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La quiete di Leopardi
La noia è un gran brutto affare per un professore. “Mi riprometto di cambiare ogni anno percorso, programma ecc.ecc.” Buoni propositi, certo. Ma la lotta per la sopravvivenza si impone sovrana non solo ad Acitrezza e la ‘creatività tecnologica’ dei file accumulati servirà senz’altro a qualcosa nella rincorsa affannosa di spiegazioni, verifiche e programmi. Poi accadono incontri che ti ridestano il gusto, quel pizzicore di ricerca mai sopita, che ti fa spalancare gli occhi sui testi degli autori e i volti imploranti dei tuoi ragazzi. Un professore universitario di storia dell’agricoltura lo scorso anno si è accorto che gli studenti copiavano. Bella scoperta! Capita anche a te nell’alto dei cieli accademici. Ha deciso allora di cambiare metodo. Ha preso la raffigurazione del quadro del Buon governo di Ambrogio Lorenzetti e glielo ha piazzato sotto gli occhi. “Che cosa vedete?” Dopo dieci minuti di inevitabile imbarazzo (del tipo, il prof. è impazzito e non ha voglia di spiegare), i più eruditi copioni hanno avanzato prestigiose ipotesi critiche e da lui sono stati immediatamente zittiti. “Non cosa vi hanno detto di vedere! Che cosa vedete voi!?”All’improvviso, ridestati da un lungo torpore, le giovani promesse agrarie si sono sbizzarrite e hanno visto tutto, anche quello che il professore non era riuscito a scorgere. All’esame non hanno copiato. Incredibile dictu. Vuoi vedere che funziona? Sono entrata nell’attuale III B del classico (si tratta di una quinta, siamo classici e dunque gentilianamente nostalgici) e, dopo una ferrea ripresa del Manzoni, si passa a Leopardi. Titubante ma certa dell’esperienza fatta dall’illustre collega, ho preso l’Infinito e gliel’ho piazzato sotto gli occhi. Così. Ex abrupto. Senza le mie introduzioni a lungo elaborate. Senza puntualizzare la poetica, il genere dell’idillio (la storia di Teocrito e compagnia bella). Gli ho detto: “Lo so che è una poesia che avete sentito e letto tante volte anche alle medie, ma vorrei che ci aiutassimo a non darla per scontata, perché qui si esprime il cuore di un poeta cha amo tanto”. Mi ascoltavo. Ma davvero lo amo Leopardi, ogni anno, con la stessa intensità? Capivo che la domanda era diretta anche a me. Che cosa vedo qui tra le pieghe di versi, che conosco a memoria, di cui ormai per esperienza riesco a riconoscere ogni singola figura retorica, ogni lettera o virgola, di cui ho imparato approfondimenti critici che ogni anno dono agli studenti e vedo comparire nelle tesine? Parte Noemi, che come sempre usa una sfrenata fantasia: “Leopardi vede cose lontane, infinite, spazi immensi. Addirittura mi sembrano deserti”. “Rifletti: li vede davvero?” “Certo”. Come darle torto: è un’immensità tangibile, concreta, è diventata ‘questa immensità’. Cerco di riportarla sul testo, chiedendole da dove si origina\ la visione che il poeta fa trasparire. Non riesce a scorgere la siepe. Era una delle tante parole dell’idillio, priva di senso. Quando ci arriviamo, sconcertata dice: “Ma non è possibile, vede tutto l’infinito con gli occhi coperti da una siepe!” E mi sovvengono le parole di M. Luzi, che commentano l’itinerarium leopardiano, quel dolce naufragio dal finito all’infinito, tanto diverso dal cupo percorso di Giovanni Pascoli che nella poesia Nebbia de I Canti di Castelvecchio implora la nebbia impalpabile e scialba di nascondergli le cose lontane e di fargli vedere solo la siepe. Qui ritorno ad essere la canonica insegnante, anche perché non vorrei si perdessero dietro ad elucubrazioni perditempo, e gli chiedo di sottolineare i termini romantici. Partono spediti: “interminati, immensità sovrumani (e qui i più secchioni, docentium consolationes, citano il titanismo)”. Finché Sara, con una vocina appena percettibile, pronuncia: “Quiete”. “Be, ecco, Sara, quiete non è un termine propriamente romantico. Ricordi lo Sturm un Drang, la tempesta…” Mi ferma imperterrita: “Ma, prof, è una quiete che sa di infinito”. Sara è così, sintetica, essenziale e discreta. Ma tenace. Allora l’ascolto e coinvolgo tutti: “Cercate nel testo perché quella quiete sa di infinito”. Dopo un silenzio carico d’attesa, Lorenzo esclama: “Lo so. E’ profondissima, è una quiete profondissima. In latino profondo si dice altus, è qualcosa di vertiginoso come il mare dell’ultimo verso. Ti viene da esplorarla e non da stare fermo, in pace”. Proprio così: basta un superlativo vicino per rendere un termine diverso da ciò che abitualmente significa. Allora mi vengono in mente le parole di San Agostino che mi hanno sempre commosso e un verbo che non ritornava nella mia traduzione: Cor meum inquietum est, donec requiescat in te. Non ho mai voluto tradurre quel requiescat con riposa, perché mi sembrava non bastasse. Ora intendo meglio la traduzione: Dio, “lo gran mar dell’essere”, come direbbe Dante, è una profondissima quiete, dove il “naufragar è dolce”. E allora: “Il mio cuore è inquieto, finché non trova piena soddisfazione in te”. Cioè in una quiete profondissima.
Fonte: http://blog.erscuola.it/allegato.aspx?ID=12955
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