’altro canto, seguendo la genealogia del Vangelo di Luca, la “radice” non è Jesse, ma Adamo, il progenitore dell’intera stirpe umana: l’Albero si sovrappone così al ligneum vitae, che secondo la Leggenda Aurea, prende a sua volta origine da Adamo. Il problema è legato al fatto che Giuseppe non è il padre naturale di Gesù, e dunque la genealogia deve concludersi non con Giuseppe, ma con Maria. Per tale motivo san Gerolamo, san Giovanni Damasceno e altri autori della Patristica, seguiti da Jacopo da Varagine, hanno stabilito che anche Maria discende da Jesse e da suo figlio David.
Gioacchino e Anna (Protoevangelo di Giacomo, Leggenda Aurea)
Gli episodi che precedono la nascita di Maria non sono riportate nei Vangeli canonici: le narrazioni apocrife, di evidente carattere favolistico, ricalcano modelli veterotestamentari (una coppia ormai anziana e ritenuta sterile che, dopo una penitenza di quaranta giorni e in seguito all’annuncio di un angelo, concepisce un figlio), ma con vivaci dettagli descrittivi, ambientali e persino psicologici, capaci di suscitare l’immaginazione degli artisti. Gioacchino e Anna, coniugi esemplari, sono sposati già da vent’anni, ma non hanno figli. Per questa incapacità di “accrescere il popolo eletto”, considerata come una maledizione divina, l’offerta portata da Gioacchino al Tempio di Gerusalemme nella festa della Dedicazione viene sdegnosamente rifiutata. Gioacchino, avvilito, non osa tornare nella sua casa di Nazareth, e si ferma nel deserto insieme ai pastori, per trascorrere quaranta giorni di digiuno e di penitenza. Ma un angelo gli annuncia che le sue offerte erano salite fino al trono di Dio, e i suoi voti si sarebbero presto realizzati: la moglie Anna avrebbe avuto una figlia. L’angelo conforta anche Anna, in lacrime per l’assenza del marito, indicandole la Porta Aurea di Gerusalemme come luogo del ricongiungimento. Dopo il commovente incontro, Anna concepisce Maria.
Natività di Maria (Protoevangelo di Giacomo, Leggenda Aurea)
La nascita di Maria (o meglio Miriam, secondo la dizione ebraica) avviene nella più completa “normalita”. Quanto c’è di divino e soprannaturale nel concepimento e nella natura stessa di Maria avviene prima del parto di Anna. Anche le parole e le cure dolcissime della madre, abbondantemente riportate nel Protoevangelo di Giacomo, rientrano, in fondo, in un intenso rapporto di amore fra una madre e la primogenita. Proprio per questo carattere totalmente umano e terreno, dal tardo Medioevo al pieno Rinascimento, le scene della Natività di Maria costituiscono preziosi documenti storici e di costume, con numerosi dettagli di arredo e abbigliamento. L’umanissima figura di sant’Anna, che non viene mai citata nel Vangelo, ha avuto una notevole diffusione in Germania, toccando anche ampi strati popolari: proprio per questo è stata duramente attaccata da Martin Lutero, che intendeva “scacciare le immagini” dal cuore dei fedeli, per ritornare alla purezza semplice e schietta delle Sacre Scritture.
Educazione della Vergine (Protoevangelo di Giacomo, Vangelo dello pseudo-Matteo, Leggenda Aurea)
Destinata dal voto del padre Gioacchino a un’esemplare formazione religiosa e alla consacrazione al culto divino, Maria trascorre gran parte dell’infanzia presso il Tempio di Gerusalemme. Quasi del tutto assenti nell’arte medievale, le scene che raffigurano Maria bambina si moltiplicano fra Rinascimento e Barocco, anche in relazione con lo sviluppo del culto verso sant’Anna. Dalla madre, Maria impara precocemente a leggere e a dedicarsi a lavori di cucito: il libro e il cestino da ricamo diventano attributi della Madonna, e spesso compaiono anche nelle scene dell’Annunciazione. Secondo il Protoevangelo di Giacomo, per la sua grande abilità di ricamatrice Maria viene prescelta fra le compagne per realizzare una preziosa cortina di porpora fina per il Tempio.
Presentazione di Maria al Tempio
(Protoevangelo di Giacomo, Leggenda Aurea)

Secondo le fonti apocrife e la tradizione medievale, dai tre ai quattordici anni Maria vive presso il Tempio: tuttavia, nell’arte vengono rappresentati solo i momenti dell’entrata nel Tempio (la “presentazione”) e dell’uscita definitiva, dopo il matrimonio con Giuseppe. La descrizione del distacco dai genitori per entrare nel “collegio” annesso del Tempio è molto dettagliata. Bimbetta di soli tre anni, Maria si comporta come una piccola donna giudiziosa: sale con sicurezza i quindici gradini della scalinata senza voltarsi indietro, suscitando l’ammirato stupore del sommo sacerdote, che l’accoglie con un abbraccio. Maria vivrà all’interno del Tempio come Gesù vivrà all’interno del suo corpo: la divinità di Cristo si nasconde così interamente nell’umanità, secondo la logica di quella che sarà più tardi l’incarnazione.

 

Sposalizio della Vergine
(Protoevangelo di Giacomo, Leggenda Aurea)

Il racconto degli episodi che portano al matrimonio di Maria è uno dei più celebri casi di traduzione del tutto spuria, “contaminata” da prodigi leggendari, e tuttavia capace di radicarsi profondamente nella tradizione e nell’arte cristiana. Al compimento del quattordicesimo anno, come le altre compagne coetanee anche Maria avrebbe dovuto lasciare il Tempio di Gerusalemme per tornare nella casa dei genitori e prendere marito. Maria sosteneva di essere destinata al culto e non alle nozze: il sommo sacerdote organizza una “prova” della volontà divina. Raduna accanto all’altare i bastoni portati dai celibi della discendenza di David (o, secondo un’altra tradizione, dai rappresentanti di ciascuna delle dodici stirpi d’Israele). L’attempato vedovo Giuseppe, titubante per l’età avanzata e per il fatto di avere già dei figli, non avrebbe nemmeno voluto lasciare la propria bacchetta all’altare: invece, proprio su questa sbocciano fiori e si posa una colomba bianca. Così Giuseppe viene prescelto come lo sposo di Maria. Va tuttavia precisato che sia il Protoevangelo di Giacomo sia la Leggenda Aurea non parlano di “matrimonio”, ma solo di “fidanzamento”: Giuseppe si limita a prendere sotto la sua protezione la Vergine Maria, in attesa di celebrare le nozze, e rimane turbato alla scoperta della sua gravidanza.
Natività del Battista  (Leggenda Aurea)
La nascita del Battista, con la quale si apre il Vangelo di Luca, appartiene al gruppo delle più amabili scene sacre, anche perché si è sempre prestata a interpretazioni in chiave realistica e contemporanea, offrendo in molti casi una preziosa testimonianza sulla vita materiale e sulla suppellettile domestica. In effetti, si tratta di un episodio dove gli aspetti miracolosi e comunque divini hanno scarsa rilevanza: prevalgono invece la vivacità e il trambusto di un parto in casa, con gli uomini confinati fuori della stanza della puerpera. Fa “quadro” a sé la piccola vicenda di Zaccaria. L’attempato sacerdote, mentre bruciava incenso nel Tempio, era stato visitato dall’arcangelo Gabriele, che gli aveva annunciato la nascita di un figlio al quale porre il nome Giovanni. Zaccaria rimane incredulo e, per punizione Gabriele lo rende muto fino al compimento della profezia. Otto giorni dopo la nascita del bambino, al momento della circoncisione, fra lo stupore di tutti Elisabetta dice di volerlo chiamare Giovanni, un nome non di famiglia. A quel punto, vengono fatti dei segni a Zaccaria, che si fa portare una tavoletta e scrive: “Giovanni è il nome suo”. Allora “la sua bocca si aprì, la sua lingua si sciolse e parlava benedicendo Dio”.
Giuseppe (Protoevangelo di Giacomo, Storia di Giuseppe il falegname)
A parte qualche rara eccezione medievale, san Giuseppe è entrato nel culto solo grazie all’azione di energici predicatori quattrocenteschi, come Vincenzo Ferrer e Bernardino da Siena, per conoscere un imponente crescendo di devozione grazie all’azione dei Carmelitani e di santa Teresa d’Avila: Pio IX l’ha proclamato patrono della Chiesa universale, Pio XII ha sovrapposto la festività religiosa di Giuseppe Lavoratore a quella laica del 1° maggio. Seguendo fonti poco credibili o confuse, la storia dell’arte offre una gamma molto vasta di interpretazioni figurative, ma in generale appare prevalente un’immagine senile, più da nonno che da padre. Secondo il Protoevangelo di Giacomo, Giuseppe era vedovo, e aveva avuto un numero imprecisato di figli da precedenti matrimoni: questo spiegherebbe la misteriosa presenza  dei “fratelli” di Gesù citati nei Vangeli canonici. Leggendo in filigrana i Vangeli canonici, invece, si ricava un’immagine molto diversa, di un Giuseppe giovane padre che affronta faticose prove per proteggere la sua famiglia e in seguito tiene a lungo  presso di sé il Figlio, per insegnargli il mestiere di falegname. La permanenza di Gesù nella bottega del padre è confermata dall’uso di metafore e paragoni direttamente riferibili alla pratica di carpentiere; l’affetto di Gesù nei confronti di Giuseppe trova commovente conferma nel suggerimento di rivolgerci a Dio con le parole “Padre nostro”.
I sogni di Giuseppe
(Vangelo dello pseudo-Matteo, Protoevangelo di Giacomo)

Le apparizioni angeliche nel sogno e gli avvertimenti onirici che caratterizzano ripetutamente il concepimento e la primissima infanzia di Gesù sono frequenti anche nell’Antico Testamento, e d’altra parte se ne possono indicare decine di esempi nei poemi omerici, nella letteratura classica, perfino nelle leggende e nelle fiabe popolari. L’angelo, (mai nominato per nome) che visita insistentemente Giuseppe è una prova del “ponte” fra i misteri divini e l’umanità del falegname, che negli apocrifi appare dubbioso e spossato, mentre Matteo tende a presentarlo come “uomo giusto”, pronto ad accogliere le indicazioni dell’angelo: “Fece come l’angelo del Signore gli aveva ordinato”. La prima volta, l’angelo risolve la scabrosa circostanza della gravidanza di Maria, rivelando a Giuseppe l’origine divina del Bambino. Poi, a Betlemme, lo sveglia in piena notte spronandolo a partire per l’Egitto allo scopo di sfuggire alla furiosa strage ordinata da Erode. Infine, dopo la morte di Erode, l’angelo appare a Giuseppe in Egitto per invitarlo a tornare a casa. Matteo aggiunge, senza far capire se si tratti della medesima apparizione in sogno o di una successiva, che l’angelo avverte anche Giuseppe di non tornare in Giudea (dove si trovano Gerusalemme e Betlemme), ma di spingersi più a nord, fino a Nazareth, in Galilea.
Annunciazione (Protoevangelo di Giacomo, Leggenda Aurea)
L’Annunciazione è uno dei soggetti che meglio si prestano all’evocazione di un contesto ambientale realistico e ricco di dettagli. Pagina altissima di mistica e poesia, l’Annunciazione è uno dei temi più affascinanti dell’intero Vangelo di Luca, l’unico dei canonici a narrare l’episodio. Punto di snodo della storia cristiana, la scena si è prestata a varie interpretazioni artistiche. La sensibilità dei pittori e degli scultori ha saputo cogliere di volta in volta le reazioni psicologiche di Maria, la natura affascinante dell’Angelo, la volontà di Dio, l’arredo, il riverberarsi della scena di altri personaggi, i dettagli descrittivi. Il percorso visivo delle Annunciazione nei secoli è l’occasione per ritrovare profonde suggestioni. In ambito bizantino compare la rara iconografia, tratta dal Protoevangelo di Giacomo, che ambienta l’Annunciazione accanto a un pozzo, dove Maria si era recata ad attingere l’acqua con una brocca.
Natività di Gesù (Vangelo dello pseudo-Matteo, Protoevangelo di Giacomo, Leggenda Aurea)
La scena che può essere definita correttamente “Natività” avviene nell’ombra della notte, in un silenzio carico di attesa, probabilmente rotto dagli spasimi della Madonna e poi, finalmente, dal primo vagito del Bambino: il concerto angelico, i pastori e infine i Magi arriveranno in un secondo tempo. Il Vangelo di Luca descrive l’episodio in termini alquanto sintetici. In base al decreto di Augusto, Giuseppe e Maria si trasferiscono da Nazareth a Betlemme, al fine di farsi registrare negli elenchi del censimento generale dell’Impero Romano. Arrivati a Nazareth, Maria entra in travaglio, ma non si trova assolutamente un alloggio, e la partoriente deve adattarsi a un riparo di fortuna che Luca non specifica ma, parlando in termini espliciti di una mangiatoia in cui viene deposto il Bambino neonato, lascia intendere che possa trattarsi di una stalla o di una tettoia per gli animali. Nell’apocrifo dello pseudo-Matteo, invece, si parla in modo molto esplicito di una grotta, e si aggiungono alla scena l’asino e il bue, entrati poi stabilmente nell’immagine popolare, devozionale e iconografica del presepe.
La levatrice incredula (Protoevangelo di Giacomo, Leggenda Aurea)
Il dettagliato racconto della Natività del Protoevangelo di Giacomo include un episodio marginale che ha una certa diffusione nell’arte ma che spesso non viene affatto riconosciuto, nonostante che, in alcuni casi, siano presenti scritte molto esplicite. Per aiutare Maria nel parto, Giuseppe va a cercare una levatrice, che tuttavia arriva quando Gesù è ormai nato. La levatrice si accorge della verginità di Maria, e leva un inno alla nascita prodigiosa del Salvatore d’Israele. Corre poi a chiamare un’amica, Salomè, che non vuole assolutamente credere al fatto che una vergine possa aver generato un figlio. Arrivata alla grotta della Natività, Salomè anticipa san Tommaso affermando: “Com’è vero Dio, se non ci avrò messo il dito e scrutato la sua natura, non crederò”. Protende la mano verso Maria, ma la mano immediatamente si secca e si paralizza. Salomè implora a questo punto perdono: un angelo accorre e le consiglia di avvicinarsi al Bambino e di prenderlo in braccio: l’incredula pentita compie un gesto amorevole suggeritole dall’angelo e viene in tal modo risanata.
Il viaggio dei Magi (Vangelo dello pseudo-Matteo, fonti antiche greche e armene, Leggenda Aurea)
I racconti pseudoevangelici di origine orientale hanno conferito spessore a personaggi affascinanti quanto evanescenti del Vangelo di Matteo. Nel primo dei Vangeli canonici compaiono a Gerusalemme “dei Magi (ossia dei sapienti) venuti dall’Oriente”: hanno avvistato una stella e chiedono informazioni sul “re dei Giudei nato da poco”. Il re legittimo, Erode, convoca in gran fretta una riunione di scribi e sacerdoti: sono loro a segnalare Betlemme come luogo annunciato per la nascita di Cristo. Erode convoca i Magi e li indirizza a Betlemme, chiedendo loro di fare “diligenti ricerche” sul Bambino. I Magi ripartono: ricompare la stella, che li guida fino alla “casa” (Matteo non parla di una grotta o di una capanna) del Bambino. Si inchinano per adorarlo e offrono in dono oro, incenso e mirra. Un sogno avverte poi i Magi di evitare Erode: invece di ripassare per Gerusalemme, tornano in patria per altre vie. Matteo dunque non dice quanti fossero i Magi, né che fossero “re” accompagnati da un seguito sontuoso o di razze ed età diverse: elementi entrati però stabilmente nella tradizione e nell’iconografia.
L’adorazione dei Magi
(Tradizioni apocrife siriane, armene, arabe, Leggenda Aurea)

Nella scena dell’Epifania i doni sono tre: ciò ha suggerito il numero dei personaggi: Melchiorre re dei Persiani, Baldassarre re dell’India, Gaspare re d’Arabia. Il fatto che si rechino a Betlemme con ricchi doni e un seguito viene messo in relazione con il cerimoniale diplomatico, che prevedeva l’omaggio dei potenti ai nuovi re: san Bernardo preferisce un’interpretazione più concreta, per cui l’oro è un sollievo per la povertà di Maria e Giuseppe, l’incenso profuma l’aria della stalla e la mirra (un’erba medicinale) serve a curare il Bambino. Sull’origine dei Magi non mancano altre indicazioni. Nell’arte medievale, i Magi sono di aspetto “occidentale”: uno di loro appare più giovane. Dopo il XIV secolo i re Magi, considerati discendenti di Noè, diventano rappresentanti di tre età, di tre razze o di tre diversi continenti (Baldassarre simboleggia l’Europa, Melchiorre, con un turbante, l’Asia e Gaspare, di pelle scura, l’Africa). 
La fuga in Egitto
(Vangelo dello pseudo-Matteo e altre tradizioni apocrife, Leggenda Aurea)

Nella frequente e spesso felice interpretazione della fuga in Egitto offerta dagli artisti è bene distinguere due momenti: uno decisamente dinamico (l’azione della vera e propria fuga, con la Madonna spesso a dorso di mulo) e uno invece del tutto statico, definito “riposo” durante la fuga. Gli Apocrifi, in parte ripresi da Jacopo da Varagine nella Leggenda Aurea, hanno veramente dato libero sfogo alla fantasia, popolando l’itinerario della Sacra Famiglia di draghi, belve feroci, caverne, inseguimenti, transumanze di greggi, briganti (fra cui Disma, il futuro “buon ladrone” crocifisso insieme a Gesù), idoli spezzati, alberi magici, lebbrosi, acque miracolose e così via. Nella storia dell’arte hanno una certa rilevanza l’episodio della palma da dattero che offre cibo e ristoro, quello delle statue degli dèi pagani che cadono dai piedistalli e s’infrangono e, al ritorno dall’Egitto, l’incontro fra il piccolo Gesù e san Giovannino. Dal canto loro, molti artisti hanno a loro volta immaginato luoghi, momenti, situazioni e atmosfere.
La strage degli innocenti (Leggenda Aurea)
Volendo un po’ cinicamente fornire dei dati storici, quanti bambini furono trucidati dagli sgherri di Erode? Ribaltando la domanda, quanti potevano essere i maschietti sotto i due anni nella piccola Betlemme dell’epoca? Pittori e scultori non hanno esitato a dare vita a spaventosi bagni di sangue, con decine e decine di Innocenti massacrati nei modi più orrendi; ma anche se il loro numero effettivo dev’essere stato molto ridotto, resta il grande mistero. Perché dei bimbi in fasce, incolpevoli e inoffensivi, devono morire? La strage degli Innocenti porta, fra le tante pagine poetiche dell’infanzia di Gesù, una nota altamente tragica. La Passione di Cristo e le efferate sevizie sui martiri hanno come protagonisti degli adulti, consapevoli del proprio destino; le pene dell’inferno sono spesso descritte con un’amplificazione grottesca e paradossale. Forse l’enfasi della storia dell’arte può essere letta proprio come una risposta paradossale, un’amplificazione che rende assurda, “impossibile” la ferocia di Erode e dei suoi scherani. Eppure, la tragicissima attualità della cronaca, e proprio nei medesimi luoghi del Vangelo, ci dimostra che la “strage degli Innocenti” è una situazione ricorrente, in qualche modo quotidiana.
Infanzia di Gesù
(“Vangelo dell’Infanzia” e molte leggende locali)

Gran parte dell’arte sacra si basa su un rapporto d’identificazione e di dialogo, un’empatia che scatta tra l’immagine e i sentimenti, le esperienze, le emozioni di chi guarda. Nel caso delle storie evangeliche, la mancanza di riferimento nelle Scritture viene colmata con gli Apocrifi, le tradizioni, ma anche con le sensazioni personali. Pensiamo a tutte le infinite Madonne con Bambino, pensate e realizzate proprio per provocare un moto di tenerezza, di affabilità, di umano contatto. Vi sono però anche situazioni dinamiche, dove nelle scene accade qualcosa, oltre al semplice abbraccio tra Madre e Figlio. In queste ultime si può anche seguire la crescita fisica di Gesù.

 

La trasfigurazione (Apocalisse di Pietro)
La dottrina spirituale di Gregorio Palamas, che vede nella luce l’emanazione dell’energia divina increata, si chiama “esicasmo” ed è alla base della pittura di icone. “Nessuno ha mai visto Dio” e dunque la sua conoscenza può avvenire solo per negazione, attraverso l’oscura luminosità di una nube che nascondendo rivela (la nube della non-conoscenza). Nell’episodio della Trasfigurazione Cristo sale con i discepoli Pietro, Giacomo e Giovanni sul monte Tabor, una piccola altura della Galilea, a 588 metri sul livello del mare. Il Tabor era considerato fin dall’antichità luogo sacro: sulla sua sommità, sotto il pavimento dell’attuale chiesa della Trasfigurazione, la roccia conserva infatti tracce di antichi culti cananei. La montagna è il luogo dell’incontro con Dio e la sua rivelazione. Sulla cima del Tabor i discepoli, tramortiti e in uno stato di estasi, vedono – in piedi su una nube, tra Mosè ed Elia (i due veggenti dell’Antico Testamento) – il corpo divinizzato di Gesù: “Il suo volto brillò come il sole, le sue vesti divennero candide come la neve”. A questo punto i discepoli “caddero bocconi a terra”, colpiti dai raggi della luce taborica “increata” che irradiava dall’aura luminosa che circondava il corpo di Cristo.
Risurrezione di Lazzaro (Vangelo apocrifo di Nicodemo)
La tomba di Lazzaro di trova a Betania, presso l’attuale villaggio arabo el-‘Azariye, sulle pendici orientali del monte degli Ulivi, a circa tre chilometri da Gerusalemme. Già nel IV secolo la pellegrina Egeria racconta la processione che, per la festa della Resurrezione di Lazzaro, il vescovo di Gerusalemme, con i monaci e i fedeli, compiva da Betania alla chiesa della Resurrezione di Gerusalemme. L’iconografia della festa si sviluppa già nelle catacombe e la liturgia bizantina ne celebra la memoria all’inizio della settimana santa. La dinamica dell’icona nasce dal gesto imperioso di Cristo che ordina: “Lazzaro vieni fuori”. Se la mano destra di Cristo è tesa nel richiamare Lazzaro da morte, la sinistra impugna il rotolo con l’elenco dei morti (chirografo), cioè dei peccatori, annullando così “il documento scritto del nostro debito, le cui condizioni ci erano sfavorevoli” (Colossesi 2,14). L’uomo che trattiene il cadavere per le bende e si copre il volto per l’odore paradossalmente non sembra accorgersi che Lazzaro già apre gli occhi. Cristo ordina: “Scioglietelo e lasciatelo andare”.
Salita al Calvario (Vangelo apocrifo di Nicodemo, tradizioni medievali)
Prima della definizione delle “stazioni” della Via Crucis, che scandiscono quasi passo per passo gli ultimi momenti della vita terrena di Gesù, la salita al Calvario è uno dei soggetti che più hanno stimolato la fantasia dei fedeli e degli artisti. Intorno a un nucleo narrativo evangelico molto toccante ma povero di dettagli, se si escludono le donne in lacrime e la presenza del Cireneo, a partire dall’Apocrifo di Nicodemo si è sviluppata una serie di aggiunte nelle figure e negli episodi. La più celebre presenza extrabiblica è la Veronica, la donna che avrebbe asciugato con un panno il volto di Cristo, ricevendone la “vera icona”. Non citata dai Vangeli ma con ogni verosimiglianza presente, e dunque quasi sempre raffigurata nell’arte, è la Madonna straziata dal dolore o addirittura svenuta e sostenuta da altre donne. Non comprese nel racconto evangelico sono le tre cadute di Gesù durante la salita, sotto il peso della Croce, diventate in seguito “stazioni” della Via Crucis.
Deposizione dalla croce  (Vangelo apocrifo di Nicodemo, Leggenda Aurea)
L’esecuzione di Cristo e dei due ladroni nel pomeriggio del Venerdì Santo assume cadenze convulse: i sommi sacerdoti ordinano una rapida conclusione dell’agonia dei tre giustiziati, per non rovinare i preparativi della festa del Sabato di Pasqua. Giovanni ricorda un dettaglio raccapricciante, ripreso frequentemente nella pittura tedesca: ai due ladroni vengono inferte ferite e fratture alle gambe, per abbreviare l’agonia. Per Gesù l’operazione si rivela non necessaria, dato che è già morto, e un soldato (altrove identificato con Longino) colpisce con la lancia il costato: dalla ferita esce sangue misto ad acqua. Giuseppe d’Arimatea, un membro del Consiglio degli anziani, aveva ottenuto da Pilato il permesso di rimuovere il corpo di Gesù. Con l’aiuto di Nicodemo, un nobile fariseo, dalle mani e dai piedi di Gesù vengono estratti chiodi e il corpo viene calato dalla Croce. Le tenaglie con cui vengono estratti i chiodi, così come i chiodi stessi e il martello che era stato usato dai carnefici per conficcarli, entrano a far parte degli “strumenti della Passione”.
Deposizione nel sepolcro
(Vangeli apocrifi della Passione, Leggenda Aurea)

Giuseppe d’Arimatea e Nicodemo si occupano della sepoltura di Cristo. Nicodemo porta una misura di mirra e aloe per la purificazione e l’imbalsamazione del corpo di Cristo. Questo soggetto viene talvolta evocato dalla presenza di vasetti di unguenti: per la scena si usa anche il termine di “pietra dell’unzione”. Utilizzano inoltre bende impregnate di aromi, secondo la tradizione ebraica, e poi trasportano il corpo in un sepolcro vuoto, mai utilizzato in precedenza, di proprietà di Giuseppe d’Arimatea, scavato nella roccia nei pressi di un orto vicino al Calvario. Giuseppe d’Arimatea sorregge il corpo per le spalle, Nicodemo per i piedi. Il sepolcro viene infine chiuso con una pietra. Nella tradizione iconografica, le fasi dell’imbalsamazione e della bendatura di Cristo vengono per lo più ignorate: Cristo viene di solito trasportato e deposto nel sepolcro avvolto in un lenzuolo bianco, il sudario, anch’esso procurato da Giuseppe d’Arimatea. Questo “sacro lino” che ha accolto il corpo di Cristo morto è identificato dalla devozione con la Sindone, reliquia conservata a Torino.

 

Discesa agli inferi (Vangelo apocrifo di Nicodemo)
La liturgia bizantina della domenica di Pasqua è molto suggestiva e riprende il tema dell’icona: la chiesa è chiusa, immersa nelle tenebre, e il sacerdote bussa per tre volte dall’esterno con la croce dicendo: “Aprite le porte al Signore delle potenze, al re della gloria”. Dall’interno il sacrestano fa un grande strepito di catenacci e ferraglia per esprimere una certa resistenza, e infine apre. La chiesa è illuminata e profumata di incenso; al centro, sul leggio davanti all’iconostasi, è esposta l’icona della Discesa agli inferi ornata di fiori. L’icona mostra ai fedeli radunati nella notte pasquale Cristo che, impugnando la Croce, scardina le porte degli inferi e strappa dalle tenebre i progenitori Adamo ed Eva, e con loro tutti i giusti dell’Antico Testamento. Cristo tiene in mano “il documento scritto della nostra condanna”, detto chirografo (cioè l’elenco dei morti), “le cui condizioni ci erano sfavorevoli” (Colossesi 2,14). Nella terra si apre una voragine come nel passaggio dell’icona del Battesimo di Gesù nel Giordano. La nera cavità ricorda quella in cui il Bambino Gesù viene deposto in fasce nell’icona della Natività, e richiama anche l’immagine di Giona rimasto tre giorni nel ventre del grosso pesce.
Cristo appare a Maria (Leggenda Aurea)
L’episodio è strettamente collegato alla discesa agli inferi: talvolta la scena viene anzi evocata sullo sfondo. In alcune opere, addirittura, i personaggi biblici fatti uscire dall’Inferno seguono Gesù nella stanza dove la Madonna si era ritirata per piangere in solitudine. Si tratta di immagini rare ma interessanti, per la presenza un po’ ingombrante di una piccola folla di patriarchi e di profeti che contrasta con l’intima emozione dell’incontro tra Madre e Figlio. Più diffusa, e anche più elevata dal punto di vista dei risultati stilistici, è comunque la scelta di concentrare l’azione solo sui due protagonisti, con esiti di appassionata intensità. La Madonna è quasi sempre seduta, affinata, con il solo conforto di un libro di preghiere. Gesù appare in carne e ossa, mettendo bene in evidenza la fisicità delle ferite. Lo stendardo della Resurrezione, oltre naturalmente alle piaghe e all’assenza degli Apostoli, permette di identificare correttamente la scena, distinguendola da quella del congedo di Cristo dalla madre prima della Passione.
Incredulità di Tommaso (Atti apocrifi di Tommaso)
Il giorno stesso della sua Resurrezione (“il primo dopo il sabato”) Cristo entra “a porte chiuse” nella stanza dove si trovano radunati i discepoli. Tommaso, che non è presente all’accaduto, non crede alla testimonianza dei discepoli: “Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il dito nel posto dei chiodi e non metto la mia mano nel suo fianco, io non crederò”. Otto giorni dopo Gesù torna di nuovo a porte chiuse e Tommaso, che è presente, riceve dal Risorto la prova che aveva chiesto. L’incredulità di Tommaso ha avuto grande importanza nella riflessione teologica sull’autenticità della Risurrezione. L’iconografia dell’episodio si è mantenuta sostanzialmente immutata fin dalle immagini più antiche. Cristo al centro, davanti alla porta chiusa dell’edificio, mostra le piaghe a Tommaso che gli si accosta timoroso; a destra e a sinistra gli apostoli, divisi in due gruppi, restano ammirati e stupiti. Nell’icona della Dormizione l’apostolo Tommaso è ricordato come colui che, chiamato con gli apostoli per assistere alla morte della Vergine, è in ritardo e viene trasportato in volo da Maria, appeso alla sua cintura. Gli Atti di Tommaso, un’opera apocrifa del III-IV secolo, raccontano l’opera di evangelizzazione e il martirio di Tommaso, l’apostolo delle Indie.
Morte della Vergine
(Libro apocrifo del Transitus Mariae, Leggenda Aurea)

Molti anni dopo la Pentecoste, quando ormai gli Apostoli si erano dispersi per il mondo, un angelo con un ramo di palma appare a Maria, annunciandole l’imminente morte. La Madonna esprime il desiderio di rivedere gli Apostoli, che si radunano intorno al letto di Maria morente. Senza alcun dolore, Maria si spegne (“si addormenta”), e Cristo scende dal cielo per accogliere l’anima. Desunta da una fonte apocrifa, in cui si mescolano momenti toccanti e poetici con le consuete esagerazioni dei Vangeli non canonici, la morte della Vergine ha dato origine a una lunga serie di opere d’arte. Pochi soggetti permettono di osservare con tanta efficacia lo sviluppo del concetto stesso di immagine sacra. L’arte medievale e bizantina privilegia l’apparizione di Cristo, che scende dal cielo accompagnato dagli angeli per accoglier l’animula della Madonna. Durante il Quattrocento si mette in evidenza la liturgia che si svolge intorno alla Vergine morente, con candele, aspersorio e Pietro vestito di paramenti sacerdotali. Dopo la Controriforma e soprattutto con Caravaggio, prevale l’aspetto umano.
Assunzione
(Libro apocrifo del Transitus Mariae, Leggenda Aurea)

Il racconto dell’Assunzione si sviluppa con le stesse modalità di quello della morte della Vergine: la fonte è il Transitus Mariae, via via arricchito di aggiunte e interpolazioni, fino ad approdare alla Leggenda Aurea. Jacopo da Varagine conferma che si tratta di uno scritto apocrifo, ma degno di fede nelle linee essenziali. Per questo, gli artisti che hanno raffigurato la morte e l’Assunzione della Vergine hanno spesso tralasciato gli episodi minori, cercando di cogliere l’essenziale. La scena dell’Assunzione, particolarmente importante per il mondo cattolico, è ambientata nella valle di Giosafat, il cimitero dove gli Apostoli avevano portato la bara di Maria. Dopo alcune vicissitudini, la bara viene deposta in un sepolcro: appare allora Gesù, che nell’arte ha più spesso l’aspetto di Dio Padre, con una moltitudine di angeli. L’Arcangelo Gabriele scoperchia la tomba, l’anima di Maria viene riunita al corpo e gli angeli la sollevano verso il Paradiso. Una piccola aggiunta riguarda Tommaso che, arrivato in ritardo, non assiste all’Assunzione: come prova dell’evento Maria gli dona la propria cintura.
Incoronazione della Vergine
(Libro apocrifo del Transitus Mariae, Leggenda Aurea)

Il testo del Transitus Mariae termina con l’immagine di Maria assunta in cielo, mentre gli Apostoli lodano Gesù Cristo “che vive e regna col Padre e lo Spirito Santo in perfetta unità e in una stessa sostanza di divinità nei secoli dei secoli”. Questa preghiera può essere applicata anche a Maria, che, secondo l’interpretazione di san Gerolamo, con l’Assunzione viene subito portata “fino al trono di Dio”. Per questo talvolta la scena viene raffigurata come immediato seguito dell’Assunzione. L’incoronazione della Vergine è una solenne cerimonia celeste, e di solito viene congiuntamente officiata dal Padre e dal Figlio, che sorreggono insieme la corona collocata sulla testa di Maria, alla presenza dello Spirito Santo. Meno frequenti sono le immagini in cui solo Gesù o solo Dio Padre incoronano la Madonna. Ancora più rare, ma molto suggestive, sono le immagini che raffigurano l’avvenuta Incoronazione, con Maria seduta di fianco a Cristo sullo stesso trono.
Non fatto da mani d’uomo (Leggenda Aurea)
La tradizione occidentale identifica il “vero” volto di Cristo nell’impronta che Gesù lasciò miracolosamente impressa sul telo che la Veronica usò sul Calvario per asciugargli il volto. La Legenda aurea racconta che l’imperatore Tiberio guarì guardando questa immagine, portatagli a Roma dalla stessa Veronica. La reliquia, detta “Veronica”, fu copiata innumerevoli volte, finchè se ne persero le tracce: alcuni la identificano con l’icona di Manoppello (Chieti) o quella di Genova (San Bartolomeo degli Armeni). Per l’Oriente cristiano invece il vero Santo Volto è il mandylion, il ritratto che Gesù mandò a Edessa per guarire il re Abgar; nascosto in un muro, fu ritrovato nel 545 e trasferito a Costantinopoli nel 944. L’immagine, che rimase esposta in Santa Sofia a Costantinopoli fino al 1204 (sparì all’inizio della quarta crociata) potrebbe corrispondere in realtà alla stessa Sindone di Torino ripiegata. La tegola (keramion) usata per murare il mandylion durante le persecuzioni conserva l’impronta rovesciata del Santo Volto. Sono attualmente tre i mandylion che derivano da quello di Costantinopoli: il santo Keramion di Novgorod, il Santo Volto di Laon, il Santo Volto di Jaroslavl’.
(informazioni tratte dai seguenti Dizionari dell’Arte Electa: “Icone e Santi d’Oriente” e “Episodi e personaggi del Vangelo”)


La moneta, il credito e la banca nel Medioevo

La moneta, il credito e l’espansione economica

I sistemi economici che si sono succeduti del mondo medievale europeo non sono stati mai totalmente racchiusi nell’autoconsumo (che si ha quando i produttori consumano solo ciò che essi stessi hanno prodotto) o nel baratto (che si ha quando si scambia direttamente merce contro merce).In quei secoli la funzione economica e sociale dello scambio è stata sempre ben presente.
Nell’economia medievale europea la moneta, in prevalenza costituita da metalli preziosi coniati, era significativamente presente; essa non circolava sempre e dappertutto negli stessi modi e nelle stesse quantità, ma tuttavia circolava. La circolazione era generalmente ben organizzata e regolamentata dalle pubbliche autorità. Tre sono le funzioni essenziali che la moneta può svolgere in un sistema di scambi:

  • Misurare il valore, cioè indicare il prezzo dei beni destinati allo scambio.
  • Conservare il valore, cioè mantenere più o meno inalterata nel tempo la capacità di acquisto.
  • Trasferire il valore in modo semplice e rapido, agevolando enormemente il sistema dei pagamenti.

