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I lunghi corsi meditativi di Leopardi: Natura, Ragione, Spirito, Corpo, Illusioni
È difficile che un uomo il quale senta e pensi, in certi momenti della vita non senta e pensi leopardianamente. E in quei momenti le pagine di quel grande ci risplendono di verità portentosa. Il suo pessimismo non è, insomma, per tutti tutta la verità; ma per molti è aspetto importantissimo della verità, e ritrae questo aspetto con tale un intenso e concentrato vigore, che, in confronto, filosofie più pacificamente accettabili ci giungono al cuore e all’intelletto assai più scolorite e fioche.[…]
Manfredi Porena
A chi non è mai venuta la voglia di evadere, andare alla ricerca di qualcos’altro, di interrogarsi sulla propria esistenza?
Il mio primo contatto con Leopardi è stato al liceo. Fui subito attratta dal suo pessimismo e lo sentii come lo scrittore più vicino al mio stato d’animo. Oggi dopo tanti anni mi è stata offerta la possibilità di approfondirlo e così ho colto l’occasione per farlo.
L’opera leopardiana è vastissima e abbraccia diversi rami come la filosofia, la prosa, la poesia, e ad esse si aggiungono diari, opere di pensieri, lettere ecc.
In questa dissertazione scritta mi occuperò soltanto di qualche aspetto della poetica leopardiana, dividendo la tesi in tre parti: la prima comprenderà una breve biografia, (con i passaggi più rilevanti della vita leopardiana), l’ambiente e parte dell’evoluzione delle idee leopardiane; la seconda parte comprenderà invece la poesia e la sua tematica; nella terza ed ultima parte cercherò di riscattare il pensiero leopardiano, spesso frainteso da buona parte della critica.
Giacomo Leopardi è stato uno dei più grandi poeti del diciannovesimo secolo soprattutto per la profondità, la comprensione psicologica e la forza della sua espressione poetica. Nella poesia leopardiana c’è sempre una verità che tocca da vicino ognuno di noi, giungendo ai nostri cuori e al nostro intelletto.
Per entrare più da vicino nella poetica leopardiana mi è stata molto d’aiuto, la visita fatta alla sua casa natale. Recanati, il palazzo di famiglia che riassume ancora oggi la drammaticità del vivere.
Come dice Guglielmino/Grosser a pag. 207 “per comprendere la lirica leopardiana nei suoi tratti principali è importante mettere a fuoco il retroterra di esperienza umana e sentimentale da cui essa nasce e di cui ne è anche testimonianza”.
Quindi per esprimere il pensiero Leopardiano partirò da Recanati, dal palazzo della famiglia Leopardi, dalla biblioteca, dalla stanza in cui era solito studiare, dalla finestra di quella stanza, unico pertugio aperto all’osservazione del mondo. Metterò in luce le sue prime esperienze letterarie per approdare in seguito alla sua poetica e al pensiero filosofico di cui troveremo traccia in tutte le sue opere. Qui ne riporterò alcune delle più famose e toccanti.
Ho voluto con questa tesina portare ai giorni nostri la validità del pensiero leopardiano che con la sua lunga meditazione, con quella capacità di saper scrutare dentro di noi, ci ha aiutato a mettere a nudo la nostra vulnerabilità, a non chiuderci dietro le illusioni, a saper vivere la vita con coraggio, rigettando ogni vana illusione. Mi piacerebbe riuscire con questo mio lavoro a svegliare nel lettore l’interesse per la lettura delle poesie leopardiane che trovo siano tra le più belle mai scritte fino ad oggi. Di poter rivivere l’emozione di una poesia così toccante e ricca di sentimento.
Per una vera comprensione dell’opera del Leopardi è importante tener conto non solo delle sue poesie ma anche delle operette morali e dei pensieri espressi nello Zibaldone ed altrove. Il mio corpus consiste pertanto nelle seguenti opere di Leopardi: Giacomo Leopardi i Canti, tratti da Leopardi poesie e prose Mondadori 1987; Giacomo Leopardi Operette Morali Feltrinelli 1992; Leopardi Zibaldone di pensieri Oscar classici Mondadori 1983. Inoltre per approfondire la conoscenza di Giacomo Leopardi e la sua opera mi sono basata sia sui libri di storia della letteratura in generale sia su libri di critica letteraria specifici nonché di enciclopedie varie, i principali testi consultati sono i seguenti: Ferroni Storia della letteratura italiana Einaudi scuola 1991; Guglielmini e Grosser Il Sistema Letterario Principato 1992; Asor Rosa Storia della Letteratura Italiana La Nuova Italia 1985; Dizionario Enciclopedico della Letteratura Italiana Laterza-Unedi 1966; Tra Neoclassicismo e Romanticismo, Capitolo X, Giacomo Leopardi di Gino Tellini.
La scelta di questi libri è stata dettata dal bisogno di riscattare la poesia e la poeticità del Leopardi, spesso accusato di nichilismo e di una poesia strettamente legata ai suoi malesseri personali. L’antologia di Guglielmini e Grosser è stata utile perché mi ha permesso la consultazione di diverse opere di Leopardi, e nello stesso tempo mi ha dato la possibilità di poter fare un confronto diretto tra la critica letteraria e il pensiero del poeta. Ho voluto arricchire la conoscenza del poeta, approfittando del mio viaggio in Sicilia, visitando così la biblioteca Angelo Majorana del mio paese natio a me molto cara. I libri consultati in questa biblioteca sono stati: Manfredi Porena Il pessimismo di Giacomo Leopardi 1923; Enciclopedia Italiana Giovanni Treccani 1929; Guido Guglielmi Ironia e negazione Einaudi 1974. Naturalmente in quest’era di computer non poteva mancarne la consultazione, essendo esso diventato ormai strumento indispensabile per la nostra ricerca quotidiana d’informazione.
Giacomo Leopardi nacque a Recanati il 29 giugno 1798, dal conte Monaldo e da Adelaide Antici. Recanati era un borgo isolato nell’arretrato Stato pontificio; il padre, un nobile colto, ma di una cultura accademica, e d’idee reazionarie, che aveva in parte sperperato il patrimonio costringendo la famiglia ad un regime d’austerità economica; la madre, una donna severa, più preoccupata del riassestamento delle finanze domestiche che non della formazione e dell’educazione dei figli attraverso un cordiale, comprensivo rapporto con loro. Il Leopardi fanciullo indubbiamente sofferse di questa situazione. Dotato di un ingegno e di una sensibilità non comuni, nell’isolamento sociale e nella rarità di relazioni con i coetanei, Giacomo prestissimo si avventurò nella ricca biblioteca paterna e fece dei libri i suoi interlocutori privilegiati. A dieci anni, appreso dai precettori tutto ciò che potevano insegnargli, si tuffò per sette lunghi anni in uno “studio matto e disperatissimo” da autodidatta, che lo portò a formarsi una prodigiosa cultura da filologo e da erudito settecentesco. Approfondì la conoscenza del latino, apprese il greco e l’ebraico, investigò tutti i classici che aveva a disposizione, scrisse dissertazioni filologiche e opere erudite quali la Storia dell’astronomia (1813) e il Saggio sopra gli errori popolari degli antichi (1815), tradusse molte opere classiche, greche e latine. La sua prima produzione letteraria riflette un orientamento culturale tipicamente settecentesco, in cui i motivi della letteratura arcadica sono sentiti nel loro aspetto esteriore e retorico. A poco a poco, grazie agli studi filologici, Leopardi viene a scoprire la bellezza della poesia classica, mentre gusto e linguaggio gli si affinano attraverso un laborioso tirocinio stilistico. Nel 1816 avvenne come egli stesso lo definì il passaggio “dall’erudizione al bello”. Egli passò dallo studio alla produzione poetica, ed iniziò a valutare diversamente la poesia guardando anche con occhi nuovi i capolavori della tradizione volgare.
