Il vino nella letteratura

Il vino nella letteratura

 

 

 

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Il vino nella letteratura

  • La nascita del vino: "L’epopea di Gilgamesh"
  • Il vino nell’Antica Grecia
  • Il vino nell’Antico Testamento
  • L’Antico Egitto: la birra
  • L’Antica Roma: lo sviluppo della viticoltura
  • Gli Ebrei
  • Columella
  • Virgilio
  • Il vino nel ‘600
  • Il ‘700: il vino della ragione
  • La nascita dell’enologia moderna
  • Il vino nell’800
  • Charles Baudelaire
  • Giacomo Leopardi: tra noia e piacere
  • Il vino nel ‘900
  • Italo Svevo
  • La Langa
  • Bacco e letteratura
  •  Il vino nella storia e nella simbologia del mondo cristiano e della chiesa cattolica

 

La nascita del vino: "L’epopea di Gilgamesh"

Risalire precisamente alla data di nascita del vino è praticamente impossibile in quanto la storia delle bevande fermentate ha inizio in tempi che non hanno lasciato dietro di loro documenti o tracce sicure e valide.

I primi documenti che attestano la presenza del vino in quanto tale risalgono alla fine del IV millennio a.C. nella città di Sumer nella Mesopotamia meridionale.

Sono stati appunto i Sumeri a fornirci le prime tracce dell'esistenza della bevanda .

Il vino viene nominato per la prima volta tra i simboli cuneiformi che componevano l'Epopea di Gilgamesh, opera letteraria narrante le vicende di Gilgamesh di Uruk, primo eroe della letteratura scritta del Terzo Millennio avanti Cristo.

I documenti testimoniano di come il vino venne utilizzato nei banchetti ed offerto agli dei o utilizzato in altri momenti cruciali nella vita del singolo o della società.

Il vino nell’Antica Grecia

Del vino abbiamo una visione più precisa se andando avanti nel tempo e precisamente tra il X e VIII secolo a.C. ci soffermiamo ad analizzare le parole di due personaggi, due grandi poeti o meglio ancora i primi due grandi poeti: Omero ed Esiodo di Ascra.

Soprattutto grazie ad Omero abbiamo importanti informazioni riguardanti l'utilizzo e l'importanza del vino nell'Antica Grecia per quanto scritto tra le pagine dell'Odissea.

Grazie agli scritti di Omero possiamo con certezza risalire alle abitudini alimentari dei greci di quell'epoca.

Sappiamo che avevano una precisa divisione dei pasti durante tutto l'arco della giornata, precisamente sappiamo che i pasti durante tutto il giorno erano tre:

L'ariston, consumato di primo mattino dove erano presenti sulla tavola pane e vino.

"Eumeo servendo sul tagliere le carni arrosto avanzate dalla sera, si affrettò ad ammucchiare nelle ceste il pane di frumento ed a mescere nella coppa un vino profumato di miele." (Odissea XVI, 48-50)

Gli altri due pasti il deiphon e il dorpon corrispondono a pranzo e cena e come ovvio era in questi due pasti che avveniva il principale consumo della bevanda.

La presenza del vino nelle mense della Grecia Antica era simbolo di prestigio sociale siccome la produzione e la lavorazione del prodotto richiedeva terreni e materiali di costo elevato.

A questo punto possiamo parlare della Grecia Antica come la prima vera grande terra del vino.

Fu a partire dal 600 a.C. che iniziarono le esportazioni del vino greco attraverso il mediterraneo fino in Gallia dove i coloni greci avevano fondato Marsiglia.

Successivamente la bevanda venne esportata, grazie alle successive colonizzazioni anche verso il Mar Nero, l'Anatolia, le coste Africane e nelle terre occidentali raggiungibili per mare dal territorio greco.

Da come possiamo leggere nelle opere letterarie dell'epoca, il territorio greco con la sua diversità di microclimi possedeva diverse zone dove era presente una florida viticoltura. Ogni zona era caratterizzata dalla produzione uve e vini con diverse caratteristiche.

Quando Omero racconta delle città d'origine dei capi degli Achei e ne descrive gli svariati pregi, non trascura tra questi la presenza di viti rigogliose e traccia così qualche linea del quadro geografico della distribuzione dei vigneti:

"Arne dai molti grappoli d'uva...Istiea ricca di vigne...Epidauro ricca di vigneti..."

Omero nomina anche Pramno, terra famosa per il suo vino, che venne mescolato a droghe e offerto dalla maga Circe ai compagni di Odisseo per allettarli, prima trasformarli in porci:

"Per loro mescolava formaggio e farina d'orzo e miele verde con vino di Pramno." (Odissea X, 233-234)

Il vino di Lemno viene invece dato in premio agli Achei per aver costruito in breve tempo il grande muro utilizzato in difesa dei Troiani: "Erano là a riva molte navi, venivano da Lemno con un carico di vino. Le inviava Euneo... A parte poi, per gli Atridi Agamennone e Menelao, aveva mandato mille misure di vino." (Iliade VII, 467-471)

Omero narra poi dell'isola di Ogigia dove Odisseo visse per sette anni con la ninfa Calipso, racconta come fra la rigogliosa vegetazione di ontani, pioppi e cipressi profumati "si stendeva vigorosa con i suoi tralci intorno alla grotta profonda la vite domestica: era tutta carica di grappoli." (Odissea V, 68-69)

Anche ad Itaca per quanto aspra e non molto vasta possa essere quella terra, "vi è frumento in abbondanza, vi è vino." (Odissea XIII, 244)

Questo fatto è stato reso possibile soprattutto grazie alla popolare cultura estimatrice del bere dei greci e anche grazie al clima delle isole Egee, favorevole alla produzione di vini pregiati.

I viticoltori greci non adottavano forme d'allevamento a pergola, come facevano invece gli egizi o come venne poi fatto in Italia. In Grecia le viti erano lasciate libere di scorrere sul suolo, protetto con materiali vari (rami o stuoie) per evitare il contatto diretto del frutto con il terreno.

Questo sistema era sicuramente meno costoso dal punto di vista economico, ma richiedeva un numero elevato di unità lavorative per la lavorazione del suolo.

Nella stagione estiva uomini e donne si riunivano nelle vigne per diradare il fogliame, allo scopo di diminuire la traspirazione e per far sì che la luce penetrasse più a fondo favorendo la maturazione dei frutti; quindi un maggior tenore zuccherino, favorevole alla vinificazione.

La vendemmia solitamente avveniva nella metà di settembre. Riempite le ceste di uva, questa veniva portata alla pigiatura, eseguita in conche di legno d'acacia stagionato o in muratura leggermente inclinate per favorire la colatura del mosto.

Una parte del mosto veniva consumata subito, dopo aver subito leggere aggiunte d'aceto, mentre la quasi totalità di questo era destinato alla vinificazione. Il mosto veniva inviato alle cantine dove avveniva la fermentazione in grandi vasi terra cotta (3,5 metri di altezza e un'apertura di un metro), detti pithoi.

Per ridurre la traspirazione, i pithoi venivano interrati profondamente e cosparsi esternamente di resina e pece. Questa tecnica conferiva al vino un aroma particolare, che si riscontra tuttora nel vino resinato greco.

Dopo sei mesi di permanenza nei pithoi, si procedeva alla filtrazione ed al travaso del vino in otri o anfore di terracotta appuntite per permettere la decantazione di eventuale deposito e successivamente commerciato.

Ne "Le opere e i giorni", Esiodo scrive invece, che la vendemmia veniva effettuata all'inizio d'ottobre (quando Orione e Sirio si levano a metà della notte ed Arturo appare al mattino) e che l'uva veniva dapprima esposta al sole per permettere un calo del tenore di umidità ed un aumento del grado zuccherino ( in modo da ottenere con la fermentazione un alto tenore di alcool) e successivamente pigiata.

 

Il vino nell’Antico Testamento

Altra terra che un tempo disponeva di ottime potenzialità per la coltivazione della vite e per la vinificazione è sicuramente la Palestina, grazie alla vicinanza con il Vicino Oriente, dove ha avuto origine questa pratica, come testimoniano ritrovamenti di attrezzature (torchi, tini,...) nel corso di scavi archeologici.

Dell'utilizzo del vino in Palestina abbiamo notizie, grazie a quanto scritto nei testi biblici.

Lo sviluppo della pratica della vinificazione in Palestina continuò senza problemi fin verso la metà del 600 epoca della conquista mussulmana.