Quando la moneta è presente in un sistema economico con queste tre funzioni essa può contribuire all’avvio di un processo di crescita e perfino di sviluppo economico.
Nei sistemi economici sia dell’alto sia del basso Medioevo era tuttavia presente un secondo fondamentale strumento di propulsione economica: il sistema del credito, cioè l’insieme delle operazioni economiche caratterizzate da un prestito. Il detentore di una qualsiasi risorsa cede temporaneamente la proprietà del proprio bene (spesso la moneta) a un altro individuo, col patto di riavere indietro in un futuro prestabilito ciò che ha prestato. Dal punto di vista del debitore la convenienza è immediatamente valutabile e consiste nella possibilità di utilizzare le risorse ottenute in prestito. Dal punto di vista del creditore il problema si presenta in termini più complessi, e l’operazione risulta fattibile se si realizzano alcune condizioni:

  • Se il prestatore trae vantaggio dal trasferimento della sua moneta (o da qualsiasi altro bene) e se ricava, quindi, dalla sua temporanea cessione un profitto regolato dal tasso di interesse.
  • Se il prestatore ha fiducia (ed è questo, come è noto, il significato originario latino del termine credito) che il debitore alla scadenza dei termini sia in grado di soddisfare il suo impegno di restituzione.

Mentre la moneta reale, costituito da solido metallo prezioso, non poneva problemi di fiducia (se non quelli relativi alla sua eventuale falsificazione), al contrario il credito, costruito sulla promessa della futura restituzione del bene prestato, era completamente basato sulla fiducia.
La moneta e il credito furono due componenti strutturali della vita e della cultura economica del Medioevo europeo. Esse non furono certo un’invenzione medievale (erano già ben conosciuti nell’antichità), ma i sistemi economici europei medievali li utilizzarono al meglio per innovare le proprie capacità di produrre, di scambiare, di consumare, e dunque per espandersi e crescere economicamente. E se all’inizio dell’età medievale la moneta e il credito avevano ancora una presenza economicamente ridotta, socialmente limitata e culturalmente marginale, alla fine della stessa epoca essi erano ormai divenuti due strumenti fortemente diffusi tra tutti gli strati della popolazione, e contribuivano a creare nuovi meccanismi economici e nuovi modelli culturali. E la loro importanza crebbe a tal punto che ben presto sorse e si impose una nuova struttura aziendale specificamente destinata a gestire la loro presenza sul mercato, la banca.

L’offerta e la domanda di moneta

Nel Medioevo la moneta era fondamentalmente costituita da metallo prezioso (oro e argento) coniato e messo in circolazione in quanto tale; dunque, l’offerta di moneta, cioè la disponibilità globale di moneta in tutto il territorio europeo o in una sua area politicamente circoscritta, coincideva in linea di massima con la quantità globale di metalli preziosi disponibili, moltiplicata naturalmente per la velocità di circolazione (cioè per il numero delle operazioni che una stessa singola moneta compiva in un dato periodo di tempo). Questa struttura metallica da un lato garantiva la capacità di acquisto della moneta, che era la stessa capacità di acquisto dell’oro o dell’argento in essa contenuti, ma dall’altro rendeva lenta, difficile e perfino pericolosa la movimentazione delle monete, e questo abbassava radicalmente la velocità di circolazione. E poi non sempre l’oro e l’argento potevano essere reperiti nelle quantità necessarie per le coniazioni.
Dall’altra parte vi è la domanda di moneta, cioè il bisogno che gli operatori economici hanno di moneta per produrre beni e per accedere ai mercati. Se è sovrabbondante l’offerta si determina una situazione di inflazione (diminuisce il valore del denaro e aumenta il prezzo monetario delle merci); se, invece, è sovrabbondante la domanda si determina una situazione di deflazione (il valore del denaro aumenta e il prezzo delle merci tende a diminuire).
Nell’alto Medioevo l’offerta di moneta era limitata dal fatto che in Europa le miniere di metalli preziosi scarseggiavano: l’argento era più facile da trovare e molti sforzi furono fatti nel corso del tempo per accrescerne la produzione; i giacimenti d’oro erano, invece, assai rari. Accanto alle miniere l’altra fonte di accumulazione di metalli preziosi era, naturalmente, costituita dagli scambi commerciali; ma anche in questo caso la situazione era poco favorevole, perché gli europei erano costretti a esportare metalli preziosi, e soprattutto oro, per acquistare in Oriente le merci pregiate che non riuscivano ancora a produrre, e questo limitava ulteriormente l’offerta interna degli stessi metalli.
Carlo Magno introdusse nei territori dell’Impero una celebre riforma monetaria con la quale fu imposto alle zecche di quasi tutta l’Europa continentale la produzione di una sola specie monetaria, il denarius, contenente poco più di un grammo e mezzo d’argento puro. I calcoli potevano essere fatti utilizzando naturalmente dei multipli del denarius, il soldo (che raccoglieva il valore di 12 denari) o la lira ciascuna delle quali raccoglieva il valore di 240 denari), ma in concreto i pagamenti venivano effettuati spostando solo le monete realmente coniate, i denari d’argento. Questa riforma sancì il dato di fatto economico preesistente, e cioè che l’Europa alto-medievale era ormai ufficialmente divisa in due aree monetarie: una fascia meridionale e mediterranea, estesa anche alla Spagna musulmana, dotata di stretti contatti con l’Africa settentrionale e con il Medio Oriente, nella quale continuavano a circolare, accanto a monete d’argento, le importanti monete d’oro prodotte nelle zecche dell’Impero Bizantino o in quelle dell’Impero Arabo; una fascia settentrionale e continentale, nella quale la circolazione si stabilizzò, invece, esclusivamente sul monometallismo argenteo.
Una moneta d’oro nei secoli alto medievali aveva una capacità di acquisto che era da nove a dieci volte maggiore rispetto a quella di una moneta d’argento di pari peso; nel basso Medioevo passò a undici, dodici volte.
Tutti coloro che controllavano le politiche monetarie e le zecche dell’epoca (imperatori, vescovi, grandi feudatari, autorità cittadine, sovrani regionali) non avrebbero avuto alcun interesse a impoverire la circolazione della moneta; si immagini, inoltre, la scomodità e il pericolo per chi doveva accedere al mercato con grandi quantità di piccole monete dotate individualmente di bassa capacità d’acquisto. Ma la scelta in favore della circolazione monometallica argentea, se da un lato era giustificata dalla scarsità d’oro, dall’altro era tuttavia basata sulla convinzione che la massa delle piccole monete d’argento circolanti costituisse un’offerta adeguata rispetto al livello non eccessivamente alto della domanda esercitata dagli operatori economici presenti nei mercati di allora.
Ma nel basso Medioevo, con l’avvio e il successivo consolidamento della lunga fase di crescita economica che investì la parte occidentale dell’Europa a partire già dal X secolo, il rapporto tra offerta e domanda di moneta andò incontro a rapidi mutamenti. La piccola moneta d’argento, il denarius, divenne insufficiente.
Durante la fase espansiva basso medievale accaddero, di fatto, due fenomeni tra loro contrapposti: da un lato, la rapida espansione del numero e del valore dei beni prodotti e scambiati ampliava fortemente la domanda di moneta; dall’altro, l’offerta di moneta cresceva invece molto più lentamente e tra molte difficoltà. La situazione divenne insostenibile nel XIII secolo. Negli anni iniziali del Duecento, a partire da Venezia, si cominciarono a coniare i soldi, già ricordati; dal 1252, a partire da Genova e a Firenze, si ritornò all’oro, con la coniazione di monete, quali il genovino o il fiorino, che erano costituite da oltre 3 grammi e mezzo d’oro puro.

 

 

L’offerta e la domanda di credito

Tutte le caratteristiche della circolazione monetaria, che fin qui abbiamo sommariamente descritto, hanno contribuito a creare le condizioni ideali per lo sviluppo del mercato medievale del credito. Nell’Europa continentale contrassegnata dall’organizzazione imperiale carolingia e, in seguito, dal sorgere delle autonomie feudali, urbane e regionali, l’attività del prestito era naturalmente ben presente, ma era circoscritta, soprattutto, ma non esclusivamente, al sostegno di attività agricole e artigianali locali o alle necessità del consumo. In queste circostanze, offriva credito chi aveva un sovrappiù di liquidità monetaria, come accadeva a nuclei di mercanti, di artigiani o di prestatori sia cristiani sia ebrei. Il vero e proprio credito commerciale non era ancora significativamente diffuso.
Con l’ingresso nel basso Medioevo il mercato del credito andò incontro a una significativa espansione; ciò avvenne insieme all’avvio, nell’Europa occidentale, di una fase di forte crescita della produzione, degli scambi e dei consumi, e contemporaneamente allo sviluppo dei contatti con le culture ebraica, bizantina e islamica, dalle quali l’occidente aveva molto da imparare per quanto riguarda le tecniche e le operatività economiche.
In un’Europa basso medievale che aveva preso a crescere con ritmi assai significativi e che cominciava ad avvertire sempre più i limiti economici di una insufficiente offerta di moneta, i mercanti e gli altri operatori di diverse città (Genova, Venezia, e altre città italiane ) e regioni (le Fiandre, le aree della zona del mar Baltico e le città lungo i fiumi Reno, Elba, Vistola, Oder) più prospere e maggiormente dotate di moneta si misero a offrire credito. E cominciarono assai per tempo a farlo quelli che vivevano nelle città italiane e generalmente mediterranee, perché soprattutto nei primi secoli basso medievali l’Europa mediterranea era in condizione di esportare le notevoli quantità di moneta che raccoglieva  nelle sue città sfruttando al meglio la sua rendita di posizione. E si trattava di un credito che cominciava a essere rivolto non solo al sostegno dei consumi, ma anche e soprattutto al rafforzamento degli investimenti produttivi.

Il tasso di interesse e l’usura

Anche nell’età medievale il tasso di interesse e la valutazione della fiducia erano i due essenziali strumenti costitutivi del mercato del credito. Quanto maggiore era la fiducia nella capacità del debitore di restituire le risorse ricevute in prestito, tanto minore era il rischio connesso all’operazione, tanto più contenuto poteva essere il tasso di interesse richiesto dal prestatore. Quanto maggiore era l’offerta di capitali, tanto minore diventava il cosiddetto costo del denaro, cioè tanto più bassa poteva essere la misura del tasso di interesse al quale la moneta veniva ceduta in prestito, e viceversa.
Nel mondo medievale europeo i livelli elevati del rischio e i volumi generalmente insufficienti, rispetto alla domanda, dell’offerta di capitali monetari, convergevano nel mantenere alta, spesso altissima, la misura del tasso di interesse. In alcuni provvedimenti basso medievali si specificava che il tasso no dovesse superare la misura del 15 per cento, ma era regola del mercato che esso raggiungesse anche una misura doppia; e per l’alto Medioevo si hanno notizie di tassi ancora più alti. Tutto ciò rendeva le operazioni di credito costose e normalmente ne scoraggiava l’avvio.
In assenza di interventi efficaci delle pubbliche autorità, il tasso di interesse era pertanto stabilito dal mercato.
I creditori richiedevano come coperture supplementari:

  • La garanzia offerta da un fideiussore, cioè da una persona o da una istituzione che si impegnavano a rifondere il creditore qualora il principale debitore si rivelasse insolvente.
  • La consegna di un pegno, di valore pari o superiore a quello della somma concessa, generalmente costituito da un oggetto reale. In alcuni casi la garanzia risultava costituita dal trasferimento al prestatore di un titolo di credito, per esempio il diritto di riscuotere una rendita o di incassare qualsiasi altra risorsa al posto del debitore.

Il fatto che il credito concesso assai spesso servisse  a sostenere i consumi più elementari di individui e famiglie rendeva particolarmente odiosa la presenza di un alto tasso di interesse, e stimolava le autorità civili e religiose a stabilire delle regole di contenimento; ma queste regole nella maggior parte di casi non facevano altro che rendere legali dei tassi già assai alti. Nel Medioevo, inoltre era da sempre attiva una forte componente culturale e religiosa, che proponeva un modello ideale di mercato e del credito, basato sul principio del prestare senza interesse; e l’importanza di questa idea nasceva dal fatto che essa era appoggiata dalle gerarchie religiose dominanti, quella della Chiesa Romana, e dunque penetrava capillarmente nella cultura del credito diffusa in tutta l’Europa. In questa concezione del credito veniva generalmente definito con il termine “usura” non un alto tasso di interesse, ma un qualsiasi tasso di interesse. La questione ebbe subito un rilievo che andava ben al di là della pura realtà economica: la condanna dell’usura divenne una battaglia condotta in difesa di principi etici e la condanna dell’usuraio acquistò un enorme rilievo di carattere socio-politico. Si condannava la violenza che il ricco faceva al povero nel momento in cui gli imponeva un tasso di interesse spropositato, frutto della sua posizione di forza.  In questi casi l’usura era biasimata per le conseguenze economicamente negative che portava con sé, poiché incrementava la povertà, portava alla miseria dei debitori, provocava perfino la carestia. In altri momenti storici, e soprattutto con l’avvio della fase espansiva basso medievale, quando cioè il prestito a interesse cominciò sempre più a riguardare non solo il rapporto tra ricchi e poveri, ma, per usare questo stesso linguaggio, i rapporti che i ricchi (mercanti e banchieri) avevano tra loro, la condanna dell’usura acquistò un ulteriore profilo. La condanna si ammantò sempre più di caratteristiche giuridiche, etiche e religiose. Giuristi, teologi e moralisti erano costretti in dettagliate “casistiche” per individuare la presenza del male nelle varie forme che potevano ormai assumere i rapporti creditizi tra gli individui.
Se si considerano le forme fondamentali del reddito (la rendita, il salario e il profitto), emerge, per esempio, assai chiaramente che per la maggior parte dei teologi solo il salario prodotto dal lavoro umano e la rendita prodotta dalla proprietà terriera, che tra l’altro era la forma dominante del reddito percepito dagli enti ecclesiastici, on andavano incontro a censure di tipo teologico o morale; già il profitto mercantile era considerato con molto sospetto e spesso accettato solo come male minore; il profitto finanziario, poi, che scaturiva dall’uso merceologico della moneta, era invece largamente condannato.
La lotta contro l’usura non ebbe in realtà quasi alcun potere nell’abbassare i tassi di interesse. La debolezza dei risultati della lotta contro l’usura è certamente da collegare alle condizioni strutturali del funzionamento del mercato, ma a esse è necessario aggiungere la grande debolezza teorica dello stesso principio che definiva usura qualsiasi tasso di interesse.
Le astratte norme etico-religiose potevano servire, talvolta, a condannare come usurai, singolarmente o in gruppo, i prestatori, cristiani o ebrei che fossero, scatenando contro di essi il malcontento, ovviamente interessato, di chi era sottoposto all’alto tasso di interesse, ma non riuscirono a modificare i livelli generali del tasso corrente nel mercato.
La lotta contro l’usura o, in termini più realistici, contro un tasso troppo alto di interesse non poteva essere dunque condotta per mezzo della diffusione di convincimenti etico-religiosi, che erano inascoltati e che, del resto, erano destinati ad andare incontro a significative modifiche a opera delle stesse autorità etiche e spirituali che allora li imponevano; né essa poteva ottenere qualche successo per il tramite di calmieri, che passavano regolarmente inosservati. Essa avrebbe potuto avere un qualche successo solo se le pubbliche autorità avessero avuto la forza di modificare le strutture stesse del mercato del credito.
Alcuni studiosi e alcune autorità religiose cominciarono a rendersi conto del fatto che non si poteva identificare totalmente l’interesse con l’usura. Si cominciò, per esempio, a non definire usura la maggiorazione della somma restituita rispetto a quella prestata quando questo sovrappiù, che il debitore dava al creditore, fu valutato come una forma di risarcimento del rischio corso dal prestatore di perdere il bene prestato o dell’impossibilità per lui di usufruire dei possibili frutti del denaro dato in prestito. Già nel tardo Medioevo la Chiesa Romana e lo stesso pontefice cominciarono ad ammettere la possibilità di offrire e chiedere un interesse.
Rimane una importante domanda: se tutti gli operatori del credito medievale prestavano a interesse, perché solo alcuni di essi, per esempio gli ebrei o i lombardi, erano considerati usurai, mentre nessuno si sarebbe mai sognato di definire usuraio un grande banchiere o l’abate di una grande abbazia, che ugualmente prestavano chiedendo interessi altrettanto alti? La risposta, banale, è che il mercato medievale del credito era condizionato dall’immagine sociale e politica dei prestatori. Era dunque definito usuraio non chiunque prestasse a interesse, ma colui che aveva la “fama” di esserlo, soprattutto perché appartenente a un gruppo sociale, per esempio gli ebrei o i lombardi, che aveva appunto la fama di annoverare usurai tra i propri membri.

I prestatori e i mercanti-imprenditori

Sostenuto dall’espansione economica, sia nell’alto sia nel basso Medioevo europeo il contratto creditizio cominciò ad attirare le attenzioni di operatori economici che offrivano credito in modo non saltuario, agendo sempre più da professionisti in questo settore e ricavando da esso il loro reddito abituale. E già assai per tempo è segnalata nelle fonti l’abitudine di ricorrere al notaio per la stesura del contratto di mutuo, per adottare la garanzia personale di un fideiussore e per ottenere la garanzia reale di un pegno.
Nei secoli alto medievali, entrarono in questo mercato e si specializzarono in queste operazioni tutti coloro che potevano disporre di una qualche riserva di moneta o di prodotto agricoli, fossero essi mercanti o grandi proprietari terrieri, laici o ecclesiastici. Essi prestavano, richiedendo forti tassi di interesse, monete o derrate agricole, e si trattava di prestiti diretti prevalentemente diretti al consumo, per cui si guadagnavano facilmente la fama di usurai. Tra coloro che offrivano credito apparvero ben presto anche alcuni significativi nuclei di prestatori di religione ebraica, che erano praticamente costretti, anche a causa di possibili persecuzioni, a mantenere in forma liquida la propria ricchezza e che utilizzavano questa liquidità per procurarsi un reddito; ma nell’alto Medioevo gli ebrei giungevano in questo settore economico da ultimi.
L’avvio della fase economica espansiva, dal X secolo in avanti, rese poi il mercato ancora più lucroso e vide entrare in esso schiere di operatoti economici, italiani prevalentemente, provenienti dalle regioni maggiormente dotate dal punto di vista dell’offerta di moneta, mentre continuava a essere ben presente e assai utile il tradizionale prestito ebraico su pegno. Per tutto il basso Medioevo, e soprattutto nel corso del XIV secolo, l’importanza della presenza ebraica nel mercato del credito andò aumentando; anche se tacciato di usura, il banco ebraico era in realtà assai richiesto e protetto in tutte le città europee, e il suo insediamento in una città era generalmente oggetto di specifiche intese e di importanti trattative tra le autorità politiche e gli esponenti delle comunità ebraiche. Questi nuclei di ebrei erano ufficialmente emarginati, per la diffusa ostilità verso la loro religione e per l’ideologia dominante che assegnava loro la fama dell’usuraio; e spesso per questi motivi, o più semplicemente con questa scusa, essi andarono incontro a tremende persecuzioni, ma di fatto, soprattutto nel XIV e XV secolo un accordo veniva spesso raggiunto.
E accanto a quelli degli ebrei, erano presenti nelle città europee i banchi di un altro soggetto economico, il mercante-prestatore. I più noti furono certamente i “lombardi”, numerosi operatori creditizi originari del Piemonte e in parte anche di altre città prevalentemente lombarde e toscane, che si riversarono nel cuore dell’Europa continentale e in Inghilterra aprendo dappertutto le loro sedi. I servizi dei lombardi erano ugualmente tacciati di usura, ed essi stessi erano talvolta oggetto di persecuzione (spesso strumentali, perché era un modo per non restituire i capitali ricevuti in prestito), e tuttavia anche la loro presenza era, in realtà, sempre richiesta, incoraggiata e protetta.
Anche i grandi proprietari terrieri, laici ma soprattutto ecclesiastici, continuarono a essere assai attivi nel mercato del credito. Per non essere tacciati di usura essi svilupparono soprattutto il sistema della “compravendita dei censi o delle rendite”; essi cioè trasferivano il denaro ufficialmente non in prestito ma per acquistare le future rendite prodotte dalla terra dei loro debitori; in realtà queste rendite servivano a pagare gli interessi sul capitale prestato e l’operazione si concludeva con il riacquisto delle stesse rendite da parte del debitore, che in tal modo restituiva il capitale inizialmente ricevuto.
Nelle città portuali si svilupparono, invece, specifici contratti che collegavano in un’unica operazione la cessione di risorse monetarie e le occasioni offerte dallo sviluppo dei commerci marittimi. Questi contratti, genericamente definiti fenus nauticum (prestito marittimo), presso i notai genovesi venivano chiamati societates (società) o accomandaciones (accomandite), a Venezia erano invece noti come contratti di collegantia. Quasi tutti prevedevano la presenza di due figure economiche distinte, appunto tra loro collegate: quella di un finanziatore, che anticipava i capitali, e quella di un mercante che viaggiava sulla nave e che si recava in tutti i luoghi in cui, attraverso la compravendita di merci, quei capitali potevano essere accresciuti. Al ritorno del mercante nel porto di partenza gli utili realizzati venivano spartiti con criteri stabiliti in precedenza.
Un’altra categoria professionale che ben presto entrò nel mercato del credito fu quella dei campsores (cambiavalute). Per svolgere il loro utile mestiere essi avevano bisogno di mantenere gran parte della loro ricchezza in monete contanti. Essi furono anche tra i primi ad accettare i depositi della loro clientela, e per questo motivo la loro attività è sempre stata considerata tra le prime manifestazioni della vera e propria banca. Ma l’attività del cambio si prestava in modo ancora più efficace a intervenire nel mercato del credito nascondendo la percezione dell’interesse. Si stipulava davanti al notaio un contratto di cambio, nel quale si prevedeva che il debitore, ricevuta una somma di denaro, la restituisse al creditore in una valuta e in una piazza diversa, stabilendo già nello stesso contratto il tasso di cambio tra le diverse valute. L’interesse era ovviamente nascosto nel tasso di cambio.
Già agli inizi della fase espansiva basso medievale l’imprenditore mercantile aveva cominciato a dar vita ad aziende che potevano essere di tipo individuale o collettivo. Queste nascevano quando vari mercanti si univano, con scritture private e davanti a un notaio, per dar vita a delle compagnie. Si trattava di aziende polivalenti, che investivano in tutti i settori che presentavano alla loro attenzione  la possibilità di reperire un profitto: quello mercantile, quello delle assicurazioni, della produzione artigianale e agricola. I creatori di queste complesse strutture economiche sono noti con il termine di mercanti-imprenditori, proprio per sottolineare la varietà della progettualità economica di cui erano portatori.
Una formula creditizia importante fu il sovraccorpo. Questo si realizzava quando i mercanti che avevano costituito la compagnia commerciale, dotandola di un capitale iniziale (il corpo), prestavano alla propria stessa compagnia ulteriori capitali (il sovraccorpo), per permettere di cogliere specifiche occasioni di scambi commerciali. Questi nuovi capitali erano solo prestati, e venivano restituiti al termine delle operazioni così attivate. Essi potevano trasformare i propri capitali monetari in merci, ma anche vendere lo stesso capitale monetario direttamente in quanto tale, cedendolo ad altri operatori economici. In questo caso il profitto era determinato dal saggio di interesse; e dal momento che questo tipo di operazioni aveva come scopo non il sostegno al consumo dei singoli o delle famiglie, ma l’appoggio a un investimento produttivo o mercantile, il tasso di interesse, per quanto alto, non appariva odioso.
Le grandi compagnie commerciali cominciarono in tal modo, già nel XIII secolo, a scambiarsi reciprocamente la liquidità necessaria per attivarsi sui mercati europei. Tutto ciò richiedeva che la fiducia reciproca divenisse un valore dominante. Si trattava, in fondo, di un numero non altissimo di operatori commerciali, che generalmente si conoscevano l’un l’altro assai bene; in una situazione del genere la perdita della fiducia corrispondeva all’espulsione dal mercato.  E così, nel processo di strutturazione della contabilità delle compagnie commerciali, già nel XIII secolo, tra i primi conti scritti utilizzati dagli operatori economici appariva, insieme ai conti della cassa e delle merci, anche il conto crediti e debiti, nel quale venivano appuntati sulla carta, per essere richiamati al momento opportuno alla memoria, gli impegni attivi e passivi che l’azienda aveva verso i propri corrispondenti commerciali.

L’azienda mercantile-bancaria

Dopo tre secoli ininterrotti di crescita economica, la stessa insufficienza globale di moneta circolante, che aveva sempre favorito l’offerta esercitata dai prestatori e dai mercanti-imprenditori, cominciò a mostrare i suoi tratti più rischiosi. Spesso, infatti, i debitori non erano in grado di restituire i prestiti per mancanza di moneta, e spesso gli operatori economici e le loro compagnie fallivano, pur possedendo significativi patrimoni, per pura mancanza di liquidità.
Nel basso Medioevo la deflazione era generata dall’insufficienza della quantità di moneta circolante; questa situazione provocava la crescita del valore del denaro e all’opposto la caduta dei prezzi monetari delle merci. L’aumento del valore del denaro aveva degli effetti sul tasso di interesse al quale il denaro veniva prestato, spingendolo ancora più in alto; e questo aveva a sua volta delle serie conseguenze sull’economia reale, poiché un tasso di interesse assai alto abbassava ovviamente la propensione degli imprenditori a investire.
Nel corso del XIV secolo molte circostanze contribuirono a indebolire l’offerta di moneta: il deflusso di metalli preziosi verso i mercati orientali, la caduta della produzione mineraria e la contemporanea difficoltà a importare oro dall’Africa, la difficoltà a individuare nuovi giacimenti, la diminuzione delle coniazioni delle zecche, e altro ancora. Il sistema del credito era, inoltre, ulteriormente indebolito dalla crisi cui contemporaneamente andava incontro il sistema degli scambi commerciali, i cui operatori talvolta non erano in grado di ripianare i loro debiti verso i prestatori.
In queste circostanze si affermò rapidamente nel corso del XIV secolo un nuovo modello di azienda, che possiamo definire di tipo mercantile-bancario, perché accanto ai tradizionali investimenti nel settore della mercatura sviluppava fortemente il settore creditizio. Mentre nelle tipologie aziendali precedentemente descritte il mercante investiva nel credito una parte del suo capitale monetario, una parte residua rispetto all’impiego nella mercatura, nelle nuove circostanze il credito divenne invece un’attività economicamente autonoma nell’ambito delle attività della compagnia, e a esso venivano destinati fondi appositamente raccolti. Si ebbero, già nel corso dello stesso XIV secolo, dei casi di compagnie create con l’obiettivo principale di entrare nel mercato del credito, e questa tendenza si rafforzò nel corso del Quattrocento.
Questa scelta di strategia aziendale fu accompagnata. Già nel corso del XIV secolo, da una impressionante serie di innovazioni economiche e organizzative che tendevano ad abbattere i costi di gestione. Le aziende cominciarono, in mancanza di capitali, a fornirsi reciprocamente le quantità esatte di risorse necessarie per attivare le singole operazioni economiche, cioè avviarono il cosiddetto credito d’esercizio, abbattendo così i costi di gestione delle risorse mancanti o sovrabbondanti. Esse rinunciarono definitivamente al pegno e all’atto notarile per realizzare tra loro il negozio creditizio: l’esistenza di debiti e di crediti veniva registrata nei libri della contabilità aziendale, e queste segnalazioni facevano fede, avevano valore di testimonianza ufficiale.
Anche il contratto di cambio, utilizzato per attivare operazioni creditizie, veniva semplificato raggiungendo la forma di una semplice lettera di cambio. Per spostare denaro da una prima piazza a una seconda, accadeva che nella prima piazza un cliente (il datore) si rivolgesse al suo banchiere (il prenditore) consegnandogli la somma che intendeva trasferire o pagare; il banchiere a sua  volta, incassato il denaro, scriveva la lettera di cambio vera e propria, che si presentava come un ordine di pagamento facente capo a un trattario (un banchiere di fiducia operante nella seconda piazza) e a favore di un beneficiario (sempre presente nella seconda piazza). Ricevuta la lettera, appunto nella seconda piazza, il beneficiario si recava dal trattario e incassava la somma. Il pagamento era stato effettuato senza che ci fosse stato effettivo spostamento di moneta da una piazza all’altra ma solo registrazioni contabili contrapposte nei libri dei due banchieri.
Insieme a tutto ciò è stato individuato, già nel XIII secolo, l’uso dei conti correnti bancari, anche se ben più complesso è il problema di stabilire qual fossero i meccanismi della loro utilizzazione. Due casi esemplari sono quelli di Venezia e della Toscana.
A Venezia i banchi di deposito erano conosciuti come banchi di scritta, e questo nome derivava proprio dal servizio che il banchiere rendeva ai suoi depositanti trasferendo i fondi per mezzo di una scritta, cioè semplicemente annotando per iscritto l’operazione, da un conto di un cliente a quello di un altro, naturalmente dopo averne ricevuto l’ordine, generalmente orale.
Nelle città toscane l’ordine di pagamento, da realizzare attraverso lo spostamento di fondi da un conto all’altro, assunse ben presto la forma di una lettera scritta dal mercante al proprio banchiere e questi impegni scritti già nel XIV secolo cominciarono ad avere la forma e le caratteristiche dell’assegno bancario. Molti di questi assegni, come anche molte lettere di cambio, ci sono pervenuti, inoltre, da questa epoca caratterizzati da una girata, con la quale il beneficiario del documento incaricava il banchiere di versare la somma a una terza persona. Gli assegni e le lettere di cambio, per lo più forniti di una girata, costituivano a tutti gli effetti delle forme di “moneta cartacea”.
Nel Trecento e poi ancora nel corso del Quattrocento, le scritture aziendali divennero sempre più complesse ed elaborate, soprattutto nel comparto della contabilità di sintesi: fu strutturato il libro mastro, che raccoglieva il riepilogo di tutti i conti dell’azienda; cominciò a essere applicato il metodo della partita doppia, con la presenza del conto avanzi e disavanzi (l’attuale profitti e perdite), che permetteva di distinguere in modo efficace il rendimento positivo o negativo del capitale investito nell’azienda dalla ricchezza personale dei proprietari dell’azienda medesima; e accanto a tutto ciò fu elaborato il concetto di bilancio, necessario per fare il punto della situazione dopo un ciclo di attività.
L’attività creditizia rafforzò ancor più la sua tendenza ad accordarsi con il potere politico. Mettendo a disposizione dei sovrani i propri capitali i mercanti-banchieri finivano spesso per essere chiamati a eseguire importanti funzioni nelle amministrazioni finanziarie di città, regioni e stati. Il caso della famiglia dei Medici, che giungeva ai primi del Quattrocento al controllo politico della città di Firenze, è una delle indicazioni più chiare di dove poteva giungere il tentativo di controllare politicamente il mercato della moneta. Mentre, l’esempio più eclatante della capacità gestionale dei mercanti-banchieri è certamente quello offerto dal loro inserimento, avvenuto di sicuro molto in anticipo, nelle strutture amministrative e di tesoreria del papa e della Chiesa Romana, cioè di quella che per tutto il Medioevo è stata la maggiore e più vasta organizzazione economica e finanziaria europea. Entrando nei gangli dell’amministrazione ecclesiastica centrale, i mercanti-banchieri italiani, arricchivano se stessi e offrivano all’amministrazione pontificia un servizio di altissima qualità, attraverso il quale essi controllavano movimenti di denaro e di merci in ogni angolo dell’Europa cristiana.
La banca divenne azienda specializzata quando i suoi profitti cominciarono a scaturire principalmente dalla differenza tra i tassi passivi, pagati ai depositanti, e i tassi attivi, che essa riceveva dalla clientela cui aveva effettuato un prestito, poiché questo richiedeva che tutto il complesso dell’attività aziendale si adeguasse a questa situazione. L’azienda bancaria si avviava già nel Medioevo a ricoprire quello che era destinato a divenire il suo ruolo specifico nel mercato: non quello di esercitare essa stessa direttamente la mercatura, la produzione, l’assicurazione e tutte le altre funzioni delle compagnie commerciali, ma quello di sostenere l’attività produttiva e di scambio delle altre compagnie, fornendo loro i servizi e i capitali necessari e riservando da questo la propria remunerazione.