Nel 1817, in seguito alla pubblicazione di alcuni suoi scritti, egli strinse amicizia col Giordani: grande letterato del tempo.Tramite delle lettere, il Leopardi si aperse al mondo di una più moderna e vivace cultura. Il Giordani ebbe il merito di comprendere e di coltivarne l’amicizia con viva cordialità e disponibilità umana e sentimentale. La conversione alla poesia, dopo le prove ancora acerbe del 1816-1817, diede i suoi primi grandi frutti: tra il 1818 e il 1822 il Leopardi compose la serie delle canzoni di stampo classicistico, ora di impegno civile, ora di riflessione esistenziale ( All’Italia, Sopra il monumento di Dante, Ad Angelo Mai, Bruto minore, Ultimo canto di Saffo).
Leopardi sempre più cosciente delle sue capacità poetiche, trasportato da un desiderio di gloria, viene spinto a desiderare un mondo più grande e più bello, dove egli possa appagare l’esigenza di una libertà spirituale e il suo desiderio di gloria. Il bisogno di evadere da quell’ambiente chiuso e dopo una visita del Giordani a Recanati, lo spinse a tentare una fuga, che però venne scoperta. Il 1819, per l’esasperazione conseguente al fallito tentativo di ‘evasione’ e per un sensibile peggioramento delle sue condizioni fisiche, fu un anno di grave crisi e di cupe e dolorose meditazioni sulla condizione propria e dell’uomo in generale. Questo stato di disperazione, conseguente alla scoperta della “nullità” delle cose, cominciò a tradursi e ordinarsi in termini filosofici, e l’approfondimento del pensiero dette un nuovo orientamento al suo mondo sentimentale e poetico. A questo periodo appartengono anche la composizione degli idilli L’infinito e Alla luna, e la conversione dal bello al vero. Nel 1822 il padre concesse finalmente a Leopardi la possibilità di allontanarsi da Recanati, per un soggiorno a Roma. A Roma il poeta trovò un ambiente angusto legato a una cultura arcadica e arretrata, quindi l’esperienza tanto desiderata si mutò in una grande delusione: il mondo fuori Recanati gli si palesò assai più meschino dell’immaginato. Rientrato a Recanati sentì inaridirsi la vena poetica. Nel 1824 compose il nucleo più consistente delle Operette morali, che segnarono la piena formulazione del “pessimismo storico”, che vedeva nell’uomo e nella ragione le vere cause dell’infelicità, e del “pessimismo cosmico”, che al contrario accusava la Natura di essere la fonte delle sventure umane, in quanto instilla nelle persone un continuo desiderio di felicità destinato ad essere sistematicamente frustrato. Nel 1825 riuscì a lasciare Recanati grazie all’avvio di una collaborazione con l’editore Stella che gli garantì una certa indipendenza economica: fu a Milano, Bologna (dove conobbe il conte Carlo Pepoli e pubblicò un’edizione di Versi), Firenze (dove incontrò il Manzoni e scrisse altre due operette morali) e Pisa (dove compose Il Risorgimento e a Silvia). Costretto a tornare a Recanati nel 1828, proseguì nella produzione lirica che aveva iniziato a Pisa con l’approfondimento delle tematiche della “natura matrigna” e della caduta delle illusioni. Nel 1830 uno stipendio mensile messogli a disposizione da alcuni amici gli permise di lasciare nuovamente Recanati e di stabilirsi a Firenze. Qui s’innamorò di Fanny Targioni Tozzetti (la delusione scaturita dall’amore per lei gli ispirerà il ciclo di Aspasia) e strinse amicizia col Ranieri che gli fu vicino fino alla morte. In risposta a chi attribuiva alla deformità la sua concezione pessimistica della storia e della natura, il Leopardi compose il Dialogo di Tristano e di un amico in cui fa capire che non si tratta di malessere fisico, ma di un voluto distacco dalla sua epoca, criticandone la convenzione del pregio dell’esistenza. Del ’36 sono La Ginestra, Il tramonto della luna e probabilmente I nuovi credenti.
Morì a Napoli il 14 giugno del 1837.
Dai critici è stata spesso messa in rilievo l’influenza dell’ambiente dove il Leopardi visse per lungo tempo, dunque sembra quasi doveroso descrivere la Recanati del tempo. Recanati era ancora, agli inizi dell’Ottocento, tutta conforme agli schemi di una società feudale, dall’economia arretrata e dalla cultura prettamente accademica. Quest’ambiente e la sua influenza sulla formazione di Giacomo Leopardi sono stati acutamente analizzati da Gino Tellini in Tra Neoclassicismo e Romanticismo, e per la presentazione in questo capitoletto mi baso quindi sulla sua disamina e le nozioni citate in seguito si riferiscono al capitolo X del suddetto libro. Nascere a Recanati nel 1798 significa nascere nel silenzio della provincia, in uno degli angoli più depressi del depresso Stato della Chiesa; dove giunge fioca e con bagliori sinistri l’eco della modernità rivoluzionaria; dove resistono le strutture di una società arcaica, ecclesiastica e nobiliare; dove permangono quasi intatti gli usi di un’economia agricola parassitaria, insieme ai canoni di una cultura erudita e accademica. I fermenti della nuova civiltà borghese, nell’assetto di questa ormai anacronistica monarchia assoluta politica e religiosa, promuovono nel secondo Settecento un riformismo miope e guardingo, non paragonabile al processo di rinnovamento attuato in altre zone della penisola. Poi il tumulto degli eventi di Francia mette a tacere ogni velleità di riforma e apre la strada a una dilagante pubblicistica controrivoluzionaria che trova proprio in Roma il fronte della resistenza più agguerrita. La vita di Leopardi trascorre durante il periodo più oscuro della ventata rivoluzionaria seguita al Congresso di Vienna.
Egli si venne a trovare, rispetto ai suoi contemporanei che vivevano nella Milano post-illuministica e post-napoleonica, sempre fervidamente impegnata nelle attività civili e letterarie, in un ambiente chiuso a ogni idea rinnovatrice, in una dimensione statica dell’esistenza umana. Recanati contribuì dunque, per queste sue caratteristiche sopra menzionate, alla formazione di quella sua mentalità e psicologia, in cui il rapporto con il mondo e con la storia è così difficile e tormentato. Ma da Recanati viene anche l’amore per il mondo classico, per la poesia lirica, autobiografica e soggettiva. Da quanto emerge dall’opera di Leopardi egli visse Recanati in un duplice sentimento di amore e odio, fino alla rottura violenta con la plumbea atmosfera circostante. Si chiuse in un temperamento solitario e non disposto al compromesso, orgoglioso della sua diversità. Leopardi grazie alla sua ribellione spezza il conformismo provinciale e i limiti reazionari, riuscendo però a conservare le radici di un’entità culturale. Quello di Leopardi è il caso raro, non però eccezionale, di un autore che ha raggiunto la grandezza e la spregiudicata modernità con la lenta fatica di chi va controcorrente, attraverso lo scavo assiduo nel passato e il rifiuto altrettanto assiduo della contemporaneità, dei falsi miti celebrati nel suo tempo.
