Leopardi sulla musica

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Leopardi sulla musica

Le celebrazioni per il bicentenario della nascita di Giacomo Leopardi, hanno rappresentato un’importante occasione per la critica che ha avuto modo di ripercorrere i suoi sentieri usuali, ma anche di introdurre nuovi spunti di riflessione, o di riprendere e sviluppare temi, come quello trattato nel presente lavoro, la cui problematicità non è stata indagata fino in fondo, e che sono rimasti, per molti anni, in una posizione marginale rispetto all’interesse per i capisaldi del pensiero leopardiano, la natura, le illusioni, la ragione, il pessimismo, la politica, e via discorrendo.
Dopo i primi accenni di interesse verso il rapporto che legò Leopardi alla musica, da parte di Arturo Graf, Romualdo Giani e Giuseppe Antonio Borgese, e dopo l’interessante saggio del 1910, dal titolo Per un Leopardi mal noto, in cui Clemente Rebora, oltre a rendere testimonianza dell’esperienza diretta che il poeta ebbe della musica, e ad elencare le fonti che ne hanno ispirato la riflessione teorica, compie un ulteriore passo in avanti, affermando che la musica, inquadrata nel complesso generale della meditazione leopardiana, rappresenta il punto nodale in cui, da un punto di vista filosofico, l’assoluto converge col relativo, dagli inizi del secolo scorso, perlomeno fino agli anni ’80, con i saggi di Monterosso e De Angelis, la critica non si è soffermata ad approfondire la proposta reboriana, ma ha puntato piuttosto il suo interesse sulla ‘musicalità’ dei Canti, data anche l’incontrastata affermazione dell’estetica crociana che, attribuendo un valore esclusivo alla poesia, ha scoraggiato ogni altro tentativo di lettura.
I saggi più recenti invertono la tendenza, e quasi sembrano non riuscire più a prescindere dall’impostazione reboriana, prediligendo chiavi di lettura filosofiche, esoteriche, o religiose, che appellandosi largamente al Saggio sopra gli errori popolari degli antichi, considerano il suono, componente principale della musica, come voce della divinità e manifestazione dell’Essere, entità trascendentale che si contrappone al nulla, coinvolgendo, a sostegno di queste ipotesi, numerosi altri aspetti della meditazione leopardiana.
Dal momento che il poeta non conosceva le teorie musicali, e non ebbe quindi esperienza diretta di quest’arte, se non in qualità di spettatore [Zib. 3231: «io di me posso accertare che nel mio primo udir musiche (il che molto tardi cominciai) io trovava affatto sconvenienti, incongrue, dissonanti e discordevoli parecchie delle più usitate combinazioni successive di tuoni, che ora mi paiono armoniche, e nell’udirle formo il giudizio e percepisco il sentimento della melodia»], ‘Leopardi e la musica’, è un tema che può essere trattato solo in considerazione di valenze esterne, come quella che attribuisce a tale rapporto il significato filosofico a cui si è accennato sopra, o quella che si sofferma sulla sua funzione poetica, da cui il presente lavoro prende le mosse.
Se l’interesse di Leopardi per la musica fosse stato svincolato da questi aspetti, e in particolare dalla creazione poetica, a cui ci riferiamo, probabilmente vi avrebbe dedicato uno scritto a parte, e invece, non a caso, i settantatré pensieri sulla musica si trovano disseminati tra le pagine dello Zibaldone, che costituisce notoriamente il laboratorio poetico dei Canti.
Le pagine che seguono sono dedicate, in apertura del primo capitolo, a una breve ricognizione della presenza della sfera semantica della musica all’interno dell’opera leopardiana, dal Diario del primo amore ai Ricordi d’infanzia e di adolescenza, dalle Operette morali all’Epistolario, dallo Zibaldone ai Canti, che permette oltretutto di ricostruire gli interessi musicali di Leopardi e della sua famiglia, la predilezione per le composizioni di Gioacchino Rossini, le vicende relative alla costruzione dell’attuale teatro Persiani di Recanati, che coinvolsero in prima persona Monaldo, e poi l’esperienza di spettatore di opere teatrali che il poeta ebbe modo di compiere, prima nella sua città, e poi durante i soggiorni a Roma, Bologna e Napoli.
L’excursus che qui si propone tiene conto ovviamente degli apporti più recenti della critica, dai contributi biografici, ai ricchi cataloghi delle mostre su Leopardi a Roma e Leopardi e Bologna, soffermandosi su tutte quelle impressioni che il poeta ricavava stando a teatro, commentate attraverso gli scambi epistolari con il fratello Carlo, grande appassionato dell’Opera, a cui spesso capitava di invaghirsi di qualche cantante, come nel caso di Clorinda Corradi dedicataria addirittura di un sonetto, o interiorizzate  fino al punto di diventare teoria, e ci riferiamo, ad esempio, all’ammirazione per Rossini che coincide sul piano teorico con l’affermazione della superiorità della musica vicina al genere popolare, contro quella tedesca, fatta apposta per essere compresa dai soli intenditori.
È chiaro che la riflessione sulla musica non può essere interpretata soltanto alla luce delle sensazioni e delle emozioni suscitate dalle occasioni biografiche di ascolto, ma va inserita nel suo ambito più vasto di pertinenza, ovvero, quello che Leopardi stesso definisce nello Zibaldone, come il proprio «Sistema di Belle Arti», e, anche in questo caso, i tipi di approccio approntati dalla critica, di cui si cerca di dare atto, sono molteplici, ma tutti accomunati dal tentativo di riscattare l’interesse del poeta per l’arte dalle ipoteche poste a suo tempo da Graf e De Sanctis.
Secondo Leopardi, tutte le opere d’arte utilizzano mezzi di espressione diversi per raggiungere lo stesso obiettivo che è il ‘diletto’. L’identica considerazione vale anche per la musica i cui effetti non appartengono alla sfera ‘del bello’, ma esclusivamente a quella ‘del piacere’ derivante, a sua volta, dal suono che è capace di agire sull’animo umano in maniera immediata, e non dall’armonia che dipende dalla convenienza ed è pertanto influenzata da molteplici fattori di gusto.
Per esemplificare il meccanismo di produzione del ‘diletto’ da parte del suono, Leopardi ricorre al confronto con ‘odori’ e ‘sapori’ che non è possibile definire belli né brutti, ma solo più o meno piacevoli, e sviluppa, nelle pagine dello Zibaldone, una vera e propria teoria che anticipa alcuni risultati degli attuali studi scientifici sui sensi.
Una particolare attenzione è dedicata alla corrispondenza tra odori e suoni che, agendo direttamente sull’immaginazione e sul ricordo, suscitano quel desiderio infinito di cui il poeta discorre ampiamente nella sua ‘teoria del piacere’, spiegandolo come tendenza connaturata all’esistenza che spinge l’uomo verso il piacere inteso in senso assoluto. Un suono, un odore, un oggetto o un luogo sconosciuto, un ostacolo che restringe la vista, una veduta sconfinata, sono i principali fattori indicati da Leopardi come stimolatori di quella ‘facoltà immaginativa’ che compensa l’irraggiungibile  conquista del piacere, e consente, sul piano poetico, di ricreare in modo fittizio, gli effetti propri della poesia degli antichi.
In quest’ottica, e secondo quanto è teorizzato nel celebre passo dello Zibaldone datato 16 ottobre 1821, il suono, sia in versione tenue che cupa, è un fenomeno naturale capace di evocare immagini poetiche: così una musica dolce o il rumore del tuono, la furia della tempesta, lo stormire del vento, produrranno gli stessi effetti poetici poiché sia il bello che il brutto, in quanto aspetti della stessa realtà, possono diventare, secondo Leopardi, oggetto di imitazione nell’opera d’arte, e, nel caso specifico dei suoni, «immagini bellissime in poesia».
Per dimostrare come il ‘diletto’ proveniente dalla musica appartenga al suono e non alla melodia, Leopardi ricorre all’esempio dell’attrazione esercitata sugli animali, i quali, estranei a qualsiasi concetto umano di convenienza, sono attratti esclusivamente dal potere del suono, nella stessa maniera in cui un suono naturale qualunque, indipendentemente dalla melodia, suscita una vasta gamma di emozioni e di reazioni nell’animo umano: il piacere, il timore, il ricordo e, perché no, l’«impotenza» che esprime il canto dell’usignolo nel famoso episodio virgiliano di Orfeo, mitico poeta e musicista, riportato da Leopardi nella pagina dello Zibaldone datata 17 ottobre 1820.  
Gli effetti della bellezza umana sono simili a quelli del suono perché entrambi appartengono alla sfera ‘del piacere’, e sono alieni da ogni convenienza, così una «leggera stonazione» in musica, come un piccolo difetto nella fisionomia umana non interferisce sul loro grado di piacevolezza: ne sono prova i sentimenti che traspaiono da un’apparente sproporzione, qual è la grandezza degli occhi rispetto al volto.
Nelle opere d’arte di ogni genere, compresa la poesia, sia il bello che il brutto, infondono nell’animo di chi le recepisce, un grado di piacevolezza direttamente proporzionale alla qualità dell’imitazione, emblematico in tal senso è il tema leopardiano, di derivazione ossianica, del ‘piacere della tempesta’, ma la musica si differenzia in questo perché «le altre arti imitano ed esprimono la natura da cui si trae il sentimento, ma la musica non imita e non esprime che lo stesso sentimento in persona, ch’ella trae da se stessa e non dalla natura» (Zib. 79).
L’idea leopardiana di musica si sviluppa entro due principali direttive, la prima, basata sulla valutazione della musica in quanto arte che consta inseparabilmente di suoni musicali e armonie, l’altra, che considera il suono naturale come substrato della musica, generatore delle sensazioni vago-indefinite che sono alla base della poetica dell’Infinito.
Sull’associazione fra gli effetti del suono naturale e la poetica del vago-indefinito, si apre il secondo capitolo del presente lavoro nel quale viene approfondita la distinzione fra suono e armonia, chiamando in causa il discorso sull’assuefazione che genera convenienze diverse a seconda degli individui, delle nazioni e delle epoche. La musica moderna, per superare le limitazioni poste dalla convenienza, ricorre ad un utilizzo sempre più scrupoloso di regole universalmente riconosciute, quali sono quelle del contrappunto che, tuttavia, spiega Leopardi, come avviene con  l’applicazione della grammatica in poesia, privano l’opera di quella naturalezza e immediatezza di sentimenti che erano proprie solo degli antichi. In virtù di questa naturalezza, poesia e musica erano una cosa sola al tempo dei greci prima, cioè, che la formulazione delle teorie musicali e l’irrigidimento delle regole grammaticali, ne decretassero la «funesta» separazione.
La perdita della naturalezza è il risultato prodotto dall’incivilimento che, nel caso della poesia, ha svilito l’immaginazione rendendo il genere ‘sentimentale’, l’unico adatto ai moderni, nel caso della musica ha favorito una corruzione dei gusti e dei costumi tale da rendere indispensabile un riavvicinamento al genere popolare, rappresentato perfettamente dalla musica rossiniana.
Se l’assuefazione incide sull’armonia, l’altro fattore di cui consta la musica, ovvero il suono, propaga i suoi effetti senza utilizzare altra intermediazione che l’udito, e questo spiega perché, per i poeti antichi, la musica aveva il potere di incantare perfino i serpenti.
Convinto che la poesia antica, in quanto espressione spontanea della natura, sia ormai irrecuperabile sul piano storico, Leopardi considera il suono come unico legame residuo tra il poeta e la natura, perché prima di diventare suono articolato, esso è rumore, è la voce del vento, è il pianto di un bambino, è il canto degli uccelli, è un affascinante richiamo che risveglia l’immaginazione dei poeti. 
Le sensazioni ‘visive’, generano anch’esse «effetti d’infinito», ma quelle ‘uditive’ possiedono un ulteriore privilegio, oltre ad intervenire sull’immaginazione, infatti, esse agiscono anche sulla memoria azionando, oltre l’evocazione intenzionale del ricordo, il meccanismo involontario della ‘ricordanza’  o ‘rimembranza’ su cui si incentra un altro caposaldo della poetica leopardiana. Di come, a nostro avviso, il poeta trasponga in poesia, la corrispondenza, stabilita teoricamente, tra suono e ricordanza, si dà atto nel paragrafo del presente lavoro intitolato, appunto, Antichità e presente. Il potere evocativo della musica.
Il rapporto tra bellezza e musica, non si esaurisce tutto entro la comune appartenenza alla sfera del piacere, ma suggerisce un’altra importante prerogativa della musica che, in relazione al delicato equilibrio su cui si regge la successione dei suoni, simboleggia la transitorietà dell’esistenza umana. Il rapido declino della giovinezza coincide con la dissoluzione della bellezza e delle illusioni, valori caduchi, a cui subentra la presa di coscienza dell’«arido vero», e talora, come dimostrano i destini di alcune figure femminili presenti nei Canti, anche la morte.
Individuato sul piano teorico, il collegamento tra l’idea di musica  e le linee fondamentali della poetica leopardiana, alla trattazione critica dell’argomento, supportata dalla convinzione che esista in Leopardi un profondo legame tra musica e creazione poetica, nel capitolo finale di questo lavoro, intitolato La musica nei «Canti», segue l’analisi dei componimenti in cui le proposte ideologiche dello Zibaldone vengono tradotte in poesia.

SUPERIORITÀ DELLA MUSICA SU TUTTE LE ARTI

 

§ I.1 LEOPARDI E LA MUSICA. ASPETTI PRELIMINARI 

Indagare il rapporto complesso e profondo che legò Giacomo Leopardi  alla musica, implica la necessità preliminare di distinguere l’esperienza pratica che il poeta ebbe della musica, i gusti, e le opinioni sulla musica del suo tempo, dall’idea di musica intesa come linguaggio universale, capace di penetrare in maniera diretta il sentimento umano, di evocare ricordi e di suscitare immagini poetiche, idea che si sviluppa attraverso le pagine dello Zibaldone dedicate alla riflessione sulle Belle Arti e alla formulazione delle teorie ‘del piacere’ e ‘del bello’.
Nelle pagine dello Zibaldone in cui parla di musica, Leopardi ricorre alla definizione di ‘teoria musicale’ soltanto per sottolineare come i popoli che la possiedono, o in generale, gli intenditori, abbiano un criterio di giudizio nei confronti delle melodie, opposto ai barbari e ai «non intendenti, i quali non hanno altra regola e canone che l’orecchio» . Non adopera il termine ‘teoria’ quando si riferisce alle sue riflessioni sulla musica, come per esempio avviene per la ‘teoria del piacere’ e per


