Leopardi la vita

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Leopardi la vita

Giacomo Leopardi è considerato uno degli scrittori più illustri che l’Italia abbia mai avuto. Si trattava di una persona enormemente colta che però non fu fortunata: ebbe una vita dura ed infelice e morì giovane. Nonostante tutto ciò ha lasciato alle generazioni successive un’opera che altri scrittori non hanno scritto pur avendo avuto una vita molto più lunga. Proprio per le condizioni in cui visse nacque una sua visione del mondo assai particolare.
Anche se prevalentemente conosciuto come poeta, Leopardi fu anche filosofo. Non ebbe una filosofia unica ma una che si sviluppò nel corso della sua vita. Questo fatto è più evidente guardando lo Zibaldone, una specie di diario, che il poeta scrisse durante la sua vita.
Ma lo Zibaldone non era un’opera destinata alla pubblicazione. Il Leopardi scrisse, però, anche un’opera nella quale elaborò molto precisamente le idee già espresse nello Zibaldone. L’opera si chiama Le Operette morali ed è un’opera molto originale e particolare che non ha antenati.
Noi nella presente tesi vogliamo riproporre le vicende della vita del Leopardi che causarono la nascita della sua filosofia, il cosiddetto pessimismo leopardiano. Cerchiamo, inoltre, di spiegare come quest’ultimo si dimostrò e in seguito passeremo all’analisi delle Operette morali. Innanzitutto ci interessano le condizioni nelle quali Leopardi decise di scriverle, quale scopo seguì scrivendole, e vogliamo anche vedere i metodi che egli usò nell’esprimere le sue idee filosofiche.

 

1. LA VITA DI GIACOMO LEOPARDI
Prima di tutto vogliamo brevemente presentare alcuni dati della vita di Giacomo Leopardi perché riteniamo che alcune vicende della sua vita siano state essenziali per la creazione sia della poetica sia della visione del mondo del poeta, e sono dunque importanti per una migliore comprensione della sua opera.
Sotto riportiamo la biografia di Leopardi che abbiamo tratto dal libro Giacomo Laopardi scritto da Edigio Boschi e dal libro La letteratura per la maturità . In questo capitolo presentiamo della vita del Leopardi solo ciò che riteniamo importante per la nostra tesi, mentre a quei lettori che siano interessati a saperne di più si consiglia di consultare i libri sopra citati.
Giacomo Leopardi nacque il 28 giugno 1798 dal conte Monaldo e dalla marchesa Adelaide Antici a Recanati, un piccolo borgo dello Stato Pontificio, lo Stato più arretrato d’Italia sia politicamente che culturalmente.
La sua famiglia era di nobile origine, ma si trovava in una crisi economica perché il padre amministrava male il patrimonio familiare. Alla salvezza del patrimonio si dedicò la madre del poeta, una donna energica, ma severa e bigotta.
Della sua infanzia non sappiamo tanto. Doveva aver preso tanto dalla mamma, che era una donna particolarmente bella. Era un bambino molto svelto, irrequieto e agile.
Leopardi compì i primi studi sotto la guida del padre e di diversi precettori . Comunque la sua eccezionale intelligenza gli permise, ben presto, di studiare da solo.
Nella ricca biblioteca di suo padre acquisì una padronanza assoluta nel campo della filologia e dell’erudizione classica e sviluppò anche curiosità filosofiche e scientifiche. Era un formidabile autodidatta, oltre all’italiano e al latino, sapeva il greco, l’ebraico, il francese e lo spagnolo. Lo studio senza soste, che durò sette anni, gli causò notevoli problemi fisici, tanto che si ritrovò con una statura bassissima, con una doppia gobba e con molte infermità fisiche complicate da tante malattie che spesso gli impedirono anche di dedicarsi all’attività intellettuale.
Ma non solo i problemi fisici accesero in lui il pessimismo, una disillusione e una generale diffidenza verso tutto. Una delle cause di tali sentimenti erano anche gli eventi storici . Altre erano le restrizioni familiari. La famiglia si trovava in una situazione economica preoccupante, per cui praticava una politica di risparmio. Ma Giacomo interpretò queste negazioni come malanimo, pochezza d’amore e scarsezza di attenzione per lui. Altra causa che contribuì al suo pessimismo era il fatto che non era attraente, né ricco e quindi non riuscì mai ad avere una relazione con una donna. Si rese conto che “[...] la sua persona poteva destare solo compassione, mai amore. Ciò contribuiva ad esacerbarlo sempre più [...]” .
Tra il 1816 e il 1819 subì le cosiddette “conversioni”: la conversione letteraria, nella quale passò dall’erudizione e dalla filologia alla poesia; la conversione filosofica, col passaggio dalla fede religiosa, in cui era stato educato, all’ateismo e al materialismo illuministico; ed infine la conversione politica, in cui passò dalle idee reazionarie del padre alle idee liberali e democratiche. Sulla conversione politica contribuì notevolmente la sua amicizia con Pietro Giordani .
La casa paterna e la città di Recanati rappresentavano, per il poeta, un ambiente chiuso ed arretrato per cui cercò di fuggire da lì. Il suo primo tentativo di fuga non fu portato a termine.
Quando per la prima volta gli fu concesso di abbandonare Recanati si recò a Roma con la prospettiva di trovarvi un impiego fisso. Ma il suo trasferimento provocò in lui una profonda delusione perché divenne consapevole della meschinità della vita di relazione e dell’uso sociale della cultura.
Ritornò deluso a Recanati. Nel 1825 ottenne un’offerta dell’editore libraio Antonio Fortunato Stella, perciò Leopardi si recò a Milano. Ancora nello stesso anno si spostò a Bologna e nel 1827 andò a  Firenze e successivamente a Pisa. Nei mesi passati a Pisa il suo stato fisico un po’ migliorò per poi peggiorare notevolmente. L’organismo era tutto in sfacelo, in modo che gl’impediva il camminare, il giacere, il dormire. Proprio in questo periodo egli ottenne l’offerta di occuparsi della cattedra di letteratura all’Università di Bonn, che dovette rifiutare. 
Nel 1828 ritornò a Recanati, per l’ultima volta. Nel maggio del 1830 era di nuovo a Firenze dove conobbe un giovane esule napoletano, Antonio Ranieri, col quale allacciò una forte amicizia e grazie al quale Leopardi si trasferì nel 1833 definitivamente a Napoli.
A Napoli peggiorò notevolmente il suo stato di salute e mentre nella città dilagava il colera, Leopardi il 14 giugno del 1837 morì. Fu sepolto nella chiesetta suburbana di San Vitale; nel 1939 i suoi resti furono trasferiti presso la cosiddetta “tomba di Virgilio” a Mergellina.

 

2. IL PESSIMISMO LEOPARDIANO   
Il pessimismo leopardiano è una filosofia, una visione del mondo di Leopardi ed è, come si capisce subito dalla definizione, una visione pessimistica. Nel presente capitolo vogliamo spiegare più o meno quali erano le origini per le quali nacque la sua concezione del mondo circostante e spieghiamo anche come quest’ultima si manifesta.
I critici solitamente classificano il pessimismo leopardiano in tre categorie: il pessimismo (o dolore) personale e soggettivo, il pessimismo storico o progressivo e il pessimismo cosmico o universale. Altri parlano solo del pessimismo soggettivo e storico e del pessimismo comico ed universale, perchè tra i primi due momenti e l’ultimo esistono i documenti di un vero passaggio, invece tra i primi due il trapasso non è così evidente. Noi  abbiamo seguito la divisione che si trova ne La letteratura italiana per la maturità .
Comunque bisogna sottolineare il fatto che non si tratta di tre diversi momenti del pensiero leopardiano, ma i tre termini indicano soltanto alcuni suoi atteggiamenti che si altrenano e addirittura spesso si contraddicono.

2.1 Il pessimismo personale e soggettivo
Nacque quando il Leopardi era un adolescente e si manifestò come un sentimento di sentirsi “escluso dalla gioia di vivere” . Questo suo sentimento di infelicità personale fu determinato da diverse cause. Una di esse, non poco importante, fu la situazione familiare. Sua madre non riuscì mai a creare intorno ai figli un’atmosfera affettuosa e col padre, Conte Monaldo, che era un convinto sostenitore dell’ancien régime , il Leopardi venne presto in contrasto per le sue idee democratiche.
Alla situazione familiare bisogna aggiungere anche una particolare sensibilità d’animo, acuita dall’indebolimento e dalle sofferenze fisiche causate dai sette anni di studio. “A venti anni il Leopardi si sente già vecchio, spiritualmente e fisicamente, escluso dalla gioia di vivere, come prigioniero nel carcere angusto della casa paterna [...]” .