Da quanto scritto nell'Antico Testamento possiamo dedurre che in quel periodo il vino era già un'importante merce commerciale; la bevanda era già presente sul mercato in diverse forme: vino nuovo, vino forte, vino mescolato a mosto e vino speziato.

Sul mercato era già possibile trovare una gamma di vini suddivisi principalmente in base a colore e provenienza: il migliore era certamente il rosso di Keruhim, seguito dal rosso di Frigia, dal rosso leggero di Sharon e dai vini etiopici; i bianchi più importanti provenivano dalle vigne di Helbon e dal Libano.

L’Antico Egitto: la birra

Altra terra degna di nota è sicuramente l'Antico Egitto, che grazie alle disponibilità idriche dovute alla presenza del Nilo ha sviluppato una florida agricoltura, basata soprattutto su frutticoltura, viticoltura e cerealicoltura.

E' importante soffermarci ad analizzare la produzione di cereali, esclusivamente grano ed orzo: fu proprio quest'ultimo la rovina del vino nell'Antico Egitto. Infatti la coltivazione di questo cereale permise la nascita e l'incremento del consumo di un'altra importantissima bevanda fermentata quale la birra.

La nascita della birra, antecedente a quella del vino, risale già al 3500 a.C. in Mesopotamia dove veniva indicata con il termine "vino di grano".

La bevanda molto simile a quella perfezionata successivamente dagli Antichi Egizi veniva ottenuta dalla lavorazione del "Pane da Birra", vero e proprio pane di orzo e farro, sminuzzato, bagnato ed impastato con sostanze aromatizzanti.

Ne seguiva la fermentazione, al termine della quale la birra veniva filtrata e conservata in giare di terracotta sigillate.

Già da prima del 3200 a.C., prima dell'Era delle Dinastie, pane e birra erano comunemente utilizzate come offerte nei rituali religiosi, nei riti funerari di ogni individuo appartenente a qualsiasi classe sociale; questo a significare la popolarità di questa bevanda e della sua produzione a livello popolare.

L’Antica Roma: lo sviluppo della viticoltura

Quando Roma può finalmente vantarsi del nome di "capitale del mondo", la viticoltura aveva già alle sue spalle una lunga storia.
Durante il regno di Augusto tuttavia, questa pianta e questa bevanda poterono godere di maggiori cure e di maggior diffusione e prestigio. In Italia nuove tecniche e nuovi vitigni vennero importati, soprattutto dalla Grecia.

Con l’intento di incentivare la rinascita di un ceto medio di agricoltore, grazie alla stabilità della situazione politica, vennero assegnate delle terre ai soldati veterani che durante il lungo periodo di guerra erano stati lontani dalle campagne.

Viticoltura ed enologia rappresentano due aspetti importanti per la vita economica e sociale di questo periodo.

Grandi nomi latini si avvicendano e si confrontano nella composizione di trattati di agricoltura, da Catone a Varrone per giungere, nell'epoca più fiorente dell'impero a Virgilio ed a Lucio Moderato Columella. Osservazioni sui metodi di produzione del vino si affiancano alle istruzioni tecniche per la coltivazione della vita.


GLI EBREI: IL VINO KOSHER NELLA STORIA EBRAICA

Il vino presso gli ebrei era invece diverso dagli altri. Coltivato e prodotto seguendo specifiche regole di Kasherut (il corpus di norme che tuttora regolano l’alimentazione ebraica), non poteva essere mischiato con quello degli altri popoli, destinato alle divinità pagane.
Questa esigenza portò allo sviluppo di peculiari tecniche, volte a produrre una viticoltura esclusiva. Così concepito, il vino ebraico entrò a far parte, come elemento importante, della liturgia religiosa, che ne fa tuttora uso nelle festività più sacre e nei momenti più gioiosi.
La vite, ritenuta sacra nell'antica Cananea, fu dagli Ebrei considerata albero messianico. E' stato anche ipotizzato che l'albero del Paradiso fosse la vite. Nell’antico Testamento Israele è la vigna del "Signore delle schiere", che sarà abbandonata "allo squallore, non sarà più né potata, né sarchiata", perché, mentre Dio aspettava che "facesse uve, fece invece lambrusche" (Isaia, 5).
Centinaia sono le citazioni della vite e del vino nell’antico e nel nuovo Testamento. La parola "yayin", con la quale viene indicato il succo di uva fermentato, compare oltre 140 volte nell’antico Testamento. Il vino è stato, inoltre, protagonista di celebri avvenimenti biblici: da Noè (Gn 9, 20-25), che piantò la vite con la conseguenza della più famosa ubriacatura della storia, a Lot che, ubriacato dalle figlie, venne indotto all'unione incestuosa da cui nacquero Noab e Ben-Ammi, capostipiti delle tribù dei Noabiti e degli Ammoniti (Gn 19, 1-11); dal grappolo d’uva di enormi dimensioni, simbolo della fertilità della terra della Valle di Escol (Nm 13, 23), a Cristo, che paragona se stesso alla vite e gli uomini ai tralci (Gv 15, 5) e che nel miracolo delle nozze di Cana trasforma l’acqua in vino (Gv 2, 1-12). Nell’ultima cena, infine, Gesù affidò al pane e al vino, attraverso il mistero della transustanziazione, il ritorno agli uomini del suo corpo e del suo sangue.
Nella religione ebraica, le libagioni erano fatte con vino di pura uva, versando il vino alla base dell'altare e con offerta dell'agnello (che doveva essere di un anno ed esente da imperfezioni fisiche) oppure con fior di farina intrisa di olio vergine.
Ancora oggi, l’inizio e la conclusione dello Shabbat (giorno sacro agli ebrei, che inizia al tramonto del venerdì e si conclude con quello del sabato) è segnato, ad esempio, dalla benedizione del pane e di una coppa di vino, sulla quale si recita la "berachà" (“benedizione” in ebraico): “Benedetto sei Tu, Signore Dio nostro, re dell’universo che hai creato il frutto della vite”. Nel rito del matrimonio, durante le grandi feste e soprattutto durante la Pasqua, il vino si rende presente quale elemento santificatore e portatore di letizia. Il cristianesimo eredita dalla tradizione ebraica questa cultura, pur attribuendole un significato completamente nuovo, indissolubilmente legato al sangue di Cristo versato sulla croce, e segno tangibile della Sua presenza nella Chiesa, mediante l’Eucaristia.
La regole ebraiche per fare il vino Kosher sono tuttora molto rigorose: non deve contenere ingredienti proibiti, come grassi, vitamine, conservanti ricavati da animali proibiti (al massimo è ammessa la chiarificazione con l'albume dell'uovo sbattuto), bisogna evitare qualunque elemento di lievitazione, e deve essere lavorato esclusivamente da ebrei.
Il vino proibito dalla Toràh, detto "yayin nèsekh" (vino di libagione) è il vino consacrato a divinità straniere. Infatti non si può godere in alcuna forma di ciò che è usato per atti di culto estranei o in contrasto con la Toràh, ovvero la Legge ebraica.
La tradizione rabbinica proibisce il consumo e il commercio di qualsiasi altro vino, detto "stam yenàm", anche se non consacrato a culti estranei all’ebraismo, che sia stato toccato da non ebrei o, secondo l’opinione più rigorosa, da ebrei non osservanti del Sabato. Tutto questo per prevenire la perdita di controllo morale e sociale conseguente allo stato di ebbrezza.
Può sembrare strano che nell’ebraismo a un alimento così potenzialmente dannoso, sia stato dato un ruolo sacro. Per questo l’atteggiamento tradizionale ebraico è stato quello di una scelta tra i due estremi: proibizionismo assoluto e totale permissivismo. Da una parte uso sacrale moderato e dall’altra limitazione al consumo.
Se un vino prodotto sotto il controllo rabbinico rimane sempre sotto controllo, è sottoposto a cottura (a temperature di 75,5° C secondo le opinioni più moderate) o ad aggiunta di sostanze che ne modificano il sapore (miele, spezie), rimane Kosher e può essere trasportato o versato da chiunque.
(* Sono considerati "stam yenàm" tutti i vini, l’alcool, l’aceto, le bevande alcoliche derivate dal vino come vermut, grappa, brandy e anche il succo d’uva, se non ancora fermentato, che non sono contrassegnati e sigillati dal marchio Kosher. Ciò risale alle origini del divieto: un vino che, attraverso la cottura, modifica il suo sapore non è più adatto alle libagioni.)
Columella

Columella sottolinea, sostenuto da calcoli precisi e dettagliati, i vantaggi economici che può offrire un vigneto "per chiunque sappia unire la diligenza alla scienza".

