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Sulla grandezza poetica e letteraria di Giacomo Leopardi non si è soliti avanzare dubbi ma non sempre, purtroppo, gliene è riconosciuta altrettanta in ambito filosofico: Emanuele Severino ha dedicato buona parte della sua riflessione a questo meritevole scopo e in tal modo ha messo in luce notevoli elementi comuni tra il pensiero del poeta di Recanati e quello di altri indiscussi grandi. La scelta di trattare questo studio, nonostante il suo spessore, è legata alla volontà di indicare i diversi tratti della personalità leopardiana che la rendono insigne. L’interpretazione che Severino offre è originale rispetto all’esegesi tradizionale: chi scrive ritiene nel suo piccolo che sia oltre che curioso anche produttivo dare uno sguardo ad altre forme di analisi come questa, poiché esse concorrono a definire un’idea di filosofia che non sia a scomparti predefiniti, quanto piuttosto una straordinaria espressione dello spirito umano dai confini mai fissi. Occorre chiarire che il Leopardi di Severino nulla toglie al Leopardi-poeta, anzi, se possibile, aggiunge altri aspetti alla sua figura. In primo luogo vi è evidenziato il valore della poesia, attraverso cui si esprime la riflessione sull’essere di Leopardi e che, coerentemente con questa, si fa forma suprema di “produzione” di felicità nonché ‒ come si vedrà ‒ inganno dell’intelletto il quale, nella stessa contemplazione del nulla del mondo, si acquieta. Inoltre vi sono illuminati l’interezza e tutto il rilievo delle parole leopardiane, scelte sempre con estrema accuratezza, parole in cui riposa già il pensiero perché sono esse stesse filosofia. Per addentrarsi nella sottile trama che queste creano, in una densa corrispondenza di filosofia e filologia, è opportuno seguire l’articolato discorso di Severino, sempre con capacità di discernimento. Le opere di Leopardi sono complesse e articolate e solo ad una lettura fugace potrebbero sembrare poco inerenti agli sviluppi della filosofia del XIX secolo: anzi, esse svolgono un ruolo fondamentale nel determinarne gli esiti in quanto si collocano proprio tra le conclusioni schopenhaueriane e quelle successive, non poco destabilizzanti, di Nietzsche. Nell’immaginario comune, spesso, Leopardi è associato a una concezione semplificata di pessimismo, la quale invece si tinge di preziose sfumature derivate dai suoi molteplici interessi. Disseminati nei vari scritti e idilli, si celano recuperi di nozioni basilari della storia della filosofia, affrontate in modo peculiare: il presente semplice contributo si propone di porne almeno alcune all’attenzione di chi volesse leggere, naturalmente sulla scorta del sentiero tracciato da Severino. Tra di esse figura in primo luogo il concetto di materia, il quale è in Leopardi il calco di ciò che gli antichi Greci designavano con il termine di phýsis, il fuoco semprevivo che non ha mai avuto inizio e mai avrà fine, il cui tratto essenziale è proprio il divenire: ciò che permane è il continuo processo di distruzione e creazione, per il quale infatti si dà produzione di cose nuove solo se prima si dà disfacimento di quelle vecchie. La “natura ognor verde” è la dimensione del divenire eterno degli essenti la cui fattualità non è in alcun modo già data, causa sui, immobile e quindi necessaria. Ne Il nulla e la poesia Severino sottolinea quanto Leopardi sostenga il dato della totale non-necessità di questi ultimi: «“nessuna cosa è assolutamente necessaria, cioè non v’è ragione assoluta perch’ella non possa non essere o non essere in quel tal modo (P 1341)»” (E. Severino, Il nulla e la poesia. Alla fine dell’età della tecnica: Leopardi, Bur Saggi, p.28). Questa “fede” nel divenire è molto radicata nel poeta-filosofo il quale ‒ occorre ammettere ‒ ben prima di Nietzsche, quasi sommessamente, ritorna ai Greci e rientra appieno nella tradizione del pensiero Occidentale. Già nel Leopardi è da notare il seguente nucleo concettuale, sviluppato poi in modo pregevole dal pensatore tedesco, secondo cui il suddetto carattere transeunte degli enti ne presuppone uno di incondizionata innocenza: «il realizzarsi delle cose e la loro distruzione è “puro fatto”, puro accadimento senza perché, “gioco” della natura che non può essere vinto da alcun’arte […] dei mortali» (ibidem, p.36). Accanto a questa evidenza inoppugnabile, ossia all’argomento del divenire, e come conseguenza di essa, sta quella per cui tutto è nulla: tutte le cose dell’esistenza provengono dal nulla e ad esso fanno ritorno e quindi, per via del loro essere nulla, “passato” e “futuro” sono nulla, “solido nulla”. Esso stesso è principio di ogni essere dunque, e perciò ‒ poste queste premesse ‒ anche per Leopardi non si può porre alcuna verità incontrovertibile e assoluta, nessun principio di conoscenza: questi termini rimandano alla mente indubbiamente l’irriverente opera di “demolizione” che culminerà nella celebre “morte di dio” nietzscheana. Tuttavia il pensiero leopardiano arriva fin qui, non va a fondo come quello dell’autore dello Zarathustra e prosegue per altre direzioni.