2.2 Il pessimismo storico o progressivo
Il pessimismo storico e progressivo sorse quando Leopardi si rese conto del fatto che tutto è falso. Sosteneva, ispiratosi a Rousseau, che gli uomini furono felici solo nell’età primitiva, quando vivevano secondo le leggi della natura. Appena però non li bastò l’ingenuità cominciarono ad usare la ragione ed a cercare il vero. Scoprirono la vanità delle illusioni, le leggi meccaniche che regolano la vita dell’universo, il male, il dolore, l’infelicità ecc. Per cui Leopardi dice: “La storia degli uomini non è progresso, ma decadenza da uno stato di felicità naturale ad uno stato di consapevole dolore, messo in luce dalla ragione” . Dunque la natura è considerata madre benigna ed amorosa, che quando vide gli uomini disgustati della vita, mise in moto l’immaginazione, per rendere la vita più bella. In opposizione sta la ragione, la causa dell’infelicità umana. “Con il potere infausto che le è proprio, di una riflessione fredda e calcolatrice, dissipò e distrusse tutte quelle belle illusioni.”
In altri momenti, la natura non è più considerata dal Leopardi la madre benigna che cerca di coprire la verità amara con le illusioni, ma è proprio la causa stessa del dolore, perchè ha creato nell’uomo un forte desiderio di felicità pur sapendo che non sarebbe mai riuscito a raggiungerla .
Si vede, dunque, che il poeta assume nei confronti della natura un duplice atteggiamento: la ama per la sua bellezza e nello stesso tempo la odia come una matrigna crudele ed indifferente alle sofferenze umane.
Leopardi paragonava la storia di ciascun individuo a quello che avvenne nella storia dell’umanità. L’infanzia, l’adolescenza e la giovinezza sono l’età della felicità, delle dolci illusioni; con la maturità, con l’età della ragione, si scopre il dolore. E per questo motivo “[...] secondo aspetto del pessimismo leopardiano è detto pessimismo storico e progressivo, perchè scoperto progressivamente nel corso della storia” .

2.3 Il pessimismo cosmico e universale
Il terzo aspetto del pessimismo leopardiano viene chiamato cosmico e universale perché investe tutte le creature. Sono, quindi, infelici sia gli uomini, sia gli animali.
È anche il momento in cui Leopardi riesamina la questione della ragione: anche se colpevole di aver distrutto le illusioni dell’uomo, la ragione è contemporaneamente l’unico bene che gli resta. Solo con essa gli uomini possono porsi di fronte al vero e, unendosi tra loro, possono vincere o almeno placare il dolore.

Leggendo quindi queste righe vediamo come si sviluppava il pensiero leopardiano nel corso degli anni, come Leopardi  spesso si contraddiceva e cambiava l’opinione. Ciò si manifesta anche nelle Operette morali, come vediamo successivamente.

 

3. ZIBALDONE
È impensabile studiare le Operette morali trascurando lo Zibaldone. In questo capitolo descriviamo questa opera, anzi il diario, di Giacomo Leopardi, così importante per lo studio della vita e della filosofia dello scrittore.
Quando nel 1837 Leopardi morì, lasciò, insieme ad altri, un voluminoso manoscritto, una specie di diario, in custodia ad Antonio Ranieri, suo amico. Ranieri lo lasciò, alla sua morte, alla Biblioteca Nazionale di Napoli. Per i litigi degli eredi la raccolta di pensieri fu pubblicata solo tra il 1898 e il 1900 .
Una Commissione governativa, che curò i manoscritti di Leopardi ne diede la seguente descrizione: “È una mole di 4523 facce lunghe e larghe mezzanamente, tutte vergate di man dell’autore, d’una scrittura spesso fitta, sempre compatta, eguale, accurata, corretta. Contengono un numero grandissimo di pensieri, appunti, ricordi, osservazioni, note, conversazioni, discussioni, per così dire, del giovine illustre con sè stesso, su l’animo suo, la sua vita, le circostanze; a proposito delle sue letture e cognizioni; di filosofia, di letteratura, di politica; su l’uomo, su le nazioni, su l’universo; materia di considerazioni più larga e variata che non sia la solenne tristezza delle operette morali; considerazioni poi liberissime e senza preoccupazioni, come di tale che scriveva di giorno in giorno per sè stesso e non per gli altri, intento, se non a perfezionarsi, ad ammaestrarsi, a compiangersi, a istoriarsi. [...] Quasi ogni articolo di quella organica enciclopedia è segnato dell’anno e del mese, e tutta insieme va dal luglio del 1817 al dicembre del 1832 [...]” .
Nello Zibaldone troviamo l’idea e la materia di molte opere e poesie e soprattutto le Operette morali vi trovano le loro origini. “È indubbio [...] lo stretto rapporto fra le meditazioni filosofiche fissate sulle pagine del diario e la loro elaborazione fantastica e artistica nelle Operette, per ognuna delle quali è infatti possibile citare diversi passi dello Zibaldone come premesse speculative del poeta [...].”
Abbiamo allora spiegato l’importanza di questo libro sia per la migliore comprensione di Leopardi sia per lo studio delle Operette morali che rappresentano espressione letteraria delle idee registrate nel diario. Prima di passare alla descrizione dell’opera che è l’argomento della presente tesi, vogliamo avvertire che le citazioni dallo Zibaldone sono tratte da fonti secondarie, perché non siamo riusciti a procurarci l’intero Zibaldone.

 

4. OPERETTE MORALI
            Questo capitolo è tutto dedicato alle Operette morali.

4.1 La nascita delle Operette morali
In questo capitolo cerchiamo di spiegare i motivi per i quali Leopardi decise di scrivere le Operette morali .
Marco Antonio Bazzocchi dice questo: “A monte della composizione delle Operette morali sta una serie di dichiarazioni molto esplicite di Leopardi sulla necessità di una letteratura satirica e sul bisogno di dare all’ Italia una prosa filosofica moderna” . Nel 1824, l’anno in cui furono composte le prime venti Operette, Leopardi scrisse anche il Discorso sopra lo stato presente dei costumi degli italiani, dove, secondo Bazzocchi, esprime l’opinione che in Europa sono così scarsi “la vita, l’immaginazione, e nella letteratura l’originalità e novità che tutte le nazioni vanno forsennatamente alla ricerca di materiali da ardere onde riparare alla freddezza che occupa generalmente la vita moderna e civile” .
A questo proposito non è da trascurare che dal 1820 in poi sono più frequenti, nell’epistolario col Giordani e nello Zibaldone, i riferimenti ad una forma nuova di scrittura, che manca alla tradizione letteraria italiana ed alla quale il Leopardi “vuole gettare le basi, nel tentativo di rifondare dall’origine l’intero sistema letterario nazionale, intendendo con “letterario” anche la meditazione filosofica e quell’ aspetto centrale della filosofia che è appunto la morale” .
La prima suggestione a comporre “prosette satiriche” si trova registrata da Leopardi nei Disegni letterari del 1819-1820. Sul finire del ’21 il progetto si precisa quando scrive nello Zibaldone: ”Ne’miei dialoghi io cercherò di portar la commedia a quello che finora è stato proprio della tragedia, cioè i vizi dei grandi, i principii fondamentali delle calamità e della miseria umana, gli assurdi della politica, le sconvenienze appartenenti alla morale universale, e alla filosofia, l’andamento e lo spirito generale del secolo”.
Nel 1827 dunque furono pubblicate dallo Stella le prime venti Operettee nel 1834 fu pubblicata una nuova edizione, fiorentina, con l’aggiunta del Dialogo di un venditore di almanacchi e di un passeggere e del Dialogo di Tristano e di un amico. Queste due edizioni furono seguite da un’altra nel 1836.
Il fatto che l’opera fu pubblicata diverse volte in pochi anni ci fa capire quanta importanza attribuiva lo stesso Leopardi a quest’opera. Tutto ciò viene sottolineato ancora dalle modifiche nella disposizione interna che non corrisponde all’ordine cronologico di composizione, dalle varie aggiunte e sopressioni.

 

4.2 Caratteristica

Le Operette morali sono una raccolta di 24 prose. Come è già stato scritto prima, quasi tutte, venti in precisione, sono state composte nel 1824, solo le ultime due sono state scritte nel 1832.
        
4.2.1 Forma
La maggior parte di queste operette è scritta in forma di dialogo, le altre operette sono in prosa, hanno forma di un racconto o di un altro genere letterario.
Per la forma di dialogo il Leopardi si ispirò allo scrittore greco del II secolo d.C. Luciano di Samòsata , che scriveva dialoghi satirici con i quali scopriva la verità attraverso invenzioni ironiche .
Ma oltre al modello ironico–satirico dei dialoghi di Luciano era essenziale anche quello dei dialoghi di Platone, “in cui un pensiero originale si esprime attraverso elegantissimi procedimenti letterari, confronti tra voci diverse, racconti, invenzioni mitiche” .
Comunque anche se il dialogo è la forma dominante del libro, “[...] al suo interno si assiste poi ad una vivacissima moltiplicazione dei generi letterari che il testo non realizza mai completamente ma spesso lascia solo trasparire, attraverso un processo di stilizzazione: la favola di sapore mitico (Storia del genere umano), il bando di concorso in stile burocratico (Proposta di premi fatta dall’Accademia dei Sillografi), il racconto di modello voltairiano (La scommessa di Prometeo), il trattato classicheggiante (Il Parini ovvero della gloria), la scena di commedia preceduta dal coro (Dialogo di Federico Ruysch e delle sue mummie), la biografia encomiastica (Detti memorabili di Filippo Ottonieri), la lode di ascendenza ellenistica (Elogio degli uccelli), il pastiche erudito (Cantico del gallo silvestre), il frammento filosofico (Frammento apocrifo di Stratone da Lampsaco), la commedia surreale (Il Copernico)” .

