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Giacomo Leopardi
CANTO NITTURNO DI UN PASTORE ERRANTE DELL’ASIA
Che fai tu, luna, in ciel? Dimmi, che fai,
silenziosa luna?
Sorgi la sera e vai,
contemplando i deserti, e indi posi.
Ancor non sei tu paga
di riandare i sempiterni calli?
Ancor non prendi a schivo, ancor sei vaga
di mirar queste valli?
Somiglia alla tua vita
la vita del pastore.
Sorge in sul primo albore,
move la greggia oltre pel campo, e vede
greggi, fontane ed erbe;
poi stanco si riposa in su la sera:
altro mai non ispera.
Dimmi, i luna, a che vale
al pastor la sua vita,
la vostra vita a voi? dimmi, ove tende
questo vagar mio breve,
il tuo corso immortale?
Leopardi è stato uno dei massimi “poeti lunari” della storia della letteratura mondiale: varie sue poesie sono veri e propri colloqui con la pallida signora della notte e la “silente luna” fu l’amica di molte sue solitarie malinconiche rimembranze e deluse confessioni. I versi appena letti, tratti da una delle sue poesie più belle, Il canto notturno di un pastore errante dell’Asia (composta tra il 1928 e il 1830, quando il poeta aveva circa trent’anni), lo testimoniano. L’idea venne a Leopardi da un libro di viaggi del tempo suo, che narrava di certi nomadi pastori asiatici nottetempo, mentre i loro greggi dormivano che improvvisavano canti contemplando appunto la luna. Il pastore leopardiano le si rivolge direttamente, ponendole domande fondamentali, semplici e terribili a un tempo, sulla sorte dell’uomo, gettato nel mondo, incapace di dare un senso alla propria vita, destinato al dolore e alla morte. Ma anche sulla sorte della luna stessa (e del suo “corso immortale”) e alla fin fine di tutto il cosmo, la cui breve è certamente più lunga, forse addirittura eterna, di quella dell’uomo ma altrettanto priva di uno scopo, di un senso..
L’OPERA
Dopo i versi già citati, la poesia prosegue spiegando alla luna quale sia la vita del pastore, presa a simbolo della vita d’ogni essere umano: una continua fatica, un affancendarsi senza riposo, fino alla morte, un orrido immenso dove tutta la stancante esistenza dell’uomo trova annullamento e oblio. Tale è la vita mortale, dice il pastore (ossia il poeta, che tramite il suo personaggio parla): è un’avventura dolente che richiede di continuo consolazioni. Ma…
…se la vita è sventura,
perché da noi si dura?
Intatta luna, tale
è lo stato mortale…
A questo punto, il pastore, detto di sé alla luna, cerca di comprendere quale sia l’esistenza della luna medesima. Ti, le dice, che da tempo immemorabile, dall’altro del tuo notturno cielo osservi le vicende umane, forse sai il perché delle cose, forse conosci il tragico maestro della vita. Sono questione che il pastore si pone continuamente, quando osserva il cielo stellato e, identificandosi con esso, gli par di vedere la vita umana, anzi l’esistenza del cosmo tutto quanto, dall’alto dell’eternità:
A che l’aria infinita, e quel profondo
infinito seren? che vuol dir questa
solitudine immensa? ed io chi sono?
Così meco ragiono…
…di tanto adoperar, di tanti moti
d’ogni celeste…
…ma tu per certo,
giovinetta immortal conosci il tutto.
Questo io conosco e sento,
che dagli eterni giri,
che dall’esser mio frale,
qualche bene o contento
avrò fors’altri: a me la vita è male…
A questo punto, muta l’interlocutore della riflessione interrogante del pastore: non è più la luna, astro celeste e dunque sovraumano, bensì la sua greggia, fatta d’animali subumani. Essa riposa beata, si gode la vita che gli è capitata, non prova tedio alcuno, non si pone domande angoscianti:
Dimmi: perché giacendo
a bell’agio, ozioso,
s’appaga ogni animale;
me, s’io giaccio in riposo, il tedio assale?