la ‘teoria del bello’ perché, come cercheremo di spiegare dettagliatamente più avanti, nonostante i risultati di certe sue intuizioni anticipino in alcuni punti le moderne teorie musicali , Leopardi non si interessò volutamente della musica in quanto ‘scienza’, ma solo in quanto ‘natura’.
L’intera opera leopardiana è attraversata da una fitta rete di riferimenti più o meno diretti alla musica, che non restano mai isolati o fine a se stessi, ma gravitano intorno al fulcro rappresentato dallo Zibaldone, offrendo sempre lo spunto per ulteriori approfondimenti.
L’obiettivo del presente lavoro è di mettere in relazione la riflessione teorica sulla musica, con alcune linee fondamentali della poetica leopardiana, secondo la modalità di approccio ‘ideologico’ allo Zibaldone suggerita da Luigi Blasucci che considera, in questo caso, l’opera «come un complesso di svolgimenti concettuali costituenti la trama ideologica sottesa ai testi poetici» .
Nel Diario del primo amore,Leopardi rivela l’«incredibile potere della musica sopra di me» , mentre nel Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica, collega il ricordo di «un suono così dolce che tale non s’ode in questo mondo» e alcune figure di «vita pastorale», catturate attraverso l’immaginazione nella fanciullezza, con l’intima necessità di una trasposizione poetica perfetta di tali immagini che da sola basterebbe al poeta per definirsi «divino» . Nel supplemento Alla Vita abbozzata di Silvio Sarno, il riferimento al «suono delle campanelle del pagode udito di notte o di sera dopo la cena stando in letto […]» , preannuncia lo sviluppo futuro, in un passo dello Zibaldone datato 16 Ottobre 1821, di un pensiero centrale sulla musica in cui il poeta sostiene che la diffusione di qualsiasi suono o canto è molto più efficace di notte quando «si è più disposti a questi effetti, perché né l’udito né gli altri sensi non arrivano a determinare né a circoscrivere la sensazione, e le sue concomitanze […]» .
Tra i numerosi passaggi che alludono alla musica nei Ricordi d’infanzia e di adolescenza, vale la pena menzionare il «canto mattutino di donna allo svegliarmi, canto delle figlie del cocchiere e in particolare di Teresa […]» che, oltre a contenere il dato biografico della protagonista Teresa Fattorini, figlia del cocchiere di casa Leopardi, anticipa la situazione dei vv. 7-9 ( Sonavan le quiete / stanze, e le vie dintorno, / al tuo perpetuo canto) del componimento A Silvia .  
Denso di significato è  quel passaggio dei Ricordi dove il poeta esprime «vaghissimi concetti come quando sognai di Maria Antonietta e di una canzone da mettergli in bocca nella tragedia che allora ne concepii la qual canzone per esprimere quegli affetti ch’io aveva sentiti non si sarebbe potuta fare se non in musica senza parole […]» , in cui è racchiuso il fondamento principale dell’idea leopardiana di musica, come viene sviluppata a livello teorico nello Zibaldone, e trasposta poeticamente nei Canti. La musica che è un linguaggio di per sé coinvolgente, ha un privilegio naturale che è quello di esprimere le passioni, talvolta contrastanti, i sentimenti, gli affetti dell’animo umano, nella maniera più diretta possibile, svincolandosi anche rispetto al potere espressivo della parola, senza perdere efficacia e autonomia di significato. Nello Zibaldone Leopardi afferma, infatti, che «la parola è un’arte imparata dagli uomini […]. Perciò negli accessi delle grandi passioni: […] come la forza della natura è straordinaria, quella della parola non arriva ad esprimerla […]. Il silenzio è il linguaggio di tutte le forti passioni […]». E la musica contiene in sé  i quattro elementi, del tempo, dello spazio, del suono, e del silenzio che si mescolano e trovano, nella poesia leopardiana, il loro massimo grado di espressione nell’idillio L’Infinito.
Nelle Operette morali, e precisamente nella Storia del genere umano, la creazione dell’eco, insieme a quella del mare e dei sogni è considerata dal poeta come espediente posto in atto da Giove per dilatare i limiti della percezione uditiva e visiva e assottigliare i confini tra realtà e immaginazione , in modo che l’inclinazione dell’uomo all’infinito potesse essere almeno illusoriamente soddisfatta, non potendo «né fare la materia infinita, né infinita la perfezione e la felicità delle cose e degli uomini […]» . Ancora, insieme agli ordinamenti civili, alle leggi, e ai valori come la Giustizia, la Virtù, la Gloria e l’Amor patrio, che avrebbero dovuto guidare i popoli,furono mostrate agli uomini «il canto e quelle altre arti, che sì per la natura e sì per l’origine, furono chiamate, e ancora si chiamano divine […]» .
L’infelicità universale e l’eterno circolo di creazione e di distruzione della natura sono i temi centrali del Cantico del gallo silvestre. Qui l’elemento acustico, assimilato con la vita, riveste una grande importanza perché rompe la «profondissima quiete» che renderebbe inutile l’universo, in un sistema che non contempla la felicità, ma la vita esclusivamente come tramite per la realizzazione del fine ultimo della natura che è la morte . Nell’Elogio degli uccelli, il canto perpetuo di queste «creature vocali e musiche» di cui è popolato il cielo, è visto come un dono della natura capace di trasmettere all’uomo un senso di «allegrezza», una distrazione provvidenzialedal pensiero martellante del dolore. Proprio perché è nell’aria che si diffondono massimamente i suoni, il magistero della natura ha fatto sì che gli uccelli, insieme al canto, possedessero anche il privilegio del volo. C’è un passo dell’Elogio che descrive come gli uccelli interrompono il loro canto quando si trovano di fronte alla tempesta o ad altri timori, ma appena scampato il pericolo ritornano all’aperto cantando e giocando tra loro, che richiama alla lettera un pensiero dello  Zibaldone

  Sì come dopo la procella oscura
Canticchiando gli augelli escon del loco
Dove cacciogli il vento (nembo) e la paura;

  E il villanel che presso il patrio foco
Sta sospirando il sol si riconforta
[(si rasserena)
Sentendo il dolce canto e il dolce gioco .

 

Nel capitolo quarto de Il Parini ovvero della gloria, Leopardi polemizza contro la concentrazione delle opere d’arte nelle grandi città, dove gli animi delle persone, assai più distratti e impegnati in numerose attività, oltre che sazi di contemplare tali bellezze, non sono disposti a goderle appieno. Insieme alle «opere riguardevoli di pittura, scultura ed architettura» , il poeta parla anche della musica e nell’esprimere il suo giudizio, maturato sulla base dell’esperienza personale di spettatore di opere teatrali, sia in una piccola città di provincia come Recanati, sia in una grande metropoli come Roma, sostiene, non senza una punta di ironia, che la musica «nelle altre città non si trova esercitata così perfettamente, e con tale apparato, come nelle grandi; dove gli animi sono meno disposti alle commozioni mirabili di quell’arte, e meno, per dir così, musicali, che in ogni altro luogo […]» . 
L’Epistolario, attraverso gli accenni contenuti nella corrispondenza di Leopardi con familiari ed amici, costituisce una testimonianza rilevante dell’esperienza diretta, privata  e pubblica, che il poeta ebbe della musica a Recanati, e poi, durante i suoi soggiorni nelle più importanti città d’Italia.
Sebbene la bibliografia su Leopardi e la musica sia ormai abbastanza ricca e aggiornata, un rapido excursus sulla sua esperienza di appassionato di musica e spettatore di opere teatrali, non ci sembra superfluo.
Giacomo entra in contatto, fin da bambino, con il patrimonio di musiche e canti popolari recanatesi che menziona nello Zibaldone come «canzonette popolari che si cantavano al mio tempo a Recanati» , nelle quali non è difficile riconoscere l’antecedente di almeno due figure presenti nei Canti , «il zappatore» che «riede alla sua parca mensa» nel Sabato del villaggio, e gli «sguardi innamorati e schivi» di A Silvia, nonché il «contadino dicente le ave Maria e ’l Requiem Aeternam sulla porta del suo tugurio […]» nei Ricordi d’ infanzia e di adolescenza.
L’esecuzione di musiche e canti era generalmente legata alle feste celebrate dai recanatesi in occasione delle varie ricorrenze che erano sentite e vissute molto profondamente dal popolo, e su cui si sofferma la riflessione leopardiana che origina il tema della festa, centralissimo nei Canti. A partire dal 1821, anno in cui si intensifica la stesura dello Zibaldone, come già osservò Giovanni Crocioni , Leopardi si preoccupa di annotare puntualmente, accanto alla datazione dei pensieri, le principali ricorrenze, sia canoniche che personali e familiari. Rintraccia l’origine antica dell’usanza di celebrare gli anniversari di nascita e di morte di persone insigni, o altri importanti eventi, citando fonti autorevoli come l’Eneide di Virgilio, la Vita Virgilii di Heyne, le Odi di Orazio. A proposito delle ricorrenze canoniche, in un passo dello Zibaldone datato 3 Agosto 1821, Leopardi distingue le feste popolari antiche da quelle moderne, sottolineando la preminenza di significato delle prime e spiega che, nonostante abbiano finito per identificarsi tra loro, individuando le proprie radici nel Cristianesimo, feste nazionali e feste religiose hanno, in realtà, origini indipendenti e anteriori al Cristianesimo che adesso ha, tuttavia, il merito di conservarle. Quanto al senso più profondo della festa secondo Leopardi, essa acquista vero valore, anzi diventa ‘sacra’, grazie al significato soggettivo che le si attribuisce, all’emozione e alle sensazioni che suscita nel ricordo

ed io mi ricordo di aver con indicibile affetto aspettato e notato e scorso come sacro il giorno della settimana e poi del mese e poi dell’anno rispondente a quello dov’io provai per la prima volta un tocco di una carissima passione. Ragionevolezza, benché illusoria ma dolce delle istituzioni feste ec. […] .

 

 Non vogliamo soffermarci in questa sede sui diversi risvolti della critica in merito al significato di ‘festa’ in Leopardi , ma richiamare semplicemente l’attenzione sulla relazione tra la speranza dell’attesa del giorno festivo e il piacere del suo ricordo, che spesso sono sollecitati nei Canti, proprio da una sensazione uditiva. Si pensi, per esempio, al Sabato del villaggio dove i due momenti, quello dell’attesa e quello del ricordo della festa appena passata, sono sollecitati rispettivamente dal «suono della campana a festa» , nei vv. 20-23 (Or la squilla dà segno / della festa che viene; / ed a quel suon diresti / che il cor si riconforta) e, nei vv. 31-37, dal rumore degli attrezzi dell’artigiano (Poi quando intorno è spenta ogni altra face, / e tutto l’altro tace, / odi il martel picchiare, odi la sega / del legnaiuol […]) che si affretta a ultimare il suo lavoro per il giorno seguente.
A Recanati, città ‘canora’, come attesta l’etimologia stessa del  nome (dal latino ‘re-cano’ che significa, appunto, ‘cantare’), il cui tradizionale attaccamento al teatro era reso ancora più fervido dalla competizione instauratasi con la vicina città di Macerata, la stagione teatrale, con le relative rappresentazioni, era considerata occasione solenne e motivo di festa, in modo particolare nel periodo di Carnevale.
Il “nuovo teatro” di Recanati, costruito interamente in legno, e inaugurato nel gennaio del 1719 con il dramma La Partenope del compositore toscano Silvio Stampiglia, per tutto il XVIII secolo era stato sufficiente a soddisfare le esigenze di un pubblico numericamente contenuto, ma quando nel secolo successivo, la partecipazione della borghesia agli spettacoli determinò un notevole incremento del pubblico, si rese necessaria la costruzione di un teatro più moderno e capace di rispondere alle nuove esigenze. Fu il padre del poeta, Monaldo Leopardi, all’epoca Gonfaloniere della città, l’ideatore e il principale fautore del progetto di costruzione di un nuovo teatro a Recanati, e fu lui a redigere il programma-manifesto datato 8 febbraio 1823, firmato dall’architetto recanatese Tommaso Brandoni .
Lo scambio epistolare tra Giacomo e suo padre, nel periodo compreso tra il febbraio e il marzo del 1823, testimonia alcune vicende relative alla costruzione del teatro. La prima, riguarda le sottoscrizioni per l’acquisto dei palchetti, a cui partecipò anche Carlo Antici, lo zio materno presso cui il poeta era ospite a Roma, che avrebbero dovuto finanziare la costruzione del teatro ma che, in realtà, coprirono solo una piccola parte delle spese. Così Leopardi scriveva al padre nella lettera del 15 febbraio 1823 a proposito dello zio Carlo

loda ancora il progetto del nuovo teatro; e si mostrò subito disposto a sottoscriversi, benché Donna Marianna borbottasse assai da principio. Ora pare che anch’essa ci si accomodi […] .

Ed ecco la lettera di risposta di Monaldo, datata 28 febbraio 1823

ero certo che il Cav. avrebbe approvata e secondata la erezione di un nuovo teatro, come ero certo della disapprovazione di D.ª Marianna […]. Se il Cav.re fosse quà potrebbe […] ottenere che il Teatro, come io vorrei, si fabbricasse in faccia alla sua casa, con risparmio grande di spesa e abbellimento della contrada, ma solo non prevalerò certamente alla predominante inclinazione dei Piazzaroli […] .

 

E ancora  la replica di Giacomo a suo padre, datata 15 marzo 1823

 

il zio Carlo ed io siamo restati sorpresi del suo pensiero e desiderio circa la collocazione del nuovo teatro, giacché il zio Carlo aveva concepito questo medesimo progetto, e ce l’aveva esposto più volte, e desiderava ancor egli che fosse posto in opera […] .

Entrambe alludono alla disputa sorta per la collocazione del nuovo teatro che vedeva schierati, da una parte Monaldo che voleva che il teatro fosse eretto di fronte a Palazzo Antici, e dall’altra, la maggioranza di coloro che avevano sottoscritto il progetto, definiti da Monaldo «piazzaroli» perché si battevano affinché il teatro sorgesse nella piazza centrale della città. La disputa, che fece ritardare enormemente l’inizio dei lavori di costruzione, si risolse con la scelta di un luogo centrale della città su cui far sorgere il teatro, intitolato al musicista recanatese Giuseppe Persiani, che fu completato e inaugurato il 7 gennaio del 1840 con il dramma Beatrice di Tenda di Vincenzo Bellini .
Fin da giovane Monaldo aveva coltivato la passione per il teatro e si era cimentato anche nella composizione di qualche commedia in stile goldoniano.  L’allestimento domestico di spettacoli teatrali, era l’unica alternativa allo studio che concedeva ai propri figli i quali recitavano sul piccolo palcoscenico di casa Leopardi, di cui resta tutt’ora traccia, i versi composti per loro dal padre. Giacomo si recò per la prima volta in un teatro vero e proprio solo nel 1817, in occasione della rappresentazione recanatese del Turco in Italia di Gioacchino Rossini , spettacolo che incise sui suoi gusti musicali e provocò un effetto intenso sul suo animo, come testimoniano due passaggi dei Ricordi d’ infanzia e di adolescenza in cui il poeta rievoca la «prima gita in  teatro miei pensieri alla vista di popolo tumultuante ec. […]» e il «primo tocco di musica al teatro e mio buttarmi ec. […] e quindi domandato se avessi male […]» .
In una lettera datata 22 aprile 1820, Pietro Brighenti così esprimeva a Leopardi il suo desiderio di conoscerlo personalmente

 oh! Quanto bramerei ch’Ella conoscesse Bologna […]. E io avrei la consolazione di conoscerla di persona, il che desidero con tutto L’ardore. Non so s’Ella ami La musica e il teatro. Avremo quì  a momenti un grandioso spettacolo […] io la importuno con parole che saranno vane e gliene chiedo perdono […]. Ma Ella sa, che noi crediamo che tutti abbiano le nostre inclinazioni, e La musica è per me la prima, e la più  grande di tutte le piacevoli risorse […] .

Il poeta, nella lettera del 28 Aprile 1820, ringraziava Brighenti per l’invito a recarsi in visita da lui a Bologna «bella e dotta città» e, lamentandosi per essere costretto a vivere in una città «incolta e morta» come Recanati, dove né lui, né nessun altro uomo di genio, sarebbe mai riuscito ad ottenere i dovuti riconoscimenti, manifestava all’amico il bisogno di evadere dall’ambiente recanatese, e affermava una quasi totale condivisione  della sua passione per la musica

la musica se non è la mia prima, è certo una mia gran passione, e dev’esserlo di tutte le anime capaci di entusiasmo. I divertimenti e le distrazioni, se anche non fossero di mio genio, sono per sentimento di tutti quelli che mi conoscono il solo rimedio che resti alla mia salute distrutta, senza il quale io vo a perire e consumarmi inevitabilmente fra poco […] .