Columella distingue fra uve da tavola e uve da vino e nella sua distinzione divide gerarchicamente queste ultime in tre gruppi, a seconda del vino che se ne ottiene.

Le più pregiate uve italiche erano le Aminee. Da questi vitigni, che erano coltivati in Sicilia e in Campania si ottenevano l'Amineo, il Lucano, il Murgentino.

Pare che le Aminee fossero impiegate anche per la produzione Falerno. Nello stesso gruppo c'erano poi le uve etrusche molto dolci, chiamate Apianae perché attiravano le api, e le nobili uve Eugeniae dei colli Albani. Molti altri vitigni, considerati di inferiore seppure buona qualità, erano conosciuti e coltivati in diverse zone dell'Italia.

Nel suo trattato "De Re Rustica", Columella suggeriva per ogni vitigno il terreno più adatto e consigliava di impiantare varietà diverse e di tenerle separate al fine di ottenere un vino più pregiato.

Secondo gli scritti di Columella la vendemmia si effettuava del mese di agosto fino a novembre, con la piena maturazione delle uve. Il controllo della maturità si basava sul gusto degli acini, sulla struttura dei grappoli e soprattutto dal colore scuro dei vinaccioli.

Le uve erano pigiate nel calcatorium ed erano torchiate nel turcularium, quindi il mosto veniva raccolto e trasferito per la fermentazione nei dolia.

Il mustum lixivium era il primo mosto che usciva spontaneamente per la compressione delle uve. Mescolato al miele questo mosto veniva utilizzato per preparare il mulsum, che veniva servito come aperitivo.

Dalla ulteriore torchiatura delle vinacce, si ottenevano i lora, vinelli da consumarsi entro l'anno, destinati più che altro agli schiavi ed alle classi inferiori. Si sfruttava inoltre il tannino dei vinaccioli impiegandolo per usi medicinali.

Il vino invecchiato era estremamente apprezzato a Roma. Un vino come il Falerno non si beveva prima dei dieci anni di invecchiamento, i vini di Sorrento non prima dei venticinque e non era difficile veder consumare vini con più di cent'anni di invecchiamento.

Durante l'invecchiamento i vini erano tenuti nel fumarium, un locale della apoteca, che fungeva da magazzino e si trovava in alto nella casa. Qui giungevano i fumi degli usi domestici. Questi, secondo Columella, avrebbero agito favorevolmente sul processo di invecchiamento.

Per correggere i vini un po' deboli o con gusti asprigni o che parevano non conservarsi, i Romani ricorrevano al mosto concentrato per ebollizione.

Erano impiegate anche operazioni quali la gessatura e la salatura dei mosti, nonché l'impiego di coadiuvanti, quali argilla, polvere di marmo, albume, latte di capra, bacche di mirtillo, resine e sostanze aromatiche e medicinali.

Vini medicinali e vini picata erano molto diffusi.

I vini picata erano trattati con pece ottenuta da resine di conifere e profumati con mirra.

I vini medicinali erano il risultato di moltissime ricette che prevedevano l'infusione nei mosti di diverse parti di piante ritenute medicamentose.

Virgilio

Virgilio nutre una particolare sensibilità nei confronti della natura. Questa inclinazione è già presente nelle "Bucoliche", tuttavia è nelle "Georgiche" che si esprime compiutamente.

I quattro libri delle "Georgiche" parlano della coltivazione dei campi, della coltura degli alberi, dell'allevamento del bestiame e dell'apicoltura. Pur essendo esposto in forma didascalica, il contenuto di quest'opera non si può facilmente paragonare ad altre opere che nel campo dell’istruzione agraria furono ben più efficaci ed esaurienti. Quest'opera infatti non è un vero e proprio manuale di agricoltura, ma una celebrazione della natura.

Un libro rivolto così sinceramente all'uso pratico avrebbe potuto essere scritto in prosa ed avrebbe dovuto rivolgersi a contenuti più ampi e dettagliati.

Ma Virgilio è un poeta, non un agronomo. Egli stesso dice nella sua dedica a Mecenate: " Io non desidero abbracciare tutto nei miei versi: neppure se avessi cento lingue e cento bocche e una voce d'acciaio. E tu stammi vicino e insieme a me percorri la fatica intrapresa."

Il secondo libro delle "Georgiche" inizia con l'espresso intento di cantare Bacco e attraverso lui i pampini autunnali e la vendemmia che spumeggia nei tini.

Virgilio invita il padre Leneo, così era anche noto Bacco, a togliersi i costumi e a tingere con lui le gambe nude nel mosto nuovo. Con quest'immagine si viene introdotti nell'argomento che domina tutto il libro.

Nella parte che riguarda i vitigni, Virgilio accosta quelli italiani ai celebri vitigni della Grecia. Il messaggio insito in questi paragoni si legge chiaramente: i frutti della vite non sono gli stessi dappertutto, c'è uva e uva, c'è vino e vino, ma l'uva e i vini dell'Italia non sono secondi a nessuno!

La vendemmia che pende dai nostri alberi non è uguale a quella che pende a Lesbo, dai tralci di Metimne, ed elenca il poeta:

“Ci sono le vigne di Taso, ci sono le uve di Marea, bianche,
s'addicono queste a terreni grassi, quelle a terre più fini;
e la psitia migliore per il passito e il lageo leggero,
che alla fine fa barcollare e impaccia la lingua,
le uve purpuree e quelle precoci, e come ti potrò cantare
Retica? Però non sfidare le cantine di Falerno!
Vi sono anche le viti aminee, vini robustissimi,
a cui cedono il passo quello di Tmolo e persino il Faneo, re dei vini;
e l'Argitide, quella più piccola, con cui nessun altra può rivaleggiare
o per quantità di succo o per durata di anni.
Certo non io ti trascurerò o Rodia, gradita agli dei e alle mense,
né te o Bumasto, dai grappoli rigonfi!”

Virgilio continua dicendo che le specie e i nomi dei vitigni e dei vini sono così numerosi che non si possono citare tutti, né si può indicare il numero.

Ogni specie richiede una particolare cura ed un particolare terreno. Il poeta offre a riguardo molti suggerimenti sulla piantagione e sui lavori richiesti dalla vite, dalla scelta del terreno alla zappatura, alla preparazione dei diversi sostegni, alla potatura e alla protezione dagli animali selvatici.

Proprio perché spesso compie il misfatto di rosicchiare le viti, spiega Virgilio, viene immolato un caprone a Bacco durante le feste in suo onore.

Il vino è anche la bevanda sacra dei sacrifici, il mezzo che favorisce il contatto con gli dei. Alla vista della costa italiana che si avvicina, il vecchio Anchise invoca protezione agli dei innalzando un grande calice antico pieno di puro vino.

Nell’Eneide" il vino è anche presente alla comparsa del serpente, simboleggiante i sette anni di peregrinazioni che dovranno affrontare i troiani per raggiungere la loro meta.

Il vino si trova ancora nel momento in cui Enea vede realizzarsi le profezie e si rende conto di essere finalmente giunto dove lo conduceva il destino:

“Ora libate a Giove con le coppe,
invocate pregando il padre Anchise,
e ancor ponete sulle mense il vino!”

Il vino nell’Eneide" viene associato ai grandi dolori e si accenna al suo potere di condurre oltre la ragione. Tuttavia il significato più ricorrente che viene attribuito al vino è un significato sacrale.

(Enrico IV, parte II, atto V, scena III)

Il vino nel ‘600

A metà del 1600 Albert de la Fizelière nel suo piccolo libro sui cabaret parigini scriveva : "Il 1635! Che nobile data e che bel tempo per i bevitori! I caffè non erano ancora stati inventati. La gente di spirito il cui cervello è oggi annebbiato dai vapori di una birra pasticciata, dall’orribile assenzio, da un’esorbitante numero di mescolanze alcoliche di bassa lega, poteva e sapeva in quei tempi alimentare la propria verve al fuoco divino del Beaune e del Pomard.

L’ippocrene dei poeti era allora una verità e la sorgente ispiratrice sprizzava rossa e profumata dalle botti panciute della Croix de Lorraine e della Pomme de Pin.