La condizione dell’esistere è altrettanto insensata per la greggia, per il pastore e per la luna, pare voler dire Leopardi, ma soltanto il pastore ne soffre, in quanto essere umano, consapevole della propria inutilità, caducità, morte.
Forse se avess’io l’ale
da volar sulle nubi,
a noverar le stelle ad una ad una;
o come il tuono errar di giogo in giogo,
oiù felice sarei, dolce mia greggia,
più felice sarei, candida luna.
O forse erra dal vero,
mirando all’altrui sorte, il mio pensiero.
Forse in qual forma, in quale
stato che sia, dentro covile o cuna,
è funesto a chi nasce il dì natale.
Dunque anche alla greggia, dunque anche alla luna, dunque al cosmo intero. Forse mai, come in questa straordinaria poesia, Leopardi ha tinto il proprio disincanto verso le illusioni della vita di un tale, cosmico nichilismo. La sorte dell’uomo non è né più triste né più insensata di quella d’ogni altra presenza, vivente o astrale, del cosmo: ciò che distingue l’uomo, rendendo la sua condizione più dolorosa (ma, e in fondo Leopardi ne è sempre stato convinto, anche più eroica) è il fatto di esserne cosciente. La greggia nel suo dormire, e la luna, nel suo vagare nel cielo, non provano alcun tedio, alcuna “noia” (concetto centrale nel pensiero leopardiano) mentre il pastore li prova, quali sentimenti tipici della “infelicità nativa dell’uomo”. La grandezza somma di questa poesia sta soprattutto nel modo semplice ma tremendo, sobrio ma radicale, con cui pone alcune domande fondamentali sulla sorte dell’uomo nel mondo, che probabilmente affiorano, seppur non così profondamente indagate e espresse come da leopardi, nel,a mente e nel cuore d’ogni essere umano.
L’AUTORE
La vita di Leopardi fu parca di avvenimenti esteriori. Trascorse infanzia e adolescenza a Recanati, per ore e ore chiuso a studiare nella vastissima biblioteca paterna. Poi, fu preso dal profondo desiderio di fuggire dal “natio borgo selvaggio”, ove si sentiva a disagio, non compreso dai compaesani, che persino lo irridevano per certi suoi difetti fisici (era leggermente gobbo, sofferente alla vista, segnato nel corpo dall’aver troppo a lungo nutrito la mente sul tavolo da studio) e nemmeno dalla famiglia (che era, a differenza di lui, bigottamente religiosa, devota al papato, nemica di quelle idee – illuministiche e materialistiche – che provenivano dalla Francia e che Leopardi invece fortemente apprezzava).
Il suo sogno era trovare un lavoro, capace di valorizzare la sua cultura, lontano da Recanati. Per tutta la vita errò, ma ogni tanto costretto a far ritorno alla casa paterna, passando da Bologna a Firenze, da Pisa a Roma e infine a Napoli, ove morì a trentanove anni. Non trovò mai quell’impiego che gli avrebbe dato sicurezza e autonomia economica, anche se pian piano la pubblicazione dei propri libri cominciò a rendergli qualche provento finanziario. Frequentò, soprattutto a Firenze, i circoli liberali, che auspicavano un’Italia alfine unita e libera. Ne condivise le speranze d’un “risorgimento” nazionale ma non gli entusiasmi (a suo avviso illusori) per il progresso scientifico e tecnico nonchè per un romantico rinnovamento del Cristianesimo (egli restò, per tutta la vita, fedele al pensiero illuminista e materialista). Si innamorò di varie donne, con nessuna delle quali ebbe tuttavia una vera e propria, condivisa, relazione amorosa. Trovò alfine in Antonio Ranieri l’amico con cui trascorrere gli ultimi anni, a Napoli. Morì nel 1837, in una casa sulle pendici del Vesuvio, ove si era ritirato per allontanarsi dalla città, ove imperversava il colera.