È ovvio che con una simile risposta, Leopardi cercasse in qualche modo di compiacere Brighenti che gli offriva la possibilità di evadere dalle «catene domestiche e estranee» e che, oltre ad essere padre di una cantante era anche impresario teatrale , ma questa circostanza non influisce sull’affermazione del poeta tanto da indurci a credere che la sua passione per la musica non fosse autentica. È vero che Leopardi tollerava male la lunghezza degli spettacoli e lo sfarzo della occasioni mondane ad essi collegati, che a teatro soffriva il disagio provocatogli dalle precarie condizioni di salute e in più dall’aggravarsi dei  problemi alla vista, ma è altresì vero che la musica lo attraeva e il canto, in modo particolare, stimolava fortemente la sua sfera dei sentimenti.
Nell’attuale dibattito critico c’è chi, come Sergio Martinotti, sostiene che l’attenzione del poeta fosse rivolta esclusivamente alla musica come fenomeno in generale e che egli non provasse particolare interesse per la musica del suo tempo né per l’esperienza teatrale , e c’è chi come Alberto Caprioli sostiene, all’opposto, che nelle pagine dello Zibaldone dedicate alla musica si possa ravvisare un interesse del poeta verso quest’arte abbastanza ampio da includere anche le rappresentazioni teatrali, e individua addirittura delle analogie che accomunano alcuni passi delle opere leopardiane con il romanticismo tedesco. Per fare qualche esempio, nel suo intervento al Convegno su Leopardi e Bologna , Caprioli rileva come il «suono così dolce che tale non s’ode a questo mondo» di cui Leopardi parla nel Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica, può essere considerato antecedente dell’accezione hölderliniana del suono come «metafora di un sublime ultraterreno» , arriva inoltre a intravedere un rapporto di intertestualità tra «il principio del mondo» che nei Ricordi d’infanzia e di adolescenza Leopardi avrebbe voluto «porre in musica non potendo la poesia esprimere queste cose» e la Schöpfung di Haydn, e ancora, partendo di nuovo dai Ricordi, e precisamente da quella ‘canzone’ che il poeta avrebbe voluto esprimere ‘in musica’ senza parole, e accostando questo concetto a quello di frühromantisch che emerge dal Don Juan di Hoffmann , Caprioli vede in entrambi l’antecedente di un importantissimo genere musicale romantico che si identifica con il titolo mendelssohniano di Lied ohne Worte.
Circa l’interesse di Leopardi per il teatro, la corrispondenza con il fratello Carlo permette di ricostruire con certezza a quali spettacoli egli abbia assistito durante il primo soggiorno a Roma, e di conoscere le sue impressioni e i suoi giudizi sulle varie rappresentazioni.
Carlo Leopardi, frequentatore appassionato di teatro, nel 1823, in occasione della rappresentazione recanatese dell’Italiana in Algeri di Rossini, si  innamorò del soprano Clotilde Corradi, di cui apprezzò le notevoli doti canore , tanto da pensare di dedicarle un sonetto che sottopose all’attenzione del poeta nella lettera del 9 gennaio 1823. Il sonetto era il seguente:  

                       A Clorinda Corradi

  Dell’alto nome tuo ben degna sei
Bella come Clorinda, e che l’ignori
Sola, modesta e schiva, come lei
Accendi più col disperarli i cuori.
Se poi quel canto onde nostr’alme bei
Udiva il Franco Eroe, più, credo, fuori
Di senno tu che i forti lo traei
Atti della viril donna, e i rigori.
E tu pur sei guerriera: oh come bella
Allor che i freddi Itali petti avvampi
Coll’ardir della fervida Isabella!
Corri tua nobil via. Sol ti rammente
Di lor fra cui la prima orma tua stampi,
Che te rammenteranno eternamente .

         È interessante notare come nella sua lettera di risposta, datata 18 gennaio 1823, Leopardi non si soffermi ad esprimere un giudizio vero e proprio sulla qualità del sonetto inviatogli da Carlo, ma cerchi piuttosto di esprimere le sensazioni suscitate dalla sua lettura, il senso di nostalgia per una dimensione di vita, di poesia, e di affetti all’insegna della semplicità, di gusto per le piccole cose, da cui si sente distolto e privato dall’ambiente della capitale. Dice, infatti, a proposito del sonetto

         è molto bello e affettuoso, e mi ridesta l’idea dell’animo tuo, e del sentimento, e della poesia, e del bello vero, tutte cose che bisogna dimenticare affatto in Roma, in questo letamaio di letteratura di opinioni e di costumi […] .

Il giudizio negativo di Leopardi su Roma che «mi ha fatto almeno questo vantaggio di perfezionare la mia insensibilità sopra me stesso» , include anche l’organizzazione degli spettacoli e, in generale, dei divertimenti. Ecco cosa scrive il poeta a Carlo nella lettera del 16 dicembre 1822

io v’accerto che non solo non ho provato alcun piacere in Roma, ma sono stato sempre immerso in profondissima malinconia […]. V’accerto che gli spettacoli e divertimenti sono molto più noiosi qui che a Recanati, perché in essi nessuno brilla, fuori dello stesso spettacolo e divertimento. Questo è il solo che possa brillare, e non si va allo spettacolo se non puramente per veder lo spettacolo, (cosa noiosissima) […] .

 Altrove, e precisamente nella lettera del 5 febbraio 1823 indirizzata ancora una volta a Carlo, Leopardi specifica che la noia degli spettacoli dipende principalmente dalla loro durata «intollerabile e mortale», sei ore senza interruzione, e dai fasti eccessivi con cui i romani si sforzano di rappresentare la loro città  quasi a volerne riprodurre la grandiosità architettonica

pare che questi fottuti romani che si son fatti e palazzi e strade e chiese e piazze sulla misura delle abitazioni de’ giganti, vogliano anche farsi i divertimenti a proporzione, cioè giganteschi, quasi che la natura umana, per coglionesca che sia, possa reggere e sia capace di maggior divertimento che fino a un certo segno […] .

A parte i giudizi personali del poeta sulle rappresentazioni, l’epistolario leopardiano non contiene testimonianze dirette sull’organizzazione degli spettacoli a Roma nei primi decenni dell’Ottocento: l’attenzione del poeta si sofferma, infatti, più sul contenuto che sulla forma degli spettacoli, più sulla musica, sul canto, sul ballo che non sugli aspetti propriamente ‘scenografici’.
Un importante documento sui teatri romani e, in particolare, sulla stagione teatrale del 1822-’23, anni del primo soggiorno leopardiano nella capitale, è attualmente costituito dal catalogo della mostra Leopardi a Roma , da cui apprendiamo che, accanto alle rappresentazioni ‘ufficiali’ che si svolgevano nei teatri e che avevano una finalità più propriamente edonistica, grande rilevanza era attribuita alle rappresentazioni legate ai fastosi riti della comunità cattolica, e a quelle allestite all’interno dei palazzi privati su iniziativa di famiglie potenti, con un intento specificamente autocelebrativo. Molto diffusi erano inoltre gli ‘spettacoli popolari’ come le numerose manifestazioni che accompagnavano i festeggiamenti del  Carnevale e della tradizionale “Ottobrata”, la vendemmia «che si svolgeva come fulcro a Monte Testaccio e a Villa Borghese aperta annualmente al popolo dal principe […] caratterizzata dal ballo del Salterello e da sfilate di carri da cui venivano cantati gli stornelli» . È verosimile che il poeta parlando di  ‘divertimenti,’  nella citata lettera del 16 dicembre 1822, si riferisse proprio a questo tipo di intrattenimenti che per lui non rappresentavano occasione di svago anzi, in alcuni momenti, come quello descritto nella lettera a Carlo della “sera di Carnevale 1823”, diventavano addirittura motivo di fastidio

sono assordato dal maledetto strepito del Carnevale, di cui non ti parlo, perché te lo puoi figurare. Spettacoli e poi spettacoli non sono mancati, non mancano e non mancheranno fino a sei ore e mezza. Poi il diavolo se li porterà in anima e in corpo, come tu sai. Domani farò il comodo mio: son dieci giorni che fo quello degli altri, e che ne debbo restare obbligato […] .

Le feste da ballo carnevalesche, dai  primi dell’Ottocento fino al 1859, quando il nuovo proprietario Alessandro Torlonia ne avviò il restauro, si svolgevano nel teatro Alibert , mentre i teatri Fiano e Ornani  ospitavano un altro genere di spettacolo molto diffuso all’epoca, il teatro dei burattini e delle marionette a cui l’esperienza leopardiana non rimase estranea se è vero che il poeta conobbe personalmente in quegl’anni il famoso burattinaio Gaetano Santangelo (1782-1832), meglio noto come Ghetanaccio. Nel suo intervento al convegno su Leopardi e Roma , Letizia Norci Cagiano de Azevedo sostiene che il poeta, avendo assistito a qualche spettacolo del teatrino delle marionette di palazzo Fiano diretto da Filippo Tedi, ne sia rimasto così favorevolmente impressionato da adoperare, nella quinta ottava del canto VIII dei Paralipomeni, il paragone tra la discesa nella grotta dei topi morti del “cavaliere di Topaia” e una scena del teatrino delle marionette avente come protagonista il famoso personaggio di Cassandrino «bellimbusto ma fifone» :

Io vidi in Roma sulle liete scene
Che il nome appresso il volgo han di Fiano
In una grotta ove sonar catene
S’ode e un lamento pauroso e strano,
Discender Cassandrin dalle serene
Aure per forza con un lume in mano,
Che con tremule note in senso audace
Parlando, spegne per tremar la face . 

 I teatri Argentina e Valle erano deputati rispettivamente alla messa in scena delle opere serie e dei balli e delle opere buffe. «Sono sul punto di andare a teatro a sentir David […]» , il poeta scriveva a Carlo il 26 dicembre 1822, poco prima di recarsi al Teatro Argentina per assistere alla prima dell’Eufemio di Messina, un’opera musicata dal maestro Michele Carafa su libretto di Jacopo Ferretti, in cui la parte di Eufemio era affidata al famoso tenore Giovanni David. Il melodramma, che riprendeva lo stesso soggetto della tragedia scritta nel ’20 da Silvio Pellico, non riscosse lo sperato successo, secondo la testimonianza di Agostino Chigi , infatti «la musica ha pochissimo incontrato» e sono stati giudicati «non abbastanza nobili i motivi principali dei pezzi». Il giudizio di Leopardi non si discosta sostanzialmente da quello di Chigi poiché il poeta, oltre ad evidenziare la mancanza di originalità  dell’opera di Carafa che sembra «quasi tutta rubata a Rossini», considera «nessun pezzo interessante, fuorché un’aria del Contralto nel prim’Atto, la quale però sembra cominciata e non finita […]» . Il brano a cui Leopardi si riferisce e che apprezzò maggiormente forse è lo stesso che, sempre secondo la testimonianza di Chigi, convinse di più anche tutto il pubblico:

Ma fra le lagrime
Del mio dolore
Vedrò mai splendere
Raggio di amore?
Ho più da piangere?
Ho da sperar?
Se il fato donami,
Quel cor sì fido,
Ho in pugno il fulmine
L’Affrica sfido
A me sorridere
Vedrò Fortuna,
L’Odrisia Luna
Farò eclissar;
Né più quest’anima
Saprà bramar .

Per quanto riguarda la qualità delle voci che, oltre al tenore Giovanni David, erano quelle del soprano Santina Ferlotti nella parte di Adele, del contralto Rosmunda Pisaroni nella parte di Lotario, di Gaetana Corini nel ruolo di Eloisa e di Carlo Diofebi nel ruolo di Abdul, il giudizio espresso da Leopardi nella lettera a Carlo del 6 gennaio 1823, è piuttosto severo e preciso:

 tutte le voci mediocri; eccetto il Tenore, cioè David, e il Contralto, cioè la Ferlotti. Il Basso è nulla, ed agisce anche poco nell’Opera. Il canto di David non mi ha fatto grande impressione perché ci si conosce evidentemente lo sforzo. E perciò il corpo della sua voce, secondo il gusto mio, non può molto dilettare. Quanto all’agilità e volubilità del suo canto, le mie rozze orecchie non ci trovano niente di straordinario. Ma, comunque sia, la più bella voce applicata a una melodia che non significa niente, non può far grande effetto […] .

Nell’esprimere il suo giudizio sostanzialmente negativo sulle voci che compongono il melodramma, Leopardi, da una parte invoca la questione del gusto e attribuisce alla ‘rozzezza’ delle sue orecchie l’incapacità di cogliere la straordinarietà della voce di David, dall’altra evidenzia la banalità della melodia che non acquisterebbe valore neanche se eseguita da una grande voce. Forse è opportuno chiedersi se giudizi così fini come quelli pronunciati da Leopardi possano davvero provenire da «rozze orecchie», o se piuttosto il poeta non adoperi l’espressione con un senso di  «falsa modestia» o di ironia. Circa la seconda affermazione si può notare, invece, come il condizionamento delle opinioni espresse da Chigi e da altri critici possa avere influenzato il giudizio di Leopardi tanto da indurlo a dichiarare qualcosa di opposto rispetto a ciò che aveva scritto in un pensiero dello Zibaldone di due anni prima. Mentre qui l’attenzione sembra appuntarsi tutta sulla qualità della melodia che costituirebbe il presupposto fondamentale per un buon esito dell’esecuzione, nella riflessione zibaldoniana del 17 settembre 1821 l’attenzione si concentra tutta sulla voce che, se brutta, guasta anche la migliore melodia, se bella, fa sì che anche la melodia più mediocre catturi il sentimento del pubblico, infatti:

la più bella melodia non commuove eseguita da una vociaccia, per ottimamente eseguita che sia; e viceversa ti sentirai tocco straordinariamente al primo aprir bocca di un cantante di bella voce, soave ec., che eseguisca la melodia più frivola, la meno espressiva, o la più astrusa ec., e l’eseguisca anche male, e stuonando […] .

Sugli aspetti propriamente ‘spettacolari’ della rappresentazione, Leopardi non si sofferma se non per fare qualche osservazione negativa sul ballo di cui non apprezza la parte ‘pantomimica’ o ‘imitativa’, mentre riconosce un certo fascino alla parte ballabile che, però, non desta in lui alcun senso di meraviglia visto che «tutto quello ch’è puro spettacolo, come il ballabile, dopo un quarto d’ora annoia», e siccome la durata del ballo era almeno di un’ora e mezzo, è chiaro che nessuno spettatore si sarebbe potuto meravigliare così a lungo, infatti, puntualizza il poeta con una punta di ironia

chi si può meravigliare per un’oretta e mezza, è molto ammirabile […] .

Un giudizio ben diverso sul ballo è quello espresso da Leopardi nella lettera a Carlo del 5 febbraio 1823 dove, in riferimento allo spettacolo del Corso «bello e degno d’essere veduto» , afferma che «una donna né col canto né con qualunque altro mezzo può tanto innamorare un uomo quanto col ballo: il quale pare che comunichi alle sue forme un non so che di divino, ed al suo corpo una forza, una facoltà più che umana […]» ; poiché Giacomo e Carlo  erano soliti scambiarsi confidenze in fatto di amore e di donne, il poeta, per rendere meglio l’idea di ciò che ha visto dà per scontato che, se anche Carlo avesse visto esibirsi una di quelle ballerine, nonostante i suoi «propositi antierotici», si sarebbe sentito «cotto al primo momento» .
Sempre al teatro Argentina, il 23 gennaio 1823, Leopardi assistette alla prima della Donna del lago di Gioacchino Rossini , melodramma composto su libretto di Andrea Leone Tottola che si rifaceva alla trama del poema The lady of the lake di Walter Scott, nei confronti del quale il poeta, d’accordo con la critica, si espresse molto favorevolmente, fatte eccezione le lamentele per la lunghezza dello spettacolo. L’ “insensibilità sopra se stesso” che il soggiorno nella capitale aveva già perfezionato nel poeta, viene adesso intaccata dall’emozione suscitatagli dal melodramma. Queste sono le significative parole attraverso cui, ancora nella lettera del 5 febbraio 1823, il poeta descrive a Carlo le sensazioni provate a teatro

 abbiamo in Argentina La donna del lago, la qual musica eseguita da voci sorprendenti è una cosa stupenda, e potrei piangere ancor io, se il dono delle lagrime non mi fosse stato sospeso, giacché m’avvedo pure di non averlo perduto affatto […] .

Le «voci sorprendenti» a cui Leopardi si riferisce, tranne il tenore Pietro Todran, sono le stesse che, nella rappresentazione dell’Eufemio di Messina, non lo avevano particolarmente affascinato, ma che adesso rivaluta grazie all’effetto positivo determinato dalla loro applicazione alla melodia rossiniana  che scaturisce da una maniera di comporre la musica che si accosta fortemente al genere popolare, quello più apprezzato da Leopardi che così esprime a proposito di Rossini nello Zibaldone

e non per altro riesce universalmente grata la musica di Rossini, se non perché le sue melodie o sono totalmente popolari, e rubate, per così dire, alle bocche del popolo; o più di quelle degli altri compositori, si accostano a quelle successioni di tuoni che il popolo generalmente conosce ed alle quali è assuefatto, cioè al popolare; o hanno più parti popolari, o simili, ovver più simili che dagli altri compositori non s’usa, al popolare […] .