Il debito pubblico, i banchi pubblici, i monti di pietà

Il mercato del credito potrebbe forse apparire come una significativa eccezione rispetto al funzionamento degli altri mercati delle merci, che nell’età medievale erano fortemente soggetti alle iniziative e ai controlli delle pubbliche autorità. Ma in realtà anche questi controlli sui mercati delle merci erano generalmente  di natura regolamentare e fiscale, mentre raramente riuscivano a entrare nel merito dei prezzi con i quali le merci erano poi comprate o vendute; si pensi, per esempio, agli scontri politici e militari che erano necessari per tentare di regolamentare il prezzo di un bene di prima necessità come il grano. Qualcosa di simile accadeva per il mercato del credito: per esistere e per funzionare esso aveva bisogno di permessi, profumatamente pagati dagli operatori creditizi, e di regolamentazioni assai severe, ma nessuna autorità politica o religiosa riusciva poi veramente  a intervenire sul prezzo della merce-denaro, cioè sul livello del tasso di interesse.
Nel corso del basso Medioevo con la creazione, in tutta l’Europa occidentale, delle strutture politiche degli stati regionali e nazionali, il tentativo di regolamentare il livello del tasso di interesse fu notevolmente effettuato, con autorevolezza e determinazione.
Se accordi, norme e minacciate punizioni non riuscivano a sovrapporsi alle esigenze del mercato, le autorità politiche dovevano direttamente entrare in esso, accanto agli altri operatori economici, e contribuire a determinare, per così dire dall’interno, il costo del denaro. Si trattava, in fondo, dello stesso principio in base al quale una autorità amministrativa urbana, se non riusciva a imporre per legge un prezzo accettabile per il grano, entrava direttamente nelle operazioni di compravendita, e comprando e vendendo essa stessa grano poteva esercitare, dall’interno, attraverso la concorrenza, una azione di reale calmierazione dei prezzi.
Nelle città e nelle regioni italiane più prospere, la presenza pubblica nel mercato del credito assunse principalmente le forme del debito pubblico, dei banchi pubblici, dei monti di pietà.
Con l’attivazione del sistema del debito pubblico le autorità politiche venivano per la prima volta direttamente coinvolte nel funzionamento del mercato dei prestiti, e lo erano naturalmente in qualità di debitrici. Di fronte ai bilanci in passivo o di fronte alle necessità di affrontare spese particolarmente gravose, le autorità politiche e amministrative ricorrevano alle prestanze per non alzare ulteriormente le imposte. Per i contribuenti il vantaggio era evidente: invece di trasferire alle autorità le proprie risorse in via definitiva, sotto forma di imposte dirette o indirette, essi preferivano prestare dei capitali destinati a essere loro restituiti, per di più con la garanzia della pubblica amministrazione e con l’aggiunta di un interesse. In una prima fase queste prestanze furono obbligatorie e commisurate alla ricchezza dei cittadini. Poi si passò all’emissione di veri e propri titoli di credito del debito pubblico, disponibili sul mercato per chiunque li volesse acquistare. Attraverso il sistema del debito pubblico, sorgeva, già nel basso Medioevo, un significativo mercato finanziario, che congiungeva la necessità della finanza pubblica con la convenienza della finanza privata, e tutto ciò era mediato dal banchiere, che in questo mercato finanziario acquistò rapidamente un ruolo essenziale; le pubbliche autorità, infatti, finirono per vendere direttamente a un banco la massa dei titoli di credito che emettevano, lasciando al banchiere la possibilità di rivendere poi gli stessi titoli ai suoi clienti.
Una maggiore possibilità di gestire i livelli del tasso di interesse poteva, in realtà, essere realizzata solo se le pubbliche autorità fossero passate anche dal lato dei prestatori, se cioè avessero cominciato esse stesse a fornire credito al pubblico, stabilendo il proprio tasso di interesse. Questo avvenne con la creazione dei banchi pubblici e dei monti di pietà.
Un primo esempio di banco pubblico in Italia lo abbiamo a Genova. Nel 1408 vennero aperti gli sportelli del Banco di San Giorgio, amministrato da un ente, la Casa di San Giorgio, che era sorto dal risanamento del sistema del debito pubblico della città. Si trattava di una vera e propria banca, che era controllata da un ente dotato di funzioni pubbliche e che era tuttavia in grado di svolgere tutte le funzioni caratteristiche di un istituto di credito: accettava depositi, apriva conti correnti, effettuava prestiti a privati e alle pubbliche autorità, effettuava operazioni di cambio e così via. E l’obiettivo dichiarato della sua apertura era proprio quello di contrastare l’avidità dei banchieri privati, dunque intendeva agire con funzioni calmieratici proprio nella gestione del tasso di interesse e nel costo del cambio.
Ancora più direttamente rivolta all’abbattimento del tasso di interesse fu la creazione dei monti di pietà. E in questo caso l’obiettivo fu perseguito con tale determinazione che a lungo si è discusso se queste istituzioni potessero essere definite come vere e proprie banche, o se piuttosto non fossero delle semplici opere di carità. In realtà se non avessero avuto le funzioni di una banca esse non sarebbero state in grado di intervenire a calmierare il tasso di interesse e si sarebbero trasformate in vere e proprie organizzazioni di beneficenza. I monti di pietà, sospinti dall’Ordine dei Francescani, e dunque dotati di una forte motivazione etica e religiosa, cominciarono a sorgere in varie regioni italiane; dopo alcuni tentativi non riusciti, cominciarono a funzionare a partire dal 1462, quando venne fondato quello che generalmente è considerato il primo vero e proprio monte di pietà, quello di Perugina. Si diffusero, quindi, assai numerosi, soprattutto nella penisola italiana. La lotta contro l’usura era, tuttavia, assai circoscritta: i Francescani spingevano per l’apertura dei monti avendo come obiettivo principale quello di sottrarre i consumi quotidiani dei ceti meno abbienti agli alti tassi di interesse, definiti appunto usura, dei prestatori, e soprattutto degli ebrei. Il monte agiva concedendo prestiti di importo limitato con bassi tassi di interesse ma richiedendo comunque la garanzia di un pegno.
Tra la fine del XV secolo e gi inizi del XVI, anche in seguito alla scoperta delle miniere americane, la struttura del mercato europeo delle monete andò incontro a radicali mutamenti. Gli italiani perdevano in gran parte il loro predominio, o comunque dovevano condividerlo con i grandi istituti specializzati nel credito che cominciavano a sorgere in Germania, nei Paesi Bassi e in Inghilterra. La data simbolica del 1492 vedeva, insieme alla cosiddetta scoperta dell’America, la morte di Lorenzo de’ Medici, detto il Magnifico; la sua banca falliva due anni dopo, nel 1494. Nello stesso anno il tedesco Jacob Fugger, detto il Ricco, consolidava invece la sua, entrando da dominatore nel mercato di Anversa.
(tratto da: Luciano Palermo, La banca e il credito nel Medioevo, Bruno Mondadori, Milano 2008)

Il mercante

Introduzione:La strada percorsa dal ceto mercantile dell’Europa occidentale nel corso dei secoli XI-XV riflette le modificazioni di straordinaria importanza che in quel periodo si produssero nell’economia, nella struttura sociale e nella cultura. Da elemento notevole, ma purtuttavia secondario di una società in prevalenza agraria, qual era il mercante all’inizio del Medioevo, egli si trasformò gradualmente in una figura di primo piano, nel portatore dei nuovi rapporti che minavano i fondamenti tradizionali del feudalesimo. La mentalità dei mercanti si distingueva sotto molti aspetti in modo sostanziale da quella dei cavalieri, del clero o dei contadini. Il quadro del mondo, formatosi a poco a poco nella coscienza del ceto mercantile, entrava in contrasto con la visione del mondo degli altri strati e ceti della società feudale.

Primo capitolo:All’inizio dell’XI secolo in Europa, quando la stragrande maggioranza della popolazione viveva nelle località di campagna, esistevano le città e c’era una componente della società costituita dai mercanti. I sovrani, i prelati, l’aristocrazia e in parte anche strati più ampi della popolazione necessitavano di articoli e mercanzie di vario genere, i quali non potevano essere prodotti sul posto e dovevano, perciò, essere importati dal altri luoghi, talvolta lontani. Non solo vesti e tessuti di lusso, vasellami pregiati e altre rarità, ma anche merci ordinarie venivano spesso fornite dai mercanti lungo le vie d’acqua o di terra. I mari d’Europa meridionale e settentrionale, i grandi fiumi e qua e là anche le strade ereditate dai tempi dei Romani, venivano utilizzati come arterie commerciali.
Il mercante dell’alto Medioevo è un personaggio radicalmente diverso dal mercante del Medioevo sviluppato e tardo. Sono paradigmatici i commercianti che operavano nell’Europa settentrionale nell’età dei Vichinghi. Il Vichingo è guerriero, conquistatore, predatore, navigatore ardito e colonizzatore. Il viaggio dello Scandinavo si conclude va spesso con il suo assalto contro gli abitanti locali e quello che egli non scambiava, lo strappava loro con la forza. Commercio e rapina andavano di pari passo.
Ma anche i mercanti del primo periodo medievale non coinvolti nel brigantaggio, non potevano essere del tutto privi di bellicosità. Essi dovevano recarsi con le loro carovane in paesi lontani, peregrinare tra genti e popoli stranieri, imbattendosi in molti pericoli di diverso genere, dai predoni ai signori locali, assai simili ai briganti che si davano da fare per mettere le mani sulle loro ricchezze, o pressandoli con dazi o semplicemente togliendo loro mercanzie e guadagni. I mercanti soffrivano per le burrasche del mare e per le afflizioni dei transiti di terra a causa dell’impraticabilità delle strade. Il profitto delle merci rare poteva essere assai elevato, ma non minore era anche il rischio ad esso collegato. Nel testo colloquium dello scrittore ecclesiastico Aelfric (inizio XI secolo), è citato, assieme ad altre professioni, anche quella del mercante. Sulle sue labbra sono poste le parole: “Sono utile al re, al nobile, al ricco e a tutto il popolo. Salgo sulla nave con le mie merci e navigo fino ai paesi d’oltremare, vendo la mercanzia e acquisto le cose pregiate che non si trovano qui nel nostro paese. Le trasporto con grande rischio e faccio talvolta naufragio, perdendo ogni avere e salvando a stento la vita”. Il mercante porta vesti e tessuti costosi, pietre preziose e oro, vino e olio, avorio, ferro e altri metalli, vetro e una gran quantità di altre cose. L’interlocutore gli chiede: “Vendi queste merci al prezzo al quale le hai comprate?” “No. Che cosa altrimenti mi darebbe la mia fatica? Vendo più caro di quanto ho comprato proprio allo scopo di trarne un profitto e mantenere così moglie e figli”.
Il pensiero economico dell’alto Medioevo non usciva dall’orizzonte tracciato dall’economia naturale. La popolazione urbana, gli artigiani e i mercanti sfuggono all’attenzione del clero, dei contadini e cavalieri. Non perché, s’intende, il loro ruolo fosse affatto insignificante, ma perché nella società dei secoli XI-XII, nella quale predominava la tradizione, i vecchi schemi concettuali conservavano fino a tal punto il loro antico vigore da poter ignorare la viva varietà della realtà concreta. La sfiducia dei contadini e la boria sprezzante dei nobili verso il mercante trovavano sul piano ideologico un parallelo e una motivazione nell’insegnamento della Chiesa.
L’atteggiamento della società verso il mercante era estremamente contraddittorio. Da un lato era difficile farne a meno. Lo Speculum regale, testo che descrive i diversi ceti e categorie sociali della Norvegia, dal punto di vista di un Norvegese istruito del primo terzo del XIII secolo, inizia con la caratterizzazione dell’attività del mercante. “L’uomo che si propone di diventare mercante espone la sua vita a molti pericoli, sia sul mare sia in terre pagane e tra popoli stranieri. Egli deve perciò attenersi costantemente alla prudenza là dove si trova. Sul mare è necessario saper prendere decisioni immediate ed essere dotati di grande coraggio. Quando invece giungi in una località commerciale o in un altro posto qualsiasi, devi mostrarti persona educata e ammodo per conquistarti la simpatia generale”. Bisogna studiare con cura gli usi legati al commercio dei luoghi in cui si arriva. In particolare è importante conoscere bene il diritto commerciale. Il mercante deve conoscere le lingue, innanzi tutto il latino e il francese. Al mercante-navigatore occorre sapersi orientare nella disposizione degli astri e nell’avvicendamento del tempo nelle ventiquattr’ore nonché  discernere i punti cardinali. Il mercante è tenuto allo spirito di pace e alla riservatezza. Una particolare cautela va manifestata nella scelta dei soci nel commercio. “Una parte del profitto deve essere sempre devoluta a Dio onnipotente e alla Santa Vergine Maria nonché ai santi ai quali tu sei solito rivolgerti per aiuto”. Osservando tutti questi consigli ci si può arricchire. “Allorché vedrai che come risultato dei viaggi commerciali la tua ricchezza è davvero aumentata in maniera consistente, la cosa migliore sarà sottrarre agli affari due terzi del capitale e investirli in un solido possesso terriero, poiché questo genere di bene sembra il più sicuro sia per il proprietario sia per i suoi posteri”. La cosa curiosa è che un simile consiglio venga dato in Norvegia, un paese dove manca lo spazio per l’agricoltura.
D’altro lato il prestigio sociale dei mercanti è assai modesto. Il ricco desta invidia e malevolenza, la sua onestà e coscienziosità ispirano seri dubbi. Egli acquista la merce a un prezzo e la rivende a uno più alto. Qui si celano le possibilità dell’inganno  e dell’ingiusto lucro; i teologi ricordavano volentieri le parole: “il mestiere del mercante non è grato a Dio”, poiché, secondo i padri della Chiesa, è difficile che nei rapporti di compravendita non s’insinui il peccato.
Questa fu la posizione della Chiesa almeno fino a che non le toccò di prendere in considerazione, in misura maggiore di prima, le mutate condizioni della vita reale. Tale cambiamento divenne sensibile nel XIII secolo. Nei suoi sforzi d’imporre e rafforzare la propria dottrina etico-religiosa la Chiesa si trovò ora costretta a trasferire il centro di gravità dalla campagna alla città. I nuovi Ordini mendicanti dei Francescani e dei Domenicani avevano le loro basi soprattutto nelle città. La contraddittorietà della posizione del mercante è messa perfettamente in luce nella predicazione dei frati mendicanti. Non si dimentichi che il fondatore dell’ordine dei Francescani proveniva da una famiglia di ricchi mercanti-drappieri. Dinanzi al crescente scontento del popolo per le ricchezze della Chiesa, della nobiltà e dei ceti alti urbani la Chiesa trovò opportuno prendere sotto la sua protezione i frati mendicanti e incorporare il movimento nella sua struttura ufficiale. 

Secondo capitolo:Particolare sdegno destavano quei ricchi che prestavano denaro a interesse. Ed erano i mercanti a ricorrere più spesso a questo sistema di moltiplicazione del capitale. Invece dei viaggi commerciali in terre lontane, collegati a non piccolo rischio, molti abbienti preferivano prestare denaro a chi ne aveva bisogno. E ne avevano bisogno tutti. Gli autori cristiani avevano sempre condannato l’usura preannunciando agli usurai le pene dell’inferno nell’altro mondo. Nel 1179 la Chiesa proibì ufficialmente ai cristiani l’usura. Con tali divieti si spiega soprattutto il ruolo svolto dagli ebrei nella vita economica dell’Occidente. In quanto infedeli essi potevano occuparsi di un’attività che nella pratica era necessaria, ma veniva decisamente condannata dalla Chiesa come una professione non cristiana. Ciò nondimeno anche molti cristiani erano usurai.
Negli exempla, cioè nei brevi aneddoti che contenevano un ammaestramento edificante, l’usuraio viene descritto come un mostro morale. L’usuraio è nemico di Dio, della natura e dell’uomo. Durante un viaggio per mare una scimmia, arrampicatasi sull’albero della nave, dopo essersi impossessata della borsa dell’usuraio, annusa le monete e scaraventa in mare quelle che egli ha accumulato con le operazioni d’usura.  Il giudizio dell’anima dell’usuraio ha luogo nel momento della sua morte e i demoni dall’aspetto terrificante trascinano la sua anima direttamente all’inferno, cacciandogli nello stesso tempo in bocca monete roventi. L’usuraio è il servo più fedele del diavolo e costui appare subito dietro la sua anima senza dare all’infelice la minima dilazione per risarcire il danno causato o farsi perdonare i peccati a furia di preghiere.
L’usuraio è ripugnante agli occhi di Dio e dell’uomo prima di tutto perché non esiste un altro peccato che non conceda mai un po’ di riposo: gli adulteri, i libertini, gli assassini, gli spergiuri, i bestemmiatori, si stancano dei loro peccati, mentre l’usuraio continua a ricevere senza interruzione il profitto. L’usura distrugge il legame tra la persona e la sua pratica, poiché anche quando l’usuraio mangia, dorme o ascolta la predica, gli interessi continuano ad aumentare. Il Signore comanda all’uomo di guadagnarsi il pane quotidiano con il sudore della fronte, mentre l’usuraio si arricchisce senza lavorare. Commerciando l’attesa del denaro, cioè il tempo, egli ruba il tempo, patrimonio di tutte le creature, e perciò chi vende la luce del giorno e la quiete della notte, non deve possedere ciò che ha venduto, vale a dire la luce e il riposo eterni.
Esiste un exemplum nel quale il ricco usuraio sul punto di morte tenta di persuadere la propria anima di non lasciarlo, promettendole oro e argento, ma, non essendoci riuscito, sdegnato la manda all’inferno. L’ira suscitata dall’usura è nei predicatori incommensurabile. In alcuni exempla traspare l’ostilità degli abitanti delle città verso colui che presta interesse. Un prete, volendo dimostrare che l’usura è un mestiere tanto vergognoso che nessuno osa riconoscervisi pubblicamente, disse durante la predica: “Voglio darvi l’assoluzione dei peccati secondo la professione e l’occupazione di ciascuno. Si alzino i fabbri”. I fabbri si levarono dai banchi e ricevettero l’assoluzione. Dopo di loro l’assoluzione fu elargita anche agli altri artigiani. Infine il predicatore proclamò: “Si alzino gli usurai e riceveranno l’assoluzione”. Sebbene ce ne fossero di più che nelle altre professioni, nessuno si alzò, ma tutti si nascosero e si appiattirono. Tra le risate generali gli usurai si allontanarono vergognosi.
L’odio per gli usurai era totale. Un cronista della prima metà del XIII secolo, Matteo da Parigi, scriveva dei Lombardi – così si chiamavano nei paesi a nord delle Alpi i banchieri e gli usurai italiani -: “I Lombardi, grandi furboni … sono traditori e impostori … Divorano non solo gli uomini e gli animali domestici, ma anche i mulini, i castelli, le proprietà terriere, i prati, le macchie e i boschi… Tengono in una mano il foglio di carta e nell’altra la penna; con il loro aiuto pelano la gente del luogo e del suo argento si riempiono le borse… Ingrassano sui bisogni altrui e loro stessi sono come lupi che divorano gli uomini”.
L’usura perde non solo le anime dei profittatori, ma anche quelle dei loro figli se hanno ereditato la ricchezza ingiusta e non hanno risarcito i danni causati dai padri.
In una società gerarchica, divisa in ceti, si dava valore in primo luogo alla nobiltà del’origine e al coraggio cavalleresco con essa collegato. Il cittadino, anche se ricco mercante, era circondato dal disprezzo dei nobili, da lui non ci si aspettava virtù cavalleresca. Agli occhi dei cavalieri e delle dame nobili egli è pari a una canaglia, a un villano. Tuttavia i ricchi delle città, i mercanti e gli usurai cercavano di raggiungere una posizione elevata attraverso la ricchezza. L’aneddoto, raccontato da un predicatore francese del XIII secolo, può servire da testimonianza di come i nuovi ricchi non aristocratici salivano nella stima dei circostanti. Un ragazzo coperto di tigna, giunse elemosinando in città, dove divenne noto con l’appellativo di “tignoso”. Ma via via che si arricchiva con le operazioni d’usura, il suo prestigio sociale mutava. Dapprima lo si chiamò Martinus scabiosus, poi domnus Martinus, quando divenne uno dei primi ricchi della città fu dominus Martinus per essere in seguito meus dominus Martinus.  In francese questi titoli suonavano: Maitre, Seigneur, Monseigneur. Nell’exemplum tale ascesa dell’usuraio lungo la scala sociale si conclude naturalmente con la sua caduta nell’inferno.
L’atteggiamento della Chiesa nei confronti dell’usura restò negativo anche nei secoli successivi. Se l’arcivescovo di Firenze, Antonino, nei suoi trattati teorici faceva alcune concessioni all’attività finanziaria, che nelle città italiane dei secoli XIV e XV aveva raggiunto il suo massimo sviluppo, nelle prediche di Bernardino da Siena viene delineato un quadro impressionante della condanna dell’usuraio da parte di tutte le forze sacre e in genere dell’universo intero: “tutti i santi, i beati e gli angeli esclamano in paradiso: nell’inferno, vada nell’inferno!; i Cieli urlano con le loro stelle: nel fuoco, vada nel fuoco!; i pianeti invocano: nel profondo dell’inferno, nel profondo dell’inferno!; e gli elementi insorti contro di lui gridano: al supplizio, vada al supplizio!. E la casa nella quale giace il morente, non cessa, insieme con i muri e le travi, d’invocare contro di lui i castighi”.

Terzo capitolo:Come è già stato detto gli autori ecclesiastici dei secoli XI e XII, nel caratterizzare la società, ricorrevano allo schema trifunzionale “oranti-guerrieri-aratori”. Tuttavia, nel secolo XIII, questo schema arcaizzante era già entrato in palese contraddizione con la realtà sociale.
Bertoldo di Ratisbona rileva la varietà delle occupazioni prevalentemente nelle città, individuando diverse categorie professionali: artigiani, grandi mercanti, piccoli commercianti. Il predicatore tedesco si rivolge a tutte le categorie di cittadini nonché ai contadini, esortandoli a lavorare e servire onestamente e senza inganno. Egli, pur scagliando incessantemente maledizioni contro gli “avidi” e i “ricchi”, giustifica però pienamente l’esistenza del commercio e dei mercanti – essi sono necessari al funzionamento del tutto e le loro occupazioni sono interpretate come una vocazione predeterminata dal Creatore, esattamente come quella dell’agricoltore, del giudice o del monaco. Un commercio onesto: questo è l’ideale di Bertoldo di Ratisbona così come degli altri predicatori del XIII secolo.
La società consiste di uomini i quali svolgono le funzioni sociali loro assegnate e ogni compito, grande o piccolo che sia, è importante e necessario per l’esistenza del tutto. Ma esistono delle occupazioni che non sono una “mansione” cioè una chiamata stabilita da Dio; esse sono l’usura, l’incetta, l’inganno e il furto. A questo punto Bertoldo vitupera i commercianti che spacciano l’acqua per il vino, vendono “aria invece di pane”, contraffanno la birra e la cera e usano falsi pesi e misure.
Sia con la loro predicazione, sia nei manuali per confessori e nelle summae teologiche, i teologi, i frati degli Ordini mendicanti contribuirono non poco alla giustificazione etico-religiosa del commercio e dei mercanti.

Quarto capitolo:Il XIII secolo e il primo terzo del XIV sono il periodo della fioritura del ceto commerciale. In molte città dell’Europa il vertice mercantile, che concentrava nelle sue mani enormi ricchezze, forma lo strato dirigente delle città, il patriziato, che esercita un’influenza decisiva sul governo cittadino. Pur costituendo una componente insignificante della popolazione urbana, questi mercanti e imprenditori detengono tutto il potere nella città. Essi riempiono i consigli cittadini, svolgono una politica tributaria a loro vantaggio, controllano la giustizia e la legislazione locale. Da loro dipendono masse di operai salariati, servi, piccoli artigiani e commercianti.
La nobiltà del cavaliere poggiava innanzi tutto sulla sua origine. In determinati casi anche il mercante poteva appellarsi ai suoi operosi e fortunati antenati o genitori, ma in generale egli doveva contare sulla propria intraprendenza. Naturalmente nello spirito dell’epoca il mercante fortunato era incline a spiegare l’incremento dei suoi redditi con la benevolenza di Dio.
Ma che cosa rappresentava questo nuovo ricco intrufolatosi tra i patrizi? Soffermiamoci su  una sola figura, del resto sufficientemente caratteristica, sul drappiere fiammingo Jehan Boinebroke, morto intorno al 1286. Non c’era mezzo al quale non ricorresse per aumentare i suoi proventi. I piccoli artigiani e i lavoratori che egli sfruttava senza pietà, erano, ai suoi occhi, esclusivamente strumenti per ricavarne profitto. Lo studioso dell’archivio di Boinebroke lo descrive: era un uomo di denaro, che aspirava solo all’arricchimento come unico scopo della sua vita; a questo obiettivo erano subordinati tutti i suoi pensieri, le sue parole e le sue azioni. L’amoralità e il cinismo dei mezzi ai quali ricorreva, fino alla frode, al furto e al ricatto, non lo preoccupavano assolutamente. Il principio cui si atteneva: non pagare i debiti e appropriarsi di ciò che non gli apparteneva. Le persone e le circostanze non lo interessavano. Boinebroke si comportava come uno sfrenato tiranno, come un “vero bandito industriale”. Non generalizzeremo oltre misura, ma a giudicare dagli scoppi di odio che scossero le città dell’Europa occidentale nel corso dei secoli XIII e XIV, Boinebroke non rappresentava un’eccezione.
Un’eccezione fu piuttosto Godrich von Finchale, un mercante vissuto alla svolta dei secoli XI e XII; eccezione, s’intende, non nel senso che da minuto mercante divenne in breve tempo un grande commerciante che scorazzava ovunque per il Baltico e lucrava grandi proventi con la rivendita di merci rare, ma nel senso che questo nuovo ricco, dopo aver fatto fortuna, alla fine rinunciò al fruttuoso commercio, ritirandosi a vita religiosa per la salvezza della sua anima e, dopo la morte, fu proclamato santo.
Gli “uomini nuovi” fattisi avanti nell’attività commerciale e finanziaria, si distinguevano per l’energia, lo spirito d’iniziativa, la prontezza, ma anche la sfrontatezza, l’egoismo, l’atteggiamento disinvolto nei confronti di tutte le norme patriarcali del tempo. Il possesso della sola ricchezza mobiliare non assicurava però ancora stima e prestigio nella società feudale.
È comprensibile, perciò, che il patriziato urbano aspirasse ad attenuare le barriere di ceto che lo separavano dall’aristocrazia. A una parte dei mercanti la strada “verso l’alto” veniva aperta dall’acquisto di varie proprietà terriere e dai matrimoni misti cui ricorrevano i cavalieri impoveriti, che desideravano rimettere in sesto gli affari attraverso il matrimonio con le figlie di mercanti abbienti.
Seguendo l’esempio della nobiltà i mercanti si danno alla caccia, lo “sport dei nobili”. Con l’aristocrazia essi rivaleggiano nelle vesti e negli ornamenti nonché nelle cerimonie funebri che allestiscono con massima pompa.
In nessun altro posto in Europa il ceto mercantile raggiunse altrettanta potenza economica e politica come nelle città italiane. Un viaggiatore passato per Venezia poco prima della grande peste del 1348, giunse alla conclusione: “tutta gente sono mercatanti”. Dei Genovesi si diceva: “genovese, dunque mercante”. Nelle città italiane la professione del mercante era moralmente riabilitata e Jacopo da Varazze, vescovo di Genova e autore della famosa Legenda aurea paragonava il mercante a Cristo in persona:  Egli arriva sulla nave della croce per dare agli uomini la possibilità di scambiare le transeunti cose terrene con quelle eterne!
Nel XIII secolo e più tardi non pochi furono i mercanti che intrapresero lontani e arrischiati viaggi, per terra e per mare. Basta ricordare il celebre Marco Polo. I mercanti, di fronte al rischio, si trasformano facilmente in corsari. Si rammenti la quarta novella del secondo giorno del Decamerone: dopo essere stato assaltato e rapinato, lo stesso mercante si dà alla pirateria tornando a casa arricchito. Il mercante doveva essere pronto ad andare incontro al pericolo: esso costituiva il lato imprescindibile della sua professione e, di conseguenza, la coscienza del rischio, della minaccia non lo abbandonava mai. Il pericolo si celava nei viaggi a lunga distanza, soprattutto quelli per mare: i naufragi, gli assalti dei pirati o dei mercanti concorrenti. Il pericolo proveniva anche dalle perturbazioni del mercato. Ma il pericolo lo nascondevano anche le persone con le quali il mercante entrava in rapporti di diverso genere. La formazione delle compagnie commerciali a compartecipazione al rischio, in caso di perdita, del mercante-proprietario del capitale commerciale da un lato e del mercante-navigatore dall’altro fu dovuta in misura notevole alla coscienza del pericolo incombente: il primo rischiava denaro e mercanzie, il secondo la vita e i mezzi più modesti che investiva nell’impresa: la “colleganza” (a Venezia), la “commenda” (a Genova), la “Wiederlegunge” (nella Germania settentrionale).