4.2.2 Titolo
Il titolo Operette morali, inventato dal Leopardi, è stato scelto per mettere in evidenza che si tratta di un’opera con un intento didascalico. L’opera vuole insegnare agli uomini “a non illudersi della grandezza del genere umano, ed a considerare coraggiosamente la loro condizione di debolezza e di miseria, a sopportare dignitosamente e virilmente il dolore, ad unirsi per cercare di alleviarlo” . In altre parole, voleva svelare la verità, anche se amara,  e contemporaneamente incoraggiare gli uomini a vivere e combattere questa verità scomoda.
Interessante è anche l’osservazione fatta a questo proposito da Antonio Bazzocchi: “Il titolo stesso del libro presenta sì nell’aggettivo morali una precisa specificazione filosofica, ma la fa precedere dal diminutivo operette [...]“ che “sta a dire meno che opere, opere che non hanno raggiunto ancora un assetto definitivo, quasi opere, con implicito il senso della precarietà ed il gusto ironico di sfiorare leggermente i problemi morali senza volerli affrontare di petto [...]” .

4.2.3 Linguaggio
Leopardi aveva voluto dare all’Italia, come già si è detto, una forma nuova di scrittura, con la quale voleva introdurre un contenuto nuovo e regalarle una forma nuova. Ma questo suo tentativo non era facile, perché pur essendo sostanzialmente un classico , era lontano dai puristi che allora dominavano il campo letterario, e dall’altra parte non voleva ispirarsi alla lingua parlata “da chicchessia”, usata per esempio da Manzoni o da Alfieri . Quindi alla fine, grazie ad una raccomandazione di Giordani, decise di usare “lingua del Trecento e stile greco” .

4.2.4 Argomenti
Gli argomenti trattati sono vari. Riguardano, per esempio, la condizione dell’infelicità dell’uomo, le sue illusioni e i suoi disinganni e la visione meccanicistica dell’universo. Come dice Boschi “si è di fronte ad una ripetuta visione scettica del mondo, ad una ripetizione delle soluzioni già date nella questione dei diversi problemi dello spirito, e ad un identico atteggiamento, meno lirico e più dialettico, del suo spirito pessimista e sconsolato” .

4.2.5 Personaggi
Le Operette rifiutano sia lo sviluppo narrativo, sia la consistenza psicologica del personaggio. Nella maggioranza dei casi manca la voce del narratore. Tutti i protagonisti dei dialoghi sono “personaggi solo in funzione del nome che li designa, da un massimo di determinazione (il Parini, il Tasso), alla dimensione fantastica (il Folletto, Malambruno), alla semplice indicazione empirica (l’Islandese, il Passeggero)” .
In effetti, i dialoghi si riducono a monologhi dello stesso Leopardi, che spesso sembra sdoppiato nei due personaggi e si dibatte tra le affermazioni del sentimento e le negazioni della ragione.
4.2.6 Ironia
L’ironia è la “manifestazione di un atteggiamento polemico, critico o distaccato, consistente nell’esprimere un giudizio che la situazione stessa o il tono con cui è espresso rivelano diverso o contrario da quello che realmente si pensa [...] o anche la volontà di condannare e riprendere gravemente cose o persone [...]” e crediamo che sia proprio il motivo per cui Leopardi la usò nel libro, come vediamo avanti.
Ciò che detto sopra, lo confermano anche le parole di Marco Antonio Bazzocchi: “Se dal punto di vista formale ogni dialogo corrisponde all’invenzione di una immagine che ha un rapporto anomalo con il mondo, l’argomento che poi viene discusso è sempre in qualche modo polemico nei confronti del mondo [...]” . Nelle Operette morali spesso il punto di vista è rovesciato, estraneo alla normalità e da questo punto di vista esse ridicolizzano i luoghi comuni degli uomini.
Attraverso l’ironia Leopardi deride tutto e tutti, come dichiara tramite la figura di Tristano, l’alter ego dello stesso autore, nel Dialogo di Tristano e di un amico ”[...] rido del genere umano innamorato della vita [...]” .

4.3 Contenuti delle singole Operette
In questo capitolo descriviamo brevemente la trama delle singole Operette e nel capitolo successivo passiamo ad una profonda analisi  di alcune di esse.
La raccolta si apre con la Storia del genere umano che fa da premessa. La Storia presenta una storia mitica dell’umanità, divisa in epoche diverse, in cui la gente ricerca la felicità. Questa ricerca è però ostacolata dall’arrivo della Verità sulla terra, a cui può resistere solo l’Amore celeste, che vivifica alcuni esseri umani. L’Operetta introduce ai temi del libro, come ad esempio l’indifferenza della natura, il crollo delle illusioni, l’impossibilità della felicità umana ecc.
Il Dialogo di Ercole e di Atlante, che segue, narra di Ercole che offre il suo aiuto ad Atlante per sostenere il mondo, ma quest’ultimo rifiuta l’offerta, affermando che la terra è alleggerita e quindi non fa fatica a reggerla. Atlante crede che tutti gli uomini siano morti ma Ercole pensa che siano solo addromentati. Decidono di giocare a palla con il pianeta nel tentativo di risvegliarlo. Quando lo lanciano, il pianeta cade a terra e loro vedono che non si è mosso nessun uomo e giungono perciò alla conclusione che gli uomini siano tutti giusti, perché come ha detto il poeta Orazio: ”[...] l'uomo giusto non si muove se ben cade il mondo“ . Leopardi nel Dialogo tratta il motivo del decadere del secolo diciannovesimo.
Nel Dialogo della Moda e della Morte Leopardi ironizza la vanità della moda e la definisce sorella della morte, perché tutt’e due „[...] l'una e l'altra tiriamo parimente a disfare e a rimutare di continuo le cose di quaggiù, benché tu vadi  a questo effetto per una strada e io per un'altra“.
Nella Proposta di premi fatta dall’Accademia dei Sillografi viene proposta la costruzione di figure umane artificiali. Si tratta di un’affermazione che il progresso scientifico può migliorare il benessere materiale ma non può cambiare l’infelice condizione dell’uomo.
Il Dialogo di un Folletto e di uno Gnomo parla di un folletto e di uno gnomo che si incontrano dopo l’estinguersi dell’uomo a causa di guerre, suicidi ecc., e deridono la presuntuosità degli uomini che credevano che il mondo fosse costruito in funzione di loro.
Nel Dialogo di Malambruno e di Farfarello, un mago, Malambruno, evoca il diavolo, Farfarello, perché vuole ottenere da lui la felicità. Ma quest’ultimo dichiara che non è possibile concedergliela, che andrebbe contro l’ordine della natura e conclude dicendo che la morte è meglio della vita.
Praticamente lo stesso tema Leopardi tratta nel Dialogo della Natura e di un’Anima in cui l’anima chiede alla Natura un po’ di felicità, ma la Natura non gliela può augurare perché è lo stesso fato che rende gli uomini infelici. Al massimo le potrebbe regalare la gloria, che però spesso diventa il motivo di dolore a causa dell’invidia che produce. Alla fine, l’anima prega la natura di ricacciarla nell’animale più semplice affinché muoia presto.
Nel Dialogo della Terra e della Luna, la Terra, parlando con la Luna, viene a sapere che anche la Luna è popolata.  Ma crede che le creature della Luna siano uguali alle sue, perciò viene derisa dalla Luna. Quello, però, che è comune a tutte le creature dell’universo sono il male, i vizi, i diffetti e l’infelicità.
La scommessa di Prometeo è un’Operetta composta di dialoghi, scene mitologiche, paesaggi primitivi e ambienti di vita moderna. Ma il tema principale è quello della cattiveria umana e delle usanze violente e barbare che hanno i popoli moderni.
Nel Dialogo di un Fisico e di un Metafisico i due protagonisti discutono del vivere lungo o breve, quale di questi due è migliore, e della vanità della vita che è, secondo Leopardi, priva di ogni azione o passione.
Il successivo è il Dialogo di Torquato Tasso e del suo Genio familiare, dove il poeta (che fu amato da Leopardi) chiuso in ospedale parla con un fantasma. Affrontano soprattutto i seguenti temi: l’amore, il vero, il piacere e la noia. Il Dialogo esprime l’idea che la vita consiste solo nella noia e nel dolore. Secondo il fantasma gli unici rimedi alla noia sono il sognare e l’oppio.
Nel Dialogo successivo, il Dialogo della Natura e di un Islandese, si giunge al pessimismo più profondo di tutto il libro. Del dialogo ci occupiamo nel capitolo 5.1, facendo un’analisi.
Seguono i dodici capitoli de Il Parini, ovvero della gloria in cui il Parini dà ad un alunno considerazioni riguardanti la gloria letteraria. Il maestro dice che è difficile raggiungere la gloria e che questa, una volta raggiunta, fa più male che bene. Comunque, la gloria è divenuta vana nel mondo moderno, come sostiene Leopardi.
Nel Dialogo di Federico Ruysch e delle sue mummie parla lo scienziato Ruysch con le sue mummie che si sono risvegliate per un quarto d’ora. L’argomento trattato è la morte. Ruysch ritiene che la morte sia dolorosa, ma le mummie dicono che piuttosto che dolore si può provare un piacere ed un sollievo. Comunque il dialogo vuole esprimere soprattutto la difficoltà di definire la morte con i parametri della vita.
I Detti memorabili di Filippo Ottonieri sono una serie di aforismi pessimistici, che cercano di definire l’ambiguità e gli equivoci del comportamento umano.
Il dialogo successivo è il Dialogo di Cristoforo Colombo  e di Pietro Gutierrez dove il secondo interroga Colombo sulla certezza di trovare terra al di là dell’oceano atlantico. Colombo ammette che la navigazione può non portare a buon fine, ma che è meglio fare una cosa, anche senza la sicurezza che riesce bene, che annoiarsi.
Nell’Elogio degli uccelli, un filosofo solitario, Amelio, esalta gli uccelli. Crede che la loro vita sia molto felice, contrariamente alla vita umana.
Il Cantico del gallo silvestre, è una trascrizione di un canto mitico, in cui un gallo enorme, ricorda la suprema infelicità del vivere ed il processo di distruzione che è presente in tutta l’esistenza. Il finale annuncia la distruzione di tutto. 
Nel 1827 il Leopardi aggiunse al libro il Frammento apocrifo di Stratone da Lampsaco, in cui tratta l’origine del mondo, la sua esistenza e la sua certa distruzione, facendo propria la dottrina materialistica.
Il Dialogo di Timandro e di Eleandro parla della necessità di accettare il proprio destino senza illudersi con teorie filosofico-religiose che vogliono ingannare l’uomo con false promesse sulla felicità futura. È meglio accettare la propria condizione e ridere dei mali anziché illudersi e disperarsi.
L’Operetta seguente si chiama Il Copernico, è divisa in quattro scene ed è in forma drammatica. Il Leopardi deride l’orgoglio degli uomini e la presunzione dei filosofi.
Gli ultimi due dialoghi, il Dialogo di un venditore d’almanacchi e di un passeggere ed il Dialogo di Tristano e di un amico, li analizziamo nei capitoli 5.2 e 5.3.          