La Croix de Lorraine e la Pomme de Pin erano due celebri cabaret di Parigi.

In particolare la Pomme de Pin era frequentato da poeti e letterati. Ai suoi tavoli si potevano incontrare Racine, Molière, Boileau, La Fontaine.

Ed è principalmente grazie alle opere di questi scrittori, in particolare Bolileau e Molière, che la vinificazione e la viticoltura della Francia del 1600 assumono importanza.

Il 1600 assunse importanza grazie alla presenza dei cabaret, dove venivano serviti i vini migliori, ma soprattutto grazie all’attività di Dom Pierre Pérignon (1639-1725), procuratore dell’abbazia di Hautvillers iniziò a dedicarsi alla realizzazione dello Champagne spumante.

Le sue cure iniziavano già dai vigneti, che dovevano essere di assoluta qualità. Non usava che Pinot nero giunto a maturazione perfetta, scevrato dagli acini ammuffiti o verdi. Quando gli venivano portate le ceste Dom Pérignon assaggiava le uve e stabiliva come dovevano essere mescolate in funzione del vino desiderato.

Affinché il succo non prendesse colore, la pressatura avveniva rapidamente ed il vin gris veniva raccolto e travasato nelle botti. Quando il vino era fatto, si travasava e si chiarificava più volte. Alla luna di marzo Dom Pérignon metteva in bottiglia il suo vino che conteneva dei residui di zucchero non ancora trasformati in alcool. Quest’ultima fase della trasformazione sarebbe poi avvenuta in bottiglia e l’anidride carbonica liberata dalla fermentazione avrebbe poi fatto spumeggiare il vino. Vi sono testimonianze probanti che non si aggiungeva zucchero per favorire la spumantizzazione.

Le bottiglie usate dovevano essere solide per resistere alla pressione. Alla fine del XVII secolo le vetrerie producevano a questo scopo delle bottiglie a forma di mela, sostituite nel 1700 dalle champenoises a forma di pera. Si trattava naturalmente di bottiglie costose il cui prezzo andava ad influire su quello del vino.

La chiusura della bottiglia fino alla fine del secolo veniva effettuata con un tappo di legno avvolto in canapa o stoppa impregnata di sego. Si legava il tappo con una funicella di canapa, poi si sigillava con pece e cera. Non vi erano etichette sulla bottiglia, ma talvolta questa portava uno stemma o un timbro impressi nel vetro al momento della fabbricazione.

Prima di essere commercializzato il vino restava in bottiglia per diciotto mesi nella speranza che spumantizzasse. A volte il vino non prendeva spuma e doveva essere venduto come vino comune.

Era ben presente anche il problema della tenuta delle bottiglie, dato che pare fosse ordinaria di un terzo delle bottiglie, dato che pare fosse ordinaria la rottura di un terzo delle bottiglie, ma in certi anni se ne rompevano più dei due terzi. I rischi connessi alla produzione e le forti spese di trasporto rispetto ai vini commerciati in fusti, rendevano caro il prezzo dello Champagne. Nel XVIII secolo il costo di una bottiglia di Champagne equivaleva alla paga di quattro giorni di un operaio qualificato.

Il ‘700: il vino della ragione

Spesso la condotta di un uomo riscaldata dal vino non è che l’effetto di ciò che, negli altri momenti, avviene nel suo cuore. (Jean Jacques Rousseau )

Il XVIII secolo è conosciuto per eccellenza come l’età dei lumi, l’età della ragione, l’epoca in cui una diversa indagine si applica alle scienze esatte ponendo le basi delle logiche razionali, delle filosofie illuministiche.

Il nuovo atteggiamento nei confronti della logica produce delle nuove creazioni sociali, conduce nuovi modi di agire, dà origine a spunti che forniscono i principi per le rivoluzioni.

Il ‘700 è il secolo in cui si ambisce creare una summa che riunisca lo stato delle conoscenze umane. Tale ambizione si realizza nella "Encyclopédie", opera che consta di 43 volumi e che fu pubblicata tra il 1751 e il 1776. Fu ideata da Diderot e D’Alembert , che ebbero fra i loro collaboratori i più brillanti spiriti dell’epoca: Rousseau, Voltaire, Condillac e molti altri.

La ragione dei filosofi è per una sua natura opposta all’uso delle bevande alcooliche quando si mostrano contrarie alla lucidità dello spirito.

Voltaire (1694-1778), una delle punte di diamante dell’Illuminismo, non indulgeva all’ebbrezza poiché la riteneva dannosa per la salute e per la ragione.

Tuttavia non si sottraeva completamente alla tentazione del vino in virtù della sua qualità e della sua raffinatezza.

In tutti i tempi il vino è stato usato come medicamento. I nuovi filosofi, con l’arma della ragione, indagano e discutono anche di questo argomento. All’inizio del 1700 si accende una discussione su quale sia il tipo di vino più salubre e meglio indicato per la dieta.

In linea di principio gli Enciclopedisti accettano il concetto dei medici antichi, come Galeno e Ippocrate, che il vino è utile in una serie di malattie, e indicano anche che è necessario cambiare il tipo di vino in rapporto al tipo di malattie da curare.

Oltre che medicina del corpo, l’"Encyclopèdie" considera il vino anche come medicina dell’animo, ricordando che la pur rigida setta degli Stoici considerava l’ubriachezza come necessaria per combattere tristezza e dispiaceri, che sono malattie dell’animo umano.

I principali paesi produttori di vino per i compilatori dell’"Encyclopédie", erano la Grecia, l’Italia, la Spagna, la Germania, l’Ungheria e ovviamente la Francia.

I vini greci più apprezzati erano quelli di Creta e di Cipro.

I migliori vini italiani, secondo il parere dell’"Encyclopédie", erano: Il Lachrima Christi rosso prodotto ai piedi dei Vesuvio, dal gradevole profumo ed un po’ dolce; l’Albano, rosso e bianco, specialmente indicato per i malati; i vini di Montefiascone, di Vicenza, e di Rezia.

Tra i vini spagnoli, sciropposi e dolci a causa del modo particolare di vinificazione, sono elencati quello delle Canarie, il Malvasia, il vino di Malaga e di Alicante. Tra i vini della Germania, in genere non molto apprezzati, gli unici considerati accettabili sono quelli del Reno e della Mosella.

Per quanto riguarda l’età, il vino si considerava nuovo se non aveva ancora superato i due o tre mesi dal momento della pigiatura. Si trattava quindi di un vino ancora in fermentazione. Quello considerato vecchio era il vino che aveva superato l’anno.

I vini ritenuti migliori erano quelli di età media, vale a dire quelli che, avendo più di quattro mesi, non arrivavano ancora all’anno. Questi vini, dichiara l’"Encyclopédie", sono buoni in quanto il loro componenti hanno avuto abbastanza tempo per miscelarsi intimamente gli uni con gli altri, ma non ne hanno avuto abbastanza per dissociarsi. È proprio in questo periodo che si presenta l’acme della maturità.

Questo è in brevi note il quadro che appare all’inizio del XVIII secolo sull’enologia.

È ancora un mondo del vino che non ha subito cambiamenti sostanziali a partire dal Medioevo. Nel corso del secolo della ragione, però, inizieranno i grandi rivolgimenti che porteranno alla nascita ed allo sviluppo di una viticoltura e di una enologia completamente diverse.

Nel 1709 vi fu in Francia un terribile inverno. Durante il mese di gennaio, per dieci giorni di seguito, la temperatura rimase sui -20°C a Parigi, ed a Dunkerque il mare gelò per 500 metri. Dopo un periodo quasi primaverile in febbraio (15°C a Parigi) una nuova terribile ondata di freddo fece gelare il vino nelle botti all’interno delle cantine e gelò le viti e le piante da frutto. L’ondata di gelo provocò in Francia una grave penuria di vino ed un successivo innalzamento dei prezzi che ebbe importanti influenze sui mercati e sulla società.

Tuttavia in quegli anni si cominciò a pensare che il freddo per il vino non avesse solo valenze negative. Iniziarono infatti gli esperimenti, ideati da Georg Stahl (1660-1734), per applicare il freddo al miglioramento della qualità dei vini. È da notare che Stahl, medico e chimico tedesco, fu l’ideatore della teoria del flogisto, teoria avversata e distrutta poi da Lavoisier. Se le conclusioni di Stahl erano completamente errate, le esperienze fatte non andarono perdute per la chimica, perché i fatti sperimentali restarono acquisiti e servirono come base per le nuove teorie.