Severino: una lettura filosofica di Leopardi tra Schopenhauer e Nietzsche (1) | Filosofiablog
In Leopardi l’uomo si rivela nella sua specificità alterazione della natura poiché pensare significa essere infelici, tanto che potremmo convertire la nota citazione cartesiana in un nuovo assioma del tipo “cogito ergo patior”: il pensiero non può non pervenire alla constatazione per cui il passare di ogni cosa è il suo annichilirsi, la sua intrinseca vanità, persino il piacere e il pensiero del piacere, il dolore e la speranza, e l’orrore di tale visione non può che generare angoscia. Così l’uomo si rivela aberrazione della natura poiché l’angoscia esperita si oppone, come per Schopenhauer, alla pulsione più tenace di tutte, quella di perpetuare la propria esistenza e preservarsi dal niente. Nell’animale pensante, quindi, per Leopardi si concretizza una contraddizione ‒ come è ampiamente spiegato da Severino ‒ dal momento che la “scontentezza dell’esistenza” è un essere e, insieme, è la negazione dell’essere: essa persiste fintantoché l’uomo pensa. In particolare la ragione, distruggendo ciò di cui si ha bisogno per “(soprav)vivere” ossia l’illusione, conduce alla “verissima pazzia” leopardiana, la follia data dall’incontro-scontro di nullità di tutte le cose e voler essere salvi dal niente perseguendo l’anelito all’infinito. Non a caso questo termine ricorre, come è noto, innumerevoli volte nel linguaggio poetico dell’autore ed è anche il titolo di uno dei suoi più celebri idilli: pur concordando con Schopenhauer e ritenendo che la felicità sia irraggiungibile all’uomo, il cui amor proprio è così illimitato che non sarà mai pago della propria condizione, Leopardi riconosce un’unica possibilità di attingere all’infinito, insita nell’immaginario. In esso, il pensiero, dominato dall’illusione, può “fingersi” spazi, silenzi e quiete che non hanno limiti e realtà: «tutte le cose si annientano, sono nulla; quindi gli slanci dell’uomo verso l’infinito e l’eterno (“e mi sovvien l’eterno”) appartengono veramente alle illusioni» (E. Severino, Il nulla e la poesia. Alla fine dell’età della tecnica: Leopardi, Bur Saggi, p. 89). La forma più perfetta di immaginazione è la poesia, in cui l’infinito può presentarsi come contenuto, e in questo caso essa rimane illusione, o come forma, e in questo caso essa si lega strettamente alla filosofia e coglie la nullità del tutto. La poesia come forma è per Leopardi la poesia per eccellenza, prerogativa ed espressione del vero genio. A questa classe di uomini straordinari Leopardi, nietzscheanamente, si rivolge affinché illuminino la via svelando la negatività dell’esistenza: non a caso l’opera del genio, nella forza con cui vede il nulla e la finitezza degli oggetti, offre consolazione e sollievo da essi. La natura del genio è nobile, filosofica, “produttrice di vita” come suggerisce l’etimo della parola: l’immagine che compendia nel miglior modo tali tratti è proprio quella della ginestra, fiore che si erge solitario e dignitoso nel deserto del nulla da cui, riconoscendolo con immediatezza e trasparenza, riscatta. L’opera del genio “è l’alternativa, non perché riesca a salvare dal nulla, ma perché è l’ultimo galleggiare dell’essere, prima di affondare nel nulla” (ibidem, p. 183): dalla stessa intensità con cui è sentita la morte, l’anima riceve nuova vita. Anche quest’identità di estremi fa pensare inevitabilmente a Nietzsche. Nella lirica celeberrima La ginestra è come se una parte di Leopardi confidasse nel canto del genio, in quanto è l’unico capace di convertirsi in dottrina dell’amore e superare così le piccolezze dell’egoismo, individuando il vero “colpevole”, la natura. E con questo augurio, velato di diffidenza, giunge a perfetto compimento il pensiero leopardiano.
Severino: una lettura filosofica di Leopardi tra Schopenhauer e Nietzsche (2) | Filosofiablog
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