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GIACOMO LEOPARDI
LA FORMAZIONE CULTURALE E LE PRIME OPERE
Gli anni della giovinezza
Giacomo Leopardi nacque nel 1798 a Recanati, un paese dello Stato Pontificio, lo ststo più arretrato d'Italia. Visse in un ambiente sociale arretrato e feudale, un ambiente culturale pigro e arcaicizzante, un ambiente familiare privo di cordialità e di affetti. A dieci anni, poichè non lo soddisfano i due precettori cui lo affida la famiglia, si tuffa nello studio, leggendo tutto quello che può trovare nella ricchissima biblioteca paterna. Questi anni gli rovinarono il fisico, ma lo fecero diventare un ragazzo prodigio: conosce alla perfezione il greco e il latino, studia l'ebraico e affronta questioni di filologia.
Nella puerizia e nell'adolescenza si gettano le conoscenze della lingua e della tecnica letteraria che ha pochi termini di confronto nella storia delle nostre lettere.
Le convinzioni politiche riflettono quelle dell'ambiente arretrato in cui vive il poeta: si compiace della sconfitta di Murat, esalta i principi illuminati e preferisce un'Italia divisa e prospera all'Italia unita. Alla religone tradizionale mostra ancora il suo ossequio. Sul piano sentimentale lo domina un furente sogno di eccellenza e di gloria.
Dunque la cultura di Leopardi fu arretrata, fossilizzata, stantia. Eppure bisognerà cogliere in questa prima esperienza leopardiana l'atteggiamento combattivo e militante, proprio di chi si sente impegnato in una battagliaculturale. La difesa di certe tesi politiche o del dogma cattolico, oppure la volontà di mettere in luce certi errori degli antichi e divulgare, invece, le moderne conquiste della scienza, rivelano un entusiasmo intellettuale da "giovane riformatore cattolico illuminato", una seriatà morale e una volontà di intervento che ritroveremo nel leopardi più maturo, una volta che si sarà liberato dalle pastoie dei pregiudizi dell'ambiente in cui viveva e avrà allargato il suo orizzonte culturale.
La conversione estetica
Segnò il passaggio dall'erudizione al bello. Egli abbandona l'erudizione e si rivolge tutto alla poesia, si rivolge ai classici come modelli di poesia da studiare. La lezione neoclassica ha per lui valore di richiamo ad un severo controllo stilistico, di un impegno nella poesia civile e, sopratutto, l'apertura a un mondo di idee e di persuasioni che contraddicevano la sua formazione giovanile.
In altre parole, è attraverso la riflessione sulla letteratura e sulla propria funzione di intellettuale, che il poeta comincia a liberarsi dall'educazione paterna, ponendo così le premesse di un più risoluto e netto affrancamento dai condizionamenti familiari.
La conversione filosofica
Segnò il passaggiodal bello al vero: da una poesia di immaginazione a una poesia sentimantale.
Le componenti fondamentali di quuesto svolgimento sono:
L'incontro con Giordani fu molto importante e significò:
Dal contrasto con la nuova apertura culturale e con il modello alfieriano ne scaturì una più acuta insofferenza verso l'ambiente di Recanati e dello Stato pontificio, una sensazione di soffocamento e di mortificazione.
Le concezioni del Leopardi
Soltanto impropriamente l'incessante e complesso travaglio di pensiero che appare in tutte le opere del Leopardi può essere definito una filosofia. La sua infatti fu una protesta desolata contro la vita e le sue leggi incomprensibili e dolorose e la lirica testimonianza del dramma di un'anima.
Egli accoglie le proposizioni scettiche, atee, materialistiche del pensiero settecentesco, che gli appaiono l'unica spiegazione plausibile, della realtà dopo il tramonto in lui della fede cristiana.
un perenne ciclo di trasformazione della materia, di cui possiamo intendere certe leggi, ma non le cause; e in questo meccanicismo dominato da una forza cieca e fatale, la Natura, gli appare coinvolto anche l'uomo, che non sa nulla, non è nulla e non ha nulla da saperedopo la morte.
Questa desolata scoperta getta l'anima del poeta in un'angoscia profonda la cui ragione è l'impossibilità di trovare una giustificazione della realtà, che lo porta alla disperata constatazione della vanità e del male di vivere.
il poeta la concepì come una madre amorosa, che aveva cercato di nasconderci la nostra sventura ispirandoci nell'animo illusioni consolatrici, e dava la colpa all'uomo di essersi condannato egli stesso all'infelicità, lacerandole con la ragione. Ma poi giunse a un pessimismo radicale e cosmico, accusando la natura di essere matrigna, nemica degli esseri generati, intenta a seguire certi suoi disegni imperscutabili, senza curarsi affatto della loro felicità.
Il poeta continua il suo dialogo disperato con la Natura, caratterizzato, nello stesso tempo, da un desiderio di comunione con la sua vita grandiosa e con la sua bellezza ineffabile (che ci destano nel cuore il senso e l'ansia dell'infinito) e dal tormento dell'eclusione fatale di esse (che si traduce nella coscienza della nostra vita come delusione).
Da questo atteggiamento nasce la concezione leopardiana delle illusioni, della noia, della giovinezza.
ne mise in luce il carattere effimero. Esse sono puri e dolcissimi sogni della giovinezza ancora ingnara della vanità del nostro vivere, destinati a dissolversi dinanzi alla coscienza dell'arido vero. Dopo il loro tramonto resta soltanto il senso di una delusione agghiacciante, dalla quale nasce la noia, cioè l'indursi del cuore in un'esistenza senza luce, senza più neppure la speranza della felicità.