I “ CANTI”
Il capolavoro poetico di Leopardi furono i “Canti”, che contengono quasi tutti i suoi componimenti, dai primi, ancora adolescenziali, agli ultimi, scritti sul letto di morte. Uscirono in prima edizione, contenendo le poesie più giovanili e col titolo di “Versi”, nel 1825 a Bologna. Usciranno poi, ampliati e col titolo appunto di “Canti”, nel 1831 a Firenze e infine, ancora ampliati, nel 1835 a Napoli. La poesia leopardiana è profonda e dolce, disincantata e tenera a un tempo. Capace, cioè, di esprimere un pensiero radicalmente pessimista, o forse nichilista, sul destino umano (vocato all’infelicità, al dolore, alla morte e condannato ad avere la natura quale nemica acerrima e l’esistenza terrena quale vicenda insensata nè consolabile con speranze ultraterrene, da Leopardi materialisticamente rifiutate) ma anche di far sbocciare sul terreno di tale amarezza filosofica il fiore magnifico di versi che cantano il fascino (seppur sempre deluso) dell’amore, la gioia (seppur di breve durata) della gioventù, la bellezza (seppur alla fine ingannevole) del cosmo. Insomma, pochi altri poeti sanno far amare la vita, ai propri lettori, come questo sommo dispregiatore degli inganni e delle illusioni della vita medesima! La lingua poetica leopardiana è un capolavoro di sintesi, fondata sull’uso sapiente di parole dotte o talora persino arcaiche e situazioni esistenzialmente quotidiane, tra amore per l’antica classicità e vocazione a un’introspezione, cioè a un uso della poesia come totale messa a nudo del cuore, anticipatamente moderna.
IL PENSIERO POETANTE
Si è parlato, in riferimento a Leopardi, di “pensiero poetante” cioè di un’esperienza di meditazione, radicalmente disillusa, sull’esistenza umana che ha saputo spesso farsi eccelsa poesia ma altrettanto spesso si è espressa in una lucida prosa, elegante e stringata a un tempo: quella dello “Zibaldone” (una sorta di quaderno di meditazioni filosofiche, scritto lungo un intero ventennio) e quello delle bellissime, quanto le poesie, “Operette morali”(la cui prima edizione p del 1827). Sia dalla sua prosa che dalla sua poesia si comprende come Leopardi sia stato uomo, e pensatore, del passato e del futuro più che del tempo suo, che non apprezzò affatto, giudicandolo un “secolo superbo e sciocco” per le sue, ad avviso di Leopardi del tutto ingiustificate, esaltazioni delle “magnifiche sorti e progressive” del mondo e dell’uomo. Per tutta la vita progettò di scrivere una “Lettera a un giovane del XX secolo” e c’è da rimpiangere molto che, alla fine, non l’abbia scritta. Giunto, non ancora quarantenne, in punto di morte scrisse due estremi, bellissimi canti: “Il tramonto della luna” (un ultimo, malinconico colloquio con l’amatissimo astro) e “La ginestra”. Qui il poeta, rimasto sempre estraneo alle varie correnti di pensiero e di azione politica del suo tempo, lancia alfine un appello alla solidale unione tra gli uomini, per combattere tutti assieme, stoicamente e fraternamente, una battaglia comune contro la crudeltà della natura e l’ingiustizia della vita. Questo fu dunque l’estremo messaggio del suo “pensiero poetante”, fondato su un atteggiamento morale che “…tutti fra sé confederati estima/Gli uomini, e tutti abbraccia/Con vero amor…”.