Quinto capitolo:L’attività commerciale richiedeva preparazione, compreso il possesso di un’istruzione. Il mercante analfabeta avrebbe difficilmente potuto svolgere con successo i propri affari. Nelle città, fanno la loro comparsa le scuole laiche; i figli dei possidenti abbienti vi imparano a leggere, scrivere e far di conto. Nell’istruzione il centro di gravità si spostò dalle scienze classiche alle applicate. I bisogni del ceto mercantile contribuirono al passaggio dalle cifre romane alle arabe, più adatte per la contabilità commerciale, e all’introduzione dello zero. Anche il cambiamento del carattere dell’alfabeto, il ritorno nel corso dei secoli XII e XIII dalla “minuscola carolina” al “corsivo” fu direttamente legato allo sviluppo della corrispondenza d’affari, in particolare commerciale.
Gradualmente si formò la “mentalità aritmetica”. Nel testamento di un mercante veneziano (1420) si legge: i suoi figli dovranno frequentare un corso di abaco “per imparare il commercio”. Questo genere di “abachi”, guide per i conti commerciali, talvolta ritmate, cominciano a essere composti a partire dal XIII secolo. Il mercante e banchiere Giovanni Villani, cronista fiorentino della prima metà del XIV secolo, primo autore che abbia manifestato interesse per la statistica, contava nella sua città natale da otto a diecimila studenti i quali frequentavano sei scuole cittadine dove si studiava la matematica.
I figli degli uomini d’affari entravano volentieri nelle università. Notevole importanza veniva attribuita allo studio delle lingue straniere; i figli dei mercanti italiani imparavano l’inglese e i tedesco; i tedeschi della Hansa apprendevano anche il russo necessario per svolgere proficui affari a Novgorod, nonché l’estone per comunicare con i contragenti nei territori prospicienti il Baltico. Le lingue più correnti di comunicazione internazionale erano l’italiano (nel Mediterraneo) e il tedesco medio-basso (nel Baltico).
Il libro fa la sua comparsa nella casa del mercante, del ricco borghese. Quali libri componevano la biblioteca del mercante? Innanzi tutto le vite dei santi, la Bibbia, il Salterio, ma anche le opere di Boezio, di Cicerone, dei poeti romani, la Divina Commedia e persino Boccaccio. Sorsero poi anche guide pratiche dell’attività commerciale, nelle quali si elencavano le merci, le misure e i pesi, si indicavano i corsi delle monete e i dazi doganali nonché i modi d’imbrogliare le autorità che riscuotevano le imposte dai mercanti; vi si davano descrizioni delle vie commerciali, modelli di conti e calendari, e, infine, consigli per la fabbricazione di articoli di vario genere.
L’uomo d’affari intrattiene costantemente una vasta corrispondenza. Egli scrive le lettere da solo o gliele compone il segretario sotto dettatura. Il saper leggere e scrivere è la prima condizione per condurre con successo gli affari.
La personalità e i principali valori di vita del mercante italiano della fine del XIV – inizio del XV secolo emergono nei Ricordi del fiorentino Giovanni di Pagolo Morelli (1371-1444), abbraccianti il periodo tra il 1393 e il 1421.  Morelli è un uomo estremamente cauto e prudente. Egli insegna come arricchirsi senza rischio e senza ricorrere dietro al profitto se ciò è pericoloso. Le sue memorie abbondano di consigli di questo genere: cerca di nascondere al comune l’entità dei tuoi redditi per evitare di pagare le tasse e dimostra con ogni mezzo di avere solo la metà di ciò che effettivamente possiedi; sii sempre amico di chi sta al potere e aderisci al partito più forte; non fidarti di nessuno, né dei servi, né dei parenti, né degli amici, poiché gli uomini sono viziosi e pregni di inganni e tradimenti; quando si tratta di denaro o di un altro bene, non si trova un familiare o un amico che si preoccupi di te più di quanto possa fare tu stesso; se sei ricco accontentati di comprare gli amici col denaro dal momento che non puoi acquistarteli in altra maniera. Agli occhi di Morelli il bene s’identifica  con l’utile, la virtù non rappresenta altro che il tornaconto e il male le perdite.
Morelli attribuisce grande importanza alla contabilità rigorosa. Ma nello stesso tempo egli non è disposto a ridurre il sapere alle sole esperienze pratiche. Oltre alla contabilità e alla grammatica è bene conoscere Virgilio e Boezio, Seneca e Cicerone, Aristotele e Dante, per non parlare della Sacra Scrittura. È utile viaggiare e conoscere il mondo.
La fede di Morelli concilia Dio e la bramosia di denaro. Il commercio fortunato è un servizio a Dio. “Nel nome del Signore nostro Gesù Cristo e della Santa Vergine Maria e di tutti i santi in paradiso, ci concedano Essi i beni e la salute, per mare e per terra, moltiplichino i nostri figli e le nostre ricchezze, e le nostre anime e i nostri corpi saranno salvi!”. Nei libri contabili dei mercanti e delle compagnie commerciali si tenevano particolari “conti di Messer Domeneddio”. Vi venivano riportate le somme che i mercanti regalavano per i poveri e gli istituti di beneficenza allo scopo di metter le proprie anime al sicuro dalle sgradevolezze dell’aldilà. Si trattava il Creatore come un membro della compagnia commerciale e la quota che gli era dovuta dipendeva dall’entità del profitto ricevuto dalla compagnia. C’erano molti mercanti e banchieri che la paura delle fiamme della geenna spingeva, anche se all’ultimo momento della vita, a donare le proprie ricchezze ai poveri e alla Chiesa.
Nell’ambiente dei mercanti cominciano a delinearsi i contorni della famiglia dell’età moderna. Il mestiere esercitato dal capofamiglia è il mestiere di tutta la famiglia il quale passa per eredità dal padre ai figli. Proprio in queste famiglie, conseguentemente al riconoscimento del dominio del padre, centro del nucleo familiare diventa il bambino, continuatore della sua professione. La famiglia era il principale elemento strutturale nell’organizzazione del grande commercio e del credito e le compagnie che dominavano nella vita economica dei secoli XIV e XV, erano innanzi tutto società familiari. Le famiglie degli abbienti delle città erano per eredità i titolari delle massime cariche nella giunta municipale. E non è un caso che alla fine del Medioevo anche nella pittura religiosa aumenta l’attenzione per la rappresentazione di scene di storia sacra nella forma di scene di vita familiare. Proprio in questo periodo in pittura l’interno della casa diventa sempre più il luogo dell’azione, il focolare domestico emerge come centro d’attrazione. La famiglia borghese è il soggetto del ritratto di gruppo, che si afferma nell’arte del tempo. Il ritratto di famiglia in un interno è un fenomeno nuovo. Nella loro aspirazione a immortalarsi, i mercanti e i finanzieri commissionano i loro ritratti e gli artisti li raffigurano in situazioni concrete nell’interno della casa, nel loro ufficio, con le mogli e i figli.

Sesto capitolo:Il XIII secolo è il tempo in cui nella geografia cattolica del mondo d’oltretomba si afferma un nuovo regno: il purgatorio. Se nel precedente periodo del Medioevo all’anima del morto, secondo le idee di allora, erano destinati (o immediatamente o dopo il Giudizio Universale) il paradiso o l’inferno, ora dinanzi ad essa si apriva una nuova possibilità: capitare in cielo dopo aver subito tormenti più o meno prolungati nel purgatorio. Per abbreviare il tempo della permanenza nel fuoco del purgatorio, si celebravano messe funebri, si effettuavano generose donazioni alla Chiesa, si prestava aiuto ai poveri. Nei testamenti dei secoli XIV e XV i ricchi proprietari dispongono che subito dopo la morte gli esecutori testamentari e gli eredi debbano far celebrare un’enorme quantità di messe (centinaia e migliaia) affinché le loro anime siano il più presto possibile liberate dai tormenti del purgatorio e accedano in paradiso. Il ricco, il mercante, si sforza di sistemarsi, per quanto possibile, con tutte le comodità anche nel mondo ultraterreno.
Il mercante “pensa in giorni, non in secoli”. Il tempo dei mercanti proclama deciso la propria autonomia nei confronti del “tempo della Chiesa”. Quest’ultima comincia a perdere le proprie posizioni nel controllo sul tempo. Agli uomini d’affari non confà più il calendario ecclesiastico con le sue feste mobili e l’inizio dell’anno oscillante tra il 22 marzo e il 25 aprile; gli è necessaria una forma di suddivisione per calcoli temporali più esatti e in relazione a questa loro esigenza l’inizio dell’anno viene fissato nel giorno della circoncisione di Cristo: il 1° gennaio.
Ma i mercanti hanno bisogno anche di una misurazione precisa e uniforme dei piccoli intervalli di tempo, quindi di orologi i cui quadranti siano divisi in parti equivalenti. Inventati alla fine dl XIII secolo, si installano sulle torri dei municipi cittadini e delle cattedrali gli orologi meccanici: nel 1300 a Parigi, nel 1309 a Milano, nel 1325 a Firenze, nel 1344 a Padova… D’ora i poi le giornate sono divise in 24 ore contrassegnate dal rintocco dell’orologio o, come a Strasburgo, dal chicchiricchì del gallo meccanico. Il “tempo teologico” viene respinto dal “tempo tecnologico”.
Nel calcolare le proprie risorse e i modi di moltiplicarle, i mercanti hanno concomitantemente lo sguardo fisso sul calendario. Il tempo è denaro! Naturalmente il tempo dei mercanti non è affatto lo stesso del tempo degli umanisti, e gli uomini d’affari stimavano il tempo per ragioni incomparabilmente più prosaiche di quelle dei poeti e dei filosofi. Ma lo spirito che compenetra le enunciazioni sul tempo degli uni e degli altri è in ultima analisi identico. Il tempo si soggettivizza, si umanizza e l’esigenza di farlo proprio, di possederlo la sentono in ugual misura sia gli uomini d’affari che gli scienziati, i poeti, gli artisti i quali pregiano il tempo in vista del raggiungimento del sapere, per diventare, di giorno in giorno, ciò che non si era prima.
Se alla fine del Medioevo l’Europa si staccò dalle altre civiltà del mondo, sapendo superare la barriera del tradizionalismo e dell’arcaicità, e iniziò la sua espansione mondiale che alla fine mutò radicalmente il volto del nostro pianeta e inaugurò la tappa della vera storia mondiale, tra coloro che maggiormente contribuirono alla realizzazione di questo stacco inaudito e senza precedenti, vanno in primo luogo ricordati i mercanti.
(Tratto da:  Aron Ja. Gurevic, Il mercante,  da “L’uomo medievale”, a cura di J. Le Goff, Laterza, pagg. 271-317  Roma-Bari 1994 )

Gli Scrovegni
L’attività di Giotto a Padova si esplicò in tre diverse sedi e per conto di soggetti ben individuati e distinti: nella chiesa e nell’annesso capitolo di Sant’Antonio su richiesta della nutrita comunità dei frati che vi dimoravano; nel palazzo della Regione per commissione non altrettanto esplicita ma agevolmente ipotizzabile delle autorità comunali; infine nella cappella di Santa Maria dell’Arena, realizzata per decisione e grazie ai mezzi di una ricca famiglia locale: gli Scrovegni. Come si sa, solo quest’ultimo ciclo pittorico è sopravvissuto nella sua pressoché integra e smagliante bellezza. Ma chi erano realmente i committenti di Giotto? Dovremmo, per rispondere, fare almeno un accenno a Padova com’era nei primi anni del Trecento. Basti ricordare qui che dagli anni sessanta del Duecento il Comune di Padova aveva conosciuto una ripresa e un eccezionale rilancio del suo ruolo politico, militare e diplomatico nella terraferma veneta. Mentre alla guida dello stato cittadino si era installata una solida e ambiziosa pars Ecclesiae, sostenuta da un altrettanto vigoroso movimento di “popolo”, Padova era cresciuta come centro urbano ragguardevole che con i suoi 30-35 mila abitanti si collocava tra i primi quindici nella penisola.

L’aumento costante della popolazione, l’espansione urbanistica, il saldo dominio di un contado popoloso e fertile, l’articolazione delle attività produttive e della dinamica dei ceti si erano svolte in contrappunto con un’energica iniziativa di allargamento dei confini territoriali, con la sottomissione di Vicenza e via via di Bassano, Badia Polesine, Lendinara, Rovigo. E non basta. Allo scadere del Duecento Padova era divenuta di fatto un fulcro decisivo di un vasto schieramento di forze guelfe dell’Italia nordorientale. Famiglie, Comuni, Principati ecclesiastici e vari altri soggetti politici delle Venezie guardavano a Padova come a un naturale presidio di libertà repubblicana di fronte al minaccioso avanzare dei “tiranni di Lombardia”, quali gli Scaligeri o i Visconti, come a un simbolo di ortodossia e fedeltà al Papato. Anche il potenziale delle sue risorse intellettuali era ineguagliato, data la presenza di uno dei maggiori e più rinomati studi universitari europei. Questa eccezionale età d’oro della città aveva creato afflussi di capitale e un giro virtuoso di investimenti economici, con enormi opportunità di arricchimento per frange cospicue della popolazione. Era cresciuta una larga classe media che si staccava dalla massa del popolo minuto e tallonava da vicino la calotta alta dei casati più eminenti, nella quale si confondevano ormai i rampolli della vecchia nobiltà di tradizione cavalleresca con le non meno ricche e influenti parentele della “grassa” borghesia cresciuta grazie al commercio, agli uffici, alle professioni e al traffico del denaro. Tra costoro, appunto, gli Scrovegni.
Allorché Giotto approdava a Padova, la città era, inoltre, entrata da protagonista in un largo sistema di relazioni e di alleanze che passava anche attraverso la Curia pontificia e si estendeva a tutto l’ambito tosco-padano, annoverando gangli di particolare rilevanza come Bologna e Firenze, anche per la condivisione di una visione politica “nazionale” dei problemi, in senso lato, guelfa e un regime corporativo “di popolo”. In particolare il canale degli intensi interscambi politici di Padova con Firenze, negli anni a cavallo del 1300 trascinava con sé e si confondeva con non meno copioso flussi di persone, idee e beni che incidevano profondamente, soprattutto, sulla ricchezza, sulla cultura, sullo stile di vita della prima delle due città.
L’approdo del “fiorentino” Giotto nella potente città veneta non fu, dunque, un fatto tanto isolato, come è a lungo sembrato. Tanto più  che l’ordine francescano, orgoglioso di una struttura innervata capillarmente sul suolo italiano e in quasi tutta Europa, ebbe forse una parte non trascurabile nel dirottare a Padova il pittore toscano, il quale aveva già operato con successo in altri conventi minoratici, cioè Assisi e Rimini. A Padova, infatti, la grandiosa basilica di Sant’Antonio, dove Giotto profuse i suoi talenti prima che nella cappella degli Scrovegni, era diventata non solo il massimo tempio civico, ma anche uno dei più celebrati santuari francescani a livello internazionale.
Per quanto riguarda la decorazione della cappella gentilizia eretta dagli Scrovegni nello spazio dell’Arena, si ha a che fare con una committenza esplicita, sulla quale si è a lungo indagato e si è scritto moltissimo, anche per la nota damnatio memoriae dantesca di Rinaldo Scrovegni, associato nell’Inferno ad altri padovani e fiorentini per una famigerata notorietà usuraia. Non ci interessa qui indugiare più di tanto sulla notissima e scarna griglia di notizie riguardanti la cronologia dell’esecuzione della cappella degli Scrovegni, che può darsi per costruita, e fors’anche già decorata, in un arco di tempo ragionevolmente circoscrivibile tra il 1302 e il 1305. Val la pena, invece, di spendere qualche parola per illuminare la storia degli Scrovegni.
Il capoccia che grosso modo fra il 1260 e il 1290 aveva portato alle stelle la fortuna economica del clan, Rinaldo, esercitò con enorme profitto l’attività feneratizia, investendo con determinazione e spregiudicatezza, in ogni genere d’affari, il proprio capitale e accaparrandosi un’invidiabile base immobiliare in città e in campagna. Si sa delle sue entrate negli ambienti ecclesiastici. Si conosce la sua abile politica di affermazione sociale mediante le alleanze matrimoniali. Quantunque difettasse di un apprezzabile standard culturale, Rinaldo e il suo casato in ascesa  non restarono estranei neppure alla vita politica attiva. Manfredo, primogenito di Rinaldo, fu addirittura podestà di Vicenza nel 1292, cioè in un torno d’anni in cui lo svenato Comune della città berica poteva assicurargli enormi interessi, politicamente garantiti sul denaro prestato.
In un clima di galoppante economia di giro, la favolosa fortuna accumulata da Rinaldo, che una cronaca descrive come ambizioso suonatore di serenate che amava associarsi col più bel fiore della gioventù familiare di Padova, si era d’altronde facilmente tradotta in altrettanto rapida nobiltà, se le fonti già prima della sua morte lo gratificano del titolo di “nobiluomo, sapiente e discreto”: una qualifica che stride con l’acre epiteto di “sesso di scrofa” appioppatogli dal popolo padovano. Già con lui gli Scrovegni avevano dato vita a una tra le poche imprese finanziarie a conduzione familiare, capaci di entrare in un giro di affari “largo”, certo esorbitante la città d’origine e il Veneto. Nel suo giro di domestici, collaboratori e agenti commerciali, Rinaldo e i suoi vantavano anche persone oriunde dalla Germania, da Mantova, da Cremona e dalla stessa Firenze. Il figlio Enrico sposò addirittura in seconde nozze una nobildonna dell’illustre casato dei marchesi d’Este, signori di Ferrara. Di lui si sa che trafficava tra l’altro anche nel redditizio emporio veneziano, dove poteva vantare la personale amicizia del Doge e dove teneva addirittura una nave adibita al commercio di lana, cotone e formaggio. A Padova godeva di grande considerazione in quanto magnate della finanza e degli affari: basti dire che nel 1307 fu designato quale membro della commissione di ambasciatori inviati dalla Repubblica padovana all’imperatore Enrico VII.
L’interessato fiuto di affarista pronto a far fruttare i propri immensi capitali, nelle circostanze e nei modi più opportuni, spinse Enrico Scrovegni a brigare persino con la Curia romana, entrando in familiarità col pontefice Benedetto XI, di origine trevigiana. In città Enrico disponeva di case e palazzi, mentre nel territorio aveva impiantato una formidabile e omogenea base fondiaria, concentrata soprattutto in una zona di cerniera tra Padova e Vicenza. Anche per aggiungere qualche penna di pavone in più alla propria ruota di aspirante nobile, nel 1297 Manfredo Scrovegni, fratello di Enrico, entrò in possesso addirittura del castello di Trambacche.
Nell’ideale guinness dei più potenti casati padovani, un cronista del tempo pone quello degli Scrovegni al quinto posto. In realtà, quanto a ricchezze, nessun’altra famiglia li eguagliava. Secondo un’approssimativa stima dell’imponibile dei “paperoni” della città, nobili o popolani che fossero, intorno al 1310 Piero Scrovegni vantava da solo un capitale di centomila lire ed Enrico superava ogni altro concittadino con un imponibile di mezzo milione di lire: una somma da capogiro, equivalente più o meno al valore di cinquanta paesi.
Subentrando al padre, nel ruolo di timoniere  della barca familiare, Enrico Scrovegni ereditava insomma un’immensa fortuna ma con essa anche una pessima reputazione. Egli era ben conscio, infatti, che il possente piedistallo che lo staccava dalla massa degli artigiani e dei bottegai gli tirava dietro il fastidio, se non il disprezzo, di gran parte della società per l’accusa non tanto occulta di strozzinaggio. In fondo egli era solo un parvenu straricco e invadente che era arrivato a vestire di fresco i panni del magnate, ma con mezzi ben poco onorevoli e persino ripugnanti alla morale corrente. Di qui il suo bisogno estremo di dissipare pregiudizi e maldicenze, di suggellare con una sequenza visibile e clamorosa di atti pubblici il raggiunto stato di “nobile ed egregio cavaliere”. Tra l’altro si affiliò alla congregazione religioso-cavalleresca della milizia della Beata Gloriosa Vergine Maria, detta anche dei frati Gaudenti. Fece costruire addirittura un monastero cistercense dedicato a Sant’Orsola, appena fuori città. Ma l’enorme investimento in termini di “immagine” cade, appunto, il 6 febbraio 1300, con un vero cambiamento di casa e di quartiere. Agevolato forse dal bisogno di liquidità dell’acquirente, acquistò da Manfredo Dalesmanini l’intera Arena di Padova, trasferendo il suo quartier generale nel “covo” tradizionale di una delle più antiche e illustri parentele padovane.
Da uomo d’affari qual era, non gli sfuggiva affatto il valore materiale del complesso di immobili di cui diventava padrone: un ampio recinto, con palazzo e altri edifici accessori, bagni caldi, stalle per cavalli, due torrioni eretti sulle due porte d’ingresso. Ma, soprattutto, conosceva il valore simbolico del luogo: appannaggio dei vescovi per concessione imperiale quand’erano signori della città, l’antico anfiteatro, allora assai più integro e imponente di quanto non sia ai nostri giorni, era allo stesso tempo un deposito di gloriose memorie cittadine, un’area trincerata appena esterna all’angolo nordorientale  della civitas altomedievale, dove i Padovani usavano avere qualche svago fuori porta, assembrarsi, e persino, come si è a ragione ipotizzato, far feste religiose e sacre rappresentazioni.
Fu qui che, seguendo l’andamento ellittico dell’Arena, Enrico Scrovegni rimodellò le proprie ambizioni, costruì con la compiacenza dell’autorità ecclesiastica una chiesa “per la salvezza dei suoi e soprattutto per l’anima del padre suo Rinaldo” e provvide ad abbellirla nelle forme che sappiamo. Finalità utilitaristiche, ancorché spirituali. La vicina comunità degli Eremitani, dal canto suo, avanzò subito un’energica protesta. A parere dei frati egli non si era limitato a innalzare un minuscolo oratorio privato e senza concorso di popolo, ma aveva subdolamente puntato a erigere una “grande chiesa e molte altre cose lì fatte piuttosto per pompa e vanagloria e guadagno, che a lode, gloria e onore di Dio”. Anche senza fare il processo alle intenzioni, bisogna comunque riconoscere che lo Scrovegni seppe egregiamente autopromuovere la sua causa. Manifestò un non comune intuito e un’estrema sagacia nel far le sue mosse.
Va ricordato anche che il 1300 non era un anno qualsiasi. In esso fu proclamato il grande Giubileo romano al quale, come sappiamo, parteciparono con fervore anche non pochi Padovani. Forse Enrico fiutò i vantaggi derivanti dalla creazione nell’Arena di un polo devozionale di interesse pubblico con il sostegno formale delle autorità locali. Comunque sia, la trafila degli eventi e soprattutto gli esiti tuttora evidenti mostrano il convergente calcolo dello Scrovegni: scegliere uno scenario appropriato per risonanza e visibilità i funzione della creazione di un “monumento” familiare e conferire ad esso rilevanza, come usuale meta liturgica della popolazione padovana. Con la cappella dell’Arena il capitalista padovano vedeva finalmente realizzato un sogno: quello che i Padovani vedessero e riconoscessero la sua eminenza sociale, lo accogliessero e lo legittimassero, fio in fondo, nell’Olimpo dei “nobili”; si imprimesse nell’immaginario collettivo la figura di un cittadino “magnifico e potente”, privo di qualunque traccia di infamia usuraia.
Ci voleva, naturalmente, un pittore di grido, anzi il migliore in assoluto, qualunque fosse la spesa da sostenere. E ad Enrico non mancavano, come s’è visto, non collegamenti e interessi ben diramati in mezza Italia né facoltà finanziarie per ottenerlo. A opera compiuta, ciascuno poteva ammirare stupefatto come Giotto avesse saputo rappresentare, da par suo, una grandiosa liturgia figurativa che, partendo dalla creazione e prefigurando l’estremo giudizio, narrava il dramma umano della perdizione e l’annuncio della salvezza grazie al sacrificio di Cristo. Ma nella composta immagine di Enrico Scrovegni che offriva alla sua città e a Dio un tale gioiello, il visitatore, estasiato, era costretto a cogliere anche un messaggio inusitate: l’ingordo strozzino di ieri si è dissolto; ora esiste solo un nobile munifico e pio.
(Tratto da: Sante Bortolami, Gli Scrovegni, in “Le tre Venezie: Giotto e gli Scrovegni”, pagg. 4-10, Treviso 2006)

L’onta dell’usura
Se è concesso un paradosso, potremmo dire che è grazie agli usurai se oggi possiamo ammirare  a Padova uno dei più affascinanti e completi cicli pittorici del Trecento. La cappella degli Scrovegni, affrescata da Giotto, fu infatti costruita presso le rovine dell’antico anfiteatro o “arena”, su commissione di Enrico Scrovegni, che desiderava riparare, con questo atto di devozione, agli atti sciagurati del padre usuraio Reginaldo (o Rinaldo), di cui ci dà notizia anche Dante Alighieri nel XVII canto dell’Inferno:
“E un che d’una scrofa azzurra e grossa
segnato avea lo suo sacchetto bianco,
mi disse: “Che fai tu in questa fossa?
Or te ne va; e perché se’ vivo anco,
sappi che ‘l mio vicin Vitaliano
sederà qui dal mio sinistro fianco.
Con questi fiorentin son padovano” (vv. 64-70)

Gli usurai che Dante incontra nel settimo cerchio dell’Inferno della sua Divina Commedia, stanno seduti e rannicchiati nella “fossa” (ovvero in una cavità infernale), intenti a farsi schermo con le mani dai vapori accesi e dal “caldo suolo”, simili a cani che con le zampe e il muso tentano di allontanare da sé il morso delle mosche, delle pulci e dei tafani.
Dante, che li vede così avviliti in una condizione bestiale, li ritrae con grande disprezzo e non ne nomina esplicitamente alcuno. Ma è ben chiaro i richiamo alla scrofa azzurra in campo bianco che era l’insegna degli Scrovegni, nota famiglia di Padova. Il poeta allude con ogni probabilità  proprio a Reginaldo Scrovegni, la cui sordida avarizia era proverbiale al tempo.
È per riparare ai torti del padre, quindi, e in suffragio della sua anima, che Enrico decide di far costruire questa cappella, eretta a partire dal 1303 e consacrata il 25 marzo 1305, ricorrenza dell’Annunciazione. Come scrisse, dunque, Antonio Tolomei, “Enrico Scrovegni si schermì da una terzina dell’Alighieri con una chiesa di Giotto”.
Il tema della cppella come offerta votiva, d’altra parte, viene reso esplicito nell’affresco del Giudizio Universale: ai piedi del Cristo giudice sta, infatti, Enrico Scrovegni, inginocchiato, che porge il modellino della cappella (con transetto, mai realizzato, probabilmente progetto di Giotto). Il nobile padovano offre la cappella a tre personaggi ai quali sono dedicati i tre altari: da sinistra, san Giovanni Evangelista, santa Maria della Carità, santa Caterina d’Alessandria. Il modellino è sostenuto da un religioso dalla discussa identità che potrebbe essere Altegrado De’ Cattanei, canonico e arciprete della cattedrale.
Tutti gli sguardi sono rivolti verso Enrico, deferente ma al tempo stesso fiero del suo gesto di riscatto, poiché come era scritto in un’iscrizione oggi scomparsa, ma che era un tempo posta sulla facciata della cappella, egli era miles conservans animum honestum: un cavaliere, non toccato personalmente, dunque, dall’infamia dell’usura.
Ma qual era, nel Trecento, il ruolo e l’immagine dei prestatori di denaro e degli usurai? Prestare denaro e possedere terre erano le occupazioni più naturali dei cittadini padovani nell’epoca comunale. Vi sono documenti che attestano prestiti a interesse da parte di laici padovani di ogni classe sociale, dai nobili quali Marsilio da Carrara e Nicolò da Lozzo ai più minuti artigiani. Ovviamente solo una piccola parte di coloro di cui si sono attestati, attraverso documenti d’epoca e testimonianze attendibili, prestiti occasionali possono essere annoverati fra i prestatori di professione, nel senso pieno della parola. È difficile, dunque, individuare una cerchia o una classe sociale. Il fenomeno era ampio e trasversale e il prestare denaro risultava non solo una consuetudine diffusa, ma anche una delle più rilevanti leve dinamiche sociali. L’usura, per esempio, veniva addotta assai frequentemente come la causa più comune per spiegare l’arricchimento di una famiglia, e anche la più frequente ragione per negare a una famiglia l’onore che le sarebbe stato altrimenti dovuto.
Identificare i prestatori di professione, naturalmente, non è facile, poiché vi sono oggettive difficoltà nell’interpretazione di documenti che si riferiscono a strumenti di credito, restituzione di prestiti, registrazioni di debiti o, più raramente, procedimenti giudiziari per debiti, prestiti e debiti elencati negli inventari delle proprietà. Va considerato, in particolare, che le leggi ecclesiastiche contro l’usura ostacolavano ovviamente le dichiarazioni fedeli dei tassi di interesse o delle condizioni reali di un prestito. Talvolta, rimane il dubbio se un prestito sia stato o non sia stato concesso, ed è anche difficile identificare i reali creditori e debitori. Non sempre, poi, si faceva distinzione fra prestiti e depositi, spesso, come si può facilmente comprendere, il debitore preferiva celare la propria identità dietro quella di un agente di cui si serviva. E poiché le leggi imponevano che vi fosse un solo creditore, i partner di un prestito congiunto apparivano spesso solo come garanti o fideiussori. Sovente, poi, nella registrazione dei contratti di compravendita di una proprietà, non veniva nemmeno indicata la somma dovuta dall’acquirente.
Fonti più sicure sono rappresentate dalle confessioni esplicite di usura, ma si tratta di casi assai rari, per somme generalmente esigue e rese da personaggi umili. Più utili sono le confessioni di usura implicite in molte disposizioni testamentarie dell’epoca, per la restituzione di guadagni malamente acquisiti (male ablata). Non era insomma infrequente, come vedremo, restituire in punto di morte il denaro accumulato con l’usura. Il più interessante elenco degli usurai del tempo è, comunque, costituito dalle asserzioni dei cronisti dell’epoca, in particolare Giovanni da Nono con il suo De generatione aliquorum civium urbis Padue, tam nobilium quam ignobilium. Solo una metà delle accuse di usura del da Nono sono sostenute da altre prove, ma non pare vi sia ragione di dubitare che, nell’insieme, egli riflettesse l’opinione corrente sulle famiglie e le persone interessate.
I prestatori di professione della classe più bassa, che sembra appartenessero allo stesso strato sociale degli uomini delle corporazioni, benché non ne avessero una propria, si potevano incontrare in tutta la città, nelle cittadine e nei paesi dello stato padovano.
Spesso definiti cambiavalute (campsores), molti di loro erano toscani, il più delle volte di origine fiorentina. Come i tre socii campsores riportati in un documento del 1286, ovvero i fiorentini Pentacordi che misero radici a Padova.
I prestatori indigeni univano a quest’attività un’ampia varietà di altri commerci e professioni. Alcuni erano definiti negociatores, come Guglielmo Mangiavillano  che, sempre secondo il da Nono, “fece ventimila lire con l’usura”, o Pietro Manzi che compare come agente o garante in molti prestiti accesi a Padova per il comune di Treviso. Ma si incontrano anche altre occupazioni.
Fra gli usurai confessi vi era Domenico Berti, medico, che aveva un fratello giudice e Liberale Musaragni, fratello di Guarino, medico e notaio. Varie testimonianze ci riconducono anche ai locandieri, usurai nel far credito ai produttori di vino e ai rivenditori.
La conclusione che si può trarre da questi e altri esempi è che il capitale, proveniente da qualunque fonte, poteva essere investito in vantaggiosi prestiti di denaro. È sicuramente quanto credeva il da Nono quando riferisce che i Bellarini si misero a prestare denaro con l’indennizzo ricevuto per l’assassinio di un membro della loro famiglia, mentre i da Ferro, dice, costituirono il loro capitale raccogliendo e vendendo il ferro vecchio che cadeva dai carri in città. La professione legale non costituiva un impedimento a impegnarsi nei prestiti di denaro. Il notaio Matteo dal Pepe, figlio di Gerardo, giudice, fece apertamente prestiti in maniera non occasionale, giacché nel testamento “ordinò e comandò che le usure che aveva ricevute e tutti i male ablata fossero restituiti e pagati per intero gravando sui suoi beni, a tutti coloro che ne avessero fatto giusta richiesta, secondo la pura verità scritta nei suoi tre libri di memorie”.
La pratica di prestare denaro si estendeva anche ai cavalieri e alle eminenti famiglie padovane. Palamede Vitaliani, cavaliere e giudice, ordinò per testamento la restituzione delle usure annotate di sua propria mano nei suoi tre libri di memorie.
Suo fratello Vitaliano, dottore in legge, erroneamente identificato con il Vitaliano dell’Inferno dantesco, fu anche lui usuraio, giacché ordinò per testamento ai suoi eredi di pagare al monastero di Santa Maria di Polverara la somma di tremilacentoventi lire in restituzione delle sue usure. Il da Nono considerava pure i Capodivacca, che diedero la scalata allo status di nobili e magnati durante tutto il periodo comunale ed entrarono persino nel capitolo della cattedrale, una famiglia di noti usurai.
Ma le tre famiglie padovane di prestatori che spiccavano al di sopra di tutte le altre sia per potenza, che le collocava nella classe magnatizia, sia per la portata delle operazioni finanziarie, furono i Dalesmanini, i Lemizzi e gli Scrovegni. Malgrado le affermazioni del da Nono, solo dopo la morte di Guecello, il membro più potente del clan dei Dalesmanini, avvenuta fra il 1295 e il 1300 senza che egli lasciasse eredi legittimi, i documenti cominciano a mostrare una notevole serie di prestiti fatti da Artusino e dai suoi figli Uberto, Giacomo e Dalesmanino.
Fra i debitori vi sono i Comuni di Feltre, Bassano, Treviso e, soprattutto, Vicenza, dove i Dalesmanini vengono a sostituire gli Scrovegni come primi ereditari del Comune, dal 1302 al 1309.
Per contro i Lemizzi e gli Scrovegni, famiglie scelte da Dante per rappresentare gli usurai padovani nell’Inferno, fecero le loro fortune con l’usura nel tredicesimo secolo e abbandonarono quell’attività infamante quando ebbero raggiunto una posizione sicura. Delle due parentele, quella dei Lemizzi aveva una storia più lunga, essendo stata, analogamente ai Dalesmanini, una famiglia eminente della città nel tardo XII secolo. Le prove della loro attività di prestatori di denaro iniziano con Guglielmo I, che fece due grossi prestiti a Gherardo da Camino, signore di Treviso, negli anni 1283-1284. Suo figlio, il noto Vitaliano citato da Dante, figura nei documenti per aver prestato duemila lire al comune di Vicenza nel 1296. Successivamente compare solo come garante. A partire dal 1299, Vitaliano investì in modo massiccio acquistando proprietà nel contado vicentino e nel 1311 vendette tenute vicino a Padova per almeno ventimila lire. I Lemizzi furono poi sconfitti dai Carraresi per il controllo di Padova.
Gli Scrovegni fecero la loro prima comparsa a Padova nell’ambiente della curia vescovile. Rinaldo Scrovegni, che parlò con Dante nell’Inferno, figura nei documenti mentre presta somme sostanziose a Gerardo da Camino e al Comune di Vicenza, fra il 1282 e il 1297. Rinaldo impiegò come agenti anche i suoi parenti. I figli Manfredo, Enrico e il nipote Pietro fecero tutti prestiti considerevoli. Una serie di documenti mostra Manfredo, Piero ed Enrico che, intorno al 1290, prendono a prestito in società una somma fra due e tremila lire da ciascuna delle quattro sorelle. Questo fatto appare come un sistematico sfruttamento delle relazioni familiari per aumentare il capitale ed è la cosa che più si avvicina a una vera banca familiare: la sola che si potesse trovare a Padova nel periodo comunale. Le signore in questione erano sposate con i Parafava, i Forzatè, i Capodivacca e i Linguadivacca, famiglie delle quali le prime due godevano di uno stato magnatizio o quasi, mentre la terza e la quarta avevano la reputazione di usurai. Tuttavia, fra il 1297 e il 1300, si esauriscono le prove di prestiti di larghe proporzioni fatte dagli Scrovegni, perché il loro posto di finanziatori del Comune di Vicenza è preso dai Dalesmanini.
(Tratto da: Stefano Vietina, L’onta dell’usura, in “Le tre Venezie: Giotto e gli Scrovegni”, pagg. 32-37, Treviso 2006 )