 

5. ANALISI
Prima di passare all’analizzarsi di alcune Operette, vogliamo spiegare il perché della nostra scelta. Le Operette che abbiamo deciso di analizzare sono le seguenti: Dialogo della Natura e di un Islandese, Dialogo di un venditore d’almanacchi e di un passeggere e Dialogo di Tristano e di un amico.
Mentre delle altre Operette che si trovano nel libro, ci siamo limitati a dire solo la trama, cioè quale tema viene trattato, così come l’abbiamo fatto nel capitolo 4.3, i tre Dialoghi che abbiamo scelto sono, secondo noi, in qualche modo più interessanti.
Il primo, Dialogo della Natura e di un Islandese, che fu composto nel 1824, rappresenta un passaggio nel pensiero leopardiano. Egli  in questo Dialogo manifesta la sua visione pessimistica circa l’esistenza umana, l’infelicità, il rapporto con la Natura, ed è anche il momento in cui egli giunge definitivamente al pessimismo cosmico. “Per il rigore delle idee e della rappresentazione il Dialogo è considerato, all’interno delle Operette, come la svolta più decisiva verso un pessimismo di tipo cosmico” . 
Il secondo Dialogo, del 1832, è interessante dal punto di vista formale. La sua struttura è molto elaborata, compatta, perfetta e noi vogliamo vedere con quali mezzi Leopardi è riuscito a farla tale.
Il Dialogo di Tristano e di un amico, anche questo composto nel 1832, l’abbiamo scelto, perchè è, forse, l’Operetta più importante. Leopardi la compose come reazione alle critiche che nacquero dopo la prima pubblicazione delle prime 22 Operette. Si tratta di una apologia delle stesse Operette morali dove Leopardi riassume gli argomenti trattati nel libro e quando capisce la sua estraneità assoluta rispetto gli altri uomini giunge alla triste conclusione che vediamo sotto.

Nella nostra analisi ci interessa soprattutto il modo di come Leopardi espone la sua filosofia, come quest’ultima viene presentata e con quali mezzi.

5.1 Analisi del Dialogo della Natura e di un Islandese
Come abbiamo già scritto sopra, alcune Operette sono scritte in dialoghi, ed è così anche in questo caso, come si capisce subito dal titolo. Comunque c’è anche la figura del narratore. Un narratore sconosciuto ed anonimo apre e conclude l’operetta. Egli non fa parte del dialogo, racconta solo ciò che aveva sentito raccontare dagli altri. Il narratore presenta la situazione e poi inizia il dialogo stesso. 
            Il Dialogo ha luogo in Africa, non sappiamo quando, perchè il tempo della storia non è specificato, ma sappiamo che l’episodio è avvenuto molti anni fa.
Per quanto riguardano i personaggi, uno è un uomo che proviene dall’Islanda. Quello che non conosciamo è il suo nome, la sua età, né come è il suo aspetto fisico. Quindi è un esempio di personaggio solo “in funzione del nome”, vuol dire un personaggio senza caratteristiche, del quale Leopardi si servì solo per poter esprimere la sua filosofia tramite il dialogo. Infatti, l’Islandese è lo stesso Leopardi che usa questa forma dialettica per esprimere le proprie idee.
L’Islandese si trova in Africa, nei luoghi dove nessun uomo è mai venuto, fugge la Natura e crede che qui potrebbe trovare la pace.
Ma incontra proprio la Natura stessa, “una forma smisurata di donna seduta in terra, col busto ritto, appoggiato il dosso e il gomito a una montagna; e non finta ma viva; di volto mezzo tra bello e terribile, di occhi e di capelli nerissimi”. La Natura, secondo il vocabolario della lingua italiana , “complesso delle cose e degli esseri dell’universo, governati da un ordine proprio [...]”, viene qui personificata in modo che diventi una donna. Se guardiamo bene la sua descrizione fisica, possiamo dedurre che l’autore vuole che ci creiamo un’immagine negativa della Natura, “nel Mondo occidentale, il colore nero solitamente è usato con una connotazione negativa; il nero è spesso usato per evocare un senso di paura o per rappresentare la morte, è spesso il colore della sofferenza” ; ed il nostro presupposto è confermato nel commento di Cesare Galimberti: “una chiara allusione a un fondo funesto è significata dal dal colore nerissimo degli occhi e dei capelli” .
Alla domanda della Natura che cosa sta cercando in quei luoghi, l’Islandese dice che sta fuggendo la Natura. Segue un lungo discorso nel quale l’Islandese spiega alla Natura il perché della sua fuga. Questo suo discorso, lo possiamo dividere in tre parti.
Nella prima parte parla della sua gioventù “[...] fino nella prima gioventù, a poche esperienze fui persuaso e chiaro della vanità della vita, e della stoltezza degli uomini; i quali combattendo continuamente cogli altri per l’acquisto di piaceri che non dilettano, e di beni che non giovano; sopportando e cagiandosi scambievolmente infinite sollecitudini, e infiniti mali, che affannano e nocciono in effetto; tanto più si allontanano dalla felicità, quanto più la cercano” in cui decide, per i motivi appena citati, di vivere una vita senza speranza nei piaceri per non molestare nessuno, ma gli uomini lo persuadono della loro malignità “[...]conobbi per prova come egli è vano a pensare, se tu vivi tra gli uomini, di potere, non offendendo alcuno, fuggire che gli altri non ti offendano; cedendo sempre spontaneamente, e contentandosi del menomo in ogni cosa, ottenere che ti sia lasciato un qualsivoglia luogo, e che questo menomo non ti sia contrastato” .
Pur avendo questa esperienza non perde la speranza di riuscire in qualche modo a raggiungere lo stato di tranquilità, e decide di separarsi dagli uomini, la degenerazione dei quali rappresenta l’origine del male, e di fuggine nella Natura. Appena però risolve il guaio con gli uomini, incomincia ad avere dei problemi con la Natura che gli complica la vita sia fisicamente “[...] perché la lunghezza del verno, l’intensità del freddo, e l’ardore della state [...] mi travagliavano di continuo; e il fuoco,[...] m’inaridiva le carni, e straziava gli occhi col fumo; in modo che, né in casa né a cielo aperto, io mi poteva salvare da un perpetuo disagio” sia psichicamente “Né anche potea conservare quella tranquilità della vita [...] perché le tempeste spaventevoli di mare e di terra, i ruggiti e le minacce del monte Ecla, il sospetto degl’incendi [...] non intermettevano mai di turbarmi” . Comunque lui sempre sperava e cercava di trovare un luogo in diverse parti del mondo in cui riuscire a trovare la pace desiderata.
Ma siccome non esiste un luogo tale, passiamo alla seconda parte, secondo la nostra divisione, in cui il protagonista cambia il suo atteggiamento. La sua speranza man mano si scioglie e lui si rivolge più spesso alla Natura e l’accusa di essere colpevole dell’infelicità umana “Più luoghi ho veduto, nei quali non passa un dì senza temporale: che è quanto dire che tu dai ciascun giorno un assalto e una battaglia formata a quegli abitanti, non rei verso di te di nessun’ingiuria” . Descrive tutte le catastrofi accadutegli e si sofferma sulla contrapposizione tra quello che l’uomo desidera ma che non gli è concesso di raggiungere e di nuovo accusa la Natura: “Io soglio prendere non  piccola ammirazione considerando come tu ci abbi infuso tanta e sì ferma e insaziabile avidità del piacere; disgiunta dal quale la nostra vita, come priva di ciò che desidera naturalmente, è cosa imperfetta; e da altra parte abbi ordinato che l’uso di esso piacere sia quasi di tutte le cose umane la più nociva alle forze e alla sanità del corpo, e la più calamitosa negli effetti in quanto a ciascheduna persona, e la più contraria alla durabilità della stessa vita” . 
Da qui l’Islandese comincia ad essere sempre più pessimista e alla fine quando la sua delusione culmina, dice: “[...] mi avveggo che tanto ci è destinato e necessario il patire, quanto il non godere; tanto impossibile il viver quieto in qual si sia modo, quanto il vivere inquieto senza miseria: e mi risolvo a conchiudere che tu sei nemica scoperta degli uomini, e degli altri animali, e di tutte le opere tue;[...] e che per costume e per instituto, sei carnefice della tua propria famiglia, dei tuoi figliuoli e, per dir così, del tuo sangue e delle tue viscere” . È la parte che noi consideriamo essenziale di tutta l’Operetta, perché l’Islandese abbandona ogni speranza e accusa esplicitamente la Natura di essere responsabile di tutto il male che tormenta l’uomo e scopre che non c’è rifugio naturale dal male. La frase principale è “Per tanto rimango privo di ogni speranza: avendo compreso che gli uomini finiscono di perseguitare chinque li fugge o si occulta con volontà vera di fuggirli o di occultarsi; ma che tu, per niuna cagione, non lasci mai d’incalzarci, finchè ci opprimi” .
Possiamo, quindi, perfettamente vedere l’evoluzione psicologica che subisce  il protagonista: all’inizio pur deluso dagli uomini ha sempre una speranza, ma alla fine giunge alla delusione totale, dicendo che la vita non è felice e che la Natura produce gli uomini solo per tormentarli. Tale è il punto di vista dell’Islandese. Ora passiamo al punto di vista della Natura.
La Natura deride l’Islandese chiedendo se credeva che il mondo fosse stato creato per gli uomini . Se essi cessassero di esistere cesserebbe di esistere anche il mondo, secondo la loro opinione. La Natura, in modo molto netto, constata che “Quando io vi offendo in qualunque modo e con qual si sia mezzo, io non me n’avveggo, se non rarissime volte: come, ordinariamente, se io vi diletto o vi benefico, io non lo so [...] e finalmente, se anche mi avvenisse di estinguere tutta la vostra specie, io non me ne avvedrei” . Con ciò dichiara in sostanza la propria assoluta indifferenza al destino umano e sottolinea l'insignificanza dell'uomo nell'universo. Neppure come oggetto di persecuzione l'uomo può considerarsi al centro del mondo.
La reazione dell’Islandese è molto ironica. Fa un esempio di una situazione in cui la Natura lo invita a vivere nella sua villa ma invece che nella villa lo fa dimorare in una baracca, rovinata, umida ecc. e lo lascia “villaneggiare, schernire, minacciare e battere” dai suoi figli e dagli altri della famiglia. E quando l’Islandese si lamenta di queste cattive cure, gli dice “[...] forse che ho fatto io questa villa per te? o mantengo io questi miei figliuoli, e questa mia gente, per tuo servigio? e, bene ho altro a pensare che dei tuoi sollazzi, e di farti le buone spese [...]” . E l’Islandese si oppone dicendo che siccome la Natura l’ha invitato ad abitare lì, dovrebbe provvedere anche al suo comodo. E prosegue dichiarando “So bene che tu non hai fatto il mondo in servigio degli uomini. Piuttosto crederei che l’avessi fatto e ordinato espressamente per tormentarli. Ora domando: t’ho forse pregato di pormi in questo universo?o mi vi sono intromesso violentemente, e contro tua voglia? Ma se di tua volontà, e senza mia saputa, [...] tu stessa [...] mi vi hai collocato; non è egli ufficio tuo, se non tenermi lieto e contento in questo tuo regno, almeno vietare che io non vi sia tribolato e straziato, e che l’abitarvi non mi noccia?” Questa parte del dialogo è evidentemente filosofica. L’Islandese-Leopardi tratta la questione dell’esistenza umana e s’aspetta una risposta dalla Natura. Ma la Natura, assolutamente indifferente, risponde secondo le dottrine dei materialisti “[...] l’universo è un perpetuo circuito di produzione e distruzione, collegate ambedue tra se di maniera, che ciascheduna serve continuamente all’altra, ed alla conservazione del mondo [...] risulterebbe in suo danno se fosse in lui cosa alcuna libera da patimento” .
Segue la domanda disperata: “Ma poichè quel che è distrutto, patisce; e quel che distrugge, non gode, e a poco è distrutto medesimamente; dimmi [...] a chi piace o a chi giova cotesta vita infelicissima dell’universo, conservata con danno e con morte di tutte le cose che lo compongono?”
Questa frase costituisce il vertice dell’intera Operetta. Il dialogo rimane sospeso con questo grande punto interrogativo che fa sentire l’enorme delusione dell’Islandese.
È il momento in cui riemerge il narratore per dar all’Operetta una conclusione “più atroce quanto più grottesca” . Egli mantiene un distacco, dicendo “è fama”, quindi dichirando che lui non è stato testimone del dialogo, racconta che erano arrivati due leoni che si sono mangiati l’Islandese. Per confermare l’insignificatezza dell’uomo, che poco giova anche ai due leoni, viene aggiunto che questi ultimi si sono mantenuti in vita solo fino alla sera. Ma altre persone narrano che un vento forte lo ha coperto di sabbia e ne ha fatto una mummia. Però questa temporanea sospensione della distruzione del corpo poco giova all’Islandese visto che è già morto.
Cesare Galimberti nel commento al dialogo fa questa interpretazione del dialogo: “Vi si nega, infatti, qualsiasi possibilità di scampo, neppur fittizio e procurato, da una condizione d’infelicità imposta a tutte le creature dall’essenza intrinseca della Natura, dirattemnte chiamata in causa quale fonte del male. Il fatto che l’Islandese non possa opporre argomenti alla difesa che la Natura fa del suo operare, fa apparire anche più tragica la condizione dell’uomo, inutilmente in lotta contro un potere di struttura diversa da quella umana anche sul piano della volontà e della responsabilità.”