Al teatro Valle , Leopardi assistette all’opera buffa Il corsaro, ovvero Il maestro di cappella in Marocco, musicata dal maestro Filippo Celli su libretto di Jacopo Ferretti, proprio come l’Eufemio di Messina. Nella stessa lettera a Carlo, datata 6 gennaio 1823, in cui Leopardi commenta lo spettacolo del maestro Carafa visto al teatro Argentina, parla anche dell’opera del maestro Celli che andava in scena al Valle senza fare menzione del titolo , ma esprimendo una serie di giudizi negativi a partire dal confronto con la rappresentazione recanatese del Turco in Italia di Rossini che «non solamente per la musica, ma per ciascun cantante, a uno per uno, e tutti insieme, fu migliore senza nessunissimo paragone […]», e dà testimonianza dello scarso riscontro del pubblico nei confronti della rappresentazione se è vero che «il teatro è per lo più deserto, e ci fa un freddo che ammazza […]» .
Durante il suo primo soggiorno nella città di Bologna, che si protrasse dal 29 settembre 1825 all’11 novembre 1826, Leopardi, su suggerimento dell’amico Pietro Brighenti trovò alloggio, in qualità di subaffittuario, in un «appartamentino» contiguo ai locali del Teatro del Corso, come racconta lui stesso a Monaldo nella lettera del 3 ottobre 1825

qui ho tolto a pigione p[er] un mese un appartamentino in casa di un’ottima e amorevolissima famiglia […] .
In realtà, il poeta non si trattenne nella casa solo per un mese visto che, nella lettera del 18 gennaio 1826 indirizzata a Giuseppe Melchiorri, indica lo stesso domicilio, specificando inoltre il nome del padrone che è anche proprietario del Teatro del Corso , e il nome della famiglia da cui ha preso l’alloggio in affitto

io abito all’ingresso del Teatro del Corso, in casa Badini, presso il signor Aliprandi […] .

Vivere dentro il teatro significava stare ogni giorno a contatto, in maniera più o meno diretta, con le manifestazioni che si svolgevano al suo interno e che erano numerose e frequenti in un’epoca, come ai primi decenni dell’Ottocento, in cui c’era molto fervore artistico a Bologna e altrettanto entusiasmo e partecipazione da parte dei cittadini nei confronti della vita teatrale . Leopardi che in precedenza, incoraggiato dalla sua passione per la musica, aveva frequentato sebbene saltuariamente i teatri, adesso rinuncia del tutto a questo tipo di esperienza, mostrando una certa insofferenza per gli spettacoli e dichiarando di annoiarsi a teatro. Ecco cosa  scrive il poeta alla sorella Paolina nella lettera del 19 ottobre 1825:

 i teatri di Bologna io non so ancora come sieno fatti, p[er]ché gli spettacoli mi seccano mortalm.e; sicché ho preferito di ess.e gentilm.e messo in burla dalle Sigr̃e che mi hanno invit.º ai loro palchi, e dopo aver promesso di andare e mancato di parola, ho detto francam.e a tutte che il teatro non fa al caso mio. La bella è che il muro della mia camera è contiguo al teatro del Corso, talmente che mi tocca sentir la Commedia distintam.e e sz̃a muovermi di casa […] .


Tutti i pensieri sulle Belle Arti sono stati di recente raccolti in G. Leopardi, Teorica delle arti, lettere ec. Parte speculativa, Edizione tematica dello Zibaldone di pensieri stabilita sugli Indici leopardiani, a cura di F. Cacciapuoti, Prefazione di A. Prete, Roma, Donzelli, 2000 e, Idem, Teorica delle arti, lettere ec. Parte pratica, storica, Edizione tematica dello Zibaldone di pensieri stabilita sugli Indici leopardiani, a cura di F. Cacciapuoti, Prefazione di A. Prete, ibidem, 2002.

Zib. 3213.

Zib. 3211.

F. Foschi nell’Introduzione all’antologia da lui curata, G. Leopardi, Sulla musica, Abano Terme, Francisci, 1987, pone a raffronto alcuni pensieri leopardiani sulla musica con le recenti teorie di J. R. Pierce, autore di Le son musical, Paris, 1987 e di I. Stravinskij, Poetica della musica, Pordenone, Studio tesi, 1984.

Cfr. L. Blasucci, Quattro modi di approccio allo «Zibaldone», in I tempi dei «Canti». Nuovi studi leopardiani, Torino, Einaudi, 1996, p. 233.

Diario del primo amore, p. 357.

Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica, pp. 919-920.

Alla vita abbozzata di Silvio Sarno (di Ruggiero o Ranuccio Vanni da Belcolle),p. 365.

Zib. 1928.

Ricordi di infanzia e di adolescenza, p. 362. Per completezza, riportiamo qui di seguito tutti gli altri passaggi dei Ricordi in cui Leopardi parla di musica o descrive delle sensazioni uditive: «canto dopo le feste, Agnelli sul cielo della stanza, Suono delle navi […]»; «effetti della musica in me sentita nel giardino, aria cantata da qualche opera […]»; «Amore, amore cantato dai fanciulli (leggendo io l’Ariosto) come in Luciano ec., principio del mondo (ch’io avrei voluto porre in musica non potendo la poesia esprimere queste cose ec. ec.) immaginato in udir il canto di quel muratore mentr’io componeva ec. […]»; «mie considerazioni sulle pluralità dei mondi e il niente di noi e di questa terra e sulla grandezza e forza della natura che noi misuriamo coi torrenti ec. che sono un nulla in questo globo ch’è un nulla nel mondo e risvegliato da una voce chiamatemi a cena […]»; «mio giacere d’estate allo scuro a persiane chiuse colla luna annuvolata e caliginosa allo stridore delle ventarole consolato dall’orologio della torre […]»; «canti e arie quanto influiscano mirabilm. e dolcem. sulla mia memoria […]»; «prima gita in teatro miei pensieri alla vista di un popolo  tumultuante […]»; «primo tocco di musica al teatro e mio buttarmi ec. e quindi domandato se avessi male […]»; «S. Agostino (cioè benedizione in quel giorno di primavera […] cantando gli uccelli allora tornati ai nidi sotto quei tetti, bel giorno, sereno, sole, suono delle campane vicine quivi, e al primo tocco mia commozione verso il Creatore) […]»; «sento una dolce voce di donna che non conoscea né vedea ec. […] sentivo un bambino che certo dovea essere in fasce e in braccio alla donna e suo figlio ciangottare con una voce di latte suoni inarticolati e ridenti […]»; «finalmente una voce di loro oh ecco che piove era una leggera pioggetta di primavera ec. e tutti si ritirarono e s’udiva il suono delle porte e dei catenacci ec. e questa scena mi rallegrò […]»; «palazzo bello contemplato il 21 Maggio sul vespro ec. gallina nel cortile ec. voci di fanciulli ec. […]».

A Silvia, p. 26.

Ricordi d’infanzia e di adolescenza, p.  360, corsivo mio.

Zib. 141-142, corsivi miei.

Si vedano a proposito  B. Gallotta, Musica ed estetica in Leopardi, Milano, Ruggirenti, 1997 e F. Foschi, Note su Leopardi e la musica, in La musica in Leopardi nella lettura di Clemente Rebora, a cura di G. De Santi ed E. Grandesso, Venezia, Marsilio, 2001, pp. 25-32.

Cfr. Storia del genere umano, p. 80: «e risolutosi di moltiplicare le apparenze di quell’infinito che gli uomini sommamente desideravano (dappoi che egli non li poteva compiacere della sostanza), e volendo favorire e pascere le coloro immaginazioni, dalla virtù delle quali principalmente comprendeva essere proceduta quella tanta beatitudine della loro fanciullezza; fra i molti espedienti che pose in opera (siccome fu quello del mare), creato l’eco, lo nascose nelle valli e nelle spelonche, e mise nelle selve uno strepito sordo e profondo, con un vasto ondeggiamento delle loro cime. Creò similmente il popolo de’ sogni, e commise loro che ingannando sotto più forme il pensiero degli uomini, figurassero loro quella pienezza di non intelligibile felicità, che egli non aveva modo di ridurre in atto […]».

Ibidem.

Ibidem, p. 82.

Cantico del gallo silvestre, p. 156.

Cfr. Ibidem: «se il sonno dei mortali fosse perpetuo, ed una cosa medesima colla vita; se sotto l’astro diurno, languendo per la terra in profondissima quiete tutti i viventi, non apparisse opera alcuna; non muggito di buoi per li prati, né strepito di fiere per le foreste, né canto di uccelli per l’aria, né sussurro d’api o di farfalle scorresse per la campagna; non voce, non moto alcuno, se non delle acque, del vento e delle tempeste, sorgesse in alcuna banda; certo l’universo sarebbe inutile; ma forse che vi si troverebbe o copia minore di felicità, o più di miseria, che oggi non vi si trova? […]», e ibidem p. 157: «pare che l’essere delle cose abbia per suo proprio ed unico obbietto il morire. Non potendo morire quel che non era, perciò dal nulla scaturirono le cose che sono. Certo l’ultima causa dell’essere non è la felicità […]».

Elogio degli uccelli, p. 153.

Zib. 21.

Il Parini ovvero della gloria, p. 123.

Ibidem.

L’intera bibliografia su Leopardi e la musica si trova raccolta in G. Luppino, L’eredità musicale di Giacomo Leopardi, Recanati, Edizioni CNSL, 2002.

Zib. 29. La citazione completa del passo è: «fàcciate alla finestra, Luciola, / Decco che passa lo ragazzo tua, / E porta un canestrello pieno d’ova / Mantato colle pampane dell’uva. / I contadì fatica e mai non lenta, / E ’l miglior pasto sua è la polenta. / È già venuta l’ora di partire, / In santa pace vi voglio lasciare. / Nina, una goccia d’acqua se ce l’hai: / Se non me la vôi dà padrona sei», «Io benedico chi t’ha fatto l’occhi / Che te l’ha fatti tanto ’nnamorati», «Una volta mi voglio arrisicare / Nella camera tua voglio venire».

Un’ indagine sul  canto come «espressione vocale» e «modulazione ritmica della voce umana volta a fermare una melodia», e in particolare sulle categorie dei personaggi, identificati prevalentemente nei lavoratori manuali e nelle fanciulle, a cui Leopardi affida il ‘canto’, è stata svolta da M. Dondero, nel saggio «Cantando con mesta melodia». Il canto nei Canti di Giacomo Leopardi, in “Campi immaginabili”, 1, 2000, pp. 91-103.

Il sabato del villaggio, p. 31.

A Silvia, p. 26.

Ricordi d’infanzia e di adolescenza, p. 363.

G. Crocioni, Il Leopardi e le tradizioni popolari, Milano, Corticelli, 1948.

Zib.2255 e 2322.

Zib. 60.

Una interessante indagine sullo «spazio metafisico del festivo» è quella compiuta da A. Folin, nel capitolo intitolato La notte chiara e l’attesa del giorno festivo, del suo Leopardi e la notte chiara,  presentazione di C. Galimberti, Venezia, Marsilio, 1993, pp. 47-68.

Cfr. Il Passero solitario, in G. Leopardi, I Canti, a cura di A. Straccali, 3ª edizione corretta e accresciuta da O. Antognoni, nuova presentazione di E. Bigi, Firenze, Sansoni, 1962, nota 29, p. 178: «squilla può significare così campana, come il suono di essa […] Nel significato pur di campana l’usò il nostro in Amore e morte, 56; e nell’altro senso in più luoghi. Cfr. Il risorgimento, 51; Il sabato del villaggio, 20; Paralipomeni, I, 2 e III, 37».

Il sabato del villaggio, p. 31.

Ibidem.

Si vedano a proposito G. Radiciotti, Teatro, musica e musicisti in Recanati, Recanati, tipografia Simboli, 1904, eC. Benedettucci, Il teatro in Recanati, in «Il Casanostra. Strenna Recanatese», 1930, nonché la testimonianza tratta dall’Epistolario di Giacomo Leopardi. Nuova edizione ampliata con lettere dei corrispondenti e con note illustrative, a cura di F. Moroncini, Firenze, Le Monnier, 1934-41, 7 voll., e riportata a p. 2193 dell’Epistolario, a cura di F. Brioschi e P. Landi, Torino, Bollati Boringhieri, 1998, 2 voll.: «dopo i fasti del vecchio Teatro recanatese, detto prima “de’ Nobili” poi “de’ Condomini” (inaugurato ai primi di gennaio 1719); e specialmente dopo l’ “Operona” in cui aveva trionfato la Corradi,venne in mente ad alcuni notabili della città, primo tra essi Monaldo, l’idea di far sorgere un nuovo teatro di maggiore capacità e decoro; per la cui costruzione lo stesso Monaldo scrisse il Manifesto-programma, con la data 8 febbraio ’23 ».

Ep. 518.

Ep. 522.

Ep. 534.

Il libretto dell’opera, importante documento storico, è attualmente conservato a Recanati, presso la Biblioteca Leopardi.

Oltre Il turco in Italia, di Rossini, Leopardi ascoltò a Recanati, nel ’24 il Torvaldo e Dorliska e nel ’29 Il Barbiere di Siviglia.

43 Ricordi d’ infanzia e di adolescenza, p. 361.G. Radiciotti nel suo Teatro musica e musicisti in Recanati cit., colloca la rappresentazione del Turco in Italia proprio nel 1817, perciò, essendo i Ricordi del ’19, è certo che nei passi citati Leopardi si riferisse proprio al recente ascolto del Turco in Italia.

Ep. 297.

Ep. 299.

Ibidem.

P. Brighenti è stato inoltre autore di una monografia intitolata Della musica rossiniana e del suo autore. Discorso dell’avvocato Pietro Brighenti accademico filarmonico di Bologna, Bologna, E. Dall’Olmo, 1830.

Cfr. S. Martinotti, La concezione musicale di Giacomo Leopardi, in Leopardi oggi. Incontri per il bicentenario della nascita del poeta, Milano, Vita e pensiero, 2000, pp. 171-184.

Cfr. A. Caprioli, Giacomo Leopardi e la ‘nuova musica’, in Leopardi e Bologna, Atti del Convegno di Studi per il Secondo Centenario Leopardiano (Bologna 18-19 maggio 1998), a cura di M. A. Bazzocchi, Firenze, Olschki, 1999,  pp. 57-78.

Ibidem, p. 60.

Ricordi d’infanzia e di adolescenza, p. 360.

Nel saggio di Caprioli è riportato anche quel passo del Don Juan in cui Donna Anna afferma: «ella mi disse che tutta la sua vita era musica, e che spesso, cantando, ella credeva di comprendere mille cose nascoste misteriosamente nell’essere; cose che nessuna parola avrebbe potuto esprimere», citato da E. T. Amadeus Hoffmann, Scritti musicali, a cura di G. Pierotti e A. Ulm, Firenze, Rinascimento del Libro, 1931, pp. 42-43.

Cfr. Ep. 507. Nella lettera inviata a Giacomo il 26 gennaio 1823, Carlo si esprime così a proposito della Corradi: «figurati chela Bandi, di cui raccontano che alcuni Inglesi comprarono il cadavere per esaminare la costruzione, da cui risultava la molteplicità prodigiosa delle sue corde, aveva due tuoni in meno di questa, che ha due ottave e due tuoni limpidi e più sforzandosi […]».

Ep. 618.

Ep. 630.

Ep. 504.

Ep. 474.

Ep. 514.

Si veda in  particolare il capitolo Leopardi all’Opera, in Leopardi a Roma, a cura di N. Bellucci e L. Trenti, Milano, Electa, 1998, pp. 83-93.

Per una descrizione del carnevale romano del 1823 si veda il capitolo Scene di carnevale, ibidem, pp. 124-129.