Possiamo concludere dicendo che quando il poeta esce da Recanati porta con se il suo bagaglio culturale riuscendo in maniera geniale ad applicarlo a quella società che gli si offre al di fuori delle mura domestiche.
In Leopardi ancora giovanissimo c’è quel sentimento di ribellione nei confronti della società. Da un punto di vista culturale, in Giacomo, esso fu molto forte. Il padre voleva fare del figlio un pozzo di conoscenza, il figlio invece voleva sentirsi più libero, dare voce ai propri sentimenti, esprimere se stesso. Leopardi dai suoi studi, da quel contatto con la società da prima mediata da altri e poi vissuta personalmente seppe individuare la sofferenza umana, l’inquietudine e capirne il dolore che è sempre in agguato e pronto ad aggredire l’animo umano. Grazie alla sua grande sensibilità è riuscito a regalarci una poesia altamente lirica e poetica.
Tutto ciò che Leopardi esprime è basato sulla propria esperienza personale; è un io empirico che parla e non un io ideale. Le vicende sentimentali, le problematiche esistenziali affrontate nella poesia leopardiana appartengono all’uomo Leopardi oltre che al poeta. L’origine passionale è sempre evidente nella meditazione del poeta, i suoi pensieri nascono giorno per giorno da una esperienza vissuta, ma Leopardi cercò di elevare la sua esperienza personale a un sistema valido universalmente, basandosi sulla considerazione e meditazione della storia. Come punto cardinale della poetica leopardiana possiamo fare sempre riferimento allo Zibaldone che rappresenta un documento intimo, il resoconto quotidiano di una esplorazione di sè e del mondo. L’opera appare come il risultato di uno sfogo quotidiano, quasi come se egli stesse parlando ad una voce interna, all’uomo, interpretandone i malesseri; ed è per noi lettori un documento fondamentale per la conoscenza sia intima che poetica dell’autore.
Leopardi già giovanissimo fu molto attivo, dedicandosi ad uno studio profondo ed assiduo che lo rese padrone di una vastissima cultura. Egli, di sensibilità spiccata, chiuso nella piccola Recanati, avvertì un forte senso d’isolamento. Impossibilitato ad avere un contatto pratico con la realtà con un mondo vivo ed operante, si chiuse nella biblioteca di casa Monaldi, dedicandosi ad uno studio febbrile che gli rovinò irrimediabilmente la salute. I primi scritti di Leopardi, che furono prodotti tra i dieci e i sedici anni, riportano l’influenza paterna, anche se già in questo primo Leopardi c’è qualcosa di nuovo, di vitale che poi lo allontanerà completamente dalle ideologie del padre. Dal punto di vista letterario, la sua formazione è di tipo arcadico e settecentesco, ma essenziale è il definirsi nel poeta di un atteggiamento classicistico, che parte dai modelli di un classicismo scolastico e clericale, per approdare in seguito a un contatto diretto con i grandi autori greci e latini. Intensificatosi l’interesse per i classici a cui Leopardi si accosta con la sola forza dell’intelligenza e della sua curiosità culturale, cerca le forme di un intervento originale nel mondo della cultura, investendo tutte le sue energie nella letteratura e nella poesia liberandosi di gran parte dei condizionamenti dell’educazione famigliare. Siamo alla sua cosiddetta “conversione letteraria” Leopardi sperimenta varie forme espressive che aiutano il poeta ad esternare ciò che sente dentro di sé. Il suo pensiero è intriso “di virtù” e “di gloria”. Trovando sconforto per l’Italia che è priva di vera vita civile e sottoposta al dominio straniero, egli scrive due canzoni a sfondo patriottico: All’Italia e Sopra il monumento di Dante. Della sua sofferenza fisica e spirituale iniziò a parlare con il Giordani scrittore e uomo di cultura, che con il suo classicismo illuminista, laico e sensista, fu molto importante nella vita di Leopardi. Egli rappresentò il primo contatto con il mondo esterno e contribuì ad avvicinare il poeta alla cultura moderna. In una lettera del due marzo 1818 , il Leopardi scrisse:
“in somma io mi sono rovinato con sette anni di studio matto e disperatissimo [1809-1816] in quel tempo che mi s’andava formando e mi si doveva assodare la complessione. E mi sono rovinato infelicemente e senza rimedio per tutta la vita, e rendutomi l’aspetto miserabile, e dispregevolissima tutta quella gran parte dell’uomo, che è la sola a cui guardano i più; e coi più bisogna conversare in questo mondo.”
Nella prima poesia leopardiana ci troviamo di fronte a un travaglio tutto interiore, a una sofferenza individuale, e piano, piano negli anni attraverso anche momenti particolarmente difficili della vita del poeta, (come una malattia agli occhi che lo costrinse a vivere al buio) approda ad un concetto più ampio di sofferenza. Cito come testimonianza di questa maturazione sia spirituale che letteraria, sue riflessioni fatte sullo Zibaldone.
“Nella carriera poetica il mio spirito ha percorso lo stesso stadio che lo spirito umano in generale. Da principio il mio forte era la fantasia, e i miei versi erano pieni d’immagini, e delle mie letture poetiche io cercava sempre di profittare riguardo alla immaginazione. Io era bensì sensibilissimo anche agli affetti, ma esprimerli in poesia non sapeva. Non aveva ancora mediato intorno alle cose, e della filosofia non avea che un barlume, e questo in grande, e con quella solita illusione che noi ci facciamo, cioè che nel mondo e nella vita ci debba esser sempre un’eccezione a favor nostro. Sono sempre stato sventurato, ma le mie sventure d’allora erano piene di vita, e mi disperavano perché mi pareva (non veramente alla ragione, ma ad una saldissima immaginazione) che m’impedissero la felicità, della quale gli altri credea che godessero. In somma il mio stato era allora in tutto e per tutto come quello degli antichi.(….) La mutazione totale in me, e il passaggio dallo stato antico al moderno, seguì si può dire dentro un anno,(….) cominciai ad abbandonar la speranza, a riflettere profondamente sopra le cose (…) a divenir filosofo di professione ( di poeta ch’io era), a sentire l’infelicità certa del mondo, in luogo di conoscerla, e questo anche per uno stato di languore corporale, che tanto più mi allontanava dagli antichi e mi avvicinava ai moderni[… ] Ed io infatti non divenni sentimentale, se non quando perduta la fantasia divenni insensibile alla natura e tutto dedito alla ragione e al vero, in somma filosofo.”
