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L’infinito
Sempre caro mi fu quest'ermo colle,
E questa siepe, che da tanta parte
Dell'ultimo orizzonte il guardo esclude.
Ma sedendo e mirando, interminati
Spazi di là da quella, e sovrumani
Silenzi, e profondissima quiete
Io nel pensier mi fingo; ove per poco
Il cor non si spaura. E come il vento
Odo stormir tra queste piante, io quello
Infinito silenzio a questa voce
Vo comparando: e mi sovvien l'eterno,
E le morte stagioni, e la presente
E viva, e il suon di lei. Così tra questa
Immensità s'annega il pensier mio:
E il naufragar m'è dolce in questo mare.
1) Formalmente l’Infinito è un idillio (così lo definisce lo stesso Leopardi), ma nella sostanza è ben altro. Perché? 2) La lirica può essere divisa in due parti: la prima dal v. 1 al v. 8, la seconda dal v. 8 al v. 15. Sintetizzane il contenuto. 3) Individua le sensazioni registrate dall’io lirico nei due momenti.
1) La poesia è frutto di un equivoco: Leopardi intendeva riprodurre un idillio antico e in effetti nell’Infinito riscontriamo una situazione tipica dell’idillio antico (vale a dire un quadro campestre e un personaggio, in questo caso l’io lirico, solo di fronte alla natura); tuttavia ciò che il poeta recanatese rappresenta non è qualcosa di esterno, ma di interno, per cui l’idillio diventa un’avventura interiore; abbiamo cioè il racconto di un’esperienza interiore, intellettuale dell’io, che finisce con un annullamento dell’io stesso. Il poeta parte da una situazione familiare – ammirare dalla cima di un colle l’orizzonte (situazione tipica dell’idillio) – per riflettere sulla predisposizione umana a provare piacere attraverso il ricordo (sempre caro mi fu = ricordo) e l’immaginazione (silenzi e profondissima quiete io nel pensier mi fingo), in particolare di realtà indefinite e vaghe.
2) «La lirica si articola in due momenti corrispondenti a due distinte situazioni di partenza» (Baldi, p. 539 ad loc.): la prima è introdotta da una situazione affettiva individuale (sempre caro mi fu) legata a immagini consuete (quest’ermo colle / questa siepe) e dalla contemplazione della siepe che impedisce di vedere l’orizzonte. L’ostacolo spaziale rappresentato dalla siepe che impedisce allo sguardo di spingersi sino all’estremo orizzonte, fa scattare l’immaginazione di un infinito spaziale (ma sedendo e mirando). «L’impedimento della vista, che esclude il reale, fa subentrare il fantastico»: invece della vista, limitata fisicamente dall’ostacolo della siepe, «lavora l’immaginazione e il fantastico sottentra al reale». L’immaginazione (nel pensier) «si costruisce così (mi fingo) l’idea di un infinito spaziale, cioè di spazi senza limiti, immersi in sovrumani silenzi e profondissima quiete». Di fronte alla smisuratezza degli spazi, frutto dell’immaginazione, il poeta prova sgomento (per poco il cor non si spaura), perché avverte dentro di sé la sproporzione tra l’uomo e la natura, tra l’individuo e la realtà. Nella seconda parte allo sguardo si sostituisce l’udito, e l’immaginazione «prende l’avvio da una sensazione uditiva, lo stormire del vento tra le piante»: l’ingresso di questo secondo oggetto (il vento, dopo il primo rappresentato dalla siepe), suggerisce ora per completamento, l’analogia vento-eternità grazie all’elemento comune del movimento: così come il vento è fatto di movimento, allo stesso modo anche il tempo è movimento incessante delle epoche, delle stagioni.