Ibidem, nota 1, p. 87.

Ep. 517.

Notizie dettagliate sul teatro si trovano in  A. De Angelis, Il teatro Alibert o delle Dame 1717- 1863, Tivoli, A. Chicca, 1951.

L. Norci Cagiano de Azevedo, Leopardi e la stagione teatrale romana 1822-23, in Leopardi e Roma, Atti del Convegno (Roma 7-9 novembre 1988), a cura di L. Trenti e F. Roscetti, Roma, Colombo, 1991, pp. 315-329.

Ibidem, p. 319.

Paralipomeni della Batracomiomachia, p. 287.

Per approfondimenti sui teatri romani nell’Ottocento, si vedano G. Radiciotti, Il teatro e la cultura musicale in Roma nel secondo quarto del secolo XIX, Roma, Tipografia dell’Unione Cooperativa Editrice, 1904 (estratto dal fascicolo di agosto 1904 della «Rivista d’Italia», pp. 1-2);A. Rava, I teatri di Roma, Roma, Palombi, 1953; G. Tiricanti, Il teatro Argentina, Roma, Palombi, 1972; L. Norci Cagiano de Azevedo, Teatri romani, in Stendhal, Roma, l’Italia, Atti del Convegno Internazionale (Roma, 7-10 novembre 1983), a cura di M. Colesanti, A. Jeronimidis, L. Norci Cagiano de Azevedo, A. M. Scaiola, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1985, pp. 125-135. 

Ep. 479.

Cfr. A. Chigi, Memoriabilia privata et publica (1801-1809; 1814-1855), Codice Vaticano Chigi 3966 bis, in data 6 novembre 1822.

Ep. 489.

La citazione, tratta dal libretto dell’Eufemio di Messina, Roma, Boulzazer, 1827, è ripresa da Leopardi all’opera, in Leopardi a Roma cit., p. 88.

Ep. 489, corsivo mio. Da notare la ‘svista’ di Leopardi che scambia la Pisaroni, contralto, con la Ferlotti, oppure che, riferendosi esattamente alla Ferlotti ne confonde il ruolo.

Questo è ciò che sostiene anche F. Foschi nell’Introduzione all’antologia Sulla musica cit., p. 13.

Zib. 1722.

Ep. 489.

Ibidem.

Ep. 514.

Ibidem.

Ibidem.

La Donna del lago è stata composta nel 1819, lo stesso anno in cui Rossini ha composto anche Ermione, Edoardo e Cristina, Bianca e Faliero.

Stendhal apre la sua biografia su Rossini con una suggestiva descrizione della città di Pesaro, dove il celeberrimo compositore nacque il 29 febbraio del 1792: «Pesaro si alza in mezzo a colline coperte di boschi, ed i boschi si estendono proprio fino alla riva del mare. Non vi è niente di desolato, di sterile, di bruciato dal vento marino. Le rive del Mediterraneo, ed in particolare quelle del golfo di Venezia, non hanno nulla di quell’aspetto selvaggio e cupo che le onde immense e i venti potenti dell’Oceano danno alle sue rive. Qui, come sulla frontiera di un grande impero dispotico, tutto è potenza irresistibile e desolazione; tutto è dolce voluttà e bellezza commovente, invece, verso le rive ombrose del Mediterraneo, vi si riconosce senza fatica la culla della civiltà del mondo», cfr. Stendhal, Rossini, traduzione italiana di B. Revel, Milano, 1949, p. 1.

Ep. 514.

Zib. 3208-3209.

Si veda la nota 68 a p. 15 del presente lavoro.

Il titolo si deduce facilmente dal fatto che l’opera in questione, dal 26 dicembre 1822, data di riapertura del teatro dopo i lavori di restauro avviati nel marzo 1821, andava ancora in scena nel gennaio del ’23, quando il poeta scrisse la lettera al fratello.

Ep. 489.

Ep. 737.

Ibidem.

Notizie sulla storia di questo teatro e sulla sua attività dagli inizi dell’Ottocento fino alla metà circa del secolo scorso, nonché sul  soggiorno di Leopardi al suo interno, sono contenute in M. Calore, Il teatro del Corso 1805-1944. 150 anni di vita teatrale bolognese tra aneddoti e documenti, Bologna, Lo Scarabeo, 1992.

Ep. 822, i corsivi sono nel testo.

Sull’attività dei teatri Bolognesi nei primi decenni dell’Ottocento, e sulla stagione teatrale 1825-’26, un’importante testimonianza è resa nel capitolo Leopardi e il teatro a Bologna, in Leopardi a Bologna. Libri immagini documenti, a cura di C. Bersani e V. Roncuzzi Roversi-Monaco, Bologna, Pàtron Editore, 2001, pp. 217-241.

Ep. 798.

Ma la vera ragione di questa rinuncia probabilmente va ricercata nell’aggravarsi delle sue condizioni di salute, che gli fa avvertire maggiormente il disagio derivante dall’obbligo di restare fermo per delle ore dietro il palchetto per assistere allo spettacolo. Ad ogni modo, durante il suo primo soggiorno a Bologna, città dove «cominciando dagli orbi tutti vogliono cantare o suonare, e c’è musica da per tutto […]» , Leopardi non volle recarsi a teatro neanche per assistere a quella che lui stesso, nella lettera del 31 ottobre 1825 a Luca Mazzanti, definisce una «grande Opera» senza, tuttavia, specificarne il titolo

abbiamo bensì una grande Opera, che io non ho sentita, e grandi cantanti che io non conosco […] .

 Probabilmente l’opera in questione è la Semiramide di Rossini a cui Leopardi assisterà invece al suo ritorno a Bologna, nel 1827, quando le sue condizioni di salute saranno migliorate e il suo animo più predisposto alla compagnia e agli svaghi. La prima della Semiramide va in scena il 13 maggio , e il 18 dello stesso mese, Leopardi così scrive a Paolina:

la stagione anche qui è ottima, e io mi diverto veramente un poco più del solito, perché grazie a Dio mi sento bene, e perché quest’essere uscito dall’inverno non mi può parer vero, e non finisce di rallegrarmi; e perché gli amici mi tirano. Sono stato all’opera già due volte (l’opera si è avuta finora tre sere) […] .

A Firenze Leopardi non ebbe alcun contatto con il teatro. «Gl’incomodi che ho, sono degli occhi e dei denti […]. La malinconia che mi dà questa sciocchezza da un mese in qua, non è credibile […]» , scrive il poeta alla sorella Paolina nella lettera del 7 luglio 1827, ed è proprio a causa di questi malesseri, e di questa malinconia che non vuole recarsi a teatro, neanche per assistere all’opera del suo concittadino Giuseppe Persiani, pur apprezzandolo come compositore e condividendo l’unanime giudizio positivo della critica, come conferma il prosieguo della lettera

 l’entusiasmo destato da Persiani è verissimo. Ho sentito parecchi intendenti o dilettanti dire che Persiani è un genio straordinario. Tutti ne dicon gran bene, anche per riguardo al suo carattere e alla sua gran probità. […] quando si impegnò a scrivere il Danao, il patto fu, che se l’Opera non piaceva al pubblico, l’impresario non lo avrebbe pagato. Io non sono stato a sentirla, perché i miei occhi in teatro patiscono troppo […] .

Del secondo soggiorno leopardiano a Roma, nel periodo compreso tra l’ottobre 1831 e il marzo 1832, non ci sono testimonianze epistolari, né d’altro genere, che attestino una frequentazione seppur minima dei teatri da parte del poeta, il solo elemento di contatto indiretto con il teatro si basa sul fatto che Leopardi era ritornato nella capitale insieme all’amico Antonio Ranieri innamorato dell’attrice Maddalena Pelzet  che recitava con la sua compagnia al teatro Valle.
E proprio dalla testimonianza di Ranieri apprendiamo che l’esperienza di Leopardi come spettatore di teatro si concluse nel 1833, al teatro del Fondo di Napoli, dove assistette con ammirazione, nonostante «il solecchio pe’ lumi che lo ferivano» , alla rappresentazione del Socrate immaginario di Paisiello.


Ep. 908.

Ep. 765.

Il successo della rappresentazione è testimoniato dalla «Gazzetta di Bologna», n. 40, sabato 19 maggio 1827.

Ep. 1079.

Ep. 1106.

Ibidem.

Cfr. A. Ranieri, Sette anni di sodalizio con Giacomo Leopardi, Milano, Garzanti, 1979.

Ibidem, p. 64

LA MUSICA NEL SISTEMA LEOPARDIANO DELLE BELLE ARTI

I pensieri sulla musica presenti nello Zibaldone sono indicizzati da Leopardi, nelle due sezioni, Speculativa e Pratica Storica, della Teorica delle arti, lettere ec., e l’intera riflessione leopardiana sulla musica si inquadra, appunto, nell’ambito del discorso sulle arti e sul bello, corrispondente a quello che il poeta stesso definisce il proprio «Sistema di Belle Arti» , e che già da alcuni decenni è oggetto di un notevole interesse da parte della critica. Gli stessi riferimenti alla musica presenti nei Canti, non si reggono in maniera autonoma ma vanno considerati alla luce di tale riflessione che è, a sua volta, strettamente connessa con la ‘teoria del piacere’. In riferimento alle opere leopardiane, si è già accennato al valore meditativo delle riflessioni sulla musica presenti nelle Operette Morali, alla testimonianza dell’esperienza musicale del poeta costituita dall’Epistolario, agli spunti presenti in altre opere quali il Diario del primo amore, i Ricordi d’infanzia e di adolescenza, il Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica, ma sarà opportuno analizzare di seguito le modalità attraverso cui l’idea leopardiana di musica si sviluppa nello Zibaldone, a partire proprio dal discorso sull’arte.
Gli attuali giudizi circa la sensibilità leopardiana per l’arte, sono radicalmente mutati rispetto a quelli, precedenti alla pubblicazione dello Zibaldone, di Francesco De Sanctis e di Arturo Graf , e tendono tutti, sebbene da angolature diverse, ad una rivalutazione dell’interesse di Leopardi per le arti. Dall’interesse per le arti figurative in generale, con gli studi di Attilio Moroni e Alberto Frattini , a quello più specifico per la pittura, trattato in maniera particolareggiata da Margherita Pieracci Harwell , che ha isolato almeno trenta pensieri dello Zibaldone esplicitamente dedicati  alla pittura, e, evidenziandone la netta inferiorità numerica rispetto a quelli sulla musica e sul canto, ha avallato la tesi di Giovanni Amoretti , ripresa più recentemente da Alberto Folin , secondo cui il motivo che impedisce alla riflessione leopardiana di soffermarsi più a lungo sulla pittura è legato alla componente ‘visiva’ di quest’ultima, o meglio, alla volontà del poeta di “non vedere” la luce che svela la verità delle cose. Nella stessa direzione, l’interpretazione filosofica di Folin , Galimberti , Prete , Scalia , Caracciolo , Cacciari , e altri ancora, sostiene che in Leopardi l’immagine abbia un senso diverso e ben più profondo di quello che appare esplicitamente, e che da essa prenda avvio il percorso che conduce all’idea. Folin sostiene, infatti, che «Leopardi, nel mentre rifiuta l’innatismo e afferma l’inesistenza di un bello ideale in natura, non rinuncia […] ad affermare il carattere universale dell’eidos, dell’idea. Il luogo di questa idea, tuttavia, non sta nel soggetto - il quale è condizionato dalla storia e dall’assuefazione mutevole e relativa - : esso sta nel sensus communis, cioè in quell’essere in comune che costituisce il fondamento di ogni esserci» .  
Tra i pensieri zibaldoniani sulla pittura indicati, nel saggio sopra citato, dalla Pieracci Harwell, ce n’è uno in cui Leopardi accosta la luce al suono spiegando perché entrambi, attraverso meccanismi differenti, siano in grado di procurare il ‘diletto’. Il passaggio è il seguente:

la luce il suono ricreano e dilettano per natura. Ma il diletto dell’una e dell’altro non è né grande né durevole, se non sono applicati, questo all’armonia, quella, non solo ai colori (chè i colori son come i tuoni, e di poco durevole diletto, sebbene più durevole di quello della luce semplice o del bianco), ma agli oggetti visibili o naturali o artefatti, come nella pittura, che applica, distribuisce ed ordina al miglior effetto i tuoni della luce, come l’armonia quelli del suono. I colori non hanno a che fare coll’armonia, ma hanno un altro modo di dilettare. I tuoni del suono non hanno se non l’armonia, a cui possono essere dilettevolmente applicati .

Questi meccanismi differenti sono legati, dunque, alla combinazione della materia di cui è composta l’opera d’arte, i suoni per la musica, i colori per la pittura, i marmi per la scultura, le parole per la poesia, e nel caso specifico della musica, il ‘diletto’ non dipenderà dalla ‘bellezza’ di una determinata composizione, vocale o strumentale che sia, visto che il giudizio sul bello, e parimenti il gusto, è soggettivo e variabile, diverso da persona a persona, da uomo a donna, e così via, ma dipenderà solo dal senso di piacevolezza che il suono è in grado di produrre indipendentemente da tutti questi fattori, e quindi in maniera naturale, immediata, istintiva. Infatti,

tali differenze non hanno a far nulla colla convenienza, nulla col bello proprio, sono indipendenti dalla qualità delle melodie, che sole spettano nella musica al discorso sul bello; appartengono alle qualità sole de’ suoni ec.; sono della stessa categoria che le differenze degli odori e sapori ec. che niuno s’avvisò di chiamare belli né brutti, bensì più o meno piacevoli o dispiacevoli […] .

Il ricorso al confronto con «odori» e «sapori» che Leopardi adopera per ribadire come il diletto nella musica provenga dal suono e non dalla melodia, e che, pertanto, può essere considerato ‘piacevole’ e non ‘bello’, non è un confronto casuale ma fa parte di quella che  è stata definita una vera e propria leopardiana «teoria degli organi di senso, nell’uomo e negli animali», che si basa sull’individuazione di motivi e intuizioni presenti nello Zibaldone, che si spingono ben oltre l’interesse poetico ed estetico, fino ad anticipare alcuni punti dei più moderni studi scientifici sui sensi . Leopardi associa gli effetti del suono a quelli provenienti dai sensi, individuando una corrispondenza particolare tra il tra il piacere che proviene dal suono e quello che proviene dagli odori:

il piacere che ci dà il suono non va sotto la categoria del bello, ma è come quello del gusto, dell’odorato ec. La natura ha dato i suoi piaceri a tutti i sensi. Ma la particolarità del suono è di produrre per se stesso un effetto più spirituale dei cibi dei colori degli oggetti tastabili ec. E tuttavia osservate che gli odori, in grado bensì molto più piccolo, ma pure hanno una simile proprietà, risvegliando l’immaginazione ec. […] .

In un altro passo, datato 24 settembre 1821, Leopardi torna a sottolineare la differenza tra ‘piacevole’ e ‘bello’, e continuando ad associare alla sfera dei sensi, in modo particolare all’olfatto, il piacere proveniente dal suono, afferma che esso deriva

dal legame che la natura arbitrariamente ha posto tra le sensazioni del suono o canto e l’immaginazione, dalla facoltà che ha dato loro di afficere piacevolmente l’orecchio […], ovvero l’animo, […] come l’ha data, sebbene in minor grado, agli odori, che nessuno chiama belli, ma piacevoli .

La corrispondenza tra odori e suoni, rilevata già da M.me de Staël, la quale a proposito della musica afferma, tra l’altro, che «De tous le beaux arts c’est […] celui qui agit le plus immédiatement sur l’âme» , per Leopardi equivale alla capacità che entrambi hanno di risvegliare l’immaginazione e il ricordo, di sollecitare sensazioni che destano quel desiderio di infinito che è destinato a rimanere perennemente insoddisfatto. E queste osservazioni rinviano direttamente alla ‘teoria del piacere’ , dove il poeta attribuisce l’infinità del desiderio ad una causa materiale connaturata alla stessa esistenza, ad un meccanismo che induce l’uomo a desiderare continuamente, non un piacere particolare, ma il piacere in senso assoluto, di cui ha appena una vaga percezione, senza possedere per natura i mezzi per ottenerlo

 il fatto è che quando l’anima desidera una cosa piacevole, desidera la soddisfazione di un suo desiderio infinito, desidera veramente il piacere, e non un tal piacere; ora nel fatto trovando un piacere particolare, e non astratto, e che comprenda tutta l’estensione del piacere, ne segue che il suo desiderio non essendo soddisfatto di gran lunga, il piacere appena è piacere, perché non si tratta di una piccola ma di una somma inferiorità al desiderio e oltracciò alla speranza. E perciò tutti i piaceri debbono esser misti di dispiacere […], perché l’anima nell’ottenerli cerca avidamente quello che non può trovare, cioè una infinità di piacere, ossia la soddisfazione di un desiderio illimitato […] .