Nel 1819 assistiamo dunque al tentativo di giustificare e razionalizzare la propria sofferenza individuale, nell’ambito di una più vasta riflessione della condizione umana. Accostatosi anche ai moderni in oltre viene influenzato da Rousseau, filosofo e scrittore svizzero di lingua francese del 1700. Per Rousseau “bisogna che l’individuo si riappropri di quella parte irrazionale dell’io che gli illuministi sembravano aver trascurato” . Come il filosofo francese che contrapponeva lo stato di natura alla corruzione portata dalla civiltà anche Leopardi critica la società accusandola di porre limiti all’uomo. Considera così la sofferenza, quel senso di vuoto non più individuale e privato ma storico sociale, il frutto di un decadimento progressivo dell’umanità, dov’è la ragione la causa della nostra sofferenza perché essa ci allontana dal nostro stato naturale. La ragione è fredda e analitica, taglia le ali al sentimento ed alle passioni umane. Cito alcuni pezzi del Dialogo della natura e di un’Anima, dove la natura si mostra essere incolpevole.
Natura. Va, figliola mia prediletta, che tale sarai tenuta e chiamata per lungo ordine di secoli. Vivi, e sii grande e felice.
Anima. Che male ho io commesso prima di vivere,che tu mi condanni a cotesta pena?
Natura. Che pena figliola mia?
Anima. Non mi prescrivi tu di essere infelice?
Natura. Ma in quanto che io voglio che tu sii grande non si può questo senza quello.Oltre che tu sei destinata a vivificare un corpo umano: e tutti gli uomini per necessità nascono e vivono infelici.
Anima. Ma in contrario saria di ragione che tu provvedessi in modo, che eglino fossero felici per necessità; o non potendo far questo, ti si converrebbe astenersi da porli al mondo.
Natura. Né l’una né l’altra cosa è in potestà mia, che sono sottoposta al fato; il quale ordina altrimenti, qualunque se ne sia la cagione; che né tu né io la possiamo intendere. […]
Natura. […] la finezza del tuo intelletto, e la vivacità dell’immaginazione, ti escluderanno da una grandissima parte della signoria di te stessa. Gli animali bruti usano agevolmente ai fini che eglino si propongono, ogni loro facoltà e forza. Ma gli uomini rarissime volte fanno ogni loro potere; impediti ordinariamente dalla ragione e dall’immaginativa; le quali creano mille dubbietà nel deliberare, e mille ritegni nell’eseguire. I meno atti o meno usati a ponderare e considerare seco medesimi, sono i più pronti sl risolversi, e nell’operare i più efficaci.[…]
Natura. Figliola mia; tutte le anime degli uomini, come io ti diceva, sono assegnati in preda all’infelicità, senza mia colpa[…]
L’ultima fase, quella della maturità, coinvolge sia il poeta che l’uomo Leopardi. Si allontana dalla religione e approda a un pessimismo materialistico. Sotto l’influenza sensista nega ogni allontanamento dalla natura: “non esiste uno stato felice di natura da cui l’uomo si sarebbe allontanato”, noi non siamo liberi, tutto è gia prestabilito e insito nella natura, “l’uomo come gli altri esseri viventi, nasce al solo scopo di morire”. Secondo quanto citato anche nel Dizionario Enciclopedico della Letteratura Italiana (pag. 364-65) “[…] E’ proprio la natura che, per una legge insopprimibile dell’universo, crea gli esseri e poi li perseguita fino alla distruzione, per dare vita a nuovi esseri, in modo che non venga incrinato l’equilibrio dell’universo. Ineluttabilmente l’uomo è infelice, perché non riesce a soddisfare quell’ansia di piacere che è in lui.”
Cambia anche il ruolo attribuito alla ragione: adesso non è più causa d’infelicità umana, ma efficace strumento conoscitivo, capace di svelare la contraddizione del reale.
“[…] per il Leopardi il solo modo di accettare la realtà è quello di chi, superato il periodo illusorio della puerizia, conosce la fredda verità e nullità della vita, e la accetta eroicamente,rigettando la prosa mediocre di un’esistenza accomodante, in cui la maggiore parte degli uomini ama adagiarsi soddisfatta.”
Il Dialogo della Natura e di un Islandese che esprime in modo chiaro ed esplicito il concetto della Natura nemica dell’uomo può aiutare a capire meglio quest’ultima fase del pensiero Leopardiano.
Per tutta la sua vita Leopardi cercò un riscatto per sé e per l’essere vivente, non volle piegarsi alla natura matrigna. Egli trovò nell’infinito e nel vago la speranza per dei momenti di felicità che solo in un oggetto avvolto da un velo, le cose che non si presentano nella loro nudità possono regalarci. L’anima, attraverso l’indefinito, esprime il meglio di sé. Le illusioni a volte ci possono dare quel piacere che sempre affannosamente cerchiamo senza riuscirlo ad appagare nella schietta e viva quotidianità. Le illusioni con il loro mondo magico e misterioso possono dare sapore a quella vita che spesse volte si presenta insipida e amara. L’anima immagina quello che non vede e si figura cose che non potrebbe se la sua vista si estendesse dappertutto. Lavorando di immaginazione il fantastico subentra al reale. Cercherò ora di spiegare meglio questa sua teoria del piacere citando il pensiero del poeta facendo riferimento a Asor Rosa che dice:
“ Nella natura […] va cercata la radice di quel tanto di piacere (ossia di felicità), che ci è concesso.[…] Ad una illusione ottica provocata dalla natura si deve anche quello scambiare per vera felicità la semplice aspettazione o il ricordo nostalgico di una felicità assolutamente immaginaria, che poi è l’unica forma di felicità a noi concessa, proprio in quanto è illusoria. Contro tutte le “riduzioni” spiritualistiche, è alla spinta materiale, istintiva, della natura che occorre rivolgersi quando ci manca la forza di continuare la nostra vita meccanica e vuota, ad essa bisogna chiedere ispirazione per far parlare , - e dunque addolcire, - il nostro dolore”.
L’indefinito e la rimembranza rappresentano due varianti particolari in quello che è la ricerca del piacere. In Leopardi c’è un rimpianto struggente per tutto ciò che si perde e si consuma. Tutto ci sfugge, è difficile decifrare la natura.
Le Ricordanze e L’Infinito rappresentano i momenti salienti di questa teoria.
Per problemi di spazio riporterò solo L’Infinito accompagnato da una breve presentazione.
L’Infinito è uno dei testi più celebri della nostra letteratura. Qui il Leopardi riesce a riassumere in maniera idillica la tematica del vago e dell’infinito. Il poeta immerso in una contemplazione solitaria, lascia che il suo io venga trasportato, libero da ogni limite spaziale e temporale, inebriandosi di quel piacere che l’immaginazione gli procura. Attraverso il filtro della siepe, guarda lontano il paesaggio immaginandosi spazi infiniti. Il Leopardi in questo suo naufragare non perde mai la razionalità non si tratta di una fuga ma soltanto di una breve e magnifica consolazione, per usare un formula nota, ci troviamo di fronte a “un sogno fatto in presenza della ragione”.
Sempre caro mi fu quest’ermo colle,
e questa siepe, che da tanta parte
dell’ultimo orizzonte il guardo esclude.
Ma sedendo e mirando, interminati
spazi di là da quella, e sovrumani
silenzi, e profondissima quiete
io nel pensier mi fingo; ove per poco
il cor non si spaura. E come il vento
odo stormir tra queste piante, io quello
infinito silenzio a questa voce
vo comparando: e mi sovvien l’eterno,
e le morte stagioni, e la presente
e viva, e il suon di lei. Così tra questa
immensità s’annega il pensier mio:
e il naufragar m’è dolce in questo mare.