Gli affreschi
Il ciclo di affreschi che ricopre interamente la volta e le pareti della cappella degli Scrovegni, costruita accanto al palazzo della celebre famiglia, venne eseguito da Giotto, tra il 1303 e il 1305. Immediatamente prima di accingersi a questo lavoro, Giotto aveva già dipinto a Padova nel convento e nella basilica del Santo: sia nella chiesa (cappella delle benedizioni) che nel convento vi sono ancora, infatti, significativi lacerti di affreschi che hanno una fisionomia grottesca; e nella decorazione della sala capitolare, pur sotto restauri ottocenteschi, sembra di poter scorgere almeno l’idea del Maestro nell’impostazione architettonica delle figurazioni.
Quando Giotto arriva a Padova è nel pieno della sua maturità artistica: egli ha alle spalle la grande decorazione della basilica francescana di Assisi, un soggiorno a Roma dove lavorò, sullo scorcio del Duecento, per Bonifacio VIII, papa del primo Giubileo del 1300, un ciclo di affreschi nella chiesa di San Francesco a Rimini, poi diventata Tempio malatestiano, di cui resta purtroppo solo il raffinatissimo Crocifisso. Ma dobbiamo anche ricordare almeno il giovanile Crocifisso di Santa Maria Novella a Firenze, di recente restaurato, e altri due dipinti su tavola, ancora per chiese di Firenze, il Polittico di Badia e la Madonna in trono con il Bambino della chiesa di San Giorgio alla Costa, entrambi agli Uffizi. In queste opere possiamo cogliere lo svolgersi e lo svilupparsi del linguaggio grottesco in forme sempre più mature e complesse: dapprincipio legato allo stile di Cimabue, che è tradizionalmente considerato il suo primo maestro, ma anche fortemente influenzato dalla volumetria e dal classicismo della scultura di Arnolfo di Cambio, attivo a Roma a partire dagli anni settanta del Duecento, Giotto inventa, si può dire, un nuovo linguaggio pittorico, fatto di concretezze spaziali e volumetriche, creando ampi paesaggi o edifici, nei quali i suoi personaggi si muovono e dando alle figure una robusta plasticità, quasi di statue dipinte, attraverso l’intuizione del chiaroscuro, del colore cioè che diventa più chiaro a seconda dell’incidenza della luce reale. Ma Giotto scopre anche la verità della vita e della natura, consegnandoci personaggi non più ieratici e lontani, quanto piuttosto assolutamente concreti ed emotivamente vivi. Con un ampio bagaglio culturale e con una lunga esperienza di cantieri pittorici, Giotto si accinge alla complessa e vastissima decorazione della cappella degli Scrovegni. Sotto l’azzurra volta stellata sulle pareti in tre fasce sovrapposte, in riquadri sono raffigurate la Vita di Maria e la Vita di Cristo, preceduta al sommo dell’arco trionfale, dalla raffigurazione del Padre Eterno in trono, che manda i suoi messaggeri sulla terra. La parete di facciata è interamente occupata da una grandiosa raffigurazione del Giudizio universale.
Nelle fasce che dividono in due la volta celeste o che serrano sulle due pareti terminali e che separano i singoli episodi, sono raffigurati gli Apostoli, i Padri della Chiesa, Re  e Profeti dell’Antico Testamento, a rappresentare gli antefatti della Storia. Tutta questa complessa composizione, stretta in fasce e cornici rese in spessore, con forte significato architettonico, poggia su un basamento formato da finte lastre di marmi rettangolari dove sono bellissime immagini a monocromo, come finte statue, delle Virtù – teologali e cardinali – sulla parete sud e dei Vizi opposti sulla parete nord. In questa grandiosa rappresentazione Giotto si manifesta, come nel ciclo francescano di Assisi, uno straordinario narratore, che sa trasformare la Storia sacra in Storia dell’umanità, trasportandola nella contemporaneità, nella concretezza della vita vissuta. Gli episodi che l’artista descrive, si svolgono infatti contro paesaggi scabri, ma animati da piantine realmente osservate e da vivaci animali o entro architetture misurate, nel profondo spazio delle quali vivono e agiscono i protagonisti.
Le conquiste spaziali, che egli aveva già sperimentato ad Assisi, diventano più equilibrate e precise, nella definizione di ambienti esattamente misurati, dove il pittore sottolinea gli elementi della struttura, come le travi del tetto o le aperture delle finestre, dove indugia a indicare gli oggetti di vita quotidiana, come le coperte del letto, le stoviglie sulla tavola, le tende appese esattamente agli anelli.
In questi ambienti, paesaggi o architetture, si muovono e agiscono personaggi grandiosi e solenni, quasi come sculture dipinte, costruiti per mezzo di un morbido chiaroscuro che tiene conto della luce reale. E tuttavia non si tratta mai di figure ieratiche, ma di uomini e donne reali, raffigurati nella violenza o nella delicatezza di sentimenti di ogni uomo. Dalla dolcezza dell’abbraccio tra Gioacchino e Anna, all’affettuoso incontro tra Maria ed Elisabetta, al profondissimo sguardo di Cristo che pare penetrare nell’animo di Giuda, al tragico fissarsi della Madonna sul volto del Figlio morto, è tutta una vastissima gamma di drammatici sentimenti colti nel momento più acuto della passione. Ma, per contrasto, Giotto si sofferma a descrivere atteggiamenti molto più semplici, si potrebbe dire comuni, come il colloquio tra i due pastorelli nell’episodio di Gioacchino tra i pastori o il chiacchiericcio che ci sembra di sentire tra due donne che si scambiano doni nell’episodio della Natività di Maria o il gesto naturalissimo dell’assaggiatore di vino. La vita umana, dunque, nei suoi aspetti domestici o drammatici, entra violentemente nella descrizione con la forza di un’attualizzazione  straordinaria, sottolineata dalla descrizione minuta degli aspetti per così dire secondari della realtà, come le piantine e gli animali – pensiamo all’asino che porta la sacra Famiglia in Egitto – o agli oggetti nelle case, siano di lusso come nelle Nozze di Cana o povere capanne, infine le vesti, dove gli abiti tradizionali si accostano a costumi alla moda, come nei Magi o nella veste di Maria sposa o nei manti eleganti delle donne che accompagnano Anna alla Porta aurea.
Gli affreschi di Padova si caratterizzano per la novità di un luminoso colore che è forse ciò che subito colpisce e affascina il visitatore: sullo sfondo di un intenso azzurro che avvolge la grandiosa classica volta e appare dietro a ciascun episodio, i colori sono luminosissimi e tenuti prevalentemente su tinte chiare, accordate tra loro, in episodi quali la Pentecoste e l’Adorazione dei Magi, ove sembra prevalere il bianco o le storie di Gioacchino tra i pastori, dove sono delicati accordi di rosa. Talvolta il colore si accende più vivo, ma sempre solare, com’è nella Crocifissione, ove l’oro domina l’episodio e spicca la veste intonsa di un colore salmone carico di luce. Anche gli edifici sono eseguiti con timbri pastello, rosa, lilla e verdino. Nel ciclo patavino, infine Giotto addirittura accosta colori complementari, con una novità arditissima, il verde e il rosso o il giallo e il viola, ottenendo effetti di maggiore luminosità e contrasto.
Vorrei sottolineare, a questo proposito, l’episodio del Tradimento di Giuda sulla parete dell’arco trionfale, dove all’accostamento del rosso e del verde, si accompagna nelle figure laterali il giallo e il viola, con un doppio gioco cromatico; ma anche l’episodio della Coronazione di spine dove Cristo, in manto giallo-dorato, è circondato da carnefici in tuniche violacee e il sacerdote che chiude la scena sulla destra ha una veste rosa che sfuma in celeste. La luminosa chiarezza del colore e la resa pacata e serena degli episodi costituiscono la novità del ciclo padovano rispetto al ciclo assisiate, novità che Giotto riproporrà naturalmente anche nelle opere più tarde, con un’attenzione sempre maggiore al problema del colore e della luce.
La complessità del ciclo degli Scrovegni, le sue sconvolgenti novità e la bellezza della pittura, colta nel suo insieme e anche nei singoli particolari, costituiscono, per così dire un momento fondamentale e rivoluzionario nella storia della pittura italiana dell’inizio del Trecento. È un ciclo al quale guarderanno gli artisti non solo del Trecento, ma anche dei secoli successivi, e che fece di Padova una delle grandi capitali della pittura italiana dalla fine del Medioevo almeno per tutto il Rinascimento.
(Tratto da: Francesca d’Arcais, Gli affreschi, in “Le tre Venezie: Giotto e gli Scrovegni”, pagg. 41-65, Treviso 2006 )

Il progetto iconografico
Già  nel 1561 Bernardino Scardeone, nel suo libro De antiquitate urbis Patavini, dava notizia dell’esistenza di un epitaffio presso il monumento sepolcrale di Enrico Scrovegni, datato 25 marzo 1303 e relativo a una prima dedicazione della cappella di Santa Maria all’Arena, ultimata la sua costruzione.
L’epitaffio, una composizione in versi esametri latini, era probabilmente collocato entro una dipintura o cornice di color rosso, tuttora esistente alla base del monumento sepolcrale dello Scrovegni. Successivamente fu murato presso la porta centrale della cappella all’esterno (e così è descritto in un documento secentesco dell’Archivio vescovile di Padova).
Infine fu tolto anche di là e nessuno seppe mai quale fu la sua fine.
Tuttavia esso si rivela di grande importanza, in quanto offre una notizia storica assai interessante: la cappella dell’Arena, era già ultimata il 25 marzo 1303 ed era pronta ad accogliere eventuali dipinti, che fin da allora potevano essere programmati.
È qui che incontriamo un uomo di grande interesse, amico di Enrico Scrovegni e dimorante a Roma dal 1299 al 1301 (cioè durante il grande avvenimento del primo Giubileo con Bonifacio VIII, l’anno 1300): Altegrado De’ Cattanei. Questo personaggio, protonotario apostolico e canonico padovano, alla corte pontificia prima e dopo l’evento del Giubileo, ha conosciuto certamente Giotto ed è probabile che si sia fatto intermediario, per il ciclo pittorico della cappella all’Arena di Padova, fra l’amico Enrico Scrovegni e il pittore.
È sicuramente lui quel personaggio raffigurato sopra la porta centrale della cappella, con il modellino della cappella stessa sulle spalle. L’abbigliamento lo qualifica indubitabilmente come un membro del capitolo della cattedrale di Padova: la parrocchia di Enrico Scrovegni. Questi non solo, scrivendo al vescovo, si dichiara parochianus vester, ma nella cattedrale aveva una cappella, dov’erano sepolti i suoi genitori.
Altegrado pertanto, con la sua cultura straordinaria, finisce per diventare, la chiave di quello che è il programma iconografico della cappella di Giotto, il quale, non in Enrico, ma in questo straordinario personaggio, doveva trovare il lessico per il suo ciclo pittorico.
Stante l’amicizia strettissima che correva tra Enrico Scrovegni e Altegrado (il quale appare spesso come testimone in documenti giuridici di Enrico), stante l’alta cultura di Altegrado non solo nel campo teologico, ma anche in quello popolare (cfr. la Legenda Aurea di Jacopo da Varazze) è senza dubbio il maggiore referente per i contenuti teologici e popolari del ciclo pittorico all’Arena di Padova. La vera chiave per comprendere il contenuto iconografico della cappella, nei suoi quattro registri, infatti, è la seguente: in primo luogo la salvezza per l’umanità viene dall’alto, dal cielo stellato. Dio guarderà a Gioacchino e Anna, piccola famiglia di giusti, per concedere loro la nascita di una figlia, Maria (si noti la grande diffusione nel Medioevo della festa della natività di Maria, l’Aurora che avrebbe preannunciato il Sole: Cristo).
Il secondo registro di dipinti si riferisce alla vita di Cristo fino alla sua condanna, che scaturisce dalla cacciata dei profanatori del Tempio.
Il terzo è tutto dedicato alla passione, morte e risurrezione di Gesù fino alla discesa dello Spirito. Si noti come Giotto scelga la parete meno illuminata per realizzare il ciclo della Passione. Non solo, ma a questo punto ci si accorge che per il secondo e terzo registro vi è pure una lettura verticale (Natale di Cristo, Natale dell’Eucaristia); l’uomo si inginocchia dinanzi al Figlio di Dio, il Figlio di Dio si inginocchia dinanzi a Pietro. Da ultimo, se la salvezza è preannunciata in Maria (primo registro) e si realizza nella vita di Cristo (secondo registro) e nella sua passione, morte e risurrezione (terzo registro), la salvezza si attua nella storia dell’umanità, fatta di vizi e virtù, che conducono rispettivamente alla condanna eterna (i dannati) o alla salvezza eterna (i beati del Giudizio Universale).
Questa teologia della storia offre una poderosa sintesi, che è propria di un profondo conoscitore della teologia medievale, come poteva essere Altegrado De’ Cattanei: non certamente e semplicemente Giotto! Ecco perché il progetto iconografico si fonda sopra una visione della Storia che è propria di un personaggio come Altegrado, l’ecclesiastico più vicino a Giotto: non solo il teologo e il profondo conoscitore della Bibbia, ma anche il dotto cultore delle più svariate conoscenze in campo letterario.   
(Tratto da: Claudio Bellinati, Il progetto iconografico, in “Le tre Venezie: Giotto e gli Scrovegni”, pagg. 66-81, Treviso 2006 )

La sfilata dei Vizi e delle Virtù
Il filo dela narrazione riporta ancora una volta il visitatore alla parete dell’arco trionfale per farlo volgere un’ultima volta verso il Giudizio universale in controffacciata. Ormai bene ammaestrato dalla Storia sacra, è accompagnato lungo il percorso dalla sfilata dei Vizi e delle Virtù a confronto, posti sulle due pareti laterali: Stoltezza-Prudenza, Incostanza-Fortezza, Temperanza-Ira, Ingiustizia-Giustizia, Infedeltà-Fede, Carità-Invidia e Disperazione-Speranza. I Vizi terminano sulla rappresentazione dell’Inferno, le Virtù trovano il loro compimento nel Paradiso: al visitatore la scelta di quale strada seguire. Va subito sottolineato che mentre la sfilata delle Virtù è quella canonica (prima le quattro Cardinali poi le tre Teologali), la rassegna dei Vizi lo è assai meno, e ancor meno l’abbinamento Vizi-Virtù, con una sostituzione davvero notevole.
Ogni figura, iscritta in una nicchia di preziosi marmi dipinti, era completata, alla base, da una composizione in versi leonini (che rimano per assonanza), purtroppo oggi in gran parte perduti.
Vizi e Virtù: Prima Virtù a mostrarsi è Prudentia, una donna seduta ad un elaborato scrittoio con un leggio aperto davanti a sé, sul quale è posato un libro aperto. Prudenza è intenta con una mano a scrutarsi in uno specchio mentre con l’altra tiene un compasso, perché vuole conoscersi e descrivere con attenzione; ha, come di consueto, un volto anche sulla nuca (qui sembra un filosofo antico), perché Prudenza fa tesoro del passato, dell’esperienza accumulata e questo le permette di affrontare saggiamente il presente e l’avvenire. Le fa riscontro il Vizio, rappresentato da una figura maschile, di Stultizia. Ha una corona di penne e penne tutt’intorno al ventre grasso e sonagli alla cintura; in mano ha un nodoso bastone e la bocca chiusa da una serratura. Il primo vizio che porta alla perdizione è quello di chi non vuole mettere a frutto l’intelligenza, dono divino. È un uomo vanitoso e fatuo, quasi un giullare, che per la propria identità umana si affida a penne animali, che conta sulla forza bruta, incapace di controllarsi nella voracità, incapace di fare uso della parola, altro dono divino. È l’umanità che si abbassa a livello animalesco.
Seconda delle Virtù cardinali rappresentate è la Fortitudo, una virago con corazza, cranio di leone come elmo, scudo gigantesco adorno di un leone rampante e mazza in mano: Ercole in versione muliebre. Ciò che ancora si legge conferma l’aspetto di questa Virtù, capace di sgominare il male e inflessibile di fronte alle avversità: Fortezza in senso etico, spirituale, in quanto perseveranza e determinatezza, non certo in quanto supremazia fisica: “Fortezza sbaraglia ogni cosa superando…Armata, con in mano la clava, toglie di mezzo le cose malvagie. Infatti uccide con la sua forza il leone e si copre con quella pelle, vince ogni lotta, ogni gara, e non viene sconfitta in nessuna”.
A Fortezza si contrappone il vizio parlante di Incostantia: la donna ha come infido piedistallo una ruota posta su un lucido marmo inclinato; spalanca le braccia perché sta perdendo l’equilibrio mentre il vento fa sollevare dietro le spalle la stoffa leggera.
Terza Virtù cardinale è Temperantia, una nobile figura che sa “temperare” i propri istinti; per questo la bocca è tenuta a freno da una briglia che deve guidare il suo parlare e la spada è avvolta da bende che rendono l’arma inoffensiva. Giotto ha innovato profondamente l’iconografia consueta di questa Virtù, di solito rappresentata mentre “temperava”, cioè mescolava l’acqua e il vino in due brocche tenute in mano. Perfetta antitesi alla mansuetudine di Temperanza è Ira, che si denuda il petto in modo scomposto e veemente, ripetendo il gesto di Caifa, furioso nel sentire Cristo dichiararsi il Messia.
Ponendo come ultima delle virtù cardinali Iustitia, l’impaginatore ha volutamente alterato la sequenza delle Virtù, così come ad esempio le enumera Tommaso d’Aquino, e come di solito sono disposte iconograficamente: Prudenza, Giustizia, Fortezza, Temperanza; Fede, Speranza e Carità. Gli premeva mettere in evidenza il binomio Giustizi-Ingiustizia e per questo ha voluto che entrambe risultassero in posizione centrale, accompagnate simmetricamente, a sinistra e a destra, da due gruppi di tre.
Giustizia ed Ingiustizia: La Giustizia coronata, abbigliata come una Madonna, è seduta su di un trono con archi acuti che la inquadra prospetticamente; da notare che il trono è stato preso in prestito da quello che Giotto dà alla Madonna (si veda ad esempio la Madonna in maestà degli Uffizi). L’impressione di trovarci di fronte ad una figura sacra è aumentata dalla “catena” che tiene l’arco della spalliera, come fosse quella di una chiesa; basta volgersi alle “catene” che stanno fra gli archi del Tempio da cui Gioacchino viene scacciato, nel primo episodio.
Giustizia ha nelle mani due piatti della bilancia, tenuta dall’invisibile Sapienza divina, sopra cui sono due esseri alati dei quali l’uno, vecchio e barbuto, sta per decapitare un reo con le mani legate dietro la schiena, mentre l’altro, un giovane coronato, premia un uomo, seduto dietro ad un banco, che ricorda quello di un cambiavalute: la zona è rovinata ma si vedono bene un calamaio, due penne e il piedistallo, parrebbe, di una bilancia o di una coppa per conservare denaro. Al di sotto, in un riquadro, del tutto separato dal trono di Giustizia, sono rappresentati cavalieri con il falcone, fanciulle che danzano e suonano fra gli alberi vicino ad una capanna di paglia, mercanti a cavallo con la merce appesa alle selle.
La scritta, tranne un verso di discussa lettura e significato, è del tutto comprensibile: “La perfetta giustizia pesa tutto quanto con braccio di bilancia pari; coronando i buoni, vibra la spada contro i vizi. Ogni cosa si rallegra della libertà; se Giustizia regnerà, agirà con amabilità dovunque si volga il retto cavaliere. Quindi si può cacciare, cantare e vendere, i mercanti già… si giova…”. Mi sembra di cogliere un’eco dell’ideologia medievale della società tripartita in cui la Chiesa (coloro che pregano) si vedeva al sommo della piramide, la cui base era costituita dai cavalieri, dai milites (coloro che combattono), e dai laboratores (i contadini che lavorano), qui rappresentata con un significativo aggiornamento, perché sono presenti anche i mercanti. I soldati, coloro che combattono, sotto l’azione positiva e rasserenante della Giustizia divina sono ritratti nella loro più gioiosa occupazione alternativa alla guerra, la caccia; i contadini, allusi dalla capanna di paglia e dai due alberi simmetrici, sono stati affiancati da una nuova categoria di lavoratori, i mercanti, che possono viaggiare con assoluta tranquillità, perché regna la libertà e la gioia (il lieto canto delle fanciulle), assicurate dalla Giustizia. La positività del commercio, la lode del miles probus vanno sottolineate tenendo conto del committente, miles e prestatore onesto: miles, honestum conservans animum si definiva Enrico Scrovegni nell’epigrafe di facciata oggi perduta. Proprio la lode del buon prestatore e dei mercanti mi sembra la ragione per cui questa particolare rappresentazione di Giustizia sia stata posta al centro della sfilata delle Virtù.
Il torvo individuo che impersona Iniustitia siede in mezzo ad una porta urbana merlata in rovina, circondato da molti alberi, un bosco, propizio all’assalto dei malfattori, luogo che in niente rivela la saggia opera modificatrice dell’uomo. Nelle mani uncinate ha una spada e un’asta anch’essa uncinata; è abbigliato con ricercatezza, ma lo sguardo duro è di chi è abituato ad affermare con violenza il proprio potere. La scena esplicativa ai suoi piedi non è separata da elementi architettonici ma vi è intimamente legata: non ha perciò un valore di allegoria ma di racconto realistico. Sono rappresentati – purtroppo questa zona è rovinata – un mercante che è sbalzato da cavallo, una fanciulla spogliata a viva forza, due guerrieri armati di tutto punto: esattamente il contrario di quanto accadeva sotto il benefico regno di Giustizia.
Le tre Virtù teologali e i Vizi contrapposti:: La prima virtù teologale è Fides, una solenne matrona con un copricapo somigliante a una tiara, che impugna la croce astile e dispiega un cartiglio con le prime parole del Credo; si erge sopra una roccia e calpesta un idolo infranto e dei cartigli su cui sono rappresentati i segni dello zodiaco; manto e tunica mostrano degli strappi, ad indicare gli scismi e le eresie che nel tempo hanno lacerato la Chiesa. Della lunga scritta sottostante queste sono le espressioni di senso compiuto: “…Indiscussa rimane la virtù della Fede… Soggiogò con forza virile gli idoli. È coronata e fondata sulla ferma roccia. È confortata dal Dio degli angeli e degli uomini, straordinariamente retta e perfetta…”. L’accenno alla pietra su cui è fermamente fondata evoca la supremazia pietrina della Chiesa di Roma per le parole di Cristo all’apostolo: “Tu sei Pietro e su questa pietra sarà fondata la mia Chiesa” (Mt 16,18).
Le si contrappone Infidelitas, il paganesimo o l’idolatria, un personaggio con un elmo all’antica, la vista offuscata (un occhio è aperto ed uno è chiuso). Tiene in mano un idolo, una statuetta che lo soggioga perché gli ha passato una corda al collo. Volge le spalle ad un profeta che si sporge con un cartiglio e che invano vorrebbe fargli pervenire il messaggio divino. Ai suoi piedi si agitano le fiamme del castigo infernale.
Seconda virtù teologale è Karitas, una fanciulla che tiene in mano un cesto di rose, spighe e melograne e con l’altra offre sorridendo il suo cuore a Cristo, che si sporge a mezzo busto dall’alto. Una corona di fiori le circonda i capelli e tre fiamme rosse, che ricordano la croce, sono iscritte nel nimbo, perché la Carità è la virtù che Cristo esercitò in sommo grado. Ai suoi piedi dei sacchi chiusi di monete, le ricchezze che Carità calpesta e disprezza. Una lunga iscrizione recita: “Quest’immagine della Carità mostra i diversi aspetti della sua natura: dona di buon grado il suo cuore in segreto a Gesù. Osserva questa regola, mettendo sotto una luce vana i difetti della condizione umana. Dona tutto a tutti con mano generosa e con speciale premura”.
A questo punto ci aspetteremmo che le si contrapponesse in uno scontato binomio il vizio dell’Avarizia, che è invece sostituito dall’Invidia, una vecchia cieca, dalla lingua velenosa, trasformata in un lungo serpente che le esce dalla bocca e le si ritorce contro. Ha le orecchie smisurate, sempre all’erta per ascoltare, le mani unghiate per ferire e stringe un sacchetto di monete che vuol tenere tutto per sé; un cerchio di fiamme l’avvolge perché brucia di furore e del sentimento che la consuma. La sostituzione di Invidia al posto della tradizionale Avarizia è importante, perché ancora una volta possiamo constatare con quanta attenzione lo Scrovegni abbia voluto allontanare discorsi sui peccati che il denaro porta a commettere, discorsi che avrebbero potuto indurre lo spettatore a collegarli con il proprietario della cappella.
L’ultima delle tre virtù teologali e Spes, la Speranza, una fanciulla alata e vestita di un peplo leggero, ispirata a una Vittoria dell’Antichità classica, che si alza lievemente in volo per ricevere la corona che Dio, sporgendosi dalla cornice in alto, le sta offrendo. Vola perché, prossima ai beati nel Giudizio universale, spera di unirsi per sempre a loro. La lunga scritta lo conferma: “La Speranza è sempre come se fuggisse, perché la mente è destinata ad esser pura e, poggiandosi sulla speranza, si libera dalle catene delle cose della terra e vola in cielo per lasciarsi incoronare da Gesù e divenire beata e salire in alto, invincibile proprio per questa certezza”.
Desperatio, la Disperazione, una donna impiccata, prossima invece ai dannati del Giudizio universale, è già pronta alla dannazione eterna. Un diavolo infatti le sta arpionando il viso con un uncino per trarla a sé. Disperazione prepara alla vista di Giuda impiccato, vicinissimo a lei nell’inferno. La scritta spiega infatti: “Questa figura porta i panni di chi ha il cuore disperato, soffocato dalla presa di Satana ed è perciò dannato all’inferno…”.
Il Giudizio universale: Al di sotto della grande trifora, che trasforma la luce del giorno in luce divina, appare Cristo gigantesco, circondato dalla mandorla dell’arcobaleno alla quale è appoggiata una corona di angeli, di cui due soffiano con le trombe per risvegliare i defunti. Siede su di un trono di nubi sostenuto dai simboli dei quattro evangelisti, l’aquila, Giovanni; il bue, Luca, ma rappresentato nell’ibrido aspetto di una specie di centauro; Matteo, un angelo tutto chiuso nelle sue ali; Marco, un leone alato. Cristo si staglia su uno sfondo di raggi d’oro e d’oro è il grande nimbo nel quale tre veri specchi (il tre è il numero della Trinità) dovevano brillare, illuminati dal sole. Mette bene in vista le ferite, anche quella del costato, che spicca sulla tunica rossa; con la sinistra allontana da sé i dannati mentre con la destra accoglie gli eletti a cui rivolge lo sguardo, uno sguardo severo, per tutti coloro che la sua morte non è bastata a salvare. Al di sotto della mandorla, la nuda croce con titolo e suppedaneo, sorretta da due angeli, ricorda che Cristo è risorto, e che nell’eternità, proprio con il suo corpo piagato, si appresta a giudicare. Un gioco di rimandi congiunge la controfacciata con l’abside. Qui è posta la tavola con l’Eterno mentre decide di inviare il Figlio sulla terra; immediatamente di sotto si trova il bellissimo crocifisso dipinto da Giotto: le immagini dell’Eterno e di Cristo in croce da una parte, e di Cristo affrescato nel Giudizio con i segni della Passione dall’altra, fronteggiandosi, congiungevano idealmente la missione del Redentore e il suo ritorno trionfale alla fine dei tempi nel segno del sacrificio divino, rendendo terribile la condanna per gli uomini peccatori.
Al di sopra della mandorla, da una parte e dall’altra, sono disposti i nove cori angelici (Angeli, Arcangeli, Principati, Potenze, Virtù, Dominazioni, Troni, Cherubini e Serafini) ben divisi e disciplinati, capitanati ciascuno da un angelo con elmo e bandiera, nella quale un tempo era rappresentato il simbolo della schiera; oggi è riconoscibile soltanto il Trono nel vessillo verde.
Più in alto ancora, due angeli stanno riavvolgendo, come un rotolo di papiro, il cielo con gli astri, il sole e la luna; così facendo permettono alla Gerusalemme celeste, luccicante di gemme, di cominciare a mostrarsi. Questo momento trae ispirazione dall’Apocalisse, quando avviene uno spaventoso sconvolgimento cosmico, cadono le stelle, il sole diventa nero e la luna di sangue; “e il cielo si ritrasse come un libro che si ravvolge” (Ap 6,14) perché il tempo umano è finito. Giotto ha dato profondità a questo momento così immateriale disegnando una pedana leggermente a ferro di cavallo come base per i troni degli apostoli i quali, da saggi consiglieri, affiancano Cristo. Gli scranni più elaborati sono per Pietro e Giovanni che fiancheggiano il Redentore, mentre assai più semplici sono gli schienali di Andrea e Giacomo maggiore, che occupano il secondo posto; il decoro continua a scemare fino a che i troni più lontani da Cristo sono composti da semplici tavole nude. Anche in cielo un invisibile maestro delle cerimonie assegna i posti, come si trattasse di una cerimonia ufficiale.
La grande e nuda croce dipinta sotto il Cristo giudice fa da limite invalicabile fra le schiere dei beati a sinistra, avviati al cielo, e quelle dei dannati a destra, che stanno piombando all’inferno. Infatti dalla grande mandorla fuoriesce un turbine di fuoco, che dividendosi in quattro fiumi di fiamme (quattro, come i quattro fiumi del paradiso),  disegna la topografia dei supplizi. Molti dannati stanno ancora precipitando nella voragine buia (gli avari hanno il sacchetto di monete al collo), inseguiti dai diavoli con uncini ed arpioni, altri invece già subiscono la pena secondo la legge del contrappasso: chi ha condotto una vita lussuriosa è tormentato nel sesso nei modi più atroci, chi ha mentito è appeso per la lingua, chi è stato sodomita è impalato, chi è stato avaro è impiccato dalla stessa corda che chiude una borsa di monete; forse è stato un seminatore di discordia il dannato che viene segato in due. Giuda, come abbiamo detto, è eternamente impiccato con le budella fuoriuscite. Fra il fiume di fuoco e la buia casa di Satana si interpone una larga zona bianca: sono i banchi di ghiaccio descritti nell’Apocalisse apocrifa di Paolo, che tengono assiderati coloro che causarono danno a chi aveva bisogno di carità e affetto: orfani, vedove, poveri. Il freddo è tale che anche i diavoli sembrano cosparsi di neve e brina. Giotto sembra però aver pensato a pene per peccati diversi rispetto a quelli di aver fatto soffrire il prossimo perché un dannato che si morde la mano dovrebbe essere stato un iroso e due donne con vistosissimi capelli biondi dovrebbero essere state delle meretrici.
È molto facile trovare la via dell’inferno: questo suggerisce il fatto che dalla Terra stessa – al medesimo livello dei defunti che stanno risorgendo – si apre una seconda via che porta direttamente a Satana, il quale domina su un trono di serpenti e draghi mentre divora i dannati, li stritola con le braccia possenti, li calpesta con i piedi e ancora li defeca in una parossistica bulimia. A questo ingresso dell’inferno le anime sono ancora molto vicine alle loro abitudini terrene. C’è il mugnaio con il suo sacco di farina a cui un diavolo travestito da giudice fa vedere beffardamente tutte le pergamene sulle quali sono segnati i suoi inganni, i crediti fraudolenti che avrà vantato nei confronti dei poveri contadini; c’è poi un vero giudice, nudo ma con la mitria che assolve un chierico, tenendo fra le mani un sacchetto per le invisibili monete.
I morti che stanno sorgendo dalle loro tombe sono sicuramente tutti eletti perché hanno compostamente le mani giunte; la figura nuda che si nasconde, aggrappata alla base della vicina croce è il Buon Ladrone giunto prima di Cristo in Paradiso, o è invece un risorto dannato che cerca di sfuggire alla sua sorte?
Immediatamente al di sopra dei corpi che stanno riacquistando la vita sfila una doppia processione di eletti che appartengono, rispettivamente al Nuovo e all’Antico Testamento, per ricordare che il sacrificio di Cristo ha redento l’umanità intera, fin da quando l’uomo è stato creato e ha peccato.
Gli eletti più vicini ai piccoli corpi nudi fra le rocce appaiono, rispetto a loro, giganteschi; camminano nell’aria azzurra del paradiso scortati dagli angeli. Innanzitutto i martiri fra cui si individua santo Stefano, il primo martire in assoluto, diacono; dietro di lui sta un centurione romano (una presenza rarissima): potrebbe essere un contemporaneo di Stefano, il centurione Cornelio ricordato negli Atti degli Apostoli (10, 1-43), peccatore pentito e celebrato per le sue elemosine. Vengono poi i vescovi e in primo piano i fondatori dei grandi ordini: san Domenico che precede san Francesco, e poi ancora san Benedetto e più in generale la folla indistinta dei santi della Chiesa. Seguono ancora sante martiri, poi sante varie, quindi religiosi (è presente anche uno dei canonici regolari che officiano la cappella, contraddistinto dal superpelliceum) e laici, in primo piano personaggi altolocati e vestiti con ricercatezza. Fra questi si trova il supposto Giotto, con collare di pelliccia di vaio (il che mi sembra rendere improponibile l’identificazione). Agli ultimi posti spicca un pellegrino con un grande mantello di pelo di pecora: potrebbe essere il beato Antonio il Pellegrino da Padova (m.1267).
Al di sopra di questa processione sfila una seconda, formata da personaggi dell’Antico Testamento; li guidano san Paolo e la Vergine incoronata, con una tunica rossa e amplissimo mantello bianco foderato di vaio (anche nella scena di dedica da parte dello Scrovegni la Madonna veste i medesimi colori ed è coronata). Qui si volge ad aiutare a sollevarsi Eva, velata e inginocchiata. Vi è una voluta contrapposizione fra la prima donna che ha introdotto nel mondo e lasciato come pesante eredità il peccato originale, Eva, e Maria, l’unica donna concepita senza peccato originale, che attraverso l’incarnazione di Cristo ha contribuito a che si riaprissero le porte degli inferi. Nel Medioevo si amava anche sottolineare che la prima parola della salutazione angelica: “Ave” era la lettura a rovescio di “Eva”.
Maria, santa Maria della Carità, che già aveva sollevato la cugina Elisabetta impedendole di inginocchiarsi al suo cospetto, nei cieli ripete il medesimo gesto verso la prima donna peccatrice.
La processione degli eletti condotta da Stefano si è come per un momento arrestata per fare spazio alla scena di dedica della cappella da parte di Enrico Scrovegni. L’offerente ha la bocca semichiusa e sta evidentemente accompagnando con una preghiera il dono che la Vergine accoglie.
Nella fascia decorativa che conclude la parete sud adiacente al Giudizio, la più vicina agli eletti, proprio all’altezza di Enrico Scrovegni sono rappresentati entro due quadrilobi l’evangelista Luca che ha sul leggio una pergamena su cui sono scritte le prime parole dell’Ave Maria e san Girolamo, che tiene sul suo scrittoio un libro squadernato rivolto allo spettatore, su cui si legge l’intera “Ave Maria”, che, per la prima metà ripete la salutazione angelica del vangelo ed è dunque, noto, rispettivamente in latino, mentre la seconda metà è in veneto (trascrizione di Claudio Bellinati):
Ave Maria gratia plena, Dominus tecum. Benedetta tu in mulieribus et benedittus fruttus ventris tui. Sancta Maria ora per me. Benedetta sia la Vergene Maria. Egreditur virga de radice Gesse, flos de radice eius ascendit. Beneditta sia la Vergene Maria e Laudato Deo e tutti…
Mi pare di poter ritenere che sia proprio Enrico Scrovegni a raccomandarsi a Maria, l’unico personaggio che plausibilmente possa scivolare dal latino al più familiare dialetto, l’unico che possa piegare la corale invocazione: “Ora pro nobis peccatoribus” all’impellente e personalissima: “Ora per me”. Del resto il 25 marzo i movimenti del raggio di sole che sfiorano lo Scrovegni, il modello della cappella e la Vergine sembrano scandire proprio le parole dell’Ave Maria.
Il committente, ogni volta che avrà contemplato la propria immagine e quella della Vergine caritatevole che lo accoglieva fra gli eletti, avrà trovato conforto sperando che la profezia, rappresentata sotto forma di accadimento anticipato, si sarebbe davvero, un giorno, avverata.
(tratto da: Chiara Frugoni, Gli affreschi della Cappella Scrovegni a Padova, Einaudi, Torino 2005)