3) Nel primo momento, dinanzi «alle immagini interiori dell’infinito (spaziale) l’io lirico prova un senso di sgomento», perché avverte la sproporzione tra il dato materiale e sensoriale (la limitatezza della visione ostacolata dalla siepe) e la forza dell’immaginazione, che proprio grazie alla presenza del limite, è in grado di costruire spazi infiniti; nel secondo momento, invece, l’io «si annega», cioè sprofonda nell’ «immensità dell’infinito immaginato, spaziale e temporale, sino a perdere la sua identità; e questa sensazione di naufragio dell’io è piacevole: […] tra lo spaurarsi del cuore e la dolcezza del naufragio non vi è però contrasto, come potrebbe apparire a prima vista: essi infatti non sono che i due aspetti di quell’orrore dilettevole che, secondo il sensismo (In filosofia, la dottrina gnoseologica che considera ogni contenuto di conoscenza, non esclusi quelli tradizionalmente fatti procedere da superiori facoltà conoscitive, come derivato, o direttamente o indirettamente, dall’esperienza sensibile) è suscitato dall’immaginazione dell’infinito (l’immaginazione dell’infinito spaziale e temporale provoca piacere misto a paura)».
L’uso dei deittici questo e quello.
Quale caratteristica dell’avventura interiore dell’idillio mette in evidenza l’alternanza continua dei deittici (aggettivi/pronomi dimostrativi)?
Il poeta utilizza gli aggettivi e i pronomi dimostrativi nella loro funzione grammaticale, cioè con valore di deittici: «questo» indica infatti ciò che è vicino ed è riferito al colle, alla siepe, alle piante, alla voce della stagione presente; «quello», che indica ciò che è lontano è associato all’infinito silenzio. Incontriamo, però, una prima eccezione al v. 5, dove la siepe, che prima era questa siepe, diventa quella: l’oggetto che ostacolava la visione dell’orizzonte sparisce e il suo posto è preso dal pronome dimostrativo quella e non questa (come in realtà dovrebbe essere trattandosi di un oggetto vicino a colui che parla). Perché? Dietro questa apparente violazione della norma grammaticale, si può cogliere il progressivo allontanamento dell’io poetico, nello spazio creato dal pensiero che immagina (nel pensier mi fingo), da ciò che gli è vicino, per cui la siepe, prima vicina (questa), diventa lontana (quella), dal momento che il poeta, proprio grazie all’immaginazione, è riuscito a figurarsi quello spazio infinito e smisurato che va oltre la siepe, anzi è talmente immerso in quello spazio che è come se vedesse lontana la siepe che ha innescato il suo «fantasticare». Un fenomeno molto simile è riscontrabile nell’uso di quello al v. 9 riferito all’infinito e di questa che definisce il sostantivo immensità: l’immensità dell’infinito, che prima era quello infinito (vv. 9-10), diventa ora questa immensità, con un effetto di sorpresa accresciuto dall’enjambement (v. 15). Ciò che sembrava irraggiungibile all’io poetico, impedito a contemplare l’infinito dall’ostacolo rappresentato dalla siepe, è diventato grazie al lavoro dell’immaginazione (io nel pensier mi fingo), un oggetto concreto e vicino, cui ben si addice l’uso dell’aggettivo dimostrativo «questo». L’uso dei deittici non è dunque casuale, perché descrive il processo di progressiva conquista dell’infinito spaziale e temporale che genera alla fine uno smarrimento piacevole.
I deittici, ben otto in tutto il componimento, indicano rispettivamente la lontananza e la vicinanza ora dalla realtà finita, concretamente avvertita dai sensi, ora dall’infinito, percepito come dimensione immaginaria. L’alternanza dei deittici esprime il rapporto dialettico tra finito e infinito, che si esplica nel passaggio del poeta dal piano della razionalità (questo) a quello dell’immaginazione (quello). L’esperienza descritta da Leopardi non è né un’evasione dall’irrazionale, né uno smarrimento mistico del pensiero, ma una sorta di lucido sogno avviato dai sensi (è il limite reale percepito per via sensoriale, ossia la siepe, che avvia l’esperienza del fantastico) e sorvegliato dalla ragione.