Come già accennato in precedenza, la prima formazione culturale del Leopardi è classica, ma ad essa si è venuta ad aggiungere negli anni la cultura illuministica e romantica propria del periodo leopardiano. Con il nuovo avvicinamento ad altre culture non si assiste però ad un allontanamento dalla cultura classica, sempre presente nei suoi scritti, ma egli prende le distanze dalla poesia della tradizione classicista italiana, considerandola nient’altro che una fredda imitazione dei grandi poeti classici e definì la poesia di Monti così:
“ Nel Monti è pregiabilissima e si può dire originale e sua propria la volubilità armonia mollezza cedevolezza eleganza dignità graziosa, o dignitosa grazia del verso, e tutte queste proprietà,parimente nelle immagini, alle quali aggiungete scelta felice, evidenza, scolpitezza ecc. E dico tutte giacché anche le sue immagini hanno un certo che di volubile molle pieghevole facile ecc. Ma tutto quello che spetta all’animo al fuoco all’affetto all’impeto vero e profondo si sublime, sia massimamente tenero gli manca affatto. Egli è un poeta veramente dell’orecchio è dell’immaginazione, del cuore in nessun modo, […]”
Leopardi avvicinatosi al Romanticismo ne condivise certi atteggiamenti esistenziali, come l’angoscia, l’oblio, la malinconia, nonché la polemica contro la mitologia greca e l’imitazione pedissequa della tradizione classica, non accetterà mai l’esaltazione eroica, la passionalità, il sentimentalismo, il nesso letteratura politica. L’imitazione della natura spingeva il Leopardi a descrivere con precisione le forme e i contorni e si serve sempre del cuore, ricavando dal classicismo una spinta agonistica, una volontà di esperienza forte, ignota ai romantici. La sua è una poesia fatta di sentimento puro e sentito, mentre nel romanticismo il sentimentale è spesso affettato, viziato da una compiaciuta contemplazione di sé, inoltre la poesia Leopardiana oltre ad essere sentimentale e anche fortemente meditativa. Per Leopardi la vera poesia è quella intima e spontanea. La sua poesia nasce da un fondamento sensibile, materiale, non metafisico ma portato ad esprimere una totalità del rapporto uomo–natura. La poesia deve essere ”lo sfogo immediato dei sentimenti che il cuore o l’anima del poeta canta” , opinione questa condivisa con i Romantici, però per il poeta lo scopo primario della poesia rimane il bello, il bello alla maniera classicista.
Essendo il suo pensiero impregnato anche dal precetto illuministico: prima a quello di Vico e di Rousseau e poi nella maturità a quello illuministico materialistico come Holbach e Helvetius. Egli condannò nei Romantici il legame con la religione e l’immersione nell’oscurità, l’evasione dal reale. Egli non ammirò quell’amore per il medioevo dei Romantici, come per gli illuministi così per il poeta era considerato un secolo buio, epoca negativa, trionfo della barbarie.
Quindi la poesia di Leopardi fu, sì, sentimentale, ma non alla maniera dei romantici. Egli diventa così portavoce di quella nuova poesia tutta leopardiana intrisa sia dagli insegnamenti dei grandi autori classici, sia da quelli legati alla cultura illuministica.
1.1 Il concetto di poesia in Leopardi
Nella poesia affronta le tematiche sentimentali ed esistenziali con una forte presenza dell’uomo e del poeta. Egli si riallaccia alla poesia interioristica e prosegue quel filone letterario cominciato dal Petrarca, proseguito dal Tasso.
La poesia deve essere libera, immune da ogni condizionamento. “La poesia è lo sfogo immediato dei sentimenti che il cuore o l’anima del poeta canta”.
“L’utile non é il fine della poesia benché questa possa giovare. […] La poesia può esser utile indirettamente, come la scure può segare, ma l’utile non è il suo fine naturale, senza il quale essa non possa stare, come non può il dilettevole, imperocché il dilettare è l’ufficio naturale della poesia.”
Per Leopardi un ruolo importante nella poesia è quello della rimembranza. Infatti tramite il ricordo noi arricchiamo e rendiamo piacevole, pieno di suggestione quello che al contatto diretto ci può apparire invece privo di significato.
“La rimembranza è essenziale e principale nel sentimento poetico, non per altro, se non perché il presente, qual ch’egli sia, non può esser poetico, e il poetico, in uno o in altro modo, si trova sempre consistere nel lontano”.
La sua poesia è dunque fortemente sensibile e intrisa di sentimento ma anche di razionalità, è capace di coinvolgere l’animo umano provocando in esso sensazioni forti e appassionata partecipazione, capace di commuovere e di agitare. La poesia diventa lo strumento per conoscere sé stessi e per dar voce a tutti i moti dell’animo. Con gli Idilli si entra nel vivo della poesia intima del poeta, qui sono pochi i riferimenti storici e culturali, ma sono soprattutto espressione della totalità del rapporto uomo–natura.
Il termine “idilli” deriva dagli Idilli di Mosco, un poeta greco che egli aveva precedentemente tradotto, ma diversa è la sostanza dei componimenti leopardiani, che il Leopardi stesso definì “situazioni, affezioni, avventure storiche del suo animo”. Tra la composizione dei primi idilli e i cosiddetti grandi idilli corre un periodo di tempo abbastanza lungo durante il quale subentra una nuova posizione del poeta. Secondo Leopardi ai moderni non è più concessa una poesia di immaginazione ma soltanto una poesia sentimentale. La poesia moderna non può più essere imitazione passiva degli antichi, ma un’imitazione della natura che ciascuno porta in sé. Inizia un processo di allontanamento dall’immaginazione legata al vago e all’indefinito per avviarsi verso una poesia più riflessiva, filosofica e lirica ma pur sempre sentimentale.
Negli Idilli c’è molto di autobiografico. Essi sono componimenti in endecasillabi sciolti ed esprimono in maniera nuova e straordinaria sensazioni, ricordi, sentimenti vissuti dal poeta, sempre con quello sguardo attento di chi sa leggere dentro di sé e negli altri.
I primi Idilli, composti tra il 1819 e il 1821, sono: L’Infinito, Alla luna, La sera del dì di festa, Il sogno, La vita solitaria. In queste poesie gli oggetti e i paesaggi hanno una vibrante carica sentimentale, ricca di echi antichi e lontani, evocazioni della memoria, il riemergere di momenti inebrianti, una fresca armonia di suoni, odori, colori, e dolore per quei momenti lontani, per quella forte percezione di un mondo ormai perduto per sempre.
I grandi Idilli sono: A Silvia, Le Ricordanze, Il passero solitario, La quiete dopo la tempesta, Il sabato del villaggio, Canto notturno di un pastore errante dell’Asia. Questi fanno parte dei canti della maturità, portano ad accentuare l’elemento riflessivo e filosofico però non a scapito di quello lirico e sentimentale. Questi secondi Idilli sono tutti in qualche modo ispirati all’ambiente recanatese. Vari sono i pensieri che si riferiscono ai morti, alla loro memoria, al bisogno di richiamarne l’immagine. In queste poesie c’è un poeta più maturo, egli sente ancora di più il bisogno di oggettivazione e di chiarificazione del suo mondo sentimentale e poetico, è una poesia maggiormente legata alla realtà, a quel pessimismo materialistico. Il dolore è universale, basato su una contemplazione più pacata e distaccata della propria infelicità e lo spirito è più sereno. C’è una liricità più complessa, più vasta e sicura. Il linguaggio poetico è nello stesso tempo più semplice, famigliare, spontaneo ma nello stesso tempo non abbandona quello stile nobile e prezioso tipico della poesia leopardiana.