 

            C’è un altro passaggio molto interessante dello Zibaldone in cui si parla degli odori come stimolatori del desiderio verso oggetti che richiamano in noi la speranza o il ricordo di una particolare sensazione, il desiderio di un piacere, anche in questo caso, inappagabile. Il pensiero, datato 21 agosto 1821, può essere considerato un altro importante corollario della ‘teoria del piacere’

gli odori sono quasi un’immagine de’ piaceri umani. Un odore assai grato lascia sempre un certo desiderio forse maggiore che qualunqu’altra sensazione. Voglio dire che l’odorato non resta mai soddisfatto seppur mediocremente: e bene spesso ci accade di fiutar con forza, quasi per appagarci, e per render completo il piacere senza potervi riuscire. Essi sono anche un’immagine delle speranze […] .

All’inafferrabilità del piacere, e quindi della felicità, sopperisce la «facoltà immaginativa» che, sollecitata da un suono, da un odore, da un oggetto o da un luogo ignoto, da un ostacolo materiale che restringe la vista, o viceversa, da una veduta senza confini, permette alla mente di procurarsi, in modo fittizio, il piacere, proiettando se stessa verso mète che non esistono nella realtà e che perciò possiedono il fascino dell’infinito, e facendo sì che si immerga in un piacevole stato di trasporto, di estasi, atto a favorire le condizioni interiori del sentimento e le immagini da cui nasce la poesia . Se è vero, dunque, che «il piacere infinito che non si può trovare nella realtà, si trova […] nell’immaginazione, dalla quale derivano la speranza, le illusioni ec.» è evidente la ragione percui, secondo Leopardi, solo gli antichi possono essere considerati grandi poeti, per l’autenticità dei loro sentimenti e per l’ingenuità dello sguardo con cui contemplavano la natura, senza cercare di penetrarne a fondo i meccanismi, condizioni, queste, entrambe indispensabili alla vera poesia. L’intervento della ragione e la corruzione dei tempi hanno compromesso in modo graduale e irreversibile la maniera di fare poesia, pertanto, il recupero del passato, nella prospettiva letteraria indicata da Leopardi, può avvenire solo a patto che si ricreino queste condizioni, che il poeta moderno sappia, cioè, guardare il mondo con gli occhi degli antichi:

            l’anima deve naturalmente preferire agli altri quel piacere ch’ella non può abbracciare. Di questo bello aereo, di queste idee abbondavano gli antichi, abbondano i loro poeti, massime il più antico cioè Omero, abbondano i fanciulli, veramente Omerici in questo […], gl’ignoranti ec. in somma la natura. La cognizione e il sapere ne fa strage, e a noi riesce difficilissimo il provarne .

            Nei suoi Ricordi d’ infanzia e di adolescenza,Leopardisiritrae più volte affacciato ad una finestra del «paterno ostello» , da dove osserva il cielo, la luna, la piazzetta, la casa di Silvia, e il giardino, da cui spesso sente provenire l’eco di qualche musica che gli suscita particolari sensazioni ed emozioni

            scena dopo il pranzo affacciandomi alla finestra, coll’ombra delle tettoie il cane il pratello i fanciulli la porta del cocchiere socchiusa le botteghe ec., effetti della musica in me sentita nel giardino, aria cantata da qualche opera […] .

            Questa immagine di Leopardi ‘spettatore’ alla finestra, è anche la spia di ciò che accade nei Canti, dove c’è la presenza pressoché costante di un ostacolo fisico, la ‘finestra’ nelle Ricordanze, la ‘siepe’ nell’Infinito, la ‘torre’ nel Passero solitario , i ‘veroni’ in A Silvia, che demarca il confine tra poeta e mondo esterno. La finestra è il punto da cui il poeta, fin da bambino, scruta la realtà in un orizzonte che tanto più si restringe quanto più aumenta il suo inappagabile desiderio di conoscenza che lo induce a cercare di apprendere tutto il sapere contenuto nei libri della biblioteca paterna, dove trascorre i famosi «sette anni di studio matto e disperatissimo» che compromettono per sempre la sua salute e condizionano in modo irreversibile la sua visione del mondo, un orizzonte che può essere esplorato solo grazie all’immaginazione

l’anima s’immagina  quello che non vede, che quell’albero, quella siepe, quella torre gli asconde, e va errando in uno spazio immaginario, e si figura cose che non potrebbe, se la sua vista si estendesse da per tutto, perché il reale escluderebbe l’immaginario […] .

L’immaginazione era la componente principale della poesia degli antichi, ma da quando la ‘scoperta del vero’ ha dissolto le illusioni, la fantasia, le ingenue credenze popolari, e quant’altro poteva favorire l’immaginazione, che cosa tocca rappresentare, secondo Leopardi, al poeta o all’artista moderno nelle proprie opere d’arte? Nel formulare la propria definizione di Belle Arti, il poeta parte dall’affermazione del principio che tutte le opere d’arte devono avere come oggetto il «Vero» che si trae esclusivamente dall’imitazione della natura

            Non il Bello ma il Vero o sia l’imitazione della natura qualunque, si è l’oggetto delle Belle Arti […] .

Può apparire contraddittorio il fatto che Leopardi, da una parte, riconosca come vera poesia solo quella nata all’insegna dell’immaginazione, dall’altra parte, indichi come oggetto delle opere d’arte il «Vero» che rappresenta l’opposto, ma ciò a cui lui si riferisce non è il ‘vero’ esplorato fino in fondo e reso arido dalla ragione, e non è nemmeno la Verità superiore che Winckelmann contrappone al Vero scientifico attraverso il concetto di Bello ideale, il Vero a cui il poeta si riferisce è il reale, così come appare sotto ai nostri occhi, comprendente il bello e il brutto, poiché ogni distinzione a proposito è artificiale, creata su misura dall’uomo, e non dalla natura, e perciò ha un valore soggettivo, mutevole, relativo.
L’effetto del suono è uno degli espedienti che il poeta utilizza nelle sue rappresentazioni poetiche, per conciliare, appunto, la realtà con l’immaginazione. Senza  attribuire la provenienza del suono a cause misteriose e metafisiche, e considerandolo, al contrario, un fenomeno naturale e fisico che ha tuttavia il potere di evocare immagini poetiche , Leopardi associa gli effetti prodotti dal suono, che funziona, in questo caso, come una sorta di catalizzatore nel rapporto tra la realtà e la sua rappresentazione poetica, alla sua idea di infinito:

quello che altrove ho detto sugli effetti della luce o degli oggetti visibili, in riguardo all’idea dell’infinito, si deve applicare parimente al suono, al canto, a tutto ciò che spetta all’udito. È piacevole per se stesso, cioè non per altro, se non per un’idea vaga ed indefinita che desta, un canto (il più spregevole) udito da lungi o che paia lontano senza esserlo, o che si vada appoco appoco allontanando, e divenendo insensibile o anche viceversa (ma meno) o che sia così lontano […], che l’orecchio e l’idea quasi lo perda nella vastità degli spazi; un suono qualunque confuso, massime se ciò è per la lontananza; un canto udito in modo che non si veda il luogo da cui parte; un canto che risuoni per le volte di una stanza ec. dove voi non vi troviate però dentro; il canto degli agricoltori che nella campagna s’ode suonare per le valli, senza però vederli, e così il muggito degli armenti ec. […]. È piacevole qualunque suono (anche vilissimo) che largamente e vastamente si diffonda, […], massime se non si vede l’oggetto da cui parte […] .

E più avanti, in questo stesso passo dello Zibaldone datato 16 ottobre 1821, in cui, come ha evidenziato Blasucci, Leopardi che «ha lungamente teorizzato sulle condizioni di un’ “ottica idillica”, passa all’individuazione di un’ “acustica idillica”, fondata sulla percezione dei suoni e dei canti come produttori di sensazioni vago-indefinite» , si giunge alla conclusione che il fragore del tuono, lo stormire del vento, l’echeggiare di tutti gli altri suoni di cui non si vede la fonte, diventano immagini bellissime in poesia «e tanto più quanto più negligentemente son messe, e toccando il soggetto, senza mostrar l’intenzione per cui ciò si fa, anzi mostrando d’ignorare l’effetto e le immagini che son per produrre […]. La notte o l’immagine della notte è la più propria ad aiutare, o anche a cagionare, i detti effetti del suono […]» . E la negligenza in poesia, per Leopardi, non è altro che una strategia artistica tesa ad ottenere un effetto di naturalezza che non è assolutamente da confondersi con la rozzezza o la fanciullaggine di chi vorrebbe ottenere lo stesso effetto senza adoperare alcun artificio, cioè i poeti dilettanti e i fanciulli, ma è una semplicità che ricorda quella degli antichi, e che deriva, quasi paradossalmente, da uno studio dell’arte talmente attento da riuscire a nascondere se stesso dietro la rappresentazione della natura imitata con «quella celeste naturalezza» che era propria degli antichi

la diligenza nei poeti è contraria alla naturalezza. Quello che nei poeti dee parer di vedere, oltre gli oggetti imitati, è una bella negligenza, e questa è quella che vediamo negli antichi, maestri di questa necessarissima e sostanziale arte […] .

 Ancora, in merito al discorso sull’imitazione nell’arte, è impossibile pervenire ad un giudizio universalmente valido su ciò che si deve considerare bello, o viceversa, brutto in natura, proprio perché manca un modello di riferimento assoluto, non ci sono canoni ideali prestabiliti a cui la bellezza debba corrispondere, né la bellezza può essere concepita come un’idea riconducibile alla sfera metafisica, ma piuttosto, come un concetto che si forma nell’uomo durante il processo conoscitivo che accompagna la sua esistenza e che, pertanto, è continuamente suscettibile di cambiamenti e di modifiche. L’unico criterio di giudizio sul bello che Leopardi riconosce è, dunque, la relatività del gusto, delle opinioni, e di tutto ciò che definisce conveniente.
E così si esprime a proposito nello Zibaldone

a noi par conveniente a un soggetto (e la bellezza sta tutta si può dire nella convenienza) quello che siamo assuefatti a vederci, e viceversa sconveniente ec. e però ci par bello quello che ha queste tali cose e brutto o difettoso quello che non le ha: benché in natura non debba averle o viceversa […] .  

Sulla diversità delle opinioni tra gli uomini e, in generale, tra i popoli, per ciò che riguarda, da una parte il giudizio sul bello in natura, dall’altra il bello nell’arte, Leopardi formula una serie di esempi che, nel primo caso, interessano sia alcuni tratti della bellezza umana, come il colore di occhi e capelli, sottolineando la diversità di gusti tra i popoli, o nello stesso popolo in epoche diverse, sia alcune caratteristiche di animali come «cavalli scodati» e «cani colle orecchie tagliate», per poi concludere che «il bello ideale non è altro che l’idea della convenienza che un artista si forma secondo le opinioni e gli usi del suo tempo, e della sua nazione. Barba e capelli tagliati o no» . Nel caso delle Belle Arti il poeta, invece, per le osservazioni che riguardano la pittura e la musica, rinvia a «MARTIGNONI, Annal. Di Scienze e lett. N. 8 p. 245», mentre si sofferma sul colore delle facciate delle fabbriche che «presso di noi non disdicono […] a mattoni nudi, anzi son ridicole imbiancate e colorite. Il contrario de’ Cinesi ai quali le nostre facciate parrebbero cosa affatto greggia e rozza» .
Si è già visto come il diletto nella musica non appartenga alla sfera del bello ma esclusivamente a quella del piacere, a questo punto, però, è opportuno fare riferimento ad un  passaggio dello Zibaldone che è nodale perché introduce una distinzione fondamentale riguardo l’idea leopardiana di musica. Il passaggio è il seguente

il diletto della musica, quanto alla principale e più essenziale sua parte, non risulta dalla convenienza […] .

Leopardi distingue nella musica due componenti: il suono, che rappresenta la parte «principale e più essenziale» della musica, e l’armonia, alla quale appartengono la melodia, il canto e i suoni strumentali. Anche gli effetti sono differenti, perché mentre l’armonia che esprime il relativo, produce un effetto subordinato alla convenienza, condizionato, cioè, dal gusto e dai tempi, il suono, che esprime in questo senso l’assoluto, produce un effetto immediato, non solo sull’animo umano ma anche su alcuni animali

distinguete suono […] e armonia. Il suono è la materia della musica, come i colori della pittura, i marmi della scoltura ec. L’effetto naturale e generico della musica in noi, non deriva dall’armonia, ma dal suono, il quale ci elettrizza e scuote al primo tocco quando anche sia monotono. Questo è quello che la musica ha di speciale sopra le altre arti, sebbene anche un color bello e vivo ci fa effetto, ma molto minore. Questi sono effetti e influssi naturali, e non bellezza. […] Ma l’armonia è bellezza. La bellezza non è assoluta, dipendendo dalle idee che ciascuno si forma della convenienza di una cosa con un’altra […]non è la musica come arte, ma la sua materia cioè il suono che farà effetto su certe bestie […] .

Ora, il fatto che la musica possa produrre un certo effetto anche sugli animali, è di per sé prova che il diletto proviene dal suono, che agisce in maniera immediata sul loro animo, senza che questi animali abbiano percezione della convenienza o del bello. E non c’è da meravigliarsi che

anche gli animali sieno tanto dilettati dalla nostra musica, benché non assuefatti alle nostre melodie, e quindi non capaci di conoscere né di sentire quello che noi chiamiamo il bello musicale […] .

Al contrario, un suono qualunque, per esempio il canto degli uccelli, indipendentemente dalla melodia, è in grado di esprimere  sentimenti e stati d’animo, e di suscitare effetti di profonda commozione nell’animo umano, come dimostra il canto dell’usignolo nell’episodio di Orfeo , citato nella pagina dello Zibaldone datata 17 ottobre 1820

quell’usignolo di cui dice Virgilio nell’episodio di Orfeo, che accovacciato su d’un ramo, va piangendo tutta notte i suoi figli rapiti, e colla miserabile sua canzone, esprime un dolor profondo, continuo, ed acerbissimo, senza moti di vendetta, senza cercare riparo al suo male, senza proccurar di ritrovare il perduto ec. è compassionevolissimo, a cagione di quell’impotenza che esprime […] .


Zib. 6.

I quali affermano rispettivamente che Leopardi «aveva il gusto poco educato alla scultura e alla pittura […]. Un chiaro di luna tra le frondi gli faceva più effetto che non una Venere Capitolina» (cfr. F. De Sanctis, Giacomo Leopardi, a cura di E. Ghidetti, Roma, Editori Riuniti, 1983, p. 149), e che «sicuramente il Leopardi […] non fu un visuale, o, per lo meno, non fu un visuale poderoso. Luce e colori egli vide assai meno intensamente, non dirò di Dante […] ma anche dell’Ariosto, del Goethe, dello Chateaubriand, dello Shelley e di cent’altri» (cfr. A. Graf, Foscolo, Manzoni, Leopardi, Torino, Chiantore, 1898, rist. 1945, pp. 398-399).

Cfr. A. Moroni, L’arte figurativa nel pensiero di Giacomo Leopardi, in Omaggio a Leopardi, Abano Terme, Francisci, 1987, vol. II, pp. 431-444,  e A. Frattini, Leopardi e le arti figurative e Il «sistema dei colori» nel tessuto espressivo dei «Canti», in Giacomo Leopardi, Roma, Studium, 1986, pp. 171-184 e pp. 185-198.