LEOPARDI VIAGGIATORE
Leopardi, continuamente in fuga da Recanati (il “natio borgo selvaggio” in cui si sentiva soffocare ma che sempre portò, per le sue rimembranze giovanili, nella mente e nel cuore), fu uno dei primi letteratri italiani a compiere un lungo “viaggio in Italia” (generalmente affrontato, al tempo suo, soltanto dai letterati stranieri). Soggiornò a Roma (ove si commosse sulla tomba del Tasso e apprezzò alcuni circoli letterari, soprattutto tedeschi, ma trasse soltanto disgusto dalle condizioni in cui l’antica città languiva, sotto il potere papalino), a Milano e Bologna, a Firenze (ove s’innamorò perdutamente ma infelicemente, frequentò - con amichevole rispetto ma per nulla condividendone ideali e passioni - i circoli risorgimentali di matrice cattolico/liberale, non amò per nulla la città) e Pisa (ove invece si trovò benissimo, ospite d’una generosa e umile famiglia d’affittuari presso cui mangiava bene – cosa assi importante per lui – e scrisse la bellissima “A Silvia”, triste ma toccante omaggio a una recanatese amica d’infanzia), infine Napoli, ove si trovò bene per il clima, la gente, gli ottimi gelati ma ove, purtroppo, morì ancor giovane. Gli fu anche offerta una cattedra presso l’Università di Bonn: peccato non l’abbia accettata, trasformando il suo viaggio in Italia in un viaggio in Europa, da cui sicuramente avrebbe tratto giovamento culturale e personale,
IL CONTESTO STORICO E CULTURALE
Giacomo Leopardi nacque in un’Italia ancora divisa in tanti, troppi staterelli autoritari sulla quale si abbattè, per qualche anno, il vento della rivoluzione francese eppoi delle gesta napoleoniche ma che tornò prontamente all’immobilismo e alla conservazione dopo il congresso di Vienna. Di quell’Italia retriva, il poeta nacque nello stato più retrivo di tutti, quello pontificio, cui appartenevano le marche, la regione ove si trova Recanati. Egli rimase, invece, fedele alle idee dell’Illuminismo francese, materialisticamente e nemiche d’ogni tirannia. Condivise le speranze di risorgimento dell’Italia dei più avanzati circoli intellettuali che ebbe a frequentare a Milano così come a Firenze, ma non aderì alla loro eccessiva speranza nell’inevitabile progresso dell’uomo e della società. La sua visione del mondo, quello storico e quello cosmico, era assai più pessimista. Però, in fondo, continuò ad analizzare l’Italia, e i costumi degli italiani (verso i quali fu molto critico), col piglio del moralista che, pur disincantato, auspica riforme e cambiamenti. Aveva forse ragione il più grande storico della letteratura italiana dell’Ottocento, Francesco De Santis, quando scrisse che i giovani rivoluzionari del 1848 sapevano, recandosi a combattere contro gli oppressori d’Italia, d’aver avuto, in quel poeta sconsolato e apparentemente nichilista, un fratello maggiore scomparso troppo presto.
LA FORTUNA
Leopardi fu apprezzato, come poeta, fin dalla pubblicazione dei primi “Canti” e tale alta stima è andata mantenendosi fino a oggi. La modernissima “fortuna leopardiana”, a partire dagli anni Cinquanta del XX secolo (e più precisamente dalla pubblicazione di “Leopardi progressivo” del filosofo italiano, esistenzialista e marxista, Cesare Luporini), ha riguardato invece la sua valutazione come filosofo (la profondità del cui pensiero peraltro, era già stata intuita da Friedrich Nietzsche, che molto ne studiò e apprezzò le lucide meditazioni). Ciò ha comportato anche una forte riscoperta del Leopardi prosatore e dunque delle “Operette morali” (che molti ormai considerano altrettanto belle dei “Canti) e dello “Zibaldone” (che viene ormai considerato, giustamente, uno dei grandi testi filosofici dell’Ottocento europeo).
Fonte: https://stefanobeccastrini.files.wordpress.com/2008/11/giacomo-leopardi.doc
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