Leggendo nell’"Encyclopédie" la composizione dei vini, si trova ancora una concezione arcaica, secondo la quale il vino è composto da sale, zolfo, spirito infiammabile, acqua e terra.

Le diverse qualità dei vini, i diversi sapori e le diverse proprietà vengono attribuite solo alle diverse proporzioni della miscela di questi elementi.

Idee arcaiche, senza legame con la realtà, che erano mantenute in vita dalla mancanza di una vera scienza sperimentale. In pochi anni l’opera di una delle figure più illustri del mondo scientifico, Laurent Lavoisier, distrugge le antiche concezioni, ed al loro posto getta le fondamenta di una nuova scienza.

La nascita dell’enologia moderna

Il 1700 è stato il secolo più importante per la chimica poiché le ha conferito un netto carattere di scienza sperimentale. A quest’opera ha contribuito in modo fondamentale Lavoisier, tanto da far dire da Grimaux che "Tutta la scienza moderna non è che lo sviluppo dell’opera di Lavoisier".

Per quanto riguarda lo studio razionale della fermentazione alcolica, prima di Lavoisier era predominante l’idea che l’alcool fosse costituito prevalentemente da olio e acqua.

Fu Lavoisier a dimostrare che i componenti dell’etanolo sono carbonio, idrogeno ed ossigeno.

Al seguito di Lavoisier, Jean A. C. Chaptal si interessò alle applicazioni pratiche della chimica anche al miglioramento dell’enologia. Fu infatti Chaptal a mettere in equazione il fenomeno della fermentazione, calcolando che per ottenere un grado alcolico nel vino occorrono circa 17 grammi di zucchero.

Il vino nell’800

Con l’800 per la letteratura si apre una nuova finestra, un nuovo mondo tutto da analizzare, un mondo dove lo scrittore ha il compito di indagare le profondità dell’animo umano che spesso si affida ai poteri dell’alcool, buona traccia da seguire per gettare un po’ di luce sull’uso che si fa del vino dell’inconscio.

In molte culture le bevande fermentate sono simbolo della conoscenza ribollente che permette allo spirito di superare i suoi limiti abituali, per giungere con l’intuizione o il sogno alla conoscenza della natura, al segreto delle cose. Questa è una profonda motivazione che spiega il consumo rituale di bevande fermentate come la birra di miglio, di manioca, di banane, di mais, in Africa, in America, in Cina e, in generale, in tutte le società evolute.

Con l’’800, si ha, appunto, una nuova visione del vino, completamente differente da quella analizzata finora.

Dalla sua nascita fino alla fine del settecento, il vino aveva simboleggiato, soprattutto nell’epoca dei grandi imperi, oltre al classico dono offerto alle divinità, un efficace mezzo per elevarsi nella società. Simbolo di prestigio socio-economico, conferiva ifatti, notevole dignità a chi nelle proprie cantine ne conservava anche piccole quantità. Ma come ovvio, il vino non donava i suoi poteri soltanto a coloro che ne mostravano il suo corpo attraverso bottiglie sempre lustre. A chi ne ammirava soprattutto le sue caratteristiche "magiche", il vino offriva l’opportunità di cogliere le sue proprietà estremamente loquaci: basti pensare ai grandi simposi greci, ai grandi banchetti romani dove grazie a queste proprietà della nostra bevanda venivano sostenuti discorsi politici, filosofici, religiosi e costituiti essenziali piani bellici.

Con l’avvento del nuovo secolo, quest’immagine del vino viene completamente stravolta, esso si trasforma in un mezzo per sviluppare le proprie capacità comunicative, in un’efficace pozione per chiudersi in se stessi, per evitare il mondo esterno, ormai corrotto da un inarrestabile progresso, ma soprattutto per consentire ai propri sensi di elevarsi, superando ogni frequenza dei pensieri mondani, arrivando a sfruttare tutte le qualità di quell’inconscio, sul proprio in questo periodo cominciavano a svilupparsi i primi studi.

Importanti testimonianze dell’applicazione del vino per questi fini, è possibile trovarle tra le opere di quello che è forse da considerare il più grande dei "poeti maledetti":

Charles Baudelaire

Noto soprattutto per l’uso di droghe e alcool, Baudelaire è stato forse l’unico grande personaggio della letteratura che sia riuscito a vedere nel vino, un soggetto per un’opera. Del vino parlerà in diverse poesie, raccolte nell’omonima sezione de Le fleurs du mal (1868) e soprattutto nel suo trattato sui Paradis artificiels (1860), dove nella prima parte dell’opera, pubblicata con il titolo Le haschisch, Baudelaire dedica al vino un suo particolare inno, come introduzione a quel mondo, le cui porte vengono spalancate definitivamente grazie a quando detto sulle droghe e soprattutto grazie alla seconda parte dell’opera, pubblicata postuma con il titolo Un mangeur d’opium.

Ne I fiori del male, non a caso la sezione dedicata al vino segue immediatamente quella dedicata ai Quadri parigini, dove Parigi viene ritratta sotto un’atmosfera cupa e degradata, dove l’onnipresente nebbia estranea il poeta da qualsiasi legame con gli altri cittadini, lo riempie di solitudine e lo costringe ad uscirne con l’ausilio degli unici mezzi possibili: vino e droghe.

Ne I paradisi artificiali, del vino si parla molto più liberamente, come polemica contro tutti coloro che vedono il vino semplicemente come "un liquore che si fa con il frutto della vite", come scriveva Brillat-Savarin ne la Physiologie du Goût del 1825.

Secondo Baudelaire il vino non è semplicemente una bevanda, possiede un’anima, in grado di adattarsi alle più svariate esigenze.

Baudelaire vedeva nel vino, una della scoperte essenziali per l’umanità, capace, di accrescere i sensi e di sviluppare l’intelletto. A proposito diceva, che se il vino scomparisse dalla produzione degli uomini, nella salute e nell’intelletto del pianeta verrebbe a crearsi un vuoto, un’assenza, un difetto assai più orribile di tutti gli eccessi e le deviazioni di cui il vino viene ritenuto responsabile.

Come si è potuto capire dalla visione del vino secondo Baudelaire, dall’Ottocento in avanti, la bevanda cessa di essere analizzata in se stessa, ma il punto di vista predominante viene ad essere il rapporto tra l’alcool e la persona, gli effetti sulla psiche, i pregi e i difetti dell’utilizzo dell’alcool come fuga da una società ormai in piena decadenza dal punto di vista morale.

La letteratura italiana dell’Ottocento non vede in contrapposizione autori che si siano cimentati direttamente nell’analisi dell’alcool, ma sarebbe comunque un oltraggio non soffermarci sulla visione di uno dei più illustri esponenti della letteratura italiana di tutti i tempi, quale Giacomo Leopardi.

Giacomo Leopardi: tra noia e piacere

Non è possibile cercare di interpretare la visione di Leopardi per il vino come si è appena fatto per Baudelaire, tuttavia da poche parole è possibile cogliere un vasto pensiero che gira intorno alla nostra bevanda e in generale intorno a tutti gli alcolici.

In un passo tratto dal "Dialogo di Torquato Tasso e del suo genio familiare", uno dei tanti brani che compongono le "Operette morali", una delle maggiori opere composte dall’autore di Recanati, scritta in gran parte tra il gennaio e il novembre del 1824, non è difficile risalire a due e più soggetti comuni in molte opere di Leopardi: noia e piacere, ma anche il rapporto vita-vivere, la visione del futuro e il dolore.

Alla domanda di Tasso: <<Acciò da ora innanzi io ti possa chiamare o trovare quando mi bisogni, dimmi dove sei solito di abitare>>, il suo genio familiare gli risponde esplicitamente: <<Ancora non l’hai conosciuto? In qualche liquore generoso>>.

La poetica di Leopardi viene tradizionalmente suddivisa in tre momenti: del "pessimismo storico", concentrato nelle prime canzoni e nei primi idilli, dove è più forte il contrasto natura-ragione, la prima intesa come essenza positiva del vivere, la seconda come limitazione delle illusioni; la seconda fase quella del "pessimismo cosmico", dove Leopardi critica la natura, quella "madre-matrigna" dei grandi idilli, ed infine l’ultima fase, quella dei canti dei periodi fiorentino e napoletano, dove è forte il rifiuto delle illusioni, dove la critica verso ogni progressismo segna l’abbandono all’"arido vero".