Che cosa meglio della poesia A Silvia, può riassumere la poetica degli Idilli?
Silvia, rimembri ancora
quel tempo della tua vita mortale,
quando beltà splendea
negli occhi tuoi ridenti e fuggitivi,
e tu, lieta e pensosa, il limitare
di gioventù salivi?
Sonavan le quiete
stanze, e le vie d'intorno,
al tuo perpetuo canto,
allor che all'opre femminili intenta
sedevi, assai contenta
di quel vago avvenir che in mente avevi.
Era il maggio odoroso: e tu solevi
così menare il giorno.
Io gli studi leggiadri
talor lasciando e le sudate carte,
ove il tempo mio primo
e di me si spendea la miglior parte,
d’in su i veroni del paterno ostello
porgea gli orecchi al suon della tua voce,
ed alla man veloce
che percorrea la faticosa tela.
Mirava il ciel sereno,
le vie dorate e gli orti,
e quinci il mar da lungi, e quindi il monte.
Lingua mortal non dice
quel ch’io sentiva in seno.
Che pensieri soavi,
che speranze, che cori, o Silvia mia!
Quale allor ci apparia
la vita umana e il fato!
Quando sovviemmi di cotanta speme,
un affetto mi preme
acerbo e sconsolato,
e tornami a doler di mia sventura.
O natura, o natura,
perché non rendi poi
quel che prometti allor? perché di tanto
inganni i figli tuoi?
Tu pria che l’erbe inaridisse il verno,
da chiuso morbo combattuta e vinta,
perivi, o tenerella. E non vedevi
il fior degli anni tuoi;
non ti molceva il core
la dolce lode or delle negre chiome,
or degli sguardi innamorati e schivi;
né teco le compagne ai dì festivi
ragionavan d’amore.
Anche perìa fra poco
la speranza mia dolce: agli anni miei
anche negaro i fati
la giovinezza. Ahi come,
come passata sei,
cara compagna dell’età mia nova,
mia lacrimata speme!
Questo è il mondo? questi
i diletti, l’amor, l’opre, gli eventi,
onde cotanto ragionammo insieme?
questa la sorte delle umane genti?
All’apparir del vero
tu, misera, cadesti: e con la mano
la fredda morte ed una tomba ignuda
mostravi di lontano.
“La ragione umana e l’uomo stesso son poca cosa nell’universo ma il riconoscerlo non è di per sé una misura di grandezza e nobiltà”(frase di Giacomo Leopardi).
Il poeta è stato a lungo accusato, sia dai suoi contemporanei, sia da molti critici del Novecento, di far poesia strettamente legata al proprio dolore. Il pessimismo leopardiano fu attribuito ai suoi mali fisici e alle ristrettezze nelle quali fu costretto a vivere. Giacomo Leopardi deve il suo riconoscimento alla critica moderna. Non è proprio vero, da quello che si può dedurre dai suoi scritti, che egli si sentisse l’uomo più infelice della terra, nè tanto meno il caposaldo del pessimismo. Il pessimismo del poeta non è altro che un pensiero di vita. Egli ha saputo trasformare un grido di dolore individuale in quello di tutti gli uomini. Egli ha guardato dentro di sé ma non al proprio dolore, ci parla di una sofferenza comune, che include il dolore, la vecchiezza e la morte riguardanti tutti gli esseri viventi, racchiudendo sia i mali del corpo che quelli dello spirito.
In tutta l’opera leopardiana ci troveremo sempre di fronte a un desiderio di verità. Come egli stesso ci dice in un suo pensiero:
“rifiuto ogni consolazione e ogn’inganno puerile, ed ho il coraggio di sostenere la privazione di ogni speranza, mirare intrepidamente il deserto della vita, non dissimularmi nessuna parte dell’infelicità umana, ed accettare tutte le conseguenze di una filosofia dolorosa ma vera”.
Il poeta di fatto parlando di dolore, in quelle parole di accorato pessimismo non fa altro che mettere in evidenza le bellezze della vita terrena. Le sue poesie spesso si aprono con descrizioni paesaggistiche di infinita bellezza. In effetti possiamo dire che il suo pensiero pessimistico viene contraddetto dalla sua stessa poesia, ricca sempre di evocazioni e che si rivolge a una natura prodiga di magnificenze. Il lettore quando si trova a leggere i versi leopardiani viene ad amare la vita, quella stessa vita che il poeta amò. Dai suoi scritti emergono, nonostante la rigidità dell’ambiente in cui visse, spazi di un’infanzia felice. Felicità, smania di vivere, avidissima voglia di sapere si trovano alla base della poetica leopardiana. Attraverso i ricordi, le illusioni, l’immaginario egli ci regala dei versi di sconfinata nostalgia per tutto ciò che è stato e per quello che si potrà ancora ammirare e godere. Come egli stesso ci dice in una pagina dello Zibaldone:
“[…] [3814] Quindi la natura, ch’è vita, è anche felicità. E quindi è necessario alle cose esistenti amare e cercare la maggior vita possibile a ciascuna di loro. E il piacere non è altro che vita ecc. E la vita è piacere necessariamente, e maggior piacere, quando essa vita è maggiore e più viva. […] Quindi ciascuno essere, amando la vita, ama se stesso: pertanto non può non amarla, e non amarla quanto si possa di più. […]”.
È dunque la vitalità, l’energia vitale che egli identifica con il buono naturale.