M. Pieracci Harwell, Leopardi: pittura e poesia, in Giacomo  Leopardi. Estetica e poesia, a cura di E. Speciale, Ravenna, Longo Editore, 1992, pp. 79-97.

G. Amoretti, Poesia e psicanalisi:  Foscolo e Leopardi, Milano, Garzanti, 1979.

A. Folin, La natura e lo sguardo. Filosofia e percezione visiva in Leopardi, in Da Leopardi all’eresia. Saggi sulla poesia e sul potere, Napoli, Dick Peerson, 1987. Sul tema della “verità” in Leopardi, si veda anche, idem, La verità come svelamento, come rivelazione e come destino, in Leopardi e l’imperfetto nulla, Venezia, Marsilio, 2001, pp. 29-45.

Cfr. Idem, Dall’immagine all’«idea», in Pensare per affetti. Leopardi, la natura, l’immagine, Venezia, Marsilio, 1996, pp. 71-110, in cui l’autore sostiene che «la meditazione leopardiana, proprio in virtù del suo carattere teoretico e al tempo stesso evocativo, vada interrogata non solo per ciò che essa dice esplicitamente sulle arti figurative, ma anche per ciò che è presupposto nell’immagine che quella scrittura mette in scena poeticamente […]» (p. 72).

Cfr. C. Galimberti, Linguaggio del vero in Leopardi, Firenze, Olschki, 1959; idem, Leopardi, meditazione e canto, Introduzione alle Opere di G. Leopardi, a cura di M. A. Rigoni e R. Damiani, Milano, Mondadori, 2 vol1., 1987-’88, pp. XIII-LXXIX; idem, Fanciulli e più che uomini, in Cose che non son cose, Venezia, Marsilio, 2001, pp. 209-217.

Cfr. A. Prete, Il pensiero poetante, Milano, Feltrinelli, 1980.

Cfr. G. Scalia, Etimologie della «Ginestra», in «Con-tratto», I, n. 1, dicembre 1992.

Cfr. A. Caracciolo, Leopardi e il nichilismo, Milano, Bompiani, 1994.

Cfr. M. Cacciari, Leopardi platonicus?, in «Con-tratto», I, n. 1, Dicembre 1992, pp. 143-153.

A. Folin, Dall’immagine all’«idea», in Pensare per affetti cit., p. 98.

Zib. 1935-36.

Zib. 3426.

F. Foschi, nell’Introduzione all’antologia G. Leopardi, Sulla musica cit., pp. 16-17, a proposito di questa teoria afferma che «vi sono […]delle interessanti intuizioni di psicologia animale e comparata, che meriterebbero ulteriore analisi critica, alla luce ad esempio delle recenti ricerche di Géza Rèvèsz o di quelle di Schneider» (cfr. G. Révész, Psicologia della musica, Firenze, Giunti-Barbera, 1954, e M. Schneider, Il significato della musica, Milano, Rusconi, 1981); e che «certe osservazioni sui sapori, sugli odori e sul gusto anticipano certamente alcune modernissime conoscenze sulla biologia delle passioni e sui meccanismi neurochimici della fame e della partecipazione dei cinque sensi alla formazione di quel piacere del gusto, di cui la mimica e il linguaggio a loro volta sono espressione. Conclude ad esempio Jan Didier Vincent (J. Didier Vincent, Biologie des passions, Paris, Seuil, 1986), che “l’odorato è certamente il partner più necessario del gusto” e anzi, condividendo l’opinione di Brillat-Savarin (Brillat-Savarin, Physiologie du goût, Paris, Flammarion, 1982), l’odorato e il gusto non formano che un solo senso. Gli alimenti e la loro preparazione sono l’espressione dei nostri modi di vita e delle nostre culture. I nostri gusti sono il riflesso della nostra educazione e delle abitudini che ci sono state trasmesse. Vi è quindi una dimensione supplementare dei sensi: accanto a quella derivante dallo “stato centrale fluttuante” fatto di mutevoli equilibri neurochimici, vi è la dimensione interindividuale e sociale. Ma sono all’incirca le cose intuite da Leopardi nello Zibaldone a proposito degli odori e del potere dell’assuefazione a proposito dei sapori (agosto-settembre 1821)».

Zib. 157-158.

Zib. 1782-1783.

Cfr. Zib. 79.

Zib. 166-167, il corsivo è nel testo.

Zib. 1537.

Zib. 167.

Sulla finzione programmatica nell’Infinito, si è soffermato di recente N. Merola nel capitolo Leopardi e il sapere poetico, in Poesia italiana moderna. Da Parini a D’Annunzio, Roma, Carocci, 2004, pp. 135-170, evidenziando come «a un’immaginazione dichiarata (“io nel pensier mi fingo”), che ha sempre costituito per la critica il centro del componimento, vanno riferiti il “vo comparando” e il “mi sovvien” del v. 11. Qui la posizione attiva del soggetto, colto nella flagranza di una creazione letteraria indistinguibile dalla abilità connettiva tipica dell’esercizio dell’intelligenza (comparando), sfuma nell’involontarietà delle associazioni […], confermando il carattere quasi automatico della reazione innescata dai dimostrativi […]. È la deissi che sostiene infatti il peso maggiore della logica differenziale (o comparativa) cara a Leopardi, permettendogli sia di raddoppiare la decisiva interferenza degli accidenti reali sulla situazione inscenata e sulla presunta autosufficienza della rappresentazione linguistica (“il suon di lei” ci induce a risalire lungo il pur breve testo, ritrovando “questa voce” e lo “stormir”), sia soprattutto la contrapposizione, che è poi un andirivieni e un gioco di smarrimento (donde la dolcezza del naufragio), tra  “questo” e “quello”, ovvero tra ciò che, per offrirsi direttamente all’esperienza sensibile (sempre beninteso nella finzione), meno si affida alla verbalizzazione della poesia, e quanto invece è di esclusiva pertinenza poetica […]» (pp. 153-154).
Per quanto riguarda il “gioco di smarrimento” e la dolcezza del naufragio si  veda, R. Callois, I giochi e gli uomini, Prefazione di P. A. Rovatti; note all’edizione italiana di G. Dossena; traduzione di L. Guarino, 3ª edizione, Milano, Bompiani, 2004.

Zib. 167.

Zib. 171.

A Silvia, p. 26.

Ricordi d’infanzia e di adolescenza, p. 360. Gli altri passi a cui mi riferisco sono: « si ricordi quella finestrella sopra la scaletta ec. onde io dal giardino mirava la luna o il sereno ec. […]» (ibidem p. 362); e «giardino presso la casa del guardiano, io era malinconichiss. e mi posi a una finestra che metteva sulla piazzetta ec. […]» (ibidem p. 363).

Sulla descrizione del punto geografico della torre nel Passero solitario, cfr. G. Leopardi, I Canti, a cura di A. Straccali, (3ª ed. corretta e accresciuta da O. Antognoni), Nuova Presentazione di E. Bigi, Firenze, Sansoni, 1962, p. 176, nota n. 1: «la torre o campanile di una delle chiese di Recanati, la chiesa di S. Agostino. Questa torre, che, se non la principale (principale è quella di piazza, detta nelle Ricordanze la torre del borgo), è però la più antica, si leva su nel lato posteriore del fabbricato, già convento degli Agostiniani a ponente, verso il di fuori della città, che da quella parte, propriamente non è cinta di mura; domina la Marca occidentale e, più da vicino, la valle sottoposta; maggiormente poi la dominava a’ tempi di Giacomo per l’alto suo cono, che quindi, a causa dei fulmini che attirava, è stato abbattuto. In cima a quel cono v’era una croce, dove spesso vedevasi posato un passero solitario; e a Recanati vivono anc’oggi alcuni che si ricordano di avervelo veduto…Uscendo dalla città per la porta di Monte Morello (la più vicina al palazzo Leopardi), Giacomo, quando faceva la passeggiata a ponente, solea recarsi per un piccolo sentiero, fuori della città sul colle detto popolarmente Monte Tabor, che signoreggia anch’esso la valle sottoposta e tutta la Marca occidentale fino agli Appennini, e donde si scopre benissimo il campanile suddetto […]».

Zib.171.

Zib. 2.

La «matrice  naturale del fenomeno» è difesa da L. Blasucci che nel saggio Lo stormire del vento tra le piante, che dà il titolo al suo volume edito da Marsilio (Venezia, 2003), nota n. 15, p. 39, in risposta al saggio di M. Orcel, Il suono dell’infinito. Saggi sulla poetica del primo Romanticismo italiano da Alfieri a Leopardi, Napoli, Liguori, 1993 (già apparso in «Esperienze letterarie» anno XIII, n. 1988, pp. 25-52, in Leopardi, arte e verità, a cura di C. Ferrucci, Roma, Bonacci Editore, 1990, pp. 59-88), in cui è attribuito un  «rilievo eccessivo […] agli aspetti mitico-archetipici del tema», sostiene che «la tendenza dell’Orcel, tutt’altro che isolata nella recente critica leopardiana, è quella di recuperare alcune motivazioni esoteriche e religiose a monte, compiendo un cammino a ritroso rispetto alla coscienza leopardiana adulta, quella che va dal Saggio sugli errori popolari allo Zibaldone, orientata in una direzione  decisamente psico-sensistica».

Zib. 1927-1928.

L. Blasucci, Lo stormire del vento tra le piante cit., p. 40.

Zib. 1929-1930.

«Quella celeste naturalezza» è l’espressione con cui Leopardi, nel Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica, p. 938, definisce il modo di esprimere il patetico proprio degli antichi, e da cui M. Santagata ha ricavato il titolo del suo libro, Quella celeste naturalezza. Le canzoni e gli idilli di Leopardi, Bologna, Il Mulino, 1994.

Zib. 21.

Zib. 8, corsivo mio.

Zib. 8-9.

Zib. 9.

Zib. 3422.

Zib. 155-156, corsivo mio.

Zib. 3423.

«Orfeo, figlio del re tracio Eagro e della Musa Calliope, fu il più famoso poeta e musicista mai esistito. Apollo gli donò la lira e le Muse gli insegnarono a usarla, e non soltanto egli ammansì le belve, ma anche gli alberi e i massi si mossero e lo seguirono, incantati dal suono della musica […]» (cfr. R. Graves, I miti greci, traduzione di E. Morpurgo, Presentazione di U. Albini, Milano, Longanesi, 1983, p. 99).

Zib. 281, i corsivi sono nel testo.

Il suono è alieno da ogni convenienza, e in questo è paragonabile con la bellezza umana i cui effetti, esattamente come quelli del suono, appartengono alla sfera del piacere e non  quella del bello. Infatti, come una «leggera stonazione» in musica non renderà meno piacevole l’effetto all’orecchio del volgo, disposto a percepire i suoni nella maniera naturale in cui gli pervengono, a differenza degli intenditori che giudicano esclusivamente secondo le regole del contrappunto , così una sproporzione nella forma umana non basterà a determinare la bruttezza della persona. Per essere più persuasivo a proposito, il poeta, utilizza come esempio la parte del corpo che ritiene più importante e significativa, sia dal punto di vista dell’espressione che della bellezza vera e propria, cioè gli occhi, per dimostrare come una sproporzione delle loro dimensioni rispetto al volto, pur rappresentando una sconvenienza, non determina la sua bruttezza, al contrario, tanto più gli occhi sono belli quanto più sono grandi e per quanto da essi traspaiono le qualità dell’animo:

            le Dee e specialmente Giunone, è chiamata spesso da Omero βοωπις (βοώπιδος) cioè ch’ha gli occhi di bue. La grandezza degli occhi del bue, alla quale Omero ha riguardo, è certo sproporzionata al viso dell’uomo. Nondimeno i greci, intendentissimi del bello, non temevano di usar questa esagerazione in lode delle bellezze donnesche, e di attribuire e appropriar questo titolo, come titolo di bellezza […] contuttoché contenga una sproporzione. E infatti non solo è bellezza per tutti gli uomini e per tutte le donne  […] la grandezza degli occhi, ma anche un certo eccesso di questa grandezza, se anche si nota come straordinario, e colpisce, e desta il senso della sconvenienza, non lascia perciò di piacere, e non si chiama bruttezza […]. Dalle quali cose deducete:
1. Quanto sia vero che gli occhi sono la principal parte della sembianza umana, e tanto più belli quanto più notabili, e quindi quanto più vivi. E che in essi veramente si dipinge la vita e l’anima dell’uomo […].
2. Quanta parte di quella che si chiama bellezza e bruttezza umana sia indipendente ed aliena dalla convenienza, e quindi dalla teoria del bello […] .

Se si applica quanto detto ai criteri di giudizio sulle opere d’arte, di ogni genere, ne deriva che esso non dipenderà dalla valutazione dell’oggetto, bello o brutto che sia, ma dal grado di perfezione che l’artista riuscirà a raggiungere nell’imitazione della natura. Così, ad esempio, nel caso della poesia, il brutto se ben imitato, può procurare lo stesso piacere del bello, realizzando il suo «ufficio naturale» che, secondo Leopardi, consiste principalmente nel procurare il ‘diletto’, e che, solo indirettamente, può assumere un valore etico

 l’utile non è il fine della poesia benché questa possa giovare. E può anche il poeta mirare espressamente all’utile e ottenerlo (come forse avrà fatto Omero) senza che però l’utile sia il fine della poesia […] .

È significativo rilevare come questo passaggio dello Zibaldone, in cui il poeta distingue il fine primario della poesia da quello secondario, utilizzando la metafora dell’agricoltore che può «servirsi della scure a segar biade o altro senza che il segare sia il fine della scure», per dimostrare che anche «la poesia può esser utile indirettamente, come la scure può segare», e il passaggio successivo, in cui spiega come il diletto, non solo in poesia, ma in generale nell’arte, derivi sostanzialmente dall’imitazione, siano inframmezzati da un abbozzo poetico come questo:

    Sentìa del canto risuonar le valli
D’agricoltori ec.

 in cui, il verbo ‘sentire’, usato all’imperfetto, esprime il permanere nel presente dell’effetto della sensazione provocata sul poeta dal canto, e dove gli agricoltori che cantano possono essere paragonati ad artisti che non imitano, in questo caso, paesaggi, forme umane o animali, ma imitano i ‘suoni’ della natura dando quasi l’impressione che le valli risuonino di un suono proprio. L’inserimento dell’immagine poetica riveste, dunque, uno scopo prevalentemente pratico che è quello di esemplificare la sostanza delle affermazioni in prosa, essendo il canto fonte di diletto per antonomasia, e non già imitazione, ma perfetta espressione del sentimento umano. 
Non necessariamente il Bello, ma la «natura qualunque» e quindi anche il brutto, può diventare oggetto di rappresentazione nelle opere d’arte , in alcuni generi letterari come la commedia e la satira, e perfino in poesia dove
passioni morti tempeste ec. piacciono egregiamente benché sian brutte per questo solo che son ben imitate […], perché l’uomo niente tanto odia quanto la noia, e però gli piace di veder qualche novità ancorché brutta. Tragedia, Commedia, Satira han per oggetto il brutto ed è una mera quistion di nome il contrastar se questa sia poesia […] .