I volti segreti di Giotto
Le rivelazioni della Cappella degli Scrovegni

La rivoluzione di Giotto: Su questo straordinario maestro, che cambiò radicalmente la storia della pittura europea, abbiamo in realtà poche notizie sicure. Il resto è il noto repertorio leggendario: il pastorello di cui Cimabue riconosce il talento – codificato nella prima metà del Quattrocento da Lorenzo Ghiberti – o l’episodio della sua perfetta “O”, menzionata un secolo dopo da Giorgio Vasari, e così via. Ne conosciamo invece la genialità, che seppe esprimere anche al di fuori del campo pittorico: il campanile di Santa Maria del Fiore a Firenze, cui lavorò con l’incarico di capomastro a partire dal 1334, ne testimonia la grandezza come architetto. Era un artista rivoluzionario, deciso a rompere gli schemi di una tradizione quasi millenaria e operare all’interno di edifici ecclesiastici con un linguaggio nuovo, che conferisse al sacro le forme reali, vive, della quotidianità. Nel 1363, venticinque anni dopo la sua morte, il cronista Filippo Villani lo ricorda come colui che seppe restituire alla pittura “la fama più alta e la sua dignità originaria: non solo lo possiamo paragonare per reputazione ai più grandi artisti dell’antichità, ma lo dobbiamo preferire a loro per arte e ingegno”. E prosegue: “Le raffigurazioni da lui rese col pennello sono così simili alle immagini che ci offre la natura, che allo spettatore sembrano vivere e respirare; e i loro gesti, i loro atteggiamenti sono così corrispondenti alla realtà che paiono davvero parlare, piangere, ridere e fare ogni cosa: con grande piacere di chi guarda e loda l’ingegno e la mano dell’artista”.
Boccaccia indica perfettamente la portata rivoluzionaria della sua arte: Giotto richiama in vita dopo secoli di errori la pittura, togliendola dalla tomba in cui l’aveva posta una concezione artistica che si limitava “a dilettar gli occhi degli ignoranti” e non lasciava spazio alla riflessione e all’intelletto:
… ebbe uno ingegno di tanta eccellenza, che niuna cosa dà la Natura, madre di tutte le cose e operatrice col continuo girar de’ cieli, che egli con lo stile e con la penna o col pennello non dipignesse sì simile a quella, che non simile, anzi più tosto dessa paresse, in tanto che molte volte nelle cose da lui fatte si truova che il visivo senso degli uomini vi prese errore, quello credendo esser vero che era dipinto. E per ciò, avendo egli quella arte ritornata in luce, che molti secoli sotto gli error d’alcuni, che più a dilettar gli occhi  degl’ignoranti che a compiacere allo ‘ntelletto de’ savi dipignendo intendeano, era stata sepolta, meritamente una delle luci della fiorentina gloria dir si puote.
Una rivoluzione che gli diede subito vastissima fama e quella popolarità che fece fiorire tanti celebri aneddoti. Come testimonia Villani: “A parte la pittura, Giotto fu assai saggio e si interessò a molte cose. Oltre ad avere piena cognizione della storia, fu a tal punto emulo della poesia, che riuscì a dipingere ciò che i poeti avevano descritto a parole”.
Giotto lavorò a stretto contatto con teologi e religiosi, data la committenza e la prevalenza dei soggetti che gli venivano commissionati, ma anche con intellettuali e scienziati, come Pietro d’Abano, che ideò il programma del ciclo astrologico eseguito dal maestro a Padova nel Palazzo della Regione, sede del Comune, e che andò perduto nel disastroso incendio del 1420.
Metteva a disposizione dei committenti il suo talento e il suo genio, ma una cosa era dipingere un’immagine sacra come la crocifissione, o come la piccola tavola con l’immagine della Beata Vergine Maria da cui Tetrarca non si separava mai (e che in punto di morte lasciò in eredità al signore di Padova, suo protettore e amico, Francesco il Vecchio da Carrara, precisando nel Testamento che gli ignoranti non ne capiscono la bellezza, perché solo gli occhi della mente potevano coglierla), e un’altra eseguire programmi complessi, dove l’artista doveva essere istruito sui contenuti ed era chiamato a un coinvolgimento e a una stretta collaborazione con chi li aveva pensati. La sua creatività usciva peraltro ulteriormente esaltata dalla novità, dalla complessità e dall’ambizione stessa del programma.
Non era né un filosofo, né un teologo, né uno scienziato: era un pittore geniale, tra i più grandi che siano mai esistiti.
Paradossalmente, il pensiero che non avesse un’accurata preparazione filosofico-teologica ha a lungo compromesso l’intelligenza stessa del disegno filosofico-teologico della Cappella degli Scrovegni: ciò che risultava oscuro per la sua complessità e sottigliezza era infatti attribuito all’approssimativa preparazione dottrinale del pittore.
Anche per questo si creò la leggenda dei suoi rapporti con Dante e dell’influenza che il sommo poeta avrebbe esercitato nella concezione stessa della Cappella. Quando inizia l’impresa, Giotto, che era nato intorno al 1267, ha circa trentasei anni. Ha lavorato a Firenze e a Roma, ma soprattutto ad Assisi, a Rimini e nella stessa Padova (dove ha da poco finito di affrescare la sala del Capitolo nel complesso della basilica di Sant’Antonio), tutte commissioni che gli sono venute dai frati minori conventuali e che si collegano alla celebrazione delle storie e della gloria di san Francesco e dei suoi fedeli seguaci, primo fra tutti il santo di Lisbona. Ora un ricco imprenditore lo chiama ad affrescare una cappella privata, dove si narra – in collegamento con il primo Giubileo della storia – la riconciliazione di Dio con l’umanità attraverso il sacrificio di Gesù e la beata speranza nella salvezza eterna per chi saprà fare buon uso del libero arbitrio e seguirà la via indicata dal Signore. Un ciclo impegnativo, assai diverso dalle storie francescane che aveva affrontato fino ad allora. Il talento di Giotto aveva bisogno di un impaginatore, di una guida. Se nel Palazzo della Regione si avvarrà di Pietro d’Abano, nella Cappella degli Scrovegni opera in sintonia con un raffinato teologo, un uomo dotato di una così profonda spiritualità, che quel viaggio che Giotto ci chiama a compiere con la malia delle sue immagini, l’ha compiuto lui per primo, in una immedesimazione tanto sentita che non poteva non produrre il più sublime dei capolavori.
Il teologo di Giotto: Chi è il teologo raffigurato da Giotto nella scena del Giudizio Universale? Il tempo e l’oblio ne hanno oscurato l’identità, ma i dati in nostro possesso ci consentono di tracciarne un identikit abbastanza preciso: è un religioso; indossa paramenti liturgici solenni; ha tra i trenta e i quarant’anni; è un teologo raffinato, che mostra di padroneggiare non solo l’Antico e il Nuovo Testamento, i vangeli apocrifi e gli scritti dei Padri della Chiesa, ma anche commenti e testi antichi, tardo antichi o della tradizione medievale, antica o recente (come il Fisiologo, le Meditationes dello Pseudo-Bonaventura, la Legenda aurea). È uno studioso di rigorosa formazione agostiniana, che si muove con disinvoltura anche in un ambito filosofico classico (Cicerone, Seneca).
Il contesto in cui agisce è tra i più colti e stimolanti d’Europa. Padova è in questi anni un centro culturale d’eccellenza, dove si studia e si dibatte, talora con spregiudicatezza, il pensiero degli antichi. L’università, fondata nel 1222, vanta ottant’anni di vita. È il momento glorioso del preumanesimo padovano, che vede la compresenza di personalità come Lovato de’ Lovati, Albertino Mussato, Pietro d’Abano e Marsilio da Padova.

In città erano da tempo attive anche alcune importanti scuole teologiche (la più antica era ovviamente legata alla cattedrale) e non si può neppure escludere l’esistenza di una facoltà teologica coeva alla nascita dell’università. I primi maestri operarono probabilmente nel monastero domenicano di sant’Agostino, dove avrebbe insegnato nel 1228-1229 anche Alberto Magno, ma centri altrettanto importanti furono la scuola dei frati minori conventuali di sant’Antonio nel convento di S. Maria Mater Domini o S. Maria Dei Genitricis ubi quiescit s.Antonius, e il monastero dei frati eremitani di sant’Agostino, con la chiesa dedicata ai santi Filippo e Giacomo, dove, a un passo dal palazzo dello Scrovegni e dall’annessa cappella, sullo scorcio del Trecento è ricordata la presenza di teologi illustri.
È verosimile che Enrico Scrovegni, ottenute le dovute autorizzazioni, abbia richiesto a un’autorità o a una comunità religiosa che gli fosse indicato un ecclesiastico in grado di concepire il programma sacro che aveva deciso di affidare all’esecuzione di Giotto e della sua bottega. In città, dicevamo, c’erano scuole teologiche importanti e maestri di reputata dottrina. Una di queste era proprio a un passo dall’erigenda cappella, nel confinante monastero dei frati eremitani. Niente di più facile dunque, se non altro per ragioni di buon vicinato, che Enrico Scrovegni si rivolgesse  a loro e che un agostiniano eremitano fosse incaricato di elaborare il programma.
Nello studio teologico degli eremitani operava in quegli anni un religioso di grande carisma, passato alla storia come Alberto da Padova o Alberto eremitano, che è il primo citato dal Portenari tra i grandi maestri eremitani.
Nessun documento, nessuna notizia collegano Alberto alla vicina Cappella degli Scrovegni. Non abbiamo prove per identificarlo come il teologo ispiratore di Giotto, ma gli indizi non mancano. Stiamo cercando un agostiniano, dotato di una grande preparazione dottrinale e di una ricca cultura generale, attivo verosimilmente nel vicino monastero degli eremitani e di età compresa tra i trenta e i quarant’anni (come si deduce dal ritratto grottesco). Alberto da Padova, principe dei teologi, è un frate agostiniano eremitano, è nato verosimilmente intorno al 1269 e ha dunque poco più di trentacinque anni all’epoca in cui Giotto conclude la decorazione della Cappella. La sua fama era già consolidata, se è vero che Bonifacio VIII (che fu papa dal 1295 al 1303) lo aveva invitato, ancor giovane, a predicare alla corte papale. Quest’ultimo particolare, dicevamo, è di grande interesse per noi, perché crea un collegamento esplicito con il Giubileo del 1300, e dunque con quelle istanze di riconciliazione, di giustizia, di nuova fratellanza tra gli uomini che sono alla base del programma della Cappella. Altro dato significativo è la sua devozione per la Madonna, che è comune in questa età, ma che in lui, come testimonia Pedro de Alva, è particolarissima. Nella Cappella intitolata a santa Maria della Carità il culto mariano è testimoniato non solo dal primo registro, dove si raccontano le storie dei genitori di Maria e la vita della Vergine fino al matrimonio con Giuseppe, ma anche dagli affreschi dell’abside, in cui un ignoto pittore, il cosiddetto Maestro del Coro Scrovegni (1320 circa), descrive le vicende della Madonna dopo l’Ascensione di Cristo fino al momento della sua Assunzione e Incoronazione.
Se tanti indizi convergenti fanno una prova, il teologo della Cappella degli Scrovegni potrebbe essere il principe dei teologi della sua epoca, Alberto da Padova. Tutta l’impostazione della Cappella degli Scrovegni, lo abbiamo più volte evidenziato, è rigorosamente agostiniana, compresa la preferenza accordata, nella narrazione dei medesimi episodi delle storie di Gesù, al Vangelo di Giovanni rispetto a quelli sinottici (esemplari, in tal senso, il Battesimo di Cristo, l’Ultima cena e il Noli me tangere). La stessa scelta degli episodi evangelici risponde a criteri ben individuabili e in sintonia con lo spirito giovanneo (le Nozze di Cana, la Risurrezione di Lazzaro, la Lavanda dei piedi sono solo in Giovanni).
Altro significativo elemento è la frequenza con cui negli scritti di Alberto si interpretano in chiave allegorica e di prefigurazione vari episodi dell’Antico Testamento, secondo lo schema, di ascendenza agostiniana, che nella Cappella degli Scrovegni ispira i dieci quadrilobi della parete nord.
Un secolo dopo la morte i padovani lo considerano uno dei quattro figli illustri della città e lo affiancano a due antichi, Tito Livio e Giulio Paolo, e a un contemporaneo, Pietro d’Abano, lo studioso “laico”, la cui vicenda fu segnata anche da accuse da magia. Pietro impostò il programma astrologico eseguito da Giotto proprio nel Palazzo della Regione: un altro padovano, frate Alberto eremitano, fu secondo noi il geniale ideatore di quello della Cappella degli Scrovegni.
È lui il religioso ritratto da Giotto con il modellino della Cappella sulla spalla. È lui che trepida in attesa del giudizio di santa Caterina d’Alessandria.
Santa Caterina d’Alessandria: Martirizzata secondo la tradizione il 25 novembre del 305, il culto di santa Caterina ebbe subito grande diffusione nel mondo cristiano. Caterina apparteneva a una nobile famiglia. Giovane coltissima e di vivaci qualità intellettuali, sfidò Massimino Daia, governatore di Egitto e di Siria, rifiutando di partecipare alla celebrazione del sacrificio rituale in onore dell’imperatore Massenzio e invitando piuttosto Massimino a convertirsi. Colpito dalla determinazione della vergine, e dalla sua straordinaria bellezza, il governatore la fece condurre a palazzo e affidò a cinquanta retori e filosofi pagani l’incarico di convincerla dell’errore della sua fede. Ma la sapienza della giovane trionfò sugli anziani maestri, che si convertirono a Cristo e affrontarono il martirio. Né valsero a piegarla lusinghe e torture; mandata a supplizio, le ruote dentate che dovevano straziarla si spezzarono miracolosamente. Gli aguzzini ne spensero la vita decapitandola. Gli angeli trasportarono il corpo di Caterina sul monte Sinai, dove ancor oggi l’altura vicino alla montagna di Mosè (gebel Musa) porta il suo nome (gebel Katherin) e sovrasta il cenobio a lei consacrato.
La sapienza e la fermezza di Caterina divennero la personificazione del trionfo del cristianesimo non solo sui culti pagani, ma anche sul loro retaggio culturale. Venerata dai Benedettini, anche gli Ordini mendicanti, che fin dalla loro costituzione mostrarono attenzione agli studi nei più diversi campi, la scelsero come patrona dei loro centri di cultura e contribuirono a una ulteriore diffusione del suo culto in tutta Europa. All’interno degli Ordini mendicanti, la santa fu oggetto di grande venerazione da parte di domenicani e agostiniani.
La presenza di santa Caterina accanto alla Madonna e a san Giovanni è dunque giustificata dal suo ruolo di patrona dei filosofi e dei teologi, e in tal senso anche degli ordini agostiniani. Alla santa è dedicato all’interno della Cappella il piccolo altare laterale, che si trova sulla destra della parete dell’arco trionfale, guardando in direzione dell’abside.
Ora comprendiamo anche il gesto della santa, che poggia rassicurante la mano sul tetto del modellino della cappella, a significare la sua approvazione al programma teologico della Cappella e a togliere qualunque trepidazione ad Alberto.
Il messaggio finale:  Ogni 25 marzo, festa dell’Annunciazione a Maria, Enrico Scrovegni accoglieva nell’Arena la rituale processione cittadina e apriva al pubblico la cappella annessa al palazzo. All’uscita, l’ultimo sguardo degli ospiti si posava sulla grandiosa scena del Giudizio Universale. Un monito per tutti, un forte richiamo a seguire i precetti evangelici e gli insegnamenti della Chiesa.
Enrico, invece, rientrava in casa passando attraverso la porta di comunicazione interna, quella stessa da cui entrano ed escono gli odierni visitatori.
Sopra questa porta, dal lato interno, Giotto ha dipinto due tondi, avvolti da eleganti motivi fitomorfi.
In quello di sinistra c’è una giovane dall’espressione sorridente e cordiale, che porta sul capo una corona, simbolo di elezione e di nobiltà. Le chiome compostamente raccolte a incorniciare il viso, stringe nella sinistra un libro chiuso, mentre la destra presenta tre dita, pollice, indice e medio, aperte in un gesto che accenna alla figura dell’uomo ritratto nell’altro tondo. La corona, l’aspetto sorridente, il libro e il gesto cordiale della mano trasmettono un’idea positiva di serenità, di equilibrio, di saggezza. In apparente contrasto con questa atmosfera distesa le fuoriescono dagli occhi due nodose clave, che si allargano nello spazio in direzione opposta, formando un angolo di 180 gradi.
La figura maschile sulla destra presenta i tratti tipici dell’uomo culturalmente e civilmente arretrato: il corpetto di pelliccia annodato in vita, le braccia nude, la bocca spalancata, lo sguardo stupito, la testa calva, un lungo nodoso bastone brandito con la destra e appoggiato sulla spalla. Il volto, di profilo, guarda verso la giovane donna coronata dall’altro lato della sovrapporta.
Qual è il significato di queste immagini? Che cosa vogliono dire?
La funzione di queste immagini è legata alla loro collocazione: la porta d’uscita “privata” della Cappella. Di lì passava il padrone di casa per fare rientro nel suo palazzo e dunque è a lui che si rivolgono, è a lui che rivolgono il loro messaggio.
La chiave di volta è capire il significato allegorico della clave che fuoriescono dagli occhi della giovane. Non c’è dubbio che stiano indicando qualcosa, che vogliono richiamare la nostra attenzione su qualcosa. Sono figurazioni simboliche della vista, la vista complessiva, a 180 gradi, della Cappella degli Scrovegni.
Il meccanismo della visione poggia su tre elementi: l’organo della vista, l’oggetto da vedere e il tramite tra l’uno e l’altro (l’aria). I Greci spiegavano il meccanismo di percezione del mondo esterno con la teoria dei sensi, organi periferici collegati da una fitta rete di nervi con il cervello, sede dell’anima o psiche, che elabora i segnali pervenuti ai sensi (gli occhi, le orecchie, il naso, a seconda che si tratti di immagini, di suoni o di odori) e da questi vengono trasmessi al cervello attraverso i nervi. Luce e colore erano entità soggettive create dal cervello per rappresentare i segnali provenienti dall’esterno. La vista, come le altre percezioni, era considerata di natura tattile, basata cioè sul contatto con l’oggetto, con la differenza che mentre negli altri sensi ogni percezione è sostanzialmente singola, nella visione si è contemporaneamente  in contatto con un’infinità di oggetti e di colori, tutti nitidamente percepiti. Ci si chiedeva se la luce muovesse dall’occhio e andasse a colpire l’oggetto, o se al contrario fosse l’oggetto a emettere raggi luminosi in direzione dell’occhio. Nacquero due scuole di pensiero e diverse teorie. Empedocle riteneva che i raggi luminosi fossero emessi dagli occhi e raggiungessero gli oggetti secondo una velocità finita (la cosiddetta teoria degli effluvi). Gli atomisti, Democrito e Leucippo, ipotizzando che dai singoli oggetti emanasse un qualcosa di ben definito, che non era l’oggetto in sé, ma una sua rappresentazione, elaborarono la cosiddetta teoria delle scorze, immagini che rivestirebbero i corpi e se ne distaccherebbero nel momento della visione, raggiungendo l’occhio in un progressivo processo di riduzione che consente all’immagine di penetrare nella pupilla. Questa teoria lasciava di fatto irrisolti molti problemi (non forniva alcuna spiegazione, per esempio, su come avvenisse la percezione della distanza e delle dimensioni degli oggetti, o su come l’occhio posto in posizioni diverse potesse vedere lo stesso oggetto, il che implicava che le scorze partenti da una stessa posizione si contraessero in modo diverso a seconda dell’angolazione e della distanza dall’occhio, per non parlare delle immagini riflesse in uno specchio, e così via). Platone, nel tentativo di conciliare le posizioni di Empedocle con quelle degli atomisti, formulò nel Timeo una complessa teoria, basata sull’attrazione dei simili: la visione si attuerebbe quando, grazie al fuoco della luce diurna, il fuoco visuale contenuto nel globo oculare si incontra con quello irradiato dagli oggetti.
Aristotile ipotizzò che la luce si propagasse attraverso un quinto elemento (da lui aggiunto ai tradizionali: aria, acqua, terra e fuoco) dotato di sue caratteristiche peculiari, e cioè non pesante né leggero né mutevole, che chiamò diafano, e sostenne che la vista è prodotta dal movimento: “Non c’è vedere senza luce, ma, sia la luce o l’aria l’intermediario tra l’oggetto veduto e l’occhio, è il movimento che si produce attraverso esso a causare il vedere”. Un’importante svolta nella storia dell’ottica antica fu operata da Euclide. Il grande scienziato, autore del più antico trattato di ottica, che ci sia pervenuto, concepì la rivoluzionaria teoria dei raggi visuali, introducendo il concetto di raggio rettilineo, pura costruzione geometrica, lunghezza senza larghezza, anche se rimase ancorato all’idea che i raggi luminosi si propagassero dall’occhio verso gli oggetti osservati.
In Alessandro d’Afrodisia (II-III secolo d.C.) troviamo la seguente immagine:
Alcuni dicono che la visione è prodotta dalla tensione dell’aria. Colpita infatti dalla vista, l’aria che tocca la pupilla prende la forma di un cono: quando questo è come configurato alla base degli oggetti visibili, si produce la sensazione visiva, come avviene anche nel tatto, per mezzo di un bastone.
Come un cieco può rendersi conto della forma di un corpo anche senza toccarlo con le mani, ma semplicemente sondandolo con un bastone, così dall’occhio escono raggi simili a bastoni, capaci di scrutare il mondo esterno e di fornire alla psiche gli elementi per discernere forme e colori. Le clace che escono dagli occhi dell’immagine femminile della sovrapporta rappresentano il meccanismo della visione, sono raggi simili a bastoni capaci di scrutare il mondo esterno, di abbracciare a 180 gradi la Cappella e di fornire alla psiche gli elementi per discernere forme e colori.
L’opera di Alessandro di Afrodisia era stata ampiamente recepita dal mondo arabo, che aveva poi fatto da tramite per la sua diffusione in Occidente. Le teorie esposte da Avicenna nel Liber sextus naturalium esercitarono una grande influenza sullo sviluppo dell’ottica medievale, specie quanto riguarda le nozioni relative ai colori, alla luce fisica, al concetto di “diafano” ecc, teorie che si potevano naturalmente conoscere in una realtà dinamica e di grande vitalità culturale come la Padova di inizio Trecento.
Quale è allora il messaggio finale? Enrico Scrovegni ha appena compiuto un viaggio e ha visto. Giotto gli ha raccontato la storia della riconciliazione di Dio con l’umanità, gli ha indicato il duplice percorso di salvezza, terrena e ultraterrena, rappresentato dalla sequenza dei vizi e delle virtù, gli ha mostrato gli orrori dell’Inferno e la via che conduce in Paradiso. Ora, mentre sta rientrando nel palazzo, Enrico si sente rivolgere lo stesso invito di Beatrice a Dante nel V canto del Paradiso (vv. 40-42):
Apri la mente a quel ch’io ti paleso
e fermalvi entro; ché non fa scienza,
sanza lo ritenere, avere inteso.