Le illusioni gli apparivano paradossalmente una prova della grandezza dell'uomo; la cui incapacità di rassegnarsi a questa vita, al meccanicismo universale rivela in lui la presenza d'una dignità superiore a quelladel destino che lo condanna al dolore e alla morte. Dunque il Leopardi afferma sentimentalemnte ciò che nega con la ragione: le illusioni.
La meditazione del Leopardi si tramutava cos' in uno scavo nella propria interiorità, rivolto a ritrivare, la pura dignità della persona. Dove terminava, sconfitta la filosofia, nasceva la poesia, che esaltava le illusioni e risolveva le contradizzioni del pensiero e le angoscie d'un'esistenza senza luce in una suprema testimonianza di fede nei valori più alti della persona. Non cedere al fato: questo fu l'imperativo del Leopardi; opporre all'universo assurdo l'intatta nobiltà dello spirito.
Il suo fu un pessimismo eroico, e non mai rassegnato.
Lo Zibaldone
Allo Zibaldone il Leopardi affidò dal '17 al '32 note, appunti e trattazioni più ampie intorno a disparati argomenti: osservazioni linguistiche, psicologiche, spunti e argomenti di poesie ecc...
Si potrebbe, per questo aspetto, definire lo Zibaldone il cantiere, l'operosa officina delle opere maggiori. Esso ci fa assistere al suo travaglio formativo, quasi giorno per giorno, alle sue oscillazioni complesse e drammatiche. Si può dire che il libro diviene un diario culturale e spirituale che ci consente di seguire il continuo colloquio del poeta con la sua anima.
Due pensieri sulla natura
Questi due versi appartengono al momento conclusivo della meditazione leopardiana.
La natura è nemica di ogni essere vivente, principio assurdo e crudele dell'universo.Il primo passo è come un poemetto in prosa, dominato da un senso sgomento del male, dell'universale infelicità; l'ultimo periodo invece ha una potente vastità sconsolata, un senso d'irreparabile sofferenza.
Non gli uomini solamente, ma il genere umano fu e sarà sempre infelice di necessità. Non il genere umano solamente, ma tutti gli animali. Non gli animali solamente ma tutti gli altri esseri al loro modo. Non gl' individui, ma le specie, i generi, i regni, i globi, i sistemi, i mondi.
Entrate in un giardino di piante, d'erbe, di fiori. Sia pur quanto volete ridente. Sia nella piu' mite stagion dell' anno. Voi non potete, volger lo sguardo in nessuna parte che voi non vi troviate il patimento. Tutta quella famiglia dì vegetali è in stato di souffrance, qual'individuo piu' qual meno. Là quella rosa è offesa dal sole, che gli ha dato la vita; si corruga, langue, appassisce. Là' quel giglio è succhiato crudelmente un'ape nelle sue parti piu' sensibili, piu' vitali. Il dolce mele non si fabbrica dalle industriose, pazienti, buone, virtuose api senza indicibili tormenti di quelle fibre delicatissime, senza strage spietata di teneri fiorellini.
Quell'albero è infestato da un formicaio, quell'altro da bruchi; da mosche da lumache, da zanzare; questo è ferito nella scorza e cruciato dall'aria e dal sole che penetra nella piaga; quello è offeso nel tronco o nelle radici; quell'altro ha piu' foglie secche; quest'altro è roso morsichiato nei fiori; quello trafitto, punzecchiato nei frutti. Quella pianta ha troppo caldo, questa troppo fresco; troppa luce, troppa ombra; troppo umido, troppo secco. L'una patisce incomodo e trova ostacolo e ingombro nel crescere, nello stendersi; l'altra non trova dove appoggiarsi, o si affatica e stenta per arrivarvi. In tutto il giardino tu non trovi un pianticella sola in stato di sanità perfetta. Qua un ramicello è rotto dal vento o dal proprio peso; la' uno zeffiretto va stracciando un fiore, vola con un brano, un filamento, una foglia, una parte viva di questa o quella pianta, staccata e strappata via. Intanto tu strazi le erbe cò tuoi passi le stritoli, le ammacchi, ne spremi il sangue, le rompi, le uccidi. Quella donzelletta sensibile e gentile va dolcemente sterpando e infrangendo steli. Il giardiniere va saggiamente troncando, tagliando membra sensibili, colle unghie, col ferro. Certamente queste piante vivono; alcune perché le loro infermità non sono mortali, e gli animali altresì, possono durare a vivere qualche poco di tempo. Lo spettacolo di tanta copia di vita all'entrare in questo giardino ci rallegra l'anima, e di qui è che questo ci pare essere un soggiorno di gioia. Ma in verità questa vita è trista e infelice, ogni giardino è quasi un vasto ospitale (luogo ben più deplorabile che un cemeterio), e se questi esseri sentono o, vogliamo dire sentissero, certo è che il non essere sarebbe per loro assai meglio che l'essere. (Bologna, 22 aprile 1826).
Il secondo passo mostra invece un'incisività e una concisione lucide, taglienti in cui avverti un contenuto ma intenso spirito di ribellione.
2° PENSIERO
La natura non ci ha solamente dato il desiderio della felicità ma il bisogno; vero bisogno, come quel di cibarsi. Perché chi non possiede la felicità, è infelice, come chi non ha di che cibarsi, patisce di fame. Or questo bisogno ella ci ha dato senza la possibilità ti soddisfarlo senza nemmeno aver posto la felicità nel mondo. Gli animali non han più di noi, se non il patir meno; cosi i selvaggi: ma la felicita nessuno. (27 maggio 5831).
Fonte: http://spazioweb.inwind.it/tuttoberni_slap/ITALIANO/GIACOMO%20LEOPARDI.doc
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Autore del testo: non indicato nel documento di origine
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