Nel Dialogo di Torquato Tasso e del suo genio familiare, troviamo il Tasso che assieme al misterioso "genio", cerca di trovare una spiegazione alla sua situazione, un significato ai cinque concetti appena elencati. Ricordiamo che Tasso è rinchiuso in un ospedale, alternando momenti di lucidità ad altri di malattia mentale. Qui cerca in tutti i modi di sfuggire alla noia (la situazione di prigionia) e al dolore (la lontananza dalla donna amata), allontanandosi dalla realtà, ed essendo il piacere uno stato mentale provocato dal ricordo o dall’illusione, si abbandona all’alcool.

Non leggendo integralmente l’operetta, ed è questo l’intento di Leopardi, è impossibile capire la situazione del protagonista, se si trova in salute o in malattia, colloquia con un fantasma, il quale è però in grado di rispondere alle sue domande, quesiti per una vita reale. Troviamo confuse realtà e illusione, che solo con l’ultimo verso possiamo distinguere.

Questo fantasma, il Tasso lo ritrova in un bicchiere di <<liquore generoso>>, simbolo dell’illusione, della fuga dalla realtà che comporta lo stato di ubriachezza; con l’alcool riesce a scalzare la noia tra gli <<intervalli della vita>>, a provare piacere ricordando o sognando, a sfuggire al dolore provocato dalla lontananza dalla donna amata, creando nella sua mente una vita illusoria, celata dietro al suo "genio" e alla sua malattia.

Il vino nel ‘900

Il Novecento vede stravolgere ogni punto di vista in ogni ambito, da quello letterario a quello scientifico, grazie alla scoperta di nuove teorie scientifiche quali la teoria dei quanti di Planck, la relatività di Einstein e la psicanalisi di Freud, mettendo in dubbio il precedente principio di causa ed effetto di Heisenberg.

Più direttamente, la nascita della psicanalisi ha segnato una notevole svolta in campo letterario. Soprattutto dopo la pubblicazione de "L’interpretazione dei sogni" (1899) e "Psicopatologia della vita quotidiana" (1901), diversi scrittori, come Svevo, Joyce, Kafka, Pirandello e altri, si interessano alla lettura delle opere di Freud. Da qui possiamo affermare che nasce la letteratura di inizio secolo: con la psicanalisi è stato possibile arrivare dove nessuno prima d’ora era riuscito ad arrivare, scoprire luoghi sepolti nell’inconscio umano, è stato sfatato il mito dell’onnipotenza umana, affermando dell’esistenza in noi di più io, più caratteri che costituiscono per l’uomo il principale ostacolo per poter pianificare le nostre azioni e i nostri pensieri.

Da qui la nascita del nuovo io letterario, un protagonista malato, incapace di adattarsi alla vita e al mondo in cui si trova, quello che Svevo definirà "l’inetto", afflitto da quella malattia definita dallo stesso "inettitudine", da Kafka come "labirinto", da Montale come "male di vivere".

L’inconscio, come sottofondo di molte opere letterarie d’inizio secolo ci riporta alla mente le parole e Baudelaire. Egli sapeva che l’oppio (allo stesso modo anche Leopardi) come il vino, è una chiave per aprire le porte del inconscio umano, con esse era possibile arrivare a scoprire in noi nuovi molteplici esseri, era possibile elevare i propri sensi, riportare alla luce pensieri sepolti o mal definiti nella nostra mente.

Questa sorta di elevazione dei nostri pensieri rende possibile una sorta di autoanalisi, protagonista nelle opere di uno dei più importanti autori italiani del Novecento:

Italo Svevo

È possibile, soffermandoci sulla principale opera di Svevo, La coscienza di Zeno, chiarire innanzi tutto i concetti precedentemente esposti e dare, o meglio completare, la visione della nostra bevanda e dei suoi effetti sull’inconscio.

Come già accennato, Svevo fu un attento lettore di Freud, la cui teoria della psicanalisi domina in primo piano nel romanzo. Troviamo nel capitolo La moglie e l’amante, una riflessione importante, che riguarda direttamente l’effetto del vino nei discorsi di una persona, gli effetti sulla capacità di ragionare, sulla nascita in noi di varie reazione, riconducibili solamente all’altro io che è in noi.

In questo capitolo il protagonista Zeno Cosini, si trova ad una cena in famiglia, preludio delle nozze della donna amata in passato e mai dimenticata totalmente.

Egli coglie al volo l’opportunità di abusare del vino per poter momentaneamente guarire dalla sua malattia, potendo portare alla luce un nuovo personaggio, un altro io capace di esprimere volontà e sentimenti altrimenti represse: <<Per l’effetto del vino, quella parola offensiva accompagnata da una risata generale, mi cacciò nell’animo un desiderio veramente irragionevole di vendetta >>.

Davanti a tutti i componenti della famiglia, il vino assume proprio l’identità di uno strumento capace di vere e proprie metamorfosi, quasi un filtro da "magia nera": <<Proprio, vorresti uccidermi? […] Hai il vino cattivo, tu! […] Egli non aveva fatto un solo gesto per approfittare del vino che gli avevo offerto>>; come se il vino (da sempre metafora del sangue, in questo caso quello del protagonista) offerto da Zeno, contenesse tutta l’arroganza che stava ora dimostrando davanti a tutti i familiari.

Strumento dagli effetti ben conosciuti dal protagonista, qui si riflette in Zeno la conoscenza di Svevo della dimensione psichica, lui conosce perfettamente le reazioni del vino sul cervello, le utilizza per combattere le proprie incapacità più visibili esteriormente, in lui i pensieri rimangono quelli di sempre, i suoi ragionamenti rimangono invariati, ma utilizza l’alcool per riuscire ad esprimerli senza paure, per dar sfogo a chi in lui è sempre rimasto sepolto: <<Mi sentii veramente avvilito e vinto. Mi sarei quasi gettato ai piedi di mio suocero per chiedergli perdono. Ma anche quello mi parve un suggerimento del vino e lo respinsi>>, <<Non tutti gli ubriachi sono preda immediata di tutti i suggerimenti del vino. Quando ho bevuto troppo, io analizzo i miei conati come quando sono sereno e probabilmente con lo stesso risultato>>.

Ma l’effetto del vino rimane comunque una dimensione temporanea, non è una medicina, la malattia che affligge Zeno, la sua incapacità di vivere, non può essere curata cercando di seppellire la sua vera persona e portandone in vita un'altra: <<Mi affannò un poco il mio dolore al fianco, probabilmente perché, finché era durato l’effetto del vino, non lo avevo sentito affatto e subito ne avevo perduto l’abitudine>>.

La langa

Andando avanti di qualche decina di anni, incontriamo nella storia della letteratura, come nel cinema, un grande capitolo, quella corrente che prese subito il nome di "Neorealismo", legata direttamente alla Resistenza, raggruppante un’insieme di opere che si dedicano ad una sorta di analisi sociale, dove viene meno la perfezione dello stile per dar posto a contenuti più concreti, viene fotografata la situazione reale di una società, i bisogni e i sogni di un popolo.

Il filone neorealista si suddivise in due campi tematici ben distinti: uno riguardante il secondo dopoguerra e la Resistenza, ed un secondo rivolto a sottolineare le problematiche del Sud Italia.

Nel primo filone possiamo trovare molte tracce legate alla presenza del vino nella letteratura. Come illustri esponenti del Neorealismo possiamo nominare due grandi nomi quali quelli di Pavese e Fenoglio, originari delle Langhe, terra conosciuta a livello mondiale per la sua vocazionalità vitivinicola.

Proprio grazie ad alcune opere di questi autori, e soprattutto grazie all’attività letteraria di Pavese possiamo circoscrivere nella letteratura contemporanea del nostro paese, un pensiero riguardante il vino, unico nel suo genere. Ricordiamo comunque che la letteratura di Fenoglio ha comunque contribuito notevolmente in merito, visto che egli stesso lavorava in un’azienda vinicola, fornendo inoltre anche alcune opere di letteratura tecnica.

Come già accennato il pensiero di Pavese sul vino è unico, in quanto per la prima volta, l’anima inebriante di questa bevanda non si riduce a vivere in un bicchiere, ma ora la troviamo a vagare alla fonte, per le vigne delle Langhe; prima di essere vendemmiata, l’uva lascia già traspirare il suo spirito influenzando la vita di questi paesi, che sul potere dell’alcool traggono la principale fonte di reddito, essendo compresi in una zona, economicamente basata principalmente sulla produzione di vino.