Non c’è conoscenza, non c’è apprendimento vero se non si tiene nella memoria ciò che si è visto. Prima di intraprendere questo “viaggio” Enrico era come l’uomo del tondo di destra, che non rappresenta un selvaggio, ma la condizione dello “stolto”, dell’uomo inconsapevole, affetto da ignoranza etica, che non sa distinguere ciò che è bene da ciò che è male (in questo senso la sua iconografia richiama la raffigurazione della Stultitia). È l’uomo che non sa, il simbolo dello status dell’uomo prima del perdono divino e del percorso predisposto da Dio per la salvezza dell’umanità. La donna, simbolo della sapienza (il libro) e dell’elevazione spirituale (la corona), gli ricorda con un sorriso che anche lui, come tutti gli uomini, era prima un inconsapevole, uno “stolto”, e ora invece sa, perché ha visto ciò che Dio ha fatto per lui, conosce ciò che gli è stato rivelato, compreso il cammino virtuoso per superare gli ostacoli dei vizi e raggiungere il duplice traguardo della felicità in terra (legata alla natura mortale dell’uomo) e della felicità in cielo (legata alla natura immortale dell’uomo), del Paradiso terrestre, simboleggiato dalla Giustizia, “madre” della pace, e del Paradiso celeste.
Nel momento in cui rientra nel palazzo, la sapienza lo accompagna con un sorriso e l’invito ad aprire la mente a quello che ci è stato mostrato e di tenerlo vivo nella memoria,
ché non fa scienza,
sanza lo ritenere, avere inteso.

Questo messaggio lo rivolge oggi a tutti noi
(Tratto da: Giuliano Pisani, I volti segreti di Giotto, Rizzoli, Milano 2008)


Proposta in aula

Dato il materiale precedente (economia e mercato nel Medioevo, apocrifi, Giotto), si propongono le seguenti piste di lavoro:
Scuola primaria

  • Medievopoli (ricostruzione dell’ambiente economico del Medioevo e scoperta del ruolo delle istituzioni cristiane nel contesto attraverso l’adattamento del gioco del “monopoli”)
  • La macchina del tempo (cittadini del XXI secolo si immergono nella civiltà medievale e ne scoprono i simboli, i linguaggi, gli usi ed i costumi)

Scuola secondaria di primo grado

  • Scopriamo il territorio (organizzazione di una “gita fuori porta” alla scoperta delle tracce della civiltà medievale, e realizzazione di una piccola guida)
  • Artisti (costruiamo una “chiesa”, “cappella” o altro, definendone dapprima i contenuti, poi gli aspetti artistici e architettonici, secondo lo schema”Scrovegni”, ovvero scene collegate in senso sincronico e diacronico)

Scuola secondaria di secondo grado

  • Vizi e virtù di ieri e di oggi (rivisitazione dei vizi e delle virtù, a partire dalla cronaca o da episodi storici, di ieri e di oggi)
  • La vita di Cristo “original” (lettura degli episodi principali della vita di Cristo dal Vangelo e confronto con la produzione artistica)
  • La famiglia di Cristo (viaggio tra i personaggi “apocrifi”, in particolare la famiglia di Gesù, eventualmente anche con l’ascolto di alcuni brani de “La buona novella” di De André)

Bibliografia

Bellinati Claudio, Il progetto iconografico, in “Le tre Venezie: Giotto e gli Scrovegni”, pagg. 66-81, Treviso 2006 .
Bortolami Sante, Gli Scrovegni, in “Le tre Venezie: Giotto e gli Scrovegni”, pagg. 4-10, Treviso 2006.
D’Arcais Francesca, Gli affreschi, in “Le tre Venezie: Giotto e gli Scrovegni”, pagg. 41-65, Treviso 2006 )
Frugoni Chiara, Gli affreschi della Cappella Scrovegni a Padova, Einaudi, Torino 2005.
Gurevic Aron Ja., Il mercante,  da “L’uomo medievale”, a cura di J. Le Goff, Laterza, pagg. 271-317,  Roma-Bari 1994
Moraldi Luigi, Apocrifi del Nuovo Testamento, Piemme, Casale Monferrato, 1999.
Palermo Luciano, La banca e il credito nel Medioevo, Bruno Mondadori, Milano 2008.
Pisani Giuliano, I volti segreti di Giotto, Rizzoli, Milano 2008.
Tradigo Alfredo, Icone e Santi d’Oriente, diz. Arte Electa, Milano 2004.
Vietina Stefano, L’onta dell’usura, in “Le tre Venezie: Giotto e gli Scrovegni”, pagg. 32-37, Treviso 2006.
Zuffi Stefano, Episodi e personaggi del Vangelo, diz. Arte Electa, Milano, 2002.


Il “Vangelo” secondo F. De André
La buona novella
Quando scrissi La buona novella era il 1969 quindi in piena lotta studentesca. Le persone meno attente, che poi sono sempre la maggioranza di noi, compagni, amici e coetanei, considerarono quel disco come anacronistico. Mi dicevano: “Come, noi andiamo a lottare nelle università e fuori dalle università contro abusi e soprusi e invece tu ci vieni a raccontare la storia, che per altro già conosciamo, della predicazione di Gesù Cristo?”. Non avevano capito che La buona novella voleva essere un’allegoria, un’allegoria che si precisava nel paragone fra le istanze migliori e più sensate della rivolta del Sessantotto, e istanze, da un punto di vista spirituale sicuramente più elevate ma da un punto di vista etico-sociale direi molto simili, che un signore 1969 anni prima aveva fatto contro gli abusi del potere, contro i soprusi dell’autorità in nome di una fratellanza universale. Si chiamava Gesù di Nazareth e secondo me è stato ed è rimasto il più grande rivoluzionario di tutti i tempi. Non ho voluto inoltrarmi in sentieri per me difficilmente percorribili come la metafisica o addirittura la teologia, prima di tutto perché non ci capisco niente, in secondo luogo perché ho sempre pensato che se Dio non esistesse, bisognerebbe inventarselo: il che è esattamente quello che ha fatto l’uomo da quando ha messo i piedi sulla terra.
Ho quindi preso spunto dagli evangelisti cosiddetti apocrifi, apocrifo vuol dire falso, in effetti era gente vissuta in carne e ossa, solo che la Chiesa mal sopportava sino a qualche secolo fa che fossero altre persone non di confessione cristiana a occuparsi di Gesù. Si tratta di scrittori, di storici arabi, armeni, bizantini, greci, che nell’accostarsi all’argomento nel trattare la figura di  Gesù di Nazareth lo hanno fatto direi addirittura con  deferenza, con grande rispetto, tanto è vero che ancora oggi, proprio il mondo dell’Islam continua a considerare dopo Maometto, e prima ancora di Abramo, Gesù di Nazareth il più grande profeta mai esistito. Laddove invece il mondo cattolico continua a considerare Maometto qualcosa meno di un cialtrone e questo direi che è un punto che va a favore dell’Islam. L’Islam quello serio.
Abbiamo scelto de La buona novella i cinque brani che ci sembravano più significativi: L’infanzia di Maria quando la futura madre di Gesù viene reclusa nel tempio del Signore all’età di tre anni, e ne viene espulsa all’età di dodici perché le vengono le mestruazioni e quindi potrebbe contaminare la purezza del tempio. In evidente età da marito viene fatta sposare secondo il rituale dell’epoca, chiamando a raccolta tutto il popolo dei senza moglie, non soltanto gli scapoli ma anche i vedovi, e attraverso una sorta di lotteria viene assegnata in moglie a un anziano falegname di nome Giuseppe che oltre a essere carico di anni è anche carico di figlie e di figli, uno dei figli fra l’altro di Giuseppe, il fratellastro di Gesù, scriverà il primo Vangelo, il famoso Protovangelo di Giacomo. Subito dopo le nozze Giuseppe parte, sta fuori della Giudea per quattro anni, al ritorno trova la sorpresa di Maria in stato interessante. Maria gli corre incontro, gli butta le braccia al collo, lo abbraccia e piangendo gli racconta di avere avuto un sogno e in questo sogno di aver incontrato un angelo del Signore. La quarta canzone, che si chiama Tre madri, ha uno scenario diverso, siamo sotto il calvario e vediamo tre madri piangere l’imminente morte dei loro tre figli crocifissi. Noi sappiamo anche da Marco, Matteo, Luca e Giovanni, cioè dall’ufficio stampa di Gesù Cristo, dagli evangelisti, che crocifisso non fu soltanto Gesù ma anche due cosiddetti ladroni. E proprio da uno dei cosiddetti due ladroni (chissà perché uno buono e l’altro cattivo, si chiamava Tito quello buono, l’altro si chiamava Dimaco), dalla voce di Tito, probabilmente La buona novella sfumerà forse il momento più alto dal punto di vista dell’etica sociale, quando Tito stesso, confutando uno per uno i dieci comandamenti, metterà in risalto la contraddizione che esiste fra chi fa le leggi, e le fa a sua immagine e somiglianza, a suo uso e consumo per potersi anche permettere il lusso di non rispettarle, e chi invece è obbligato a rispettarle e il potere non lo gestisce ma lo deve solamente subire.
Posso dire ancora su La buona novella che dato il tipo di taglio conferito a questo argomento, probabilmente i personaggi del Vangelo perdono un poco di sacralizzazione, ma io credo e spero soprattutto a vantaggio di una loro migliore e maggiore umanizzazione.
(Tratto da: Fabrizio De André, Volammo davvero,  a cura di E. Valdini, introduzione alle canzoni eseguite nell’ultimo concerto, Rizzoli, Milano 2007, pagg. 365-367)

De André, l’evangelista anarchico degli ultimi
“Molti han posto mano a stendere un racconto degli avvenimenti successi tra di noi…”
L’incipit del terzo Vangelo, quello di Luca, è una testimonianza diretta dell’ampia diffusione di racconti sulla vita e sugli insegnamenti di Gesù di Nazareth, di “buone novelle”, che furono scritti fin dagli anni immediatamente successivi all’epilogo della vita storica del Messia, in ambienti e per uditori diversi.
I Vangeli apocrifi – fonte, peraltro non unica e forse neppure troppo condizionante, di ispirazione del grande album deandreiano del 1970 – sono stati così definiti (apocrifo significa nascosto, segreto) per le loro caratteristiche letterarie, testi gnostici dal linguaggio ermetico, prima ancora di essere contrapposti ai quattro Vangeli canonici e diventare scritti eretici, o comunque esclusi dal repertorio delle fonti della Chiesa, e dunque libri sostanzialmente sospetti e proibiti.
Quando De André dice che ha scelto questi vangeli – minori, ufficiosi e poi screditati e condannati – spiega che i motivi sono sostanzialmente due:

  • Il loro essere un controcanto ai Vangeli canonici, che il nostro autore liquidava piuttosto ingenerosamente (vista la loro qualità letteraria indubbiamente superiore a quella degli apocrifi) come l’ufficio stampa del cristianesimo; dunque una motivazione anti-autoritaria del tutto coerente con la vocazione anarchica di De André.
  • La loro provenienza culturale: autori armeni, bizantini, arabi, che testimoniavano una rielaborazione del messaggio evangelico fuori dai canoni dell’ambiente giudaico. Per un curioso come De André, indagatore di testi “altri” e di sonorità “altre”, questa riscrittura della vita del Cristo in contesti culturali, letterari, storici e sociali “alternativi”, doveva rivestire un’attrattiva particolari.

C’è però un terzo motivo supplementare, che è legato alla scelta preferenziale di Fabrizio De André per i poveri e gli oppressi, almeno dal punto di vista culturale-letterario: e i vangeli apocrifi, dando spazio agli episodi e alle figure minori, gli consentivano più libertà nel lasciare da parte la prominente figura del protagonista della vicenda (che peraltro gli interessava molto) per dedicare un’attenzione davvero amorosa agli altri personaggi: da Maria ai ladroni crocifissi con Gesù.
Gli esegeti ci hanno spiegato che gli Apocrifi riflettono in modo vivo, immediato, le caratteristiche del cristianesimo delle origini, che non è una filosofia, ma un movimento sostanzialmente mistico e apocalittico.
Dunque, usando un aggettivo più moderno e anche deandreiano, un movimento “rivoluzionario”.
Gesù Cristo – disse Fabrizio De André illustrando i motivi che l’avevano spinto, in pieno clima sessantottino, a pubblicare una Buona Novella certamente eterodossa rispetto alle letture, ai miti e alle liturgie del Movimento della contestazione – Gesù Cristo è stato il più grande rivoluzionario della storia, il rivoluzionario dell’amore.
L’ingenuità mistica, apocalittica e rivoluzionaria degli Apocrifi rispondeva dunque alla sensibilità di De André, poco interessato alle questioni dottrinali e al cristianesimo come sistema teologico-morale, e viceversa fortemente attratto dalla figura profetica e scomoda del profeta messo in croce.
Il vertice poetico più alto lo tocca proprio nelle canzoni dedicate alla donna Maria, ed è il segno della speciale predilezione che l’autore ha nei confronti di tutte le donne, quelle “sacre” e quelle “profane”.
Nel Protovangelo di Giacomo si legge che Maria era “allevata nel Tempio come una colomba, e riceveva il cibo dalla mano di un angelo”: un’immagine suggestiva, nascosta – davvero apocrifa, in questo senso – che l’anarchico De André rielabora in una doppia direzione: nella denuncia della segregazione di una ragazzina ebrea, a opera del potere politico-religioso dei custodi del tempio; e nella contemplazione del mistero di quella strana, scandalosa, inimmaginabile gravidanza.
La dimensione politica del discorso sottostà a quella poetica, ma non la soffoca mai.
Rileggiamo come racconta la segregazione della bambina:
Forse fu all’ora terza, forse alla nona,
cucito qualche giglio sul vestito alla buona,
forse fu per bisogno o peggio per buon esempio,
presero i tuoi tre anni e li portarono al tempio.
Non fu più il seno di Anna, fra le mura discrete,
a consolare il pianto, a calmarti la sete;
dicono fosse un angelo a raccontarti le ore,
a misurarti il tempo fra cibo e Signore.

C’è una capacità di tenerezza, di condivisione della sorte di una piccolissima donna oppressa, che si indigna perché “del corpo di una vergine si fa lotteria”, quando le si cerca marito, ma si commuove quando Maria racconta al marito prescelto – Giuseppe, di ritorno dopo quattro anni di assenza – il sogno che è poi il volo con un angelo, che racchiude con grande pudore il mistero di quel concepimento:
io, per un giorno, per un momento,
corsi a vedere il colore del vento.

… e lui parlò come quando si prega,
ed alla fine d’ogni preghiera
contava una vertebra della mia schiena.

“Lo chiameranno figlio di Dio”,
parole confuse nella mia mente,
svanite in un sogno, ma impresse nel ventre.

La schiena, il ventre: De André intreccia lo spessore spirituale del mistero con lo spessore carnale del corpo, cerca i segni del sacro religioso nella sacralità laica del corpo.
E non dimentica – a differenza di quanto potrebbe accadere col film di Mel Gibson, tutto incentrato sulla disumana sovrumanità della specialissima sofferenza del Dio/Uomo – che la passione del Cristo è la sofferenza di un uomo che rimanda a mille altre passioni, a mille altre sofferenze degli uomini di ogni tempo.

Da qui il canto più duro, meno consolatorio dell’album, Via della Croce, in cui De André immagina che i padri degli innocenti, trucidati da Erode che cercava di eliminare il Gesù Bambino, si rivolgano al Nazareno che porta la sua croce verso il Calvario, augurandogli la peggiore delle agonìe.
Poterti smembrare coi denti e le mani,
sapere i tuoi occhi bevuti dai cani…

… trent’anni hanno atteso col fegato in mano,
i rantoli di un ciarlatano.

La violenza del potere produce qui, come naturale contrappeso, l’odio e la violenza degli oppressi: tre anni dopo, in Storia di un impiegato, sarà il bombarolo che contempla i corpi smembrati dei propri genitori e degli altri partecipanti al ballo mascherato della celebrità, sanguinoso trionfo del suo ordigno scagliato contro la società dei perbenisti e dei benpensanti.
Ma De André vuole dipingere un quadro a tutto tondo, e i colori del rancore non cancellano i colori dell’amore, basti leggere lo straordinario ritratto delle donne che seguono il loro Signore:
con riconoscenza ora soffron la pena
di chi perdonò a Maddalena,
di chi con un gesto soltanto fraterno
una nuova indulgenza insegnò al Padreterno,
e guardano in alto, trafitti dal sole,
gli spasimi d’un redentore.

In questi versi c’è il nucleo forte della “antropoteologia” deandreiana: Gesù è un fratello che si piega sulla donna della strada, e che dal basso insegna a Dio una nuova indulgenza, un nuovo perdono, quello della fraternità che non condanna il peccatore, perché nessuno di noi è un giglio, ma siamo tutti figli di questo mondo, compresi i due ladroni che “sanno morir sulla croce anche  loro” e che non lo lasciano solo.
Ne La buona novella deandreiana, il profeta e i malfattori sono accomunati dall’umana sofferenza, e dall’essere comunque vittime di un potere che esercita il diritto di vita e di morte sui suoi sottomessi.
In uno degli Apocrifi, e precisamente nel vangelo dell’infanzia arabo-siriaco, c’è un racconto che anticipa e spiega quello della passione, e in particolare il ruolo del buon ladrone a cui Cristo promette il paradiso.
Ci sono Giuseppe e Maria che attraversano di notte una regione desertica con Gesù bambino e ci sono due briganti, che vengono chiamati Tito e Dimaco. Ebbene, mentre Dimaco vorrebbe aggredirli e rapinarli di ogni loro avere, Tito si oppone e offre al compagno di malaffare quaranta dracme per lasciarli andare liberi e perché non avverta gli altri briganti addormentati del loro passaggio.
Dunque le quaranta dracme di un gesto di solidarietà e di salvezza, che possiamo contrapporre ai trenta denari di Giuda: e il ladrone che ha avuto pietà di Gesù e della sua famiglia, si ritroverà trent’anni dopo crocifisso al suo fianco.
È lui il Tito che scrive il suo Testamento nella celeberrima canzone in cui rovescia, uno dopo l’altro, i comandamenti di cui la casta dei sacerdoti di Israele si è servita per mantenere il proprio potere sul popolo. Li rovescia come un buon ladrone anarchico, che smaschera le ipocrisie dell’autorità e l’inganno del moralismo insegnato dall’alto verso il basso: “Ma io, senza legge, rubai in nome mio, quegli altri nel nome di Dio”.
Ma anche il canto più sessantottino di questo disco, La buona novella, così radicalmente, evangelicamente contestativi e insieme così poco sessantottesco, un canto che generazione di atei, di agnostici, di rivoluzionari e di cattolici inquieti hanno fatto riecheggiare in luoghi, contesti e ore storiche diversissime, questo Testamento di Tito insomma non si conclude con un grido di rabbia, ma con una confessione di riconciliazione, nell’umana compartecipazione alla sofferenza altrui che diventa redenzione, in termini cristiani, comunque riscatto e pacificazione, in termini umani:
io, nel vedere quest’uomo che muore,
madre, io provo dolore.
Nella pietà che non cede al rancore,
madre, ho imparato l’amore.

Già, l’amore è il punto focale dell’arte di De André. Non è però l’amore stereotipato delle canzonette all’italiana, figlie della gloriosa tradizione del melodramma nazionale. Né è soltanto la passione per le donne che pure ha occupato un posto importante nel cuore di De André. In lui, a differenza della maggior parte dei suoi colleghi cantautori, emerge una passione appassionata sentimentale e politica per l’essere umano, al di là del genere e delle condizioni, con una speciale predilezione, che non posso evitare di definire “evangelica”, per le persone più fragili, più marginali, più indifese, più colpite dal pregiudizio e dallo stigma sociale, per i devianti. Per usare un termine che da un paio di decenni è entrato a pieno titolo nel vocabolario della Chiesa italiana, De André ha mostrato una speciale predilezione per gli ultimi, e per una peculiare inclinazione a contrapporre la loro umanità alla disumanità dei detentori del potere e della ricchezza. Per tornare ai Vangeli, implicitamente e involontariamente De André è sulla pista del Magnificat, il canto di lode a Maria, religioso e insieme rivoluzionario: “rovescerà i potenti dai troni, innalzerà gli umili…”. Dalla parte di quella ragazzina ebrea travolta da un evento più grande di lei, e dalla parte di tutte le donne umiliate e offese.
Banchieri, pizzicagnoli, notai,
coi ventri obesi e le mani sudate
coi cuori a forma di salvadanai
noi che invochiam pietà fummo traviate.

È una citazione tra le meno note, dal Recitativo di Tutti morimmo a stento, il suo primo, cupo concept album del 1968.
Il cuore umano può appassionarsi per molte cose: per esempio per il denaro, e questa passione trasforma, appunto, il cuore in un organo a forma di salvadanaio.
Si salva invece il cuore, un cuore umano, un cuore capace di amore, che naviga su fragili vascelli nella burrasca del mondo, con occhi troppo belli. Gli occhi di chi guarda il mondo con il cuore, appunto: ricordate Via del Campo, quell’altra ragazza traviata?
Gli occhi grandi color di foglia
gli occhi grigi come la strada;
nascon fiori dove cammina.

I fiori nascono se si sa guardare il mondo con gli occhi del cuore, ed è la strada la parola cruciale, la metafora dello sguardo puro. Se volete, è una strada idealizzata, ma è il luogo letterario da dove De André comincia a esplorare il mondo.
Dai diamanti non nasce niente
dal letame nascono i fior.

Ecco la vera bellezza, che nasce là dove meno te l’aspetti. Dalla strada, dal letame: dall’opposto di ciò che il mondo chiama, definisce “bello”. Ecco di nuovo la contrapposizione estetico-esistenziale rispetto ai canoni della borghesia con i cuori-salvadanaio.
De André sposa il mondo dei vicoli e della strada anche per una scelta di carattere morale. Si è definito un moralista, e lo era: perché programmaticamente cercava di ribaltare la morale ufficiale, e perché cercava di insegnare – all’università della strada – l’altra faccia del mondo.
La città vecchia, canzone-manifesto del microcosmo basso, della Genova sbagliata, contiene i versi-chiave della poetica (e dell’etica) deandreiana:
Se tu penserai, se giudicherai
da buon borghese
li condannerai a cinquemila anni
più le spese
ma se capirai, se li cercherai
fino in fondo
se non sono gigli son pur sempre figli
vittime di questo mondo.

Precisamente qui nasce la com-passione: dal rifiuto del pregiudizio borghese, ma anche del giudizio, in quanto tale, che etichetta gli altri senza il tentativo di comprenderli nella loro umanità. “Lo sanno a memoria il diritto divino, e scordano sempre il perdono”, canta ne La buona novella, ne il Testamento di Tito.
“Già a vent’anni – disse De André – avevo scoperto che gli uomini agiscono per meccanismi complessi, anche indipendentemente dalla loro volontà. Allora finisci per trovare poco merito nella virtù e ben poca colpa nell’errore. Se estendi questo tipo di indulgenza anche a te stesso, riesci ad avere un rapporto meno contrastato con il tuo prossimo”.
Nessuno di noi è un giglio, ciascuno di noi è un figlio e una vittima del mondo.
Giglio e figlio è un binomio che suggestivamente rimanda a una parabola evangelica: il figlio dell’Uomo – che sulla croce sbiancò come un giglio (Si chiamava Gesù) – parla dei gigli del campo, per paragonare  la cura di Dio verso l’uomo…
E i fiori, simbolo della bellezza e della capacità di amare, tornano nella splendida traduzione della meravigliosa Suzanne di Leonard Cohen:
il sole scende come il miele
su di lei donna del porto
che ti indica i colori
fra la spazzatura e i fiori
scopri eroi tra le alghe marce
e i bambini nel mattino
che si sporgono all’amore
e così faranno sempre.

Dal letame alle alghe marce, alla spazzatura: lì nascono i fiori, lì è più facile incontrare l’amore.
Quel bisogno di attenzione e d’amore
troppo se mi vuoi bene piangi per essere corrisposti.

Questa confessione la ascoltiamo in “Amico fragile”, una delle sue canzoni autobiografiche, del 1975. Bisogna sottolineare quella prima parola: attenzione, che precede l’amore. Mi pare che questa attenzione, alla fatica della vita di chi fa fatica, sia la cifra coerente del percorso artistico deandreiano. L’attenzione è il presupposto dell’amore, ne è la precondizione. Per ogni tipo e ogni livello di amore.
Fabrizio De André ha in qualche modo sacralizzato l’amore mercenario, trasfigurando la graziosa di via del Campo come la povera Marinella, baby prostituta gettata a fiume. Nel contempo, ha umanizzato l’amore sacro, come nella celeberrima scena finale di Bocca di rosa.
De André il suo amore lo riserva a chi ha fatto, o rischia di fare, una brutta fine: come Marinella, come i piccoli indiani di Sand Creek, come i suicidi – il Miche’ o il suo amico Luigi Tenco per cui  compone quella straordinaria Preghiera in gennaio, che è un altro dei suoi manifesti poetici, in cui si rivolge al “Dio di misericordia”. Ecco di nuovo il perdono, l’indulgenza, il cuore che guarda ai miseri, e se ne commuove.
Corresponsabilità, compartecipazione, condivisione: l’amore di De André è un amore CON. Che sente il dolore degli altri come se fosse il proprio. Il contrario di ciò che accade quando nelle relazioni umane si insedia l’indifferenza, l’anestesia dei sentimenti, come nella magnifica Disamistade da Anime salve:
Due famiglie disarmate di sangue
si schierano a resa
e per tutti il dolore degli altri
è dolore a metà.

Ma come si impara l’amore? Fabrizio De Andrè, che non amava i preti (tranne qualcuno), ma è stato amato da molti preti, non fa discendere la sua lezione da un impianto metafisico, Dio per lui rimane un’eventualità – una paternità superiore che regge i fili dei destini umani e del mondo ma che non si può dire, spiegare.
No, l’amore si impara dal corpo, a partire dalla carne, se non è un amore falso, come è falso il dio che non diventa un Dio di misericordia, appunto.
L’incarnazione, parola assolutamente teologica, vale anche per la teologia deandreiana – insistiamo a osare a chiamarla così – e si legge in modo trasparente nella sua splendida traduzione della Suzanne di Cohen: anche qui c’è l’amor profano di Suzanne, e l’amore sacro di Gesù, ma con entrambi vuoi “viaggiare insieme ciecamente perché ti hanno toccato il corpo con la mente”.
Può essere interessante osservare che, nella traduzione deandreiana, Gesù è “più umano”, abbandonato, mentre nell’originale di Cohen è “quasi umano”: come se il grande canadese partisse dal cielo per calare il Messia sulla terra, mentre il grande genovese fa il percorso inverso: il profeta di Nazareth gli interessa perché potenzia l’umanità comune a tutti.
L’amore è la parola più ricorrente nelle 128 canzoni di De André, supera la “morte” e “Dio” che si collocano al secondo e al terzo posto per frequenza.
E De André nutre un’amorevole compassione proprio anche per coloro che l’amore non lo incontrano, lo fuggono, come l’indimenticato Chimico di Non al denaro non all’amore né al cielo:
son morto in un esperimento sbagliato
proprio come gli idioti che muoion d’amore.
E qualcuno dirà che c’è un modo migliore.

La rivoluzionaria legge dell’amore cambia il modo stesso di concepire la giustizia umana: non può essere esercitata dal piccolo, maligno giudice di Spoon River che si fa arbitro in terra del bene e del male, ma non conosce – affatto, sottolinea l’autore – la statura di Dio. È, invece un privilegio di chi sa vedere le cose dalla parte degli ultimi, degli sconfitti, dei marginali della storia, come le spose bambine degli zingari, quelle ragazzine a cui De André, nella stupenda Khorakhané di Anime salve, l’ultimo disco, dice:
Ora alzatevi spose bambine
che è venuto il tempo di andare
con le vene celesti dei polsi
anche oggi si va a caritare.

E se questo vuol dire rubare
questo filo di pane tra miseria e fortuna…

lo può dire soltanto che sa di raccogliere in bocca
il punto di vista di Dio.

Ecco, il punto di vista di Dio è in realtà lo sguardo dell’amore e dell’indulgenza e del perdono: uno sguardo di cui il mondo ha fame e sete, e invece se ne dimentica, come fosse una debolezza.