5.2 Analisi del Dialogo di un venditore d’almanacchi e di un passeggere

Nel Dialogo sono due i protagonisti: un venditore d’almanacchi e un passeggero. Sono personaggi solo in funzione del nome, di loro non sappiamo niente. Comunque già possiamo dedurre qualcosa dalle parole “venditore d’almanacchi” e “passeggero”. La prima rimanda alla ciclicità del tempo, perché l’almanacco è uno strumento per misurare il tempo . E l’altra, passeggero, rimanda al passare. Dunque, prendendo in considerazione queste due cose, già possiamo presupporre che uno degli argomenti trattati nell’Operetta sarà il passare del tempo.
L’Operetta si apre con la voce del venditore che grida: “Almanacchi, almanacchi nuovi; lunari nuovi. Bisognano, signore, almanacchi?” . Questa frase ha evidentemente la funzione di introdurre il lettore nella situazione. Dopo si passa alle domande del passeggero. Egli inizia con una domanda banale: “Almanacchi per l’anno nuovo” che però ha un ruolo significativo per l’intero dialogo, perché introduce il termine “anno nuovo”. Con la domanda seguente ”Credete che sarà felice quest’anno nuovo ” viene definito il leitmotiv dell’Operetta. Infatti, le due parole “anno nuovo” rimandano ad una ricapitolazione dell’anno passato, come si usa in tutte le culture, perciò il dialogo prende questa direzione, come vediamo sotto:

VEND. Oh illustrissimo sì, certo.
PASS.  Come quest’anno passato?
VEND. Più più assai.
PASS. Come quello di là?
VEND. Più più illustrissimo.
PASS. Ma come qual altro? Non vi piacerebb’egli che l’anno nuovo fosse
come qualcuno di questi anni  ultimi?
VEND. Signor no non mi piacerebbe.
PASS. Quanti anni sono passati da che voi vendete almanacchi?
VEND. Saranno vent’anni, illustrissimo.
PASS. A quale di cotesti vent’anni vorreste che somigliasse l’anno venturo?
VEND. Io? non saprei.
PASS. Non vi ricordate di nessun anno in particolare, che vi paresse felice?
VEND. No in verità, illustrissimo.
PASS. E pure la vita è una cosa bella. Non è vero?
VEND. Cotesto si sa.

Guardando questo piccolo brano dal punto di vista formale, ci accorgiamo dell’alternarsi delle domande e risposte in modo molto regolare. Rispetto al Dialogo di un Islandese e della Natura, dove prevalgono le parti pronunciate dall’Islandese, il ritmo è regolare ed evoca una ciclicità. Un’altra cosa che riguarda il piano formale sono le ripetizioni, le quali abbiamo messo in grassetto. La parola anno è presente quasi in ogni frase, in modo che dà al dialogo una struttura molto compatta.
Dal punto di vista del contenuto si nota l’aggravarsi delle domande da parte del viandante. Dalle domande banali di carattere introduttivo, il passeggero passa a domande sempre più gravi ed il venditore, che all’inizio risponde in modo positivo, con una grande speranza nel futuro, inizia a dare risposte negative, perché, come scrive Cesare Galimberti, ”sopraffatto dalla coscienza del vero che, infastidita d’inganni, non ammette più illusioni come tali” . In più, la sua negazione diventa nel corso del discorso sempre più forte, viene rafforzata con il “in verità”. Visto che il venditore dichiara che la sua vita è sempre stata piuttosto infelice, la frase del viandante “E pure la vita è una cosa bella.” ha un tono evidentemente ironico. Anche se la frase potrebbe suggerire che il discorso acquisisce un senso positivo, e invece è proprio viceversa, diventa ancora più triste e negativo.
La nuova domanda che viene posta al venditore è: “Non tornereste voi a vivere cotesti vent’anni, e anche tutto il tempo passato, cominciando da che nasceste?” ed il venditore risponde di sì. Ma appena il viandante aggiunge la condizione che sarebbe la stessa vita che ha fatto, “con tutti i piaceri e dispiaceri” che ha passato, appena la domanda diventa più concreta, riappare di nuovo la negazione. Viene confermato che quello che prevale nella vita umana, secondo il venditore, sono i dispiaceri, i momenti dell’infelicità. E tutt’e due sono d’accordo sul fatto che nessun uomo, sia lo stesso passeggero sia un principe, non vorrebbe rifare la propria vita. Il viandante pone una domanda simile ancora una volta e la risposta è molto netta e persuasiva : “Signor no davvero, non tornerei” . E segue:

PASS. Oh che vita vorreste voi dunque?
VEND. Vorrei una vita così, come Dio me la mandasse, senz’altri patti.
PASS. Una vita a caso, e non saperne altro avanti, come non si sa dell’anno nuovo?
VEND. Appunto.
PASS. Così vorrei ancor io se avessi a rivivere, e così tutti. Ma questo è segno che il caso, fino a tutto quest’anno, ha trattato tutti male. E si vede chiaro che ciascuno è d’opinione che sia stato più o di più peso il male che gli è toccato, che il bene; se a patto di riavere la vita di prima, con tutto il suo bene e il suo male, nessuno vorrebbe rinascere. Quella vita che è una vita bella, non è la vita che si conosce, ma quella che non si conosce; non la vita passata, ma la futura. Coll’anno nuovo, il caso incomincerà a trattar bene voi e me e tutti gli altri, e si principerà la vita felice. Non è vero?
VEND. Speriamo.