I paesaggi che offrono le Langhe sono unici, per uno straniero forse monotoni, piatti: immense file di colline ricoperte di vigneti, dove i versanti più a Sud danno l’impressione di essere bruciati dal sole, quando le vigne non sono ancora coperte del verde fogliame, che risveglia in poco tempo la vita ed il paesaggio di questa zona.

Ma questa terra ha tanto da raccontare, ha visto passare attraverso i filari di viti una grande fetta della storia d’Italia.

Qui la resistenza partigiana nel secondo dopoguerra, ha visto un’intensa attività, dov’è stata segnata la sorte di centinaia di persone.

Ne La luna e i falò (1950), Pavese descrive con estrema chiarezza la sua terra. La descrive però con gli occhi di un orfano, di una persona che dopo essere stata tanto tempo lontana (in America), fa ritorno nella terra dov’è cresciuto.

Intanto la guerra era finita, i morti erano già stati sepolti, luoghi e persone erano cambiati. Al suo ritorno della gente con la quale aveva vissuto o conosciuto era rimasto solo il suo amico d’infanzia Nuto, che aveva preferito rimanere nella sua terra, senza scoprire com’era il mondo dietro quelle colline.

Di cosa era accaduto nel mentre, Nuto era testimone e "Anguilla", il protagonista, ormai cresciuto e maturo ne approfitta per poter riscoprire, pur con dolore, cosa ha da sempre significato per lui questa terra.

Le vigne hanno visto passare gli anni, ed il vino invecchiato, ora in bottiglia ed in qualche cantina ne è lo scrigno, come una lampada magica che strofinata (in questo caso, "stappata"), lascia uscire l’essenza di queste colline.

Infatti anche con Nuto, cercando di apprendere tutto ciò che non aveva vissuto in quegli anni, il vino e le vigne fanno sempre da sfondo: <<Questi discorsi li facevamo sullo stradone, o alla finestra bevendo un bicchiere, e sotto avevamo la piana del Belbo,…>>.

Le vigne nella sua infanzia erano il mondo, nelle vigne si giocava, si faceva festa, ma si lavorava anche duramente, ci si guadagnava da vivere, perché erano le vigne che davano la vita e ancora al suo ritorno, anche se tanta gente aveva seguito poi la sua strada, la situazione non era cambiata per molte famiglie; per loro la vita era ancora nelle mani dei filari di vite, da curare come oggetti preziosi: <<Una vigna ben lavorata è come un fisico sano,…>>.

Qui per la prima volta, il vino non è uno strumento per fuggire dalla realtà, ma la vera e propria realtà di questa terra.

C’è bisogno comunque di dire che per colpa del vigne e del vino, poca gente ha potuto uscire dalla propria terra, scoprire cosa si celava al di là di quelle colline.

Per i giovani che avevano ancora il tempo e la voglia di fantasticare, dietro quelle colline c’era l’infinito, il mare che portava in America. Un po’ come per Leopardi, la siepe dell’Ermo Colle, qui le colline nascondo la via di fuga da un mondo che ha imprigionato tanta gente senza dargli la possibilità di uscirne. Sempre in Leopardi, il Tasso fuggiva dalla sua prigione attraverso l’alcool, ma in questa terra come sarebbe possibile? Questa via di fuga dalla fatica e dal dolore è costata altrettanta fatica e dolore.

BACCO E LETTERATURA

"Mescete, o amici, il vino. Il vin fremente / scuota da i molli nervi ogni torpor, / purghi le nubi de l'afflitta mente, / affoghi il tedio accidioso in cor".
Così cantava Giosuè Carducci, brindando alla salute di un Satana vitale e progressista, e inneggiando a quella salutare e schietta bevanda che fa decisamente buon sangue, che ormai ha assunto un posto d'onore sulle tavole della buona borghesia, e non più solo su quelle aristocratiche, come lamentava l'abate Parini, il quale per le sue origini prediligeva il vino ugualitario al più raffinato e blasonato caffè.

Un dualismo che diventa anche contrapposizione fisica di luoghi, di comportamenti, tra il caffè degli illuminati fratelli Verri e le taverne popolari. Queste ultime in particolare celebrate da Giuseppe Gioacchino Belli e dalla sua "musa plebea".
Per il poeta romano il vino è forza, salute, vita, compagno di bisbocce e di invettive, e anche animatore di risse feroci.
Nella sua Roma popolare il vino è consolazione di ogni dispiacere e il romano sarebbe disposto a concedere qualsiasi cosa al papa-re pur di non rinunciare al vino: "Noi mànnece a scannatte er giacubbino, / spènnece ar prezzo che te va più a core, / ma guai pe cristo a chi ce tocca er vino".

Anche nelle opere di Giovanni Verga il vino assume un posto particolare, insieme al pane. Anche simbolico. Non solo per i derelitti dei Malavoglia. Pensiamo a Cavalleria rusticana. Turiddu ha una colpa da espiare: un'ultima cena, un bicchiere di vino rifiutato, il bacio del tradimento. Una "passione" laica dove vino e sangue si mischiano e diventano una sorta di mancata "eucarestia".

Per gli Scapigliati, invece, il vino diventa trasgressione e assume i colori dell'autodistruzione in compagnia del verde assenzio, riecheggiando solo alla lontana le esaltazioni di Baudelaire e di Rimbaud.

E potrebbe continuare a lungo questo viaggio sulla presenza di Bacco nella letteratura italiana, che ci riserverebbe molte sorprese. Come quelle che regala un libro appena pubblicato dall'editore Garzanti e scritto da un attento filologo e critico come Pietro Gibellini, autore de Il calamaio di Dioniso. Il vino nella letteratura italiana moderna (pp. 184, lire 29.000).
Un viaggio che comincia da Parini e finisce con D'Annunzio, passando tra le opere di Goldoni e di Carlo Porta, di Pascoli e Leopardi, Manzoni e Verga, Belli e Porta.

Non si parla tanto di Barbera e di Chianti, di Malvasia e di Merlot, di Tocai e di Orvieto, né dell'ispirazione che gli scrittori hanno tratto bevendo. Si parla di vino, piuttosto plebeo, spesso di pessima qualità, e della sua presenza reale o metaforica, nell'opera di questi scrittori dall'Illuminismo all'Ottocento.
Una presenza, quella del vino, "figlio del sole", come lo definì Baudelaire, che schiude inedite prospettive di lettura per questi autori, e intorno al quale ruotano situazioni e comportamenti, storie. Il nettare divino, il liquore satanico, capace di consolare i dolori più atroci, scatena anche le passioni più infuocate; aiuta a fuggire dal mondo e a godere la vita.

E mentre Pascoli, la cui cantina era ben fornita e assiduamente visitata dal poeta, quasi rimuove inconsciamente il vino dai suoi versi, quasi a nascondere un "vizio vergognoso", D'Annunzio, astemio, trasforma Bacco in Venere. I suoi personaggi bevono con gli occhi, l'ebbrezza è sensualità: "Egli vide Elena nell'atto di bagnare le labbra in un vino biondo come un miele liquido. Scelse tra i bicchieri quello ove il servo aveva versato un egual vino; e bevve con Elena".

E scopriamo anche che Leopardi, il moralista, non era affatto astemio: apprezzava il vino delle Marche. E nel suo Zibaldone sostiene più volte che il vino acuisce la lucidità della mente, libera l'immaginazione. Anche quando produce ubriachezza: ha il pregio di bandire dall'uomo la sua condizione di infelicità. Insomma il "divino spirito" dell'oblio si rinnova tra ardori e passioni anche nelle pagine letterarie, liberando altri aromi e altri piaceri in nome delle "candide gioie di Bacco".

Il vino nella storia e nella simbologia del mondo cristiano e della chiesa cattolica

Il vino è ed è stato un elemento simbolicamente molto forte per la religione cristiana e poi per quella cattolica. Protagonista di svariate dispute teologiche nei secoli passati, ancora oggi è elemento di discussione nell'inevitabile processo di storicizzazione che tende a far evolvere gli elementi eucaristici. Ma anche la Chiesa è stata importante per il vino e la viticoltura, poiché nei secoli bui dell' Alto Medioevo furono i monaci ad occuparsi e a tramandare la coltivazione della vite che altrimenti sarebbe andata perduta.
Il ruolo simbolico del vino nella religione cattolica trova il suo apice come fondamentale elemento della celebrazione eucaristica in cui sangue e vino secondo una simbologia cara al cristianesimo, si intrecciano in modo inestricabile. Ma vite e vino si ritrovano in molteplici occasioni citati nella Bibbia divenendo simbolo e metafora di vita come anche elemento negativo.