Se questa non è una teologia (che è sempre un discorso sull’uomo, oltre che un discorso su Dio, visto che solo l’uomo può pensare Dio e visto che il Dio in cui credono i cristiani è un Dio che si è incarnato uomo), se questo non è un vangelo, ovviamente apocrifo, che cos’è?
Un canto lungo quarant’anni, prima e dopo il disco più esplicitamente evangelico del 1970, che è rimasto fedele alle creature umili che ha cantato. Un canto che ancora oggi porta le giovani generazioni ad accostarsi con rispetto e stupore a La buona novella del rivoluzionario dell’amore.
È davvero, dunque, un Vangelo secondo De Andrè, una buona novella non autorizzata e senza imprimatur ecclesiastico, che però – grazie alle sue melodie senza tempo e a quella voce quasi soprannaturale, grazie alla poesia umanissima dei suoi testi – è un’altissima testimonianza umana, e la conferma che il vento del vangelo soffia dove vuole, affascinando anche coloro che i praticanti di una religione chiamano lontani, ma che magari sono più misteriosamente vicini al mistero.
(Tratto da: Paolo Ghezzi, Volammo davvero,  a cura di E. Valdini, introduzione alle canzoni eseguite nell’ultimo concerto, Rizzoli, Milano 2007, pagg. 368-380)

Fabrizio De André, lezione in ateneo
La buona novella si apre e si chiude con due “lodi”, una a Dio, l’altra all’uomo: nel passaggio dalla prima alla seconda è racchiuso il senso, non la celebrazione, cioè di Dio in terra, ma dell’uomo che disperatamente alza il suo canto di sogno e di speranza. Fabrizio prende spunto dai vangeli apocrifi e non da quelli canonici: non intende cioè ripercorrere l’avvento e la morte del verbo incarnato, ma l’attesa continua e la continua morte dell’uomo, anche del migliore, di quello che alla verità ci era andato più vicino. Figurarsi poi quanto parteggi per quelli ritenuti “peggiori”.
Il viaggio terreno di Cristo è guardato con gli occhi degli altri (Maria, Giuseppe, ladroni, vedove, apostoli) e interpretato con la lirica umana di un semplice pastore, più che con la frenesia salvifica di un profeta o di un evangelista. L’ingenuità infantile di Maria, la serenità appena velata di Giuseppe non suscitano in Fabrizio né ironia, né scherno: egli crede in loro, nella loro fede, nella loro capacità di trasformare in segno alto, divino, tutto ciò che avviene a livello umano.
Della grande, straordinaria emozione comune che un dio sia sceso in terra, restano alla fine il dolore delle donne, riabilitate tutte in Maddalena, lo sdegno di chi si è sentito ingannato (i padri dei bambini uccisi da Erode), la paura degli apostoli non ancora pronti a girare il mondo, e il ghigno del “potere” che ancora una volta l’ha fatta franca. Troppo rivoluzionario amare anche i nemici. Ma resta anche che il “migliore” e i ladroni muoiono in modo identico sulla croce e le loro madri si aprono allo stesso dolore, né importa tanto a Maria che suo figlio da lì in poi torni a essere dio a tempo pieno. Questa è La buona novella che gli apostoli diffonderanno: l’uomo è grande nei suoi errori e nel suo amore, nel suo buio e nella sua disperata ricerca di fratellanza.
È un’occasione persa, apparentemente vanificata dalla meschinità di certa gente e dalla violenza del potere, ma è al contempo, una certezza ritrovata. L’uomo, quello aperto, disponibile, diverso, battuto e ucciso tesse la lode di sé, alto nella sua miseria. Né il potere che l’ha crocifisso “nel nome di Dio”, col quale giustificherà altri simili delitti nella storia, può intaccare il modello, il gesto, la “buona novella” di Gesù, il figlio dell’uomo, è tra noi.
Commenti:
Il ritorno di Giuseppe
Apertura leopardiana e biblica. Intensissimo il senso del creato. Giuseppe è una piccola figura del tutto. Le luci sono animate di particolare attenzione, l’asino è lento, monotono. Grande scena.
La segatura è appropriata: Giuseppe ha gli occhi da falegname. I nomadi, così chiusi in se stessi, non lo tranquillizzano. Casa, finalmente con i suoi odori unici, conosciuti. Giuseppe ha costruito un giocattolo per la sua moglie bambina, che non ha mai avuto un’infanzia, che non ha mai potuto giocare. C’è un grande divario d’età tra i due.
La tenerezza del vecchio è compensata, al suo arrivo, dallo slancio di Maria. Maria è scossa: sta tra la gioia del ricongiungimento e il timore di ciò che sta per dirgli, il timore di non essere creduta.
Giuseppe l’abbraccia e scopre che è incinta. Splendida è la costruzione sintattica: le mani prima avvertono la magrezza delle spalle, poi l’inaspettata larghezza dei fianchi e si stupiscono, come fossero una persona, e trasmettono lo stupore all’espressione degli occhi.
Giuseppe è incredulo perché gli occhi di Maria non esprimono un inganno. Maria, allora, gli racconta come tutto sia accaduto in un sogno.
Il sogno di Maria
L’angelo non si sa chi sia, di certo era già venuto altre volte a pregare con lei. Ma quella sera la preghiera è nuova, è diversa, è così intensa, estatica che a Maria pare di liberarsi e librarsi. L’estate (il colore, la felicità) non l’aveva mai provata: Maria esce da sé, è addirittura capace di inventare colori per il vento (un nonsenso quasi ossimorico). Il volo ha i connotati dell’estasi, del sogno. Nell’incalzare delle visioni solo l’ultimo verso ci riporta alla realtà: alla conclusione di ogni atto d’amore, l’angelo l’accarezza.
Risveglio. I sacerdoti, duri disumani, prosa nella poesia, fan cerchio intorno a lei. Maria non sa bene, è confusa, tenta di scappare volando, perché solo poco prima sapeva volare, ma non ne è più capace. L’angelo fugge sfolgorante, i sacerdoti restano, freddi come la realtà.
Tornando a casa per la strada, Maria avverte il reale come un’eco lontana, ma un’altra eco, dentro di lei, continua a ripetere un messaggio ben più alto.
Maria ha finito di raccontare e piange. E attende, attende una risposta qualunque da Giuseppe, un cenno, sperando che sia comprensione.
Fantastica chiusa. Nessuna parola, solo un gesto che dice tutto. La carezza arriva leggera: Giuseppe ha paura di fargli male con le sue mani da vecchio.
Siamo in un grande gioco di equilibrio. Maria sta tra Marinella e la protagonista di “Babbo Natale”. Fabrizio non dice e non vuole dire se l’angelo sia un profittatore o un innamorato, non gli importa. Fabrizio “vede” attraverso gli occhi di Maria che sono puri. Lei ha creduto veramente che quelle fossero preghiere, ha creduto veramente di volare con un angelo e crede di portare in sé un’eredità divina.
Via della croce
Primo quadro: il presunto dio è caduto in disgrazia. Si scagliano contro di lui i padri dei bambini uccisi da Erode, incolpandolo di quella strage. Il dolore per l’accusa ingiusta, immeritata è più pesante dell’idea di dover morire. Ogni goccia di sangue è per loro una gioia; hanno aspettato a lungo, covando rancore, sperando che questo “buffone” pagasse per i loro figli.
Secondo quadro: lo rimpiangono le vedove, le donne tutte. Gesù ha insegnato una nuova dignità al femminile, dopo secoli di schiavitù all’uomo. Nel perdono a Maddalena c’è l’atto estremo di convertire la bibbia rigorosa e classica in vangelo cosmopolita; c’è addirittura una correzione all’insegnamento del dio degli eserciti.
Terzo quadro: gli apostoli, i discepoli sono confusi, intimoriti, non se la sentono di morire con lui. Oggi è così, domani, giurano a se stessi, passata la paura, andranno per il mondo con “la buona novella”. Nessuno lo saluta; potrebbero essere presi per complici suoi.
Quarto quadro: il potere. Subdolo, ipocrita, sereno all’apparenza perché ha raggiunto il suo scopo, ha annientato un tal nemico. Ma ecco che il potere (sacerdoti, romani, farisei) già si guarda intorno per scoprire altri probabili nemici, ovviamente tra gli umili. Il dolore degli umili è riservato, intimo. Essi non fan propaganda di un sentimento.
Quinto quadro: i ladroni. Non hanno scusanti, né altri motivi per il loro sacrificio: non esiste nei loro occhi la pena, il pentimento, forse non sanno nemmeno bene chi è Gesù, ma moriranno con lui. L’ironia è splendida: “In fondo son solo due ladri”, vuol dire l’esatto contrario e cioè che sono grandi nella loro umanità silenziosa quanto Gesù. Ma l’ironia non è rivolta al “salvatore”. È più per i suoi ministri d’oggi e per un Dio vendicativo e solenne che essi hanno inventato per giustificare il proprio potere.
Tre madri
Alla dolente, sconsolata esternazione delle madri dei due ladroni, Maria oppone una pena paradossalmente più forte: certo, i loro figli muoiono e basta, non risorgeranno mai, ma suo figlio, se non fosse stato figlio di Dio, non sarebbe neppure morto.
Le due madri sono convinte che Gesù muoia per finta. In quel “troppe lacrime” c’è un rimprovero. C’è una bella differenza tra noi e te. Maria non pensa affatto allo spirito, all’anima. Lo strazio le deriva dal non poter più vedere e toccare le membra del figlio: vive di mille vite. Il richiamo di Jacopone da Todi è evidente. La consolazione, piccola, sta nel fatto che chi crede in lui si salva. Ma per lei è solo un figlio, l’ha amato quando non sapeva da dove venisse, lo ama ora che sa dove va. Straordinaria, altissima chiusa. L’avrebbe preferito anonimo, come tutti, perché ora sarebbe vivo.
Il testamento di Tito
Il testamento di Tito è un colpo inferto alla presunta eticità delle leggi, alla loro certezza di poter dividere con un taglio netto il bene e il male. Ma ciò non è, visto che Tito le leggi le ha infrante tutte senza commettere mai il male. Bisogna risalire all’Antigone di Sofocle per ritrovare una tale profonda antinomia tra leggi di Stato e religione e leggi naturali. Antitesi umana del Vecchio Testamento.
Se credi in un altro Dio e non fai del male, che senso ha questa legge?
Anche gridare “Dio, aiutami”, nel momento peggiore della tua vita è nominarlo invano? Si vede di sì perché non mi ha ascoltato. Il gioco semantico è sottile: la bibbia intende “invano” come “quando non serve”, “per cose da niente”, Tito invece come “senza risposta”.
Ma quando un padre e una madre non sono più tali? Cosa dovrei onorare? Ciò che non sono mai stati e avrei voluto fossero? Che male ho commesso?
La preghiera pubblica mi è sempre stata interdetta. Se mi facevo vedere nei templi, rischiavo di buscarle, o addirittura di essere ucciso. Non ho fatto del male, perché ero nell’impossibilità di fare del bene.
Aleatorietà del concetto di furto: io ho rubato per me, per il mio bisogno e a gente che aveva già troppo. Altri, che han rubato credendo di averne diritto (nel nome di Dio) sono i colpevoli. Ritorna il concetto di potere e della sua impunità.
Dipende da come la si guarda. Se ogni volta che fai l’amore devi aver un figlio fai la disgrazia tua e sua. Io ho amato chi voleva amarmi, non ho costretta nessuna.
Dov’è il male? Fabrizio rimarca che molti dei comandamenti sono regole legate a un momento della storia di un popolo e quindi necessarie per il mantenimento dello status quo sociale, ma spesso in contrasto con la legge “naturale”. Ah, sarei io l’assassino? Guardate come uccide il potere, in nome dei suoi comandamenti!
Non tradirò mai un mio amico, per lui addirittura mentirò, se sarà necessario. Anche questa osservanza spietata discende da un bisogno sociale di ordine. Tito non è la nazione ebraica, è solo un uomo.
Facile dirlo quando le cose le si hanno. Niente è di nessuno, soprattutto le persone. Vorrei addirittura, adesso, la vostra vita: desidero in quest’ora la vita altrui, perché io sto per perderla.
Più di qualsiasi legge, regola, dogma, di là di tutto ciò io provo dolore e pietà per l’uomo che mi sta morendo accanto. Io non conoscevo l’amore e l’ho imparato oggi. Il sole di Fabrizio ripropone la luce dell’altra parte del mondo, e con la luce la violenza di alcuni verso altri. Ma Tito ha inventato l’undicesimo comandamento. L’unico che conta.
Laudate hominem
Il Laudate hominem è l’inno più laico e terreno che si possa scrivere. Esso chiude il cerchio di una storia iniziata col Laudate dominum e marchia tutta La buona novella: l’uomo si salva da sé, da solo dà il senso della sua esistenza.
Il corale, composto da umili, disperati, diversi, gente comune, smaschera l’inganno subdolo del potere: uccidere un uomo (e quindi per Fabrizio tutti gli uomini) nel nome di Dio, chiamare poi Dio quell’uomo e continuare a uccidere nel suo nome.
La storia dell’umanità, delle sue guerre, delle discriminazioni razziali, delle persecuzioni, dei tribunali di ogni tipo (inquisizione compresa) sta in questa vantaggiosa, dogmatica manipolazione interpretativa di Dio e delle leggi.
La “summa” di tutta “La buona novella” sta in questo responsorio: “Non voglio pensarti figlio di Dio, ma figlio dell’uomo, fratello anche mio”.
Il concetto di perdono, che esula dal pensiero di Fabrizio, è qui visto non in rapporto a una colpa contratta col potere (perché qui non ce ne sarebbe bisogno), ma in rapporto a una mancanza verso l’umanità di Cristo, e quindi verso i deboli, i diversi, la gente vera.
Dio è un concetto così alto e astratto che sfugge a qualsiasi imitazione. Dio fa perfino paura: il suo ruolo è invisibile, staccato dall’uomo; a lui possono andar lodi e nient’altro.
Diversa è la figura di Gesù, che da uomo assomma in sé tutta l’umanità incompresa,  sconfitta, offesa.
(Tratto da: Roberto Vecchioni, Volammo davvero,  a cura di E. Valdini, introduzione alle canzoni eseguite nell’ultimo concerto, Rizzoli, Milano 2007, pagg. 164-176)
Fabrizio, Lee Masters e i personaggi di Spoon River
(intervista registrata a Roma il 25 ottobre 1971)
Pivano: Hai voglia di raccontarmi come ti è venuto in mente di fare questo disco?
Fabrizio: Spoon River l’ho letto da ragazzo, avrò avuto 18 anni. Mi era piaciuto, e non so perché mi fosse piaciuto, forse perché in quei personaggi ci trovavo qualcosa di me. Poi mi è capitato di rileggerlo, due anni fa, e mi sono reso conto che non era invecchiato per niente. Soprattutto mi ha colpito un fatto: nella vita si è costretti alla competizione, magari si è costretti a pensare il falso o a non essere sinceri, nella morte, invece, i personaggi di Spoon River si esprimono con estrema sincerità, perché non hanno più da aspettarsi niente, non hanno più niente da pensare. Così parlano come da vivi non sono mai stati capaci di fare.
Pivano: Cioè, tu hai sentito in queste poesie che nella vita non si riesce a “comunicare”? Quella che a me pare la denuncia più precorritrice di Masters. La ragione per la quale queste poesie sono ancora attuali, specialmente tra i giovani?
Fabrizio: Sì, decisamente sì. A questo punto ho pensato che valesse la pena ricavarne temi che si adattassero ai tempi nostri, e siccome nei dischi racconto sempre le cose che faccio, racconto la mia vita, cerco di esprimere i miei malumori, le mie magagne (perché penso di essere un individuo normale e dunque penso che queste cose possano interessare anche gli altri, perché gli altri sono abbastanza simili a me) ho cercato di adattare questo Spoon River alla realtà in cui vivo io. Perché ho scelto Spoon River e non le ho addirittura inventate io, queste storie? Dal punto di vista creativo, visto che c’era stato questo signor Edgar Lee Masters che era riuscito a penetrare così bene nell’animo umano, non vedo perché avrei dovuto riprovarmici io.
Pivano: Sicchè le grosse manipolazioni che hai fatto sui testi sono state come delle operazioni chirurgiche per rendere il libro attuale, contemporaneo?
Fabrizio: Sì. Addirittura per rendere più attuali i personaggi, per strapparli dalla piccola borghesia della piccola America 1919 ed inserirli nel nostro tipo di vita sociale. Quando dico borghesia non dico babau, dico la classe che detiene il potere e ha bisogno di conservarselo, no? Il suo potere. Ma anche nel nostro tipo di vita sociale abbiamo dei giudici che fanno i giudici per un senso di rivalsa, abbiamo uno scemo di turno di cui la gente si serve per scaricare le sue frustrazioni (è tanto comodo a tutti uno scemo…).
Pivano: Dal libro hai preso nove poesie, scegliendole tra le più adatte a due temi che sembravano le più insistenti costanti della vita di provincia: l’invidia(come molla del potere esercitata sugli individui e come ignoranza nei confronti degli altri) e la scienza (come contrasto tra l’aspirazione del ricercatore e la repressione del sistema) Perché proprio questi due temi?
Fabrizio: Per quanto riguarda l’invidia perché direi che è il sentimento umano in cui si rispecchia maggiormente il clima di competitività, il tentativo dell’uomo di misurarsi continuamente con gli altri, di imitarlo o addirittura di superarli per possedere quello che lui non possiede e crede che gli altri posseggano. Per quanto riguarda la scienza, perché la scienza è un classico prodotto del progresso, che purtroppo è ancora nelle mani di quel potere che crea l’invidia. E, secondo me, la scienza non è ancora riuscita a risolvere problemi esistenziali.
Pivano: Puoi spiegarmi meglio l’idea del malato di cuore come alternativa all’invidia?
Fabrizio: Se ci riuscissi. Gli altri personaggi si sono lasciati prendere dall’invidia e in qualche maniera l’hanno risolta, positivamente o negativamente (lo scemo che per l’invidia studia l’Enciclopedia Britannica a memoria e finisce in manicomio, il giudice che per invidia raggiunge abbastanza potere da umiliare chi l’ha umiliato, il blasfemo che è un esegeta dell’invidia e per salirne alle origini la va a cercare in Dio); invece il malato di cuore pur essendo nelle condizioni ideali per essere invidioso compie un gesto di coraggio e…
Pivano: Possiamo dire che ha scavalcato l’invidia perché a spingerlo non è stata la molla del calcolo ma è stata la molla dell’amore?
Fabrizio: Ma sì, lo avrei detto io se non l’avessi detto tu.
Pivano: E allora possiamo concludere con la vecchia proposta di Masters, che a trionfare sulla vita è soltanto chi è capace di amore?
Fabrizio: Si, a trionfare sono i “disponibili”.
Pivano: Anche per il gruppo della scienza hai trovato un’alternativa, vero? Bentivoglio mi diceva che per rappresentare il tema della scienza hai scelto il medico che ha cercato di curare i malati gratis ma non c’è riuscito perché il sistema non glielo ha permesso, il chimico che per paura si rifugia nella legge e nell’ordine come fatto repressivo e l’ottico che vorrebbe trasformare la realtà in luce e nel quale hai visto una specie di spacciatore di hashish, una specie di Timothi Leary, di Aldous Huxley. In che modo il suonatore di violino è un’alternativa?
Fabrizio: Il suonatore di violino (che è diventato per ragioni metriche di flauto) è uno che i problemi esistenziali se li risolve, e se li risolve perché, ancora, è un “disponibile”. È disponibile perché il suo clima non è quello del tentativo di arricchirsi ma del tentativo di fare quello che gli piace: è uno che sceglie sempre il gioco, e per questo muore senza rimpianti. Non ti pare che sia perché ha fatto una scelta? La scelta di non seppellire la libertà?
Pivano: Nella denuncia della manipolazione del pensiero, del lavaggio mentale esercitato dal sistema, Masters è un precorritore dei nostri problemi. Cerca di dirmi in che modo, quando eri ragazzo, a un ragazzo della tua generazione Masters è sembrato un contestatore.
Fabrizio: Perché denuncia i difetti di gente attaccata alle piccole cose, che non vede al di là del proprio naso, che non ha alcun interesse umano al di là delle necessità pratiche.
Pivano: Cioè più che la sua contestazione politica ti ha interessato la sua contestazione umana?
Fabrizio: Sì, secondo me il difetto sostanziale sta nella natura umana.
Pivano: Come spieghi per esempio il fatto di aver usato parole di un linguaggio contemporaneo quasi brutale, per esempio nel verso della poesia del giudice “un nano è una carogna di sicuro perché ha il cuore troppo vicino al buco del c…” e di avere per esempio inserito immagini come “cosce color madre perla” in poesie che pur essendo piene di sesso sono espresse perlopiù in forma asettica, quasi asessuata?
Fabrizio: Perché anche il vocabolario al giorno d’oggi è un po’ cambiato, e io ero spinto soprattutto dallo sforzo di spiegare il vero significato di queste cose. Quanto alla definizione del giudice, questo è un personaggio che diventa una carogna perché la gente carogna lo fa diventare carogna: è un parto della carogne ria generale. Questa definizione è un po’ l’emblema della cattiveria della gente.
Pivano: Fino a che punto ti sei identificato con il suonatore di violino (Jones, che nel ’71 suona il flauto) che conclude il disco? E non voglio alludere al fatto che da ragazzo ti sei accostato alla musica studiando il violino.
Fabrizio: Non c’è dubbio che per me questa è stata la più difficile. Calarsi nella realtà degli altri personaggi pieni di difetti e di complessi è stato relativamente facile, ma calarsi in questo personaggio così sereno da suonare per puro divertimento, senza farsi pagare, per me che sono un professionista della musica è stato tutt’altro che facile. Capisci? Per Jones la musica non è un mestiere, è un’alternativa: ridurla a un mestiere sarebbe come seppellire la libertà. E in questo non so dirti se non finirò prima o poi per seguire il suo esempio.
(Tratto da: Fernanda Pivano, Fabrizio De André – l’opera completa, vol. 5, pagg. 19-25, Gruppo editoriale l’Espresso, 2009)

 

Il mondo in controluce
Non c’è volto e figura della strada e della fatica su cui Fabrizio De André non abbia scritto e cantato. Volti e fatiche (fatica di vivere e fatica per vivere) tradotti in versi e in emozioni. Tolti dall’ombra e dal pregiudizio. Liberati dal perbenismo; dalla carità pelosa, anche. Volti e fatiche sottratti ai gesti vuoti e ipocriti delle elemosine, della solidarietà senza giustizia., della giustizia senza umanità. Restituiti alla dignità di uomini e donne. Di essere considerati persone e riconosciuti come cittadini. Che si tratti di drogati e alcolisti, prostitute e vagabondi, carcerati o immigrati. Per lui e spero anche per noi qui sempre persone e mai problemi.
La poesia cantata di De André ha restituito dignità, dunque speranza, dunque giustizia, a tutti loro. A tutti loro, a tutti gli abitanti del “ mondo in controluce”: il popolo della strada e del sottosuolo, dei senzapace e dei senza diritti. Quindi anche a tutti noi. Perché Fabrizio ha lavorato e cantato tutta la vita per creare ponti tra “loro” e “noi”. Fra ogni “loro” e ogni “noi”. Per togliere frontiere, valicare barriere e rompere muri.
Le righe degli spartiti di Fabrizio sono state come robusti ponti tra chi è “fuori” e chi è “dentro”, tra chi è bianco e chi è nero. Le sue note sono state come fili dipanati per intessere la tela della tolleranza, la rete della condivisione accogliente e fraterna. Come raggi di arcobaleno tesi a congiungere le genti e le lingue diverse. A tutti noi, perché i volti del disagio e della fatica ci interpellano: chiedono a ognuno qual è, e dov’è, la giustizia, la legalità, la cittadinanza. Chiedono a ciascuno da che parte sta rispetto all’ingiustizia, alla sopraffazione, alla negazione di diritti.
Da che parte stava Fabrizio è evidente a tutti. Non solo per i suoi testi, ma per la sua vita, le sue convinzioni e le sue azioni. Perché è la quotidianità, è il modo con cui si guarda e ci si rapporta concretamente agli altri nella normalità che è importante. Il gesto episodico, le parole che non testimoniano e non promuovono cambiamento e ricerca sono rituali vuoti e stanchi: non promuovono giustizia, non lavorano sui “perché”, sulle cause che producono fatica, esclusione, distanza, indifferenza.
La musica di De André è stata un punteruolo capace di rompere proprio il silenzio dell’indifferenza, sollecitando le coscienze, stimolando a cercare e incontrare il diverso da sé. Una poetica dell’impegno (un impegno non ideologico, non esibito, ma naturale e genuino perché profondamente vero) capace di descrivere senza giudicare, capace di cercare le ragioni sociali e immaginare le storie individuali anche di chi gli aveva fatto direttamente del male, di chi lo aveva sequestrato assieme alla sua cara compagna. Un punteruolo capace di parole forti, il coraggio della denuncia e della parola. Dalla canzone Don Raffae’  c’è un grande interrogativo che si pone: e lo Stato che fa? “Si costerna, si indigna e s’impegna poi getta la spugna con gran dignità”. E si rifaceva a quell’intervento del capo del governo, Spadolini?, ma non importa chi, che si era precipitato a Palermo per un’ennesima strage di mafia e Fabrizio aveva colto quelle parole, purtroppo tanto di ritualità, quando Spadolini disse: “Sono costernato, sono indignato e mi impegno”. Ne abbiamo sentite tante di queste parole e quel coraggio di parole di denuncia che Fabrizio in modo forte, puntuale e rivoluzionario ha dato, a me hanno dato molto.
È un punteruolo che si è affinato nei decenni, sia sul versante civile e sociale, sia su quello della ricerca spirituale e di significati che appartiene al singolo individuo. Già negli anni Sessanta le parole e la musica della sua delicata poesia venivano sussurrate e assorbite da una parte significativa di una generazione inquieta e in movimento. Versi intrisi di malinconia e tenerezza, che rimandavano a una triste fiaba d’amore, quella di Marinella: “Dicono poi che mentre ritornavi, nel fiume chissà come scivolavi, ma lui che non ti volle creder morta, bussò cent’anni ancora alla tua porta”.
Una storia senza tempo, che parlava di persone senza storia.  Marinella era una prostituta, il cui corpo era stato ritrovato massacrato sul greto di un torrente. Sembra storia di oggi, ma è purtroppo storia di sempre. Una tragedia anonima, capace di rubare dieci righe a un giornale di provincia, letta alla luce della cronaca. Vista in controluce, invece, diventa un dramma intenso, oltre la storia, a tracciare il percorso della radicata vicinanza tra amore e morte. Di un amore che non conosce scale gerarchiche, di una morte che sublima in dignità estrema del povero.
Controluce, quindi contro la luce dell’apparenza e di quel perbenismo moralista e ipocrita che Fabrizio aveva veramente in odio, dello sguardo distratto e lontano, del passaggio indifferente rispetto alla sofferenza viva del popolo della strada. Controluce, dunque con lo sguardo attento e coinvolto nella dimensione che modifica ciò che proviene dalla sorgente luminosa in trasparenza. Trasparenza, transparire, andando quindi oltre, entrando nel mondo misterioso del significato dell’esistere. Anche e soprattutto laddove, in superficie, sembra non esistere o non avere appartenenza.
Lo sguardo che va oltre è quello che non si ferma in superficie, che rifiuta il pregiudizio, la semplificazione, l’etichetta. Le vite che vanno oltre sono quelle che, escluse dalla normalità, espulse dalla comunità, rischiano di perdersi di “giocherellare a palla con il proprio cervello”, e di “vivere la propria morte con un anticipo tremendo”, come cantava Fabrizio nel Cantico dei drogati. Lo sguardo che sa andare oltre, come quello di De André, aiuta ad accogliere e sostenere le vite che sono andate oltre e ad accompagnarle, anzi a riaccompagnarle nella casa comune, nella costruzione del futuro, nella condivisione della speranza. Così queste piccole storie macerano purificandosi in insistente, tragica grandezza. Come nella puttana di Via del Campo, “dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fior”, nell’innocente donarsi di Bocca di Rosa, “lei lo faceva per passione”, o nella tormentata identità sessuale di Prinçesa, “perché Fernanda è proprio una figlia, come una figlia vuol far l’amore, ma Fernandino resiste e vomita e si contorce dal dolore”: una storia di vita raccontata da un libro e salita a poesia nella canzone.  La vicenda umana di Fernanda, venuta dal Brasile e transitata per Rebibbia, si è maledettamente conclusa con un suicidio alcuni mesi fa. Suicidio anonimo e passato via veloce senza lasciare traccia sui giornali: la luce diretta della quotidianità non se ne è neppure accorta, ma Fernanda, in un’altra luce, nel mondo in controluce cantato da Fabrizio, continuerà a vivere come Prinçesa.
Gli ultimi, in De André, non sono soltanto il popolo della strada, ma sono anche i popoli della strada. Attraversati dall’inquietudine mossa dal nomadismo: i pastori, gli indiani, i Rom, ma anche i genovesi, i sardi, colti, descritti e valorizzati nelle loro differenze, di nuovo rompendo gli stereotipi, andando oltre i luoghi comuni dei benpensanti: “E se questo vuol dire rubare, questo filo di pane tra miseria e fortuna” (Khorakhané). Il coinvolgimento emotivo nell’esistenza degli altri porta spesso con sé il senso religioso della vita. Non si tratta di attribuire a De André in modo posticcio o inconsapevole la fede in Dio, ma di riconoscere il suo spirito di ricerca, il suo rapporto con l’infinito e l’Assoluto, la sua fede concreta nell’uomo, oltre le sue miserie. Si tratta di qualcosa che unisce tutte le persone di buona volontà, al di là del fatto che siano credenti, agnostici o atei. E che le avvolge nelle domande sull’apparente, assurdo senso della vita: “Il settimo dice non devi ammazzare se del cielo vuoi essere degno: guardatela oggi questa legge di Dio, tre volte inchiodata nel legno, guardate la fine di quel Nazareno e un ladro non muore di meno” (Il testamento di Tito, nella raccolta dal suggestivo e allusivo titolo La buona novella): il nostro obiettivo non è la solidarietà ma la giustizia.

O, ancora, in una delle sue prime canzoni, Preghiera in Gennaio, quando, atterrito di fronte al suicidio, lancia un grido accorato: “Dio di misericordia, il tuo bel Paradiso lo hai fatto soprattutto per chi non ha sorriso”.
De André osserva il dramma dei poveri da un punto di vista apparentemente privilegiato: quello della persona di estrazione sociale alta, non costretta a fare i conti con la mancanza del pane quotidiano. Vi sono due possibilità di guardare ai poveri (lasciando perdere ovviamente quelli che davanti a loro, come nella parabola del Buon Samaritano, passano e si girano da un’altra parte): con uno sguardo magari attento ma lontano, intriso di quella solidarietà “dall’alto” che è assai poco imparentata con la pratica della giustizia e con il valore dell’uguaglianza. La seconda possibilità è di condividere quel pane, assumendo quei drammi e quelle sofferenze come i propri drammi e le proprie sofferenze, quindi su un piano di parità e di condivisione. Fosse anche solo emotiva.  De André apparteneva a questa rara stirpe, capace di riconoscere la sofferenza e di condividere le emozioni dei poveri e degli esclusi.
(tratto da: Luigi Ciotti, Dentro Faber, vol. 6, Gli ultimi, pagg. 6-10, Arnoldo Mondadori editore (per il Corriere della Sera), Milano 2011.


Proposta in aula
Su: La buona Novella
La prima parte de “La buona novella” può essere utilizzata per completare un discorso sugli apocrifi: quindi come punto di partenza o di arrivo ad una analisi dei testi apocrifi sull’infanzia di Maria, sia letteraria che artistica.
La seconda parte de “La buona novella”, particolarmente le canzoni Via della croce e Il Testamento di Tito, possono essere utilizzate per un confronto diretto con i testi evangelici  o dell’Antico Testamento che stanno alla base delle canzoni stesse. Quali analogie e quali differenze vi sono? L’interpretazione data dal cantautore è corretta oppure no?
Il Testamento di Tito può essere utilizzato anche per un dibattito sui dieci comandamenti e sul loro valore. Sono ancora attuali?
Su: Non al denaro non all’amore né al cielo
Il Concept Album, proponendo storie di personaggi, propone conseguentemente il modo con cui essi  “da morti” raccontano come hanno vissuto i valori in vita. Le canzoni possono essere prima confrontate con le poesie di riferimento, poi utilizzate come punto di partenza per un dibattito sui valori che emergono dalle storie della “commedia umana”.
Dato il punto di vista dei personaggi, parlano da morti, il testo può essere anche un punto di partenza per parlare del tema-tabù che è la morte.

Su: altre canzoni
Possono essere utilizzate come punto di partenza per un confronto in classe su diverse tematiche. Le canzoni non sono mai banali e gli spunti sono tantissimi. Elenco solo quelle più facilmente spendibili: Il pescatore, Quello che non ho, Fiume Sand Creek, Disamistade, Via del Campo, La città vecchia, Una storia sbagliata, La guerra di Piero, Prinçesa, Khorakhané, Don Raffae’,  Ave Maria (versione in sardo), La ballata dell’eroe, La canzone di Marinella, Cantico dei drogati, Preghiera in gennaio, Spiritual, Si chiamava Gesù, Andrea ecc. ecc.


Bibliografia- Discografia
AA.VV. Dentro Faber,, Arnoldo Mondadori editore (per il Corriere della Sera), Milano 2011.

  • Vol 1: L’amore
  • Vol 2: Gli Ultimi
  • Vol 3: Le donne
  • Vol 4: L’uomo, il potere e la guerra
  • Vol 5Genova e il Mediterraneo
  • Vol 6: Il sacro
  • Vol 7: L’anarchia
  • Vol 8: Poesia in forma di canzone

AA.VV., Fabrizio De André – l’opera completa, Sony Music (per il Gruppo editoriale l’Espresso), Milano 2009.

  • Vol 1: Volume 1
  • Vol 2: Tutti morimmo a stento
  • Vol 3: Volume 3
  • Vol 4: La buona novella
  • Vol 5: Non al denaro non all’amore né al cielo
  • Vol 6: Storia di un impiegato
  • Vol 7: Canzoni
  • Vol 8: Volume 8
  • Vol 9: Rimini
  • Vol 10: L’indiano
  • Vol 11:Crueza de mà
  • Vol 12: Le nuvole
  • Vol 13: Anime salve
  • Vol 14: Fabrizio De André in concerto (DVD) Il pescatore e Una storia sbagliata (CD)

AA.VV., Volammo davvero,  a cura di E. Valdini, un dialogo ininterrotto, Rizzoli, Milano 2007.
Fabrizio De André, Parole e Canzoni, saggio introduttivo e testi a cura di Roberto Cotroneo, video a cura di Vincenzo Mollica, Einaudi Stile libero, Torino 1999.
Paolo Ghezzi, Il vangelo secondo De André, “per chi viaggia in direzione ostinata e contraria”, Ancora, Milano 2003.


IRC e interdisciplinarietà – Indice
Il mondo di Dante… breve viaggio all’inferno
1 Il titolo dell’opera
1 La composizione
3 Il viaggio oltremondano
4 La cosmologia dantesca
4 Inferno
5 L’epistola a Cangrande della Scala
6 Un’indagine sul male del mondo
10 La configurazione interiore della “Divina Commedia”.
14 Prima lezione: Canto primo, il proemio generale al poema.
17 Proposta in aula, testi utili.
18 Seconda lezione: Canti VIII-IX - La città di Dite e il Messo Celeste.
22 Proposta in aula, testi utili.
23 Terza lezione: Canto XVII – I violenti contro Dio (canti XIV-XVII)
27 Commento al canto XVII.
29 Proposta in aula, testi utili.
30 Quarta lezione: Canto XXVI – analisi del testo
33 Proposta in aula, testi utili.
34 Bibliografia

Gli apocrifi nel contesto sociale, economico e artistico medievale

35 I Vangeli apocrifi
35 Libri canonici e libri apocrifi
37 Antichi elenchi di testi canonici ne apocrifi
39 Origine e forma della letteratura apocrifa
42 Importanza della letteratura apocrifa
44 Gli apocrifi e l’arte
56 La moneta, il credito e la banca nel Medioevo
69 Il mercante
79 Gli Scrovegni
83 L’onta dell’usura
87 Gli affreschi
89 Il progetto iconografico
91 La sfilata dei vizi e delle virtù
98 I volti segreti di Giotto. Le rivelazioni della Cappella degli Scrovegni.
107 Proposta in aula
108 Bibliografia

Il “vangelo” secondo De André

108 La buona novella.
110 De André, l’evangelista anarchico degli ultimi.
119 Fabrizio De André, lezione in ateneo.
124 Fabrizio, Lee Masters e i personaggi di Spoon River
127 Il mondo in controluce
130 Proposta in aula.
131 Bibliografia-discografia

 

 

Fonte: http://www.issr-portogruaro.it/wp-content/uploads/2014/03/Dispensa-Da-Dante-a-De-Andr%C3%A9-ISSR-2014.docx

Sito web da visitare: http://www.issr-portogruaro.it

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