In questa parte del discorso, la parola fondamentale è la “vita”, la quale abbiamo messo in grassetto, per mettere in evidenza l’elaborata struttura del Dialogo.
Con l’espressione “una vita così” Leopardi vuole esprimere la sua idea, registrata nello Zibaldone che consiste nell’idea che il piacere desiderato è molto più grande del piacere reale. Perciò il venditore preferisce una vita a caso.
Nella parte del passeggero spicca di nuovo il tono ironico. Dopo aver riassunto quello di cui i due protagonisti hanno parlato giunge alla triste conclusione che la vita bella praticamente non esiste, che esiste solo nella speranza. Quindi, la sua ultima frase, in cui dice che con l’anno nuovo la vita comincerà ad essere felice, è molto ironica, perché in contrasto assoluto con quello detto prima. E, contemporaneamente, secondo noi, condanna gli uomini per la loro ingenuità, per la loro codardia, che gli impedisce di accettare la verità. Una verità, alla quale tutt’e due giungono nel corso del dialogo, che la vita felice non esiste che nella speranza. Ed è appunto la parola “speriamo” che conferma ciò che detto sopra, la parola che chiude la parte principale del dialogo. Poi i protagonisti riprendono le domande e risposte banali, come all’inizio.
La struttura dell’Operetta, come si è già detto sopra, è ben elaborata. Le parole “anno” e “vita” costituiscono una vera catena verbale ( “anno” appare 14 volte, “vita” 10 volte) . L’alternarsi di domande – risposte negative, nuove domande – nuove risposte negative, dà al Dialogoun ritmo circolare e veloce che rimanda alla ciclicità della esistenza umana e, forse, anche al veloce corso della vita.
Nel Dialogo che abbiamo appena analizzato, Leopardi espone la sua “teoria del piacere” alla quale egli giunse dopo aver domandato a tante persone se volessero rifare la loro vita passata. Tutti risposero di sì, ma solo a patto che fosse un’altra vita, non quella che già avevano vissuto. Da questo egli dedusse che la vita che si conosce non è bella, né felice. E che gli uomini che desiderano vivere ancora ignorano il futuro ed hanno un’illusione della speranza senza la quale non vorrebbero più vivere così come non vorrebbero rivivere la loro vita passata .
Il tono dell’intera Operetta mette in ridicolo gli uomini che pur capendo la verità non la vogliono accettare e preferiscono ingannarsi e crearsi delle illusioni vane.

 5.3 Analisi del Dialogo di Tristano e di un amico
Il Dialogo ha due protagonisti: un amico e Tristano. L’amico è un personaggio solo “in funzione del nome”, solo per fare a Leopardi da compagno per la conversazione. Tristano è l’alter ego dell’autore e, a quanto pare, la scelta del nome rimanda all’etimo della parola, dunque “triste”.
Ad attaccare la conversazione è l’amico col dire: “Ho letto il vostro libro. Malinconico al vostro solito” . Con “il vostro libro” si intendono appunto le Operette morali (l’edizione del ’27). E Tristano acconsente che si tratta di un libro malinconico come egli usa di scrivere. Segue:

AMICO: Malinconico, sconsolato, disperato: si vede che questa vita vi pare una gran brutta cosa.
TRISTANO: Che v’ho a dire? io aveva fitta in capo questa pazzia, che la vita umana fosse infelice.
AMICO: Infelice sì forse. Ma pure alla fine...
TRISTANO: No no, anzi felicissima. Ora ho cambiata opinione. [...]

È interessante vedere, che la tesi, basatasi sul fatto che la vita umana, anzi la vita di tutto l’universo, sia infelice, che costituisce la filosofia leopardiana, viene chiamata pazzia. Come nelle due Operette analizzate precedentemente, anche qui Leopardi è fortemente ironico, forse più che mai prima, come vediamo successivamente.
Tristano continua a parlare dicendo che credeva che nessunno potesse dubitare su quello che egli “scoprì” (cioè la verità sulla condizione umana) e quando sentì addirittura dire che le sue conclusioni derivano solo dal suo cattivo stato fisico fu triste e sorpreso, ma alla fine constata che: “Gli uomini sono in generale come i mariti. I mariti, se vogliono viver tranquilli, è necessario che credano le mogli fedeli, ciascuno la sua; e così fanno; anche quando la metà del mondo sa che il vero è tutt’altro [...] gli uomini universalmente, volendo vivere, conviene che credano la vita bella e pregevole; e tale la credono; e si adirano contro chi pensa altrimenti” . Qui ritorna il tema della codardia umana, il quale trattiamo sopra nell’analisi del Dialogo di un venditore d’almanacchi ed un passeggere.
E Tristano accusa il genere umano che “non crederà mai né di non saper nulla, né di non esser nulla, né di non aver nulla a sperare” perché la gente è superba, presuntuosa e debole nello stesso tempo, affinché possa guardare la verità in faccia e quindi preferisce credere le illusioni.
Ma Tristano-Leopardi dice ”[...] rido del genere umano innamorato della vita; e giudico assai poco virile il voler lasciarsi ingannare e deludere come sciocchi ed oltre ai mali che si soffrono essere quasi lo scherno della natura e del destino.” Ritorna anche il tema della natura, la quale non è solo indifferente alla sorte degli uomini, ma anche li deride per la loro ingenuità.
Tristano aggiunge ancora con un tono molto deciso che è possibile che i suoi sentimenti nascano da malattia, ma Leopardi che sia malato o sano vuole comunque calpestare “la vigliaccheria degli uomini”, rifiutare “ogni consolazione e ogn’inganno puerile”, ed ha “il coraggio di sostenere la privazione di ogni speranza”, mirare “intrepidamente il deserto della vita”, non dissimularsi “nessuna parte dell’infelicità umana”, ed accettare “tutte le conseguenze di una filosofia dolorosa, ma vera” .
Più avanti si difende col dire che quella filosofia, che parla dell’infelicità umana, non l’ha inventata lui, ma ne hanno parlato già i poeti e i filosofi antichi e ironicamente chiude il capoverso: “[...] studiando più profondamente questa materia , conobbi che l’infelicità dell’uomo era uno degli errori inveterati dell’intelletto, e che la falsità di questa opinione, e la felicità della vita, era una delle grandi scoperte del secolo decimonono. Allora m’acquietai, e confesso ch’io aveva il torto a credere quello ch’io credeva“.
E quindi il suo lunghissimo monologo, in cui ritornano i temi di tutto il libro i quali vengono appoggiati da tante ragioni, Tristano lo chiude dicendo proprio il contrario, e quindi è chiaro che non parla sul serio. Sorprendente è il fatto che l’amico non capisce la sua ironia.
Dopo questa lunghissima parte pronunciata da Tristano segue una serie di domande da parte dell’amico, alle quali Tristano risponde positivamente:

AMICO: E avete cambiata opinione?
TRISTANO: Sicuro. Volete ch’io contrasti alle verità scoperte dal secolo decimonono?
AMICO: E credete voi tutto quello che crede il secolo?
TRISTANO: Certamente. Oh che maraviglia?
AMICO: Credete dunque alla perfettibilità indefinita dell’uomo?
TRISTANO: Senza dubbio.
AMICO: Credere in fatti la specie umana vada ogni giorno migliorando?