VITE E VINO NELLA BIBBIA
L'importanza della vite e del vino appaiono già nella genesi quando, il testo sacro per i cristiani, narra di Noè che, dopo il diluvio, diventa coltivatore della terra e il primo uomo a piantare la vite, a bere i suoi succhi inebrianti e, inesperto com'è, a ubriacarsi. Riletto sullo sfondo dell'importanza che la coltivazione della vite e il commercio del vino avevano nell'Israele antico, questo racconto appare come il tipico mito di origine di una coltivazione e uso di una bevanda, che avevano un ruolo economicamente molto importante. Si spiega quindi la ricchezza delle valorizzazioni simboliche attribuite a tale pianta e a tale bevanda anche nella letteratura successiva.
La vite appare nei Salmi e in numerosi libri della Bibbia (Isaia, Numeri, I Re, etc…) come un bene particolarmente prezioso, simbolo di prosperità e amore di Dio che unisce cielo e terra, Israele stesso è identificato come la vigna di dio, immagine che influenzerà la tradizione successiva e i Vangeli. Qui appunto, troviamo le parabole relative alla coltivazione della vigna e alla remunerazione degli operai (Matteo 20, 1-16; Marco 12, 1-12) e la parabola dei vignaioli omicidi (Matteo 21, 33-39) dove la vigna diviene un simbolo negativo.
Anche il vino viene più volte citato nei libri della Bibbia e ha immagine positiva poiché Dio dà il vino che allieta il cuore dell'uomo, è simbolo della gioia di vivere e quando il Signore offre agli assetati acqua e vino concede loro, insieme con la vita, anche la gioia. Il vino è immagine di doni spirituali ma questo componente rituale trova anche ampie possibilità di confondersi con pratiche idolatriche e pagane e ciò spiega il fatto che certi gruppi, come i Recabiti, ne rifiutarono l'uso. Ad una valutazione nei confronti dell'uso controllato del vino che nel complesso è positiva, si contrappone una condanna senz'appello: quella contro l'eccesso. La follia che coglie l'ebbro, è un tema su cui la letteratura sapienziale ritorna continuamente. Abbiamo citato Noè, ma l'ebbrezza è il tipico simbolo negativo che contraddistingue i capi di Israele che bevono alla coppa dell'ira divina, ebbri del proprio stesso sangue.
Complessivamente però nei Vangeli il giudizio che si dà al vino è positivo: Gesù stesso non disdegna di berlo e il primo miracolo che compie è la trasformazione dell'acqua in vino alle nozze di Cana (Giovanni 2, 3-10).

L'EUCARISTIA E LE PRIME COMUNITÀ CRISTIANE
Il culmine del simbolismo del vino, è raggiunto dalle parole di Cristo nell'ultima cena, istituzione della mensa eucaristica dove il vino evoca il sangue versato a sigillo della nuova alleanza e la gioia dell'imminente banchetto salvifico.
L'evolversi dell'eucaristia cristiana è stato un processo graduale. All'inizio si trattava semplicemente di un pasto in comune, secondo una tradizione che era certamente ebraica, ma probabilmente anche romana. La prima testimonianza della pratica dei cristiani di ricordare con una cerimonia l'ultima cena di Cristo, la troviamo nella prima lettera di San Paolo ai Corinti: "Perché io ho ricevuto dal Signore quello che ho insegnato a voi, che il Signore Gesù, nella notte in cui fu tradito, prese il pane e, dopo aver reso grazie, lo spezzò e disse: 'Prendete e mangiate, questo è il mio corpo, che sarà dato a morte per voi: fate questo in memoria di me.' Parimenti dopo aver cenato, prese il calice dicendo: 'Questo calice è il nuovo testamento nel mio sangue: fate questo, tutte le volte che ne berrete, in memoria di me.'"
Non è mai stato facile capire il simbolismo del sacrificio nella religione cristiana poiché esso si è sviluppato secondo il filone della tradizione greca anziché di quella ebraica, infatti il Nuovo Testamento fu scritto in greco e non in ebraico. Nella Grecia pagana, bruciare carne su un altare per nutrire con il fumo gli dei, e poi mangiarla, era considerato un atto sacro e potrebbe definirsi come un pasto in comune con un dio. Theos, la parola greca che vuol dire dio, deriva dalla parola che significa fumo e la stessa radice rimane tuttora nella parola "entusiasmo" che significa "pieno di dio". Un altro atto sacro, che risale a migliaia di anni fa, era quello di bere sangue da solo o misto a vino, oppure vino come simbolo di sangue ed era la parola greca eucharistia che definiva queste cerimonie quando erano celebrate come atti formali di ringraziamento. Così i cristiani per il loro atto di culto usavano una parola che collegava la loro celebrazione più sacra direttamente con i sacrifici pagani. Appena l'insegnamento di Cristo venne a contatto con il pensiero greco, assunse un significato che gli Ebrei non potevano accattare. Il sacrificio di Cristo era troppo vicino, nel simbolismo che la Chiesa gli attribuiva, ai riti pagani. Il legame più evidente era quello con i seguaci del dio del vino che celebravano riti orfici.
La pratica cristiana dell'eucaristia presso le prime comunità di cristiani perseguitati, prevedeva che i diaconi mescolassero al vino l'acqua. L'immagine di queste prime celebrazioni del rito è conservata nelle pitture murali delle catacombe di Roma dove i cristiani si incontravano segretamente. L'arte funeraria cristiana propone sulle tombe i motivi della vigna che allude alla pienezza dei beni paradisiaci, della vite che designa il refrigerio celeste che attende il beato e del vino che appare come il simbolo di immortalità. Quando nel IV secolo Costantino si convertì al cristianesimo sul letto di morte, l'eucaristia era già quella liturgia che è rimasta intatta fino ai giorni nostri.
Quanto al tipo di vino da utilizzare, nei secoli le dispute non sono mancate. Non si sa che vino utilizzò Gesù Cristo nell'ultima cena, poiché nei Vangeli si parla solo di "frutto della vite", quindi non solo il tipo ma anche il colore non era definito: quello rosso, ovviamente, per la somiglianza con il sangue, dominò comunque per tutto il Medioevo; il passaggio poi al vino bianco, avvenuto in seguito, affonda le sue ragioni nella garanzia contro le contraffazioni del prodotto. L'adattamento culturale vide anche il diffondersi dell'usanza di bere vino misto ad acqua, pratica giustificata dal Concilio di Trento sia per ragioni simboliche tradizionali sia perché in tal modo si riteneva di adeguarsi al comportamento che Gesú Cristo tenne nell'ultima cena (dal suo fianco infatti, quando fu crocifisso, uscì acqua mista a sangue).
Ancora oggi si discute se sia possibile operare un processo di contestualizzazione storica grazie al quale divenga possibile sostituire gli elementi eucaristici con simboli liturgici più moderni, con lo svantaggio di mettere in discussione l'uso, consolidatosi nei secoli, del pane e del vino nella liturgia della rievocazione dell'ultima cena.
Concludiamo con una citazione di San Tommaso d'Aquino sul significato del vino nella Messa: "Il sacramento dell'eucaristia può essere celebrato soltanto con il vino della vite, perché questo è il volere di Gesù Cristo, che scelse il vino quando ordinò questo sacramento […] e anche perché il vino fatto con l'uva è in un certo senso l'immagine degli effetti del sacramento: con questo voglio dire la gioia dello spirito, perché sta scritto che il vino rende lieto il cuore dell'uomo."

BIBLIOGRAFIA
O. Longo, P. Scarpi, DELLA VITE E DEL VINO, Claudio Gallone Editore, 1999
H. Johnson, IL VINO. STORIA TRADIZIONI CULTURA, Franco Muzzio Editore, 1991

 

Fonte: http://www.lacasadinando.org/blog/wp-content/uploads/2010/12/IL-VINO-NELLA-LETTERATURA.doc

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Il vino nella letteratura

 

 

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