Egli amò vivere la vita intensamente, lottò per poterla conoscere da vicino: di viverla con tutte le sue risorse e tutti i suoi rischi, con le molteplici possibilità di esperienza che sembrava offrire; e il contrasto fra tanta esuberanza interiore e il mondo di fuori, l’indifferenza di questo, alla quale il Leopardi, disposto, secondo ciò che diceva il Giordani, a sopportare le percosse, non si sarebbe rassegnato mai. Il Leopardi, infatti, celebra la giovinezza e la bellezza della natura e della vita, anche se con lo stato d’animo doloroso di colui che da tutto ciò si sente escluso. Il suo fu comunque un pessimismo eroico e mai rassegnato. Egli reagisce inoltre perché ha in sé un forte senso dell’essere che nessuna logica può distruggere e perché possiede una costante fiducia nella dignità umana. La sua energia si esprime nelle sue stesse parole:
[…] e di più vi dico francamente che io non mi sottometto alla mia infelicità, né piego il collo al destino o vengo seco a patti come fanno gli altri uomini […]
Come due altri scrittori importanti della letteratura italiana, Alfieri e il Foscolo, anche Leopardi parla di suicidio. Due sono le canzoni e sono Bruto Minore, composta nel dicembre1821, e Ultimo canto di Saffo, composta nel maggio 1822. La prima presenta un suicidio civile: rievoca la vicenda di Bruto, che sconfitto a Filippi lamenta il crollo delle illusioni della Roma repubblicana, la seconda presenta invece un suicidio esistenziale. Il conflitto qui è tra l’infelice poetessa greca spiritualmente sensibile ma fisicamente brutta e l’armonia di una natura che ella può percepire ma alla quale resta estranea. Dunque ancora una volta il suicidio viene visto come un momento di rivolta contro un destino crudele e inevitabile. Il tema del suicidio nella poetica leopardiana non è centrale, è un atto momentaneo legato a quel sentimento di impotenza, anzi egli lo sentiva come atroce e mostruoso. Il suicidio appare in un’altra opera del poeta nel Dialogo di Plotino e di Porfirio, del 1827, ma qui il suicidio non viene compiuto, infatti questa operetta anticipa quella necessità di solidarietà umana di fronte al destino, solidarietà che verrà ripresa nella Ginestra. Il racconto parla di Porfirio il quale vuole suicidarsi perché turbato interiormente. Plotino, per impedirglielo, gli spiega che la validità del suo gesto sarebbe nulla in quella società coatta in quanto essa andrebbe avanti comunque. Il suicidio di Porfirio sarebbe solo una mancanza per gli affetti di chi lo amava. Plotino per convincere Porfirio accantona la ragione e fa appello ai sentimenti. Mentre il Bruto della famosa canzone sopra citata, dopo aver ragionato, si suicida, solitario, sdegnoso del putrido mondo, Porfirio, ripetuti in parte i medesimi ragionamenti, vive perché si sente circondato di famigliari, d’amici a cui non vuol dare un dolore. Il dialogo, si conclude con una appassionata esortazione rivolta da Plotino all’amico:
“Viviamo Porfirio mio, e confortiamoci insieme: non ricusiamo di portare quella parte che il destino ci ha stabilita, dei mali della nuova specie. Si bene attendiamo a tenerci compagni l’un l’altro; e andiamoci incoraggiando, e dando mano e soccorso scambievolmente; per compiere nel miglior modo questa fatica della vita. La quale senza alcun fallo sarà breve. E quando la notte verrà, allora non ci dorremo: e anche in quell’ultimo tempo gli amici e i compagni ci conforteranno: e ci rallegrerà il pensiero che, poi che saremo spenti, essi molte volte ci ricorderanno, e ci ameranno ancora.”
Contro queste pessimistiche concezioni insorge dunque il sentimento, esprimendosi per mezzo della poesia, che nel Leopardi appare come una continua rivolta contro le conclusioni della ragione. Il poeta è fermamente convinto che l’uomo non merita la sua infelicità, che è qualcosa di ingiusto e assurdo.
In un’altra delle Operette Morali il Leopardi esprime la dignità di vivere, dandoci ancora una volta testimonianza di una forte sensibilità, di amare il vero. Si tratta del Dialogo di Cristoforo Colombo e di Pietro Gutierrez:
Colombo.[…] Se al presente tu ,ed io, e tutti i nostri compagni, non fossimo in su queste navi, in mezzo di questo mare, in questa solitudine incognita, in istato incerto e rischioso quanto si voglia; in quale altra condizione di vita ci troveremmo essere? In che saremmo occupati? In che modo passeremmo questi giorni? Forse più lietamente o non saremmo anzi in qualche maggior travaglio o sollecitudine, ovvero pieni di noia? Che vuol dire uno stato libero da incertezze e pericolo? Se contento e felice, quello è da preferire a qualunque altro; se tedioso e misero, non veggo a quale altro stato non sia da posporre. […] Quando altro frutto non ci venga da questa navigazione, a me pare che ella ci sia profittevolissima in quanto che per un tempo essa ci tiene liberi dalla noia, ci fa cara la vita, ci fa pregevoli molte cose che altrimenti non avremmo in considerazione. […] Io per lo stesso rispetto giudico che la vita si abbia da molto poche persone in tanto amore e pregio come da’ navigatori e soldati. Quanti beni che, avendoli, non si curano, anzi quante cose che non hanno pur nome di beni, paiono carissime e preziosissime ai naviganti, solo per esserne privi! […]
In queste parole troviamo una conferma all’amore per la vita, il coraggio per affrontarla, viverla, e non subirla passivamente. C’è ottimismo e soprattutto quella voglia di sapere di conoscere insita nella personalità del poeta. Bisogna combattere contro ogni indifferenza sia sociale, che quella stessa della natura contro gli uomini.
Leopardi, abbandonata definitivamente Recanati il 30 aprile del 1830, visse i suoi ultimi anni assieme all’amico Ranieri a Napoli ed è qui che egli scrisse La Ginestra che assieme al Tramonto della Luna fu l’ultima sua opera. Composta nel 1836 in una villetta alle falde del Vesuvio, la Ginestra rappresenta una vera e propria summa delle meditazioni leopardiane. Si direbbe che una passione a lungo trattenuta trovi il modo ora di uno sbocco liberatorio. Sotto l’incombente, minacciosa mole del Vesuvio, nella desolazione di una pendice resa sterile dalla lava, cresce la ginestra “contenta dai deserti”. La ginestra è l’esempio di coraggio: anche se il vulcano la travolgerà essa rimarrà sotto, come atto di titanismo. Il tema centrale della poesia è la solidarietà, messaggio indirizzato a tutti gli uomini, un’alleanza che coalizzi i mortali contro l’empia natura e abbia il coraggio della verità, rifiutando l’idea della provvidenza e le ”superbe fole del secol superbo e sciocco”. Il poeta si oppone a quella società che mette al centro l’uomo, quando esso è infinitamente piccolo e fragile nell’universo, soggetto ad ogni intemperie. La Ginestra completa la critica al cristianesimo e fa appello al vero, senza cedimenti e senza orgoglio; contrapponendo all’infelicità comune l’esigenza di una solidarietà nuova tra i viventi. Rivolto ad affrontare “l’arido vero” egli guarda con disprezzo, quanti si illudono, per volontà consolatoria e debolezza o viceversa per superbia intellettuale (ridicola superbia se si guarda alla pochezza –nullità dell’uomo nell’universo, tema questo topico della riflessione leopardiana) che l’uomo sia destinato all’immortalità. Walter Binni, letterato e critico, si pone questa domanda: “Quali sono dunque gli obiettivi polemici del Leopardi? In primo luogo lo spiritualismo cristiano e ogni forma di spiritualismo e misticismo romantico ( si pensi all’esaltazione del Medioevo come età della fede, che egli giudica invece semplicemente età di barbarie, v. 75). Precisa è la polemica, ad esempio, contro il dogma della divinità, nei versi 189 della Ginestra. Ma anche quel pensiero laico illuministico ottimista circa le possibilità di un progresso legato allo sviluppo delle scienze e delle tecniche”. La Ginestra che raccoglie in sé tutto il pensiero leopardiano, è stata per la sua tematica sottoposta ad analisi da diversi critici che hanno scoperto in essa innumerevoli messaggi: ad esempio Binni-Luporini-Timpanaro hanno visto nella Ginestra “una conclusione etico – poetica di un Leopardi materialista e progressivo”. L. Salvatorelli parla di ottimismo socio –politico, il superamento dell’individualismo titanico per quello sociale e collettivo ecc.