Nel paragrafo seguente Tristano esalta gli antichi, per la loro forza del corpo perché chi è debole di corpo è un bambino e a questo bambino non gli rimane altro che guardare gli altri come vivono, perché la vita non è per lui. Questo passo è evidentemente autobiografico e lo è anche quando Tristano critica il fatto che non si dà l’importanza all’educazione del corpo ma soprattutto alla educazione dello “spirito” e dice che volendo coltivare lo spirito viene rovinato il corpo. Rimanda ai suoi sette anni di studio nei quali si rovinò la salute. Dopo l’esaltazione degli antichi nella quale aggiunge ancora che essi erano più capaci anche nei sistemi di morale e di metafisica finisce col dire “A ogni modo io non mi lascio muovere da tali piccole obbiezioni credo costantemente che la specie umana vada sempre acquistando” . Qui di nuovo vediamo questo suo modo di dire il contrario di quello che esprime prima, si tratta, quindi, di una forte ironia.
Il paragrafo successivo tratta del sapere. Da notare è il modo in cui l’amico pone le domande, anzi non sono più le domande. Forse perché presuppone che Tristano sarà di nuovo d’accordo. Ciò che l’amico dice non finisce più con un punto interrogativo ma con un semplice punto: “Credete ancora, già s’intende, che il sapere, o, come si dice, i lumi, crescano continuamente” . E Tristano, come sempre, acconsente a ciò che dice l’amico, ma successivamente critica la gente del suo tempo che ha conoscenze superficiali. Ma dopo dice: “Io fo queste riflessioni così per discorrere, e per filosofare un poco, o forse sofisticare ;non ch’io non sia persuaso di ciò che voi dite” . L’ironia è evidente ma l’amico non la capisce perchè è assolutamente accecato dai dogmi della cultura moderna, come scrive Cesare Galimberti .
L’amico è persuaso del fatto che il secolo decimonono, in cui i due protagonisti vivono, sia superiore a tutti i passati e Tristano risponde che lo crede anche lui, così come lo crede la gente di ogni secolo.
Un nuovo tema che emerge sono i giornali, i quali sono criticati da Tristano perché “i giornali uccidono ogni altra letteratura e ogni altro studio” . Per Leopardi i giornali sono “un mezzo d’informazione esemplarmente soggetto alle leggi della caducità e della deformazione ammantata di obiettività: tipico pertanto del mondo moderno [...]” .
Un’altra domanda che fa l‘amico è questa: “Oh dunque, che farete del vostro libro? Volete che vada ai posteri con quei sentimenti così contrari alle opinioni che ora avete?” Tristano deride l’amico per la sua ingenuità. Critica la situazione del secolo in cui si scrivono tanti libri ma di pessima qualità, comunque è difficile per un autore bravo acquisire un successo perché c’è tanta concorrenza. E dice ancora: “questo secolo è un secolo di ragazzi [...] la differenza che è da questo agli altri secoli in tutti gli altri la mediocrità ha tenuto campo in questo la nullità” .
Dopo tutto questo per la prima volta l’amico si accorge del tono ironico di Tristano: “Voi parlate, a quento pare, un poco ironico. Ma dovreste almeno all’ultimo ricordarvi che questo è un secolo di transizione” . E Tristano risponde dicendo che tutti i secoli sono i secoli di transizione perché la società umana non si ferma mai. Se però questa transizione avviene rapidamente non ne può uscire una cosa buona perché: “la ragione è che la natura non va a salti e che forzando la natura non si fanno effetti che durino [...] quelle tali transizioni precipitose sono  transizioni apparenti, ma non reali” .
Quindi Tristano rifiuta proprio tutto quello che la gente del suo secolo crede ed il suo amico gli dà un consiglio: ”Vi prego, non fate cotesti discorsi con troppe persone, perché vi acquisterete molti nemici” . Per Tristano però non è importante se avrà dei nemici, né se la gente lo disperezzerà, lui vuole combattere per la sua verità.
L’amico chiede ancora: “Ma in fine avete voi mutato opinioni o no? e che s’ha egli a fare di questo libro?“ Anche se sarebbe meglio bruciarlo, Tristano preferisce conservarlo come “un libro di sogni poetici, d’invenzioni e di capricci malinconici, ovvero come un’espressione dell’infelicità dell’autore” , il che dice ironicamente, perché è evidente quanta importanza  attribuisce al libro.
E per la prima volta non parla in generale, dell’infelicità universale, ma dice “io credo felice voi e felici tutti gli altri; ma io quanto a me [...] sono infelicissimo; e tale mi credo [...]” . L’amico non obietta più niente perché “nessuno è giudice se non la persona stessa, e il giudizio di questo non può fallare” .
Abbiamo quindi visto riassunti tutti i temi della filosofia leopardiana, le ragioni con le quali tale filosofia viene appoggiata, ma attraverso il personaggio dell’amico abbiamo avuto la possibilità di vedere come Tristano-Leopardi con le sue idee è incomprensibile per gli altri, perciò a Tristano non rimane altro che l’invocazione alla morte: “[...]vi dico francamente, ch’io non mi sottometto alla mia infelicità né piego il capo al destino, o vengo seco a patti, come fanno gli altri uomini; e ardisco desiderare la morte, e desiderarla sopra ogni cosa [...] In altri tempi ho invidiato gli sciocchi e gli stolti, e quelli che hanno un gran concetto di se medesimi; [...] Oggi [...] invidio i morti e solo con loro mi cambierei. Ogni immaginazione piacevole, ogni pensiero dell’avvenire, ch’io fo come accade nella mia solitudine e con cui vo passando il tempo, consiste nella morte, e di là non sa uscire [...] Se ottengo la morte morrò così tranquillo e così contento, come se mai null’altro avessi sperato né desiderato al mondo. [...] Se mi fosse proposta da un lato la fortuna e la fama di Cesare o di Alessandro netta da ogni macchia, dall’altro di morir oggi, e che dovessi scegliere, io direi, morir oggi, e non vorrei tempo a risolvermi” .
Mentre nelle altre Operette manca la conclusione qui una conclusione c’è perchè “Riconoscendosi infine sconfitto nei reiterati tentativi di contrapporre all’esistenza nota le età antiche o primitive, la condizione del sogno o dell’ebbrezza o dell’animalità pura, non potendo rifugiarsi in ipotesi fideistiche escluse dal suo materialismo, né in visioni progressistiche, irrise dalla lucidità del suo intelletto, “si posa”, come la ignuda natura delle sue mummie , nell’infinito grembo [...] della morte-nulla [...]“ .
CONCLUSIONE
Lo scopo della presente tesi era di ripercorrere le cause dalle quali nacque il pessimismo leopardiano, di spiegare i temi principali di Leopardi e di vedere come egli presentò la sua filosofia nelle Operette morali.
Abbiamo analizzato tre Operette. Una l’abbiamo scelta perché costituisce un importante momento di passaggio nella filosofia leopardiana e presenta l’abbracciare della dottrina materialistica da parte di Leopardi, ciò abbiamo dimostrato. La seconda è stata scelta da noi per la sua perfetta ed elaborata struttura formale, e dell’ultima ci siamo occupati perchè rappresenta l’apologia delle stesse Operette morali contro la critica del tempo e riassume i temi fondamentali del libro.
Lo scopo secondario della tesi era di aiutare a comprendere meglio il libro, che, a prima vista, per un lettore che non conosce Giacomo Leopardi, può essere del tutto incomprensibile. Riteniamo che un libro come le Operette morali sia degno di attenzione e quindi vogliamo che sia comprensibile per il più vasto pubblico. E lo troviamo così interessante non solo per il contenuto, che, pur essendo pessimista, fa proprio l’effetto contrario. Infatti, come dice anche De Sanctis “Leopardi produce l’effetto contrario a quello che si propone. Non crede al progresso e te lo fa amare. Chiama illusioni l’amore, la gloria, la virtù e te ne accende in petto un desiderio inesausto [...] Ha così basso concetto dell’umanità; ma la sua anima alta, gentile e pura l’onora e la nobilita ecc.”
E inoltre il libro è degno d’attenzione per certe osservazioni parziali che sono sempre attuali anche dopo due secoli circa e per il loro linguaggio (e bisogna dire che non perdono il loro valore anche se tradotte).
La presente tesi mostra solo un possibile approccio alla comprensione della personalità di Giacomo Leopardi e sicuramente ci saranno altre vie per come trattare questo tema.                       

 

 

 

BIBLIOGRAFIA

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Siti

http://it.wikipedia.org.
http://www.garzantilinguistica.it.

 

 

 

CRONOLOGIA ESSENZIALE DELLE OPERE DI LEOPARDI

1809 Sonetto La morte di Ettore, forse suo primo tentativo poetico

1810 Poemetto sui Re Magi

1811 Arte poetica di Orazio

1812 Tragedia Pompeo in Egitto

1813 Storia dell’astronomia

1814 Porphyrii de vita Plotini
         Commentarii de vita et scriptis rhetorum quorumdam...
         Fragmenta patrum saeculi secundi...

1815 Saggio sopra gli errori popolari degli antichi
         Orazione agli Italiani in occasione della liberazione del Piceno
         Batracomiomachia, traduzione

1816 Cantica Appressamento della morte

         Le Rimembranze

         I libri dell’Odissea
         Libro II dell’Eneide

1817 Le prime annotazioni dello Zibaldone
Il primo amore
Diario d’amore
1818 Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica
All’Italia
Sopra il monumento di Dante

1819 L’infinito
Alla luna
         Il sogno
         Il passero solitario

1820 Ad Angelo Mai
La Sera del dì di festa

1821 Nelle nozze della sorella Paolina
A un vincitore al gioco del pallone
Bruto minore
La vita solitaria
1822 Alla primavera
Ultimo canto di Saffo
Inno ai patriarchi
Martirio de’ santi Padri

1823 Alla sua donna

1824 Le prime venti Operette morali
Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’Italiani

1826 Epistola al conte Carlo Pepoli

1827 La Crestomazia della prosa italiana
Il Copernico
Dialogo di Plotino e di Porfirio

1828 Crestomiazia italiana poetica
         Il Risorgimento
A Silvia

1829 Le Ricordanze
La quiete dopo la tempesta
Il sabato del villaggio

1830  Canto notturno d’un pastore errante dell’Asia

1831 Il pensiero dominante

1832 Dialogo di un venditore d’almanacchi e di un passeggere
Dialogo di Tristano e di un amico
Amore e morte
Consalvo

1833 A se stesso

1834 Aspasia
         Paralipomeni della Batracomiomachia 

1835 Palinodia al marchese Gino Capponi
I nuovi credenti
         Sopra un basso rilievo antico sepolcrale
Sopra il ritratto di una bella donna scolpito nel monumento sepolcrale della medesima

1836 La ginestra
Il tramonto della luna

 

Boschi, Edigio, Giacomo Leopardi, Editrice Sarda Fossatario, Cagliari, 1973.