Let’s recap
I temi fondamentali dell’idillio sono tre.
a) Il primo è costruito sul rapporto tra esperienza (sempre caro mi fu…) e riflessione (nel pensier mi fingo). In cosa consiste l’esperienza e da cosa è rappresentata la riflessione (nel testo)? L’esperienza è rappresentata dal colle, dalla vista della siepe, dallo stormire del vento tra le piante: eventi semplici e quotidiani. La riflessione è rappresentata dall’immaginazione dell’infinito spazio-temporale innescata dalle sensazioni visive e udite suscitate dagli elementi concreti del paesaggio: è proprio l’immaginazione (nel pensier mi fingo) a creare un dialogo tra i dati oggettivi (la siepe, il colle ecc.) e l’io lirico del poeta, la sua reattività personale. Il poeta sperimenta in sé stesso l’apertura all’infinito. La conquista dell’infinito significa propriamente questo: la coscienza dell’infinità dell’io. Il naufragio nel mare dell’infinito non è altro allora che la percezione della dilatazione dei limiti dell’io, dell’annullamento di tali limiti nell’infinito. Ecco perché questa esperienza, che si conclude in un naufragio, è in realtà un’esperienza che dà piacere.
b)Il secondo è il rapporto tra il limite e l’infinito, tra il «determinato» e l’ «indefinito». Come si esplica? ? Si esplica attraverso il riconoscimento di limiti fisici che impediscono allo sguardo di spaziare, di spingersi oltre la propria limitatezza visiva: il limite è proprio della condizione umana, è un dato oggettivo e ineludibile. Leopardi riconosce questo, ma anche il suo contrario, ovvero l’esigenza di superare quel limite e la possibilità di farlo grazie all’immaginazione generata proprio dalla percezione del limite.
c) Il terzo è l’esperienza dell’infinito, del perdersi dell’io nell’infinito: benché Leopardi nello Zibaldone usi il termine «estasi» (un termine che rinvia proprio a una dimensione religiosa, perché indica il rapimento dell’anima che al culmine della sua esperienza religiosa, perduta la coscienza del mondo fisico e di ogni legame corporeo, si innalza alla contemplazione del divino ed entra in immediata comunione con esso) per indicare «simili momenti di rapimento creati da sensazioni indefinite», tuttavia nell’idillio mancano accenni alla dimensione sovrannaturale: l’infinito di Leopardi non ha le caratteristiche del divino, cioè di «un’entità spirituale e trascendente», perché la tensione dell’uomo verso l’infinito (pensa alla teoria del piacere) non è verso un infinito spirituale, verso un’entità che ha le caratteristiche di Dio, bensì materiale: non caso l’esperienza del naufragare, della percezione dell’infinito mare è piacevole, ma anche perturbante, il che ci autorizza a pensare che questo infinito non sia altro che il nulla, la negazione dell’essere, il niente senza limiti. Non solo: «questo infinito», lungi dall’essere trascendentale, è creato dall’immaginazione dell’uomo a partire da sensazioni fisiche: non è un’entità oggettiva, bensì soggettiva, frutto dell’immaginazione individuale.
Si tratta degli aggettivi e pronomi dimostrativi «questo» e «quello», cioè di aggettivi e pronomi che determinano/individuano una persona o una cosa secondo il rapporto di vicinanza o di lontananza nello spazio, nel tempo o nel discorso. La funzione fondamentale è quella di «mostrare», come se si facesse un gesto di indicazione; infatti, nella lingua parlata, sono spesso accompagnati dall’indice teso. Tale particolare funzione dell’aggettivo dimostrativo è chiamata funzione deittica ([dal gr. δεικτικός, der. di δεῖξις: v. deissi] (pl. m. -ci), letter. – Che designa con evidenza, con precisione; in partic., riferito a pronome o aggettivo, sinon. di dimostrativo). «Questo» indica una persona o una cosa vicina a chi parla, quello una persona o una cosa lontana da chi parla e da chi ascolta.
Fonte: http://www.liceomedi-senigallia.it/Members/prcesposto/a.s.2014-2015/4bli-a.s.-2014-2015/appunti-delle-lezioni-e-approfondimenti/giacomo-leopardi/i-canti/linfinito-e-la-teoria-del-piacere/InfinitoShort.doc
Sito web da visitare: http://www.liceomedi-senigallia.it/
Autore del testo: non indicato nel documento di origine
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