Assieme ai diversi messaggi che possiamo cogliere nella Ginestra come appunto quello di solidarietà, il Leopardi non trovando rispondenza né comprensione nella classe politica e intellettuale del suo tempo, la quale professa fiducia nelle “magnifiche sorti e progressive”, insorge contro l’ottimismo storicistico del secolo, che egli giudica stolto, e contro lo stesso impegno politico e legislativo, che egli vede animato dalla sterile e ridicola pretesa di procurare agli stati il benessere e la felicità ignorando le reali esigenze degli individui.
Niente di più efficace poteva esprimere il pensiero del poeta che una Ginestra che nasce dalle ceneri e vive minacciata dalle ceneri.
Contrasto forte che fa proprio del deserto il campo più fertile, il luogo più adatto dove la vita può risorgere con grande trionfo. Un trinomio perfetto: vita il fuoco, morte le ceneri, vita la ginestra, che orgogliosa e bella, luce splendente che con il suo colare e odore domina sulla morte che riposa sopra le sue radici. Essa potrà soccombere quando tornerà a colare la lava, ma fino a quel momento non piega il capo, ma neppure lo alza verso le stelle come fanno gli uomini stolti che si credono immortali. Lotta contro il destino crudele ma non cieca illusione della vita. Negli ultimi componimenti si apre cosi una nuova fase, egli si apre a una maggiore comprensione umana. Gli scritti posteriori al 30: il ciclo di Aspasia, il Dialogo di Tristano ed un amico, la satira politico-culturale dei Paralipomeni della Batracomiomachia, alcuni canti tra cui il Tramonto della Luna e La Ginestra, ed altri, documentano una svolta importante nella vita e poesia di Leopardi. Egli cerca di stabilire un dialogo, sia pur polemico, con la realtà che prima aveva sentita estranea. Il poeta cerca di uscire dal proprio isolamento rendendo l’ultima sua poesia ricca di valori umani e universali, da cui scaturisce una lirica attiva, argomentativa e combattiva, non più idillica. Possiamo concludere dicendo che si afferma la conquista di una certa fiducia dovuta alla scoperta del valore della solidarietà umana. Ciò completa il suo messaggio di consapevolezza e di coraggio nei confronti del destino.
Leopardi è stato il poeta del linguaggio universalmente umano, ed è stato il più risoluto nostro poeta moderno nella lotta contro ogni mito ed inganno retorico ed evasivo. È stato sempre strenuamente responsabile della propria parola poetica come abbiamo visto. Non è un nichilista come lo vogliono in molti. Egli amò la vita, cercando sempre di coglierne l’essenza. Si commuove di fronte a ogni palpito della natura: cielo, uccelli, paesaggi, esprimendoli con le parole più toccanti e incisive, riuscendo sempre a dare all’animo umano sensazioni forti.
Filosofo, pensatore e poeta si può dire che Leopardi sia per la poesia quello che Beethoven è per la musica. Come il musicista, egli visse a cavallo tra due culture: quella Illuministica e Romantica, sapendone cogliere idee e nuovi messaggi, riuscendo a fondere le due correnti e nello stesso tempo a superarli dando al suo pensiero un’impronta tutta personale. Nelle sue parole c’è un suono, un suono che come le note di Beethoven tocca la mente direttamente. Parole e note che sono memoria del vissuto e il lettore non può che coglierne la melodia.
Ripercorrendo la formazione del poeta, si parte da una formazione isolata e solitaria, da autodidatta, da uno studio tutto dedito al mondo classico. In questa prima fase, il poeta, rimpiange un mondo mitico di nobili virtù e di valori incorrotti, in cui gloria e fama, erano gli unici antidoti contro il grigiore della vita. A questo periodo appartiene anche l’amicizia con il classicista Pietro Giordani, che segnò l’apertura del poeta a nuove conoscenze più vicine al suo periodo. Si accostò, così, piano, piano alla filosofia del ’700: Rousseau ,Vico ed altri, e con essi subentra il pensiero di una natura benigna, dove la ragione risulta essere la fonte del malessere umano, perché disinganna ed allontana l’uomo dalla vicinanza alla natura. L’uomo dovrebbe ritornare alla natura, perché potrebbe recuperare l’ingenuità, ed invece si allontana. Dagli Illuministi apprezzò le teorie ateo-materialistiche, con particolare preferenza verso le tendenze meccanicistiche e fatalistiche, ma ne rifiutò il cieco ottimismo, e la fede positivista nel progresso. In seguito, si accostò anche al Romanticismo, del quale però se condividerà certi atteggiamenti esistenziali, come l’angoscia, l’oblio, la malinconia, non accetterà mai l’esaltazione eroica, la passionalità, il sentimentalismo, il nesso letteratura/politica, ecc Leopardi considera gli antichi come saggi patriarchi, mentre i moderni dicono solo cose mediocri, privi dell’antica naturalezza. Anche se la poesia moderna è a volte libera e fantasiosa, è spesso intrisa di speculazioni logiche che ne corrompono la bellezza. La vera poesia è per Leopardi quella lirica, perché voce dell’ego individuale, ma l’uomo moderno non può prescindere dalla storia dei popoli. La soluzione per il poeta Leopardi è una poesia – filosofia, composta da sentimenti e spunti riflessivi (poesia più ornata della filosofia, cioè il poeta alla liricità affianca sempre una meditazione vicina alla filosofia). La poetica può essere divisa in quattro fasi: la poesia più ornata della filosofia (piccoli idilli, dopo i quali vi è il passaggio dal pessimismo individuale a quello cosmico), un silenzio poetico (con i componimenti in prosa), il ritorno alla poesia con i Grandi Idilli ed infine il periodo napoletano: che da alcuni critici è considerato come conclusivo, da altri come l’inizio di una nuova grande fase, però stroncata dalla sua morte. Le sue fasi si suddividono sotto il nome di : pessimismo storico: natura benigna, amore per le illusioni che ci riportano a quel mondo di stato felice; pessimismo cosmico: rivalutazione della ragione, natura matrigna, constatazione dell’arido vero; ed infine pessimismo eroico: amore per la verità, solidarietà, trionfo della vita sulla morte.
Al di là di ogni speculazione Leopardi è un grande poeta lirico capace di dar voce alle sensazioni più indefinite ed inafferrabili. Amore per il vago, non imitazione della realtà ma espressione di un sentimento intimo.
Per una lettura piacevole, ed amena del poeta bisogna tralasciare ogni teoria e tuffarsi direttamente nei suoi scritti, lasciandosi pervadere dalla parola del Leopardi.
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Tratto da Tra Neoclassicismo e Romanticismo di Gino Tellini, cap X.
Ispirato da Il sistema letterario, Guglielmino/Grosser, pp. 207-213, Il pensiero in movimento di Leopardi, Sergio Solmi pp 10 e Dizionario Enciclopedico della Letteratura Italiana, Laterza, pp 364. e dal mio senso poetico.
Lettera a Pietro Giordano, 02-03-1818.
Zibaldone di pensieri [143].
Citato in Francesco Monetti, Introduzione a Giacomo Leopardi.
Operette Morali, Dialogo della natura e di un ‘Anima
Zibaldone di pensieri, [37]
Tratto da Francesco Monetti, Introduzione a Giacomo Leopardi.
Zibaldone di pensieri, [3]
Fonte: http://www.maths.lth.se/matematiklth/personal/mario/patri/leop
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