Passigato, Giancarlo e Zoia, Renzo, La letteratura per la maturità, Clio, 1993, edizione: 2, pp. 126-134.

I suoi precettori erano: il gesuita messicano padre Giuseppe Torres, il sacerdote Sebastiano Sanchini e Vincenzo Diottalevi. L’ultimo precettore di Giacomo era il canonico alsaziano Giuseppe Antonio Vogel., Cfr. Boschi, Edigio, op. cit., p. 49.

„La spina dorsale si incurvò. Il casso del petto restò prominente all’infuori. Le spalle larghe parvero inghiottire la grossa testa che un collo troppo corto non riusciva ad equilibrare in alto. Le gambe sembrarono assottigliarsi, smisurate nella non giusta proporzione con il tronco, mentre rughe profonde vennero ad abbruttire la faccia che era stata prima avenente e bella.[...] In catena ininterrotta i mali si succedettero gli uni agl'altri.[...] L’anestopia o cecità del 1819, la bronchitide purulenta del 1829, i disturbi alla circolazione quasi sempre presenti, ma accentuatisi in modo particolare nel 1836 [...].”, Boschi, Edigio, op. cit., pp. 55-56.

Parliamo della fine del Settecento e dell' Ottocento, quindi dell’era napoleonica piena di guerre ecc., i giovani che si fidavano di Bonaparte sono rimasti delusi dopo le sue sconfitte.

Boschi, Edigio, op. cit., p. 79.

Cfr. Passigato, Giancarlo e Zoia, Renzo, op. cit., p. 126.
Pietro Giordani fu un letterato. Visse negli anni 1774-1848., Pelán, Jiří, Slovník italských spisovatelů, Libri, Praha, 2004, p. 377.

Cfr. Boschi, Edigio, op. cit., p. 183.

Passigato, Giancarlo e Zoia, Renzo, op. cit., pp. 126-129.

Passigato, Giancarlo e Zoia, Renzo, op. cit., p. 128.

Ancien régime: è un termine che indica il sistema di governo vigente in Francia tra il XVI e il XVIII secolo. Si trattava di una forma di monarchia assoluta., http://it.wikipedia.org.

Passigato, Giancarlo e Zoia, Renzo, op. cit., p. 128.

Cfr. Ivi, p. 128.

Ivi, p. 128.

Boschi, Edigio, op. cit., p. 185.

Cfr. Passigato, Giancarlo e Zoia, Renzo, op. cit., p. 129.

Ivi, p. 129.

Cfr. Ivi, pp. 128-129.

Cfr. Leopardi, Giacomo, Attraverso lo “Zibaldone” I., introduzioni e note di Valentino Piccoli, vol. 1/2, Tipografia Sociale Torinese, Torino, 1926,  pp. 7-8.

Ivi, pp. 8-9, l‘autore dell’introduzione ha tratto la descrizione dal Bollettino Ufficiale del Ministero della P.I., anno XXIV, vol. II, n. 52.

Bon, Adriano, Invito alla lettura di Leopardi, Mursia, Milano, 1985, pp. 53-54.

Bazzocchi, Marco Antonio, L’immaginazione mitologica: Leopardi e Calvino, Pascoli e Pasolini, Pendragon, Bologna, 1996, p. 45.

Anche se si tratta di una citazione dal Discorso sopra lo stato presente dei costumi degli italiani noi l’abbiamo tratto dal libro di Bazzocchi, Marco Antonio, op. cit., p. 45.

Cfr. Ivi, p. 50. 

Cfr. Bon, Adriano, op. cit., p. 34.  

Antonio Fortunato Stella fu un editore milanese.

Cfr. Bon, Adriano, op. cit., pp. 52-53.

Luciano nacque a Samosata, in Siria, nel 120 d. C. [...] studiò presso i sofisti dell’epoca la grammatica e la retorica [...], http://it.wikipedia.org/wiki/Luciano.

Cfr. Passigato, Giancarlo e Zoia, Renzo, op. cit.,  p. 135.

Cfr. Ferroni, Giulio, Storia della letteratura italiana. Dall'Ottocento al Novecento, Einaudi, Milano, 1991, pp. 212-213.  

Bazzocchi, Marco Antonio, op. cit., p. 54.

Passigato, Giancarlo e Zoia, Renzo, op. cit., p. 135.

Bazzocchi, Marco Antonio, op. cit., p. 63.

Classico, classicista: studioso della classicità, cioè della civiltà, della lingua e letteratura, dell’arte classica., De Felice, Emidio e Duro, Aldo, Vocabolario italiano, Società Editrice Internazionale, Torino, 1993, p. 406.

Manzoni Alessandro fu uno scrittore che visse negli anni 1785-1873; Pelán, Jiří, op. cit., pp. 464-470.

Alfieri Vittorio fu uno scrittore che visse negli anni 1749-1803; Pelán, Jiří, op. cit., pp. 120-121.

Cfr. Boschi, Edigio, op. cit., p. 362.

Ivi, p. 353.

Bazzocchi, Marco Antonio, op. cit., p. 58.

De Felice, Emidio e Duro, Aldo, op. cit., p. 1004.

Bazzocchi, Marco Antonio, op. cit., pp. 58-59.

Cfr. Ivi, p. 59.

Leopardi, Giacomo, Operette morali, a cura di Cesare Galimberti, Guida, Napoli 1998, p. 496.

Alcune interpretazioni delle Operette sono state consultate nel libro scritto da Ferroni Giulio, op. cit., p. 122-124.

Leopardi, Giacomo, Operette morali, op. cit., p. 97.

Ferroni, Giulio, op. cit., p. 233.

De Felice, Emidio e Duro, Aldo, op. cit., p.1244.

http://it.wikipedia.org/wiki/Nero.

Leopardi, Giacomo, Operette morali, op. cit., p. 235.

Ivi, pp. 235-236.

Ivi, p. 237.

Ivi, p. 238.

Ivi, pp. 238-239.

Ivi, p. 241.

Ivi, p. 242.

Ivi, p. 243.

Ivi, pp. 243-244.

Il Leopardì tratta questo argomento anche nell’Operetta Dialogo di un Folletto e di uno Gnomo in cui deride la presuntuosità degli uomini che credono di essere il punto centrale del mondo.

Ivi, p. 244.

Ivi, p. 245.

Ivi, p. 245.

Ivi, p. 245.

Materialista è seguace del materialismo; materialismo: ogni dottrina che ponga come unico principio di tutta la realtà la materia e riduca la stessa attività intellettuale umana a una funzione o a un aspetto di essa, http://www.garzantilinguistica.it.

Leopardi, Giacomo, Operette morali, op. cit., pp. 245-246.

Ivi, p. 247.

Ivi, p. 233.

Almanacco: pubblicazione periodica, per lo più annuale, contenente, oltre al calendario, notizie astronomiche e previsioni meteorologiche relative ai vari giorni dell’anno [...]. De Felice, Emidio e Duro, Aldo, op. cit., p. 84.

Leopardi, Giacomo, Operette morali, op. cit., p. 487.

Ivi, p. 488.

Ivi, p. 488.

Ivi, p. 488.

Ivi, p. 488 - 489.

Ivi, p. 489.

Ivi, p. 490.

Ivi, pp. 490-491.

Cfr. Ivi,  p. 490; nello Zibaldone p. 73.

Cfr. Ivi,  p. 489.

Cfr. Ivi,  p. 486.

Ivi, p. 485, si tratta di un brano dallo Zibaldone (4283-4284), ma noi lavoriamo con la citazione che si trova nelle Operette morali.

Leopardi, Giacomo, Operette morali, op. cit., p. 493.

Ivi, p. 494.

Ivi, p. 495.

Ivi, p. 496.

Ivi, pp. 496-497.

Intende le osservazioni degli autori antichi.

Ivi, p. 498.

Ivi, p. 501.

Ivi, p. 501.

Sofisticare: usare sofismi, sottilizzare, cavillare. www.garzantilinguistica.it.

Ivi, p. 503.

Cfr. Ivi, p. 503.

Ivi, p. 504.

Ivi, p. 504.

Ivi, p. 504.

Ivi, p. 508.

Ivi, p. 510.

Ivi, pp. 510-511.

Ivi, p. 511.

Ivi, p. 511.

Ivi, p. 511.

Ivi, p. 512.

Ivi, p. 512.

Perchè Leopardi riteneva che gli uomini che hanno „anima grande“, cioè gli uomini molto intelligenti e sensibili, soffrono molto di più, che gli uomini  mediocri. Cfr. il Dialogo della Natura e di un’Anima.

Leopardi, Giacomo, Operette morali, op. cit., pp. 512-515.

Rimanda al Dialogo Federico Ruysch e delle sue mummie.

Leopardi, Giacomo, Operette morali, op.cit., p. 515.

Boschi, Edigio, op.cit.,  p. 360.

Boschi, Edigio, op. cit., pp. 391-392 e Bon, Adriano, op. cit.,  pp.5-21.

 

Fonte: http://is.muni.cz/th/110464/ff_b/TESI_DI_LAUREA_Rudova_Lucie.doc

Sito web da visitare: http://is.muni.cz/

Autore del testo: L.Rudová

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