Con questo passaggio, già in apertura dello Zibaldone, Leopardi introduce il tema del ‘piacere della tempesta’, ricorrente nelle sue opere, e presente nella sua memoria come ricordo di sensazioni provate nella fanciullezza e nell’adolescenza che di tanto in tanto si riaffacciano e tornano a far sentire i propri effetti . Al recente convegno su Leopardi e lo spettacolo della natura , Elio Gionanola si è soffermato su questo tema con il suo intervento, Il topos della tempesta nell’opera leopardiana , in cui, senza prescindere dall’importanza dei processi psicologici e interiori del poeta, l’immagine della tempesta viene analizzata oltre che nella prospettiva letteraria, anche in quella religiosa, della tempesta come simbolo della punizione divina «secondo un concetto di divinità che qui, come in tanti altri luoghi, risente della tipica religiosità di casa Leopardi, conformata molto più alla terribilità veterotestamentaria del Dio punitore che alla misericordia del Padre celeste evangelico» . Questo triplo nesso tra psicologia, letteratura, e religione, che percorre l’immagine della tempesta, è delineato da Gioanola attraverso numerosi luoghi dell’opera leopardiana: nei Canti (La quiete dopo la tempesta e L’ultimo canto di Saffo); nell’Argomento di elegia «di un innamorato in mezzo a una tempesta che si getta in mezzo ai venti e prende piacere dei pericoli che gli crea il temporale […]» e afferma «oh s’io potessi morire! Oh turbini ec. Ecco comincia a tonare: venite qua, spingetelo o venti il temporale su di me. Voglio andare su quella montagna dove vedo che le querce si movono e agitano assai. Poi giungendo il nembo sguazzi fra l’acqua e i lampi e il vento ec. e partendo lo richiami» , nell’abbozzo del Primo delitto, o la vergine guasta, dove la tristezza di una fanciulla per la perdita della verginità arriva a sfiorare il «desiderio di morte» , nel capitolo Del tuono del Saggio sopra gli errori popolari degli antichi dove leggiamo che «si teme generalmente il tuono. Questo timore non è irragionevole come quello degli spiriti […]. Ho veduto dei fanciulli, che sapevano appena balbettare, darsi a piangere di botto allo scoppiar violento di qualche tuono […]. Il fragore cessa di essere un oggetto di spavento per il fanciullo cresciuto e capace di qualche riflessione, il quale comincia a conoscere la causa dello strepito che ode» e ancora «era naturale che i primi uomini, atterriti dalla folgore, e vedendola accompagnata da uno strepito maestoso e da un imponente apparato di tutto il cielo, la credessero cosa soprannaturale e derivata immediatamente dall’Essere supremo» , nell’Appressamento della morte, dove, come ha osservato Neuro Bonifazi, l’immagine della tempesta è associata alla figura del tiranno attraverso l’identificazione tra il ‘punitore’ Padre divino e il padre terreno di Leopardi ; nei passi dello Zibaldone, in cui il poeta descrive il suo timore infantile per i tuoni, affermando che tuttavia esso «aveva un non so che di sì formidabile e smanioso, che non può essere paragonato con verun altro sentimento dispiacevole nell’uomo» .
Ma al di là dell’origine e del significato profondo del topos della tempesta, ciò che si vuole evidenziare in questa sede è soprattutto l’uso artistico che ne fa Leopardi, teso a dimostrare come l’effetto finale dell’opera d’arte dipenda esclusivamente dal livello di intensità della sensazione che l’oggetto rappresentato è in grado di trasmettere a chi la osserva, la legge o l’ascolta, che non si può discernere a priori il bello dal brutto, poiché il giudizio sulla rappresentazione è subordinato, oltre che alla qualità dell’imitazione, anche a numerosi fattori esterni quali il gusto, la moda, l’epoca, percui non c’è da sorprendersi, ad esempio, se nel clima romantico di primo Ottocento, ricco di echi ossianici, Leopardi si trova ad affermare che

 piace l’essere spettatore di cose vigorose ec. ec. non solo relative agli uomini, ma comunque. Il tuono, la tempesta, la grandine, il vento gagliardo, veduto o udito, e i suoi effetti ec. Ogni sensazione viva porta seco nell’uomo una vena di piacere, quantunque ella sia per se stessa dispiacevole, o come formidabile, o come dolorosa ec. Io sentiva un contadino, al quale un fiume vicino soleva recare molti danni, dire che nondimeno era un piacere la vista della piena, quando s’avanzava e correva velocemente verso i suoi campi, con grandissimo strepito, e menandosi davanti gran quantità di sassi, mota ec. E tali immagini, benché brutte in se stesse, riescono infatti sempre belle nella poesia, nella pittura, nell’eloquenza ec. […] .

Il tema della tempesta, insieme a quello della rimembranza, dell’ubi sunt?, del piacere come cessazione del dolore, del “canto lontanante”, della caducità delle cose umane, è un tema tipicamente ossianico che ricorre abbastanza frequentemente nei Canti leopardiani, non come effetto di una semplice suggestione, ma come risultato della riflessione critica di Leopardi, che evolve da una fase di rifiuto, o a malapena di tolleranza  nei confronti di Ossian, fino ad un atteggiamento opposto di assimilazione con i sommi modelli del passato, percui la diffidenza iniziale si trasforma in una sostanziale ammirazione, oltre al fatto che Leopardi avverte certamente una forte congenialità rispetto ad Ossian. Le varie fasi del rapporto Leopardi-Ossian, e le considerazioni della critica a riguardo, sono state dettagliatamente ripercorse da Luigi Blasucci nel suo saggio Sull’ossianismo leopardiano , in cui sono analizzate «alcune tipiche presenze ossianiche, sia di situazioni che linguaggio» disseminate nella lirica leopardiana. Il riferimento ossianico al piacere nella tempesta è indicato, ad esempio, in rapporto al Frammento XXXVIII, estrapolato dall’Elegia II, dove Leopardi descrive la disperazione di un uomo innamorato costretto a separarsi dalla donna amata che si accinge a partire, e che in preda a questo dolore si compiace al pensiero di poter essere sommerso dalla tempesta; in Sopra il monumento di Dante, dove «l’immagine delle “selve sibilanti” nella descrizione dei caduti italiani nella campagna di Russia» può essere considerato «un breve squarcio di ossianismo tempestoso (il vento che fischia tra i rami di una selva) in un contesto esotico non propriamente ossianico» e «quella del vento che soffia tra le piante […], è una delle immagini predilette della fantasia leopardiana; ma è anche un’immagine ricorrente nei poemi ossianici, soprattutto nella sua versione tempestosa […]»; in Nelle nozze della sorella Paolina dove il motivo ossianico della tempesta si intreccia con il motivo virgiliano, soprattutto georgico, dei venti e dei nembi;nell’Inno ai Patriarchi e in Alla Primavera o delle favole antiche, dove «nell’evocazione “primaverile” s’insinua, a variarla e a darle rilievo, qualche nota “tempestosa”». Meno frequenti sono, invece, gli echi ossianici negli “idilli” composti tra il 1819 e il ’21, reperibili nella Sera del dì di festa, attraverso il tema dell’ubi sunt?, e nell’invocazione iniziale di Alla luna, nonché nell’utilizzo di espressioni ossianiche presenti nell’Infinito.
Se tutte le altre arti per dilettare o per commuovere  devono riuscire ad imitare la natura, il più perfettamente possibile, solo la musica, per magistero della natura, ha un potere di presa diretta sull’animo umano e su quello degli animali, come si è già visto, perché il suo privilegio legato al suono, che è un elemento naturale e primitivo, e che la rende l’arte per eccellenza, superiore a tutte le altre arti, è proprio quello di toccare le corde del sentimento umano in maniera immediata e al di là di qualsiasi contingenza

le altre arti imitano ed esprimono la natura da cui si trae il sentimento, ma la musica non imita e non esprime che lo stesso sentimento in persona, ch’ella trae da se stessa e non dalla natura, e così l’uditore […] .

In modo più o meno analogo ebbe a esprimersi Gioacchino Rossini, in una conversazione del 1836 con il suo amico e biografo bolognese Antonio Zanolini che così ne riferisce il contenuto

l’espressione della musica non è quella della pittura e non consiste nel rappresentare al vivo gli effetti esteriori delle affezioni dell’animo, ma nell’eccitarle in chi ascolta. E questa è la possanza del linguaggio il quale esprime e non imita […] .

Nello stesso passo dello Zibaldone, Leopardi afferma la superiorità della musica anche sulla poesia, perché la parola in poesia, dovendosi applicare a degli oggetti non ha la stessa forza del suono nella musica che, utilizzando solo se stesso come materia della propria arte, produce un’impressione immediata e non secondaria, uguagliata, in questo senso, solo dall’architettura. La ‘parola’, che il poeta distingue nettamente dal ‘termine’, che serve solo per definire l’oggetto, è in grado di arricchire la definizione anche con l’aggiunta di immagini, e tanto più, la parola poetica, inserita negli espedienti artistici come la negligenza e la sprezzatura, può darsi addirittura come artificio. La naturalezza, che Leopardi ritiene indispensabile, e che ostinatamente ricerca come effetto nella sua poesia, è una proprietà che appartiene alla musica, grazie alla preminenza del suono che, per il poeta, significa anche preminenza della semplicità e del modo di sentire e di poetare degli antichi: da qui il rimpianto per i tempi in cui poesia e musica, poeti e musicisti erano la stessa cosa prima «della funesta separazione della musica dalla poesia e della persona di musico da quello di poeta, attributi anticamente, e secondo la primitiva natura di tali, indivise e indivisibili» .

 


CAPITOLO SECONDO

 

L’IDEA DI MUSICA ATTRAVERSO ALCUNE LINEE FONDAMENTALI DELLA POETICA LEOPARDIANA

 

§ II.1 POETICA DEL VAGO E INDEFINITO. GLI EFFETTI DELLA MUSICA

            Si è già visto come, nella musica, Leopardi distingua l’armonia dal suono, attribuendo a quest’ultimo l’effetto di presa immediata che essa esercita sull’animo umano, si aggiunga che il privilegio del suono, come elemento costitutivo della musica deriva, a sua volta, dall’efficacia sensoriale posseduta dal suono in quanto elemento naturale e fisico preesistente alla musica, il che porta all’individuazione di due livelli di riflessione su cui si fonda l’idea leopardiana di musica: la musica in quanto arte, formata dall’armonia e dal suono musicale che sono tra loro inseparabili, e il suono naturale, ispiratore di sensazioni vago-indefinite analoghe a quelle prodotte dalla vista, che agisce in maniera autonoma e funziona come una sorta di substrato rispetto agli effetti che derivano dalla musica.
L’armonia, o melodia, in musica, secondo Leopardi, dipende dall’assuefazione, cioè dall’abitudine e dal gusto, conformati ad una determinata successione dei suoni che viene percepita dall’orecchio del popolo, ovvero dell’uditore inesperto, in maniera gradevole ma anche abbastanza generica. Si tratta, infatti, di un piacere derivante da una percezione sensoriale della musica ed estranea alla valutazione del rispetto delle regole del contrappunto, le quali, proprio perché appartengono ad una scienza o arte ben specifica e basata su leggi


universalmente valide, sono condivise da tutti gli intenditori nella stessa maniera, indipendentemente dalla nazionalità o dall’epoca, al contrario della musica popolare, la cui ricezione è fortemente influenzata dalle variazioni di luogo e di tempo

e siccome le assuefazioni del popolo e dei non intendenti di musica, circa le varie successioni de’ tuoni, non hanno regola determinata e sono diverse in diversi luoghi e tempi, quindi accade che tali melodie popolari o simili al popolare, altrove piacciano di più, altrove meno, ad altri più, ad altri meno, secondo ch’elle agli uditori riescono o troppo note e usitate; o troppo poco; o quanto conviene […]. Onde una medesima melodia musicale piacerà più ad uno che ad altro individuo, più in una che in altra città, piacerà universalmente in Italia, o piacerà al popolo e non agl’intendenti, e trasportata in Francia o in Germania, non piacerà punto ad alcuno, o piacerà agl’intendenti e non al popolo […] .

 Ma, la stretta osservanza delle regole del «contrappunto che è al musico quel che al poeta la grammatica» , dice Leopardi, fissa la composizione entro determinati schemi che privano la musica, come la poesia, della naturalezza che da sola è capace di stimolare gli impulsi più spontanei e vitali dell’animo umano, e di provocare quelle spinte del cuore che commuovono e, in tal senso, accomunano gli tutti uomini. Questo era l’effetto della poesia e della musica antiche , che al tempo dei greci erano una cosa sola e che, nei primi decenni dell’Ottocento, il poeta considera accomunate ormai soltanto in senso negativo, dalla perdita della matrice iniziale e dallo sviamento dal fine principale che era quello di «dilettare e muovere l’universale degli uditori e del popolo» , rispetto al quale, il passaggio dalla natura all’arte, nel caso della musica, con la formulazione di vere e proprie teorie musicali, nel caso della poesia, con l’irrigidimento delle proprie regole, ha prodotto una severa selezione del pubblico, ridotto ad una cerchia strettissima di esperti, ed un passaggio di appartenenza dalla ‘sfera del piacere’ a quella ‘del bello’, inteso come ricerca della perfezione.
Ecco in che modo Leopardi illustra il processo di trasformazione che ha interessato la poesia

la poesia bene spesso, lasciata la natura si rivolse per amore di novità e per isfoggio di fantasia e di facoltà creatrice, a sue proprie e stravaganti e inaudite invenzioni, e mirò più alle regole e a’ principi che l’erano stati assegnati, di quello che al suo fondamento ed anima, ch’è la natura; anzi lasciata affatto questa, che aveva ad essere l’unico suo modello, non altro modello riconobbe e adoperò che le sue proprie regole, e su d’esso modello gittò mille assurde e mostruose o misere e grette opere; laonde abbandonato l’officio suo, ch’è il sopraddetto, sommamente stravolse e perdè, o per una per altra parte, di quell’effetto che a lei propriamente ed essenzialmente si convenia di produrre e di proccurare […] ;

e la musica, dall’origine ai suoi giorni

così l’arte musica nata per abbellire, innovare decentemente e variare e per tal modo moltiplicare; ordinare, regolare, simmetrizzare o proporzionare, adornare, nobilitare, perfezionare insomma le melodie popolari e generalmente note e a tutti gli orecchi domestiche; com’ella ebbe assai regole e principii, e d’altronde s’invaghì soverchiamente della novità, e dell’ambiziosa creazione e invenzione, non mirò più che a se stessa, e lasciando di pigliare in mano le melodie popolari per su di esse esercitarsi, e farne sua materia, come doveva per proprio istituto; si rivolse alle sue regole, e su questo modello, senz’altro, gittò le sue composizioni nuove veramente e strane: con che ella venne a perdere quell’effetto che a lei essenzialmente appartiene, ch’ella doveva proporsi per suo proprio fine, e ch’ella da principio otteneva, quando cioè lo cercava, o quando coi debiti e appropriati mezzi lo proccurava […] .

L’assuefazione particolare, per ciò che riguarda l’armonia e la melodia nella musica, come nella poesia e nella prosa, respinge di solito le novità che l’orecchio non è disposto ad accogliere perché non è assuefatto; esiste, però, secondo Leopardi, un altro tipo di assuefazione, l’assuefazione generale, la quale fa sì che l’udito possa introdurre gradualmente, nel meccanismo della memoria sensoriale, nuove sequenze di suoni producendo un nuovo adattamento. Se i principi su cui si fonda la scienza musicale sono invariabili, tutto ciò che appartiene alla sfera sensoriale è invece soggetto al potere dell’assuefazione che non si limita soltanto ad accogliere gli stimoli provenienti dall’esterno e a stratificarli dentro un ordine immutabile di concetti, ma è anche capacità di riadattare la mente e i sensi a nuovi stimoli, come ha evidenziato Franco Brioschi,  essa «è anche disposizione attiva a sospendere le categorie abituali e meccaniche per lasciare emergere nuove categorie, “contrarre” nuove assuefazioni e abilità che diano nuova forma all’esperienza» .
Leopardi esalta questa particolare facoltà dell’uomo, che si sviluppa in maniera differente da individuo a individuo, conformandosi sia ai fattori esterni contingenti, quali il gusto, le mode o le consuetudini legate a una determinata tradizione, sia alle singolari caratteristiche o limitazioni del soggetto che, grazie alla propria «conformabilità», è capace di perfezionare le naturali attitudini e superare le proprie inadeguatezze.
Così il poeta si esprime in proposito nello Zibaldone

somma conformabilità dell’uomo ec. Tutto in natura, e massime nell’uomo, è disposizione ec. Straordinaria, ed, apparentemente, più che umana facoltà e potenza che i ciechi, o nati o divenuti, hanno negli orecchi, nella ritentiva, nell’inventiva, nell’attendere nella profondità del pensare, nell’apprender la musica ed esercitarla e comporne ec. ec. […] .

La polemica leopardiana, inaugurata con la Lettera ai compilatori della Biblioteca Italiana in risposta a quella della baronessa di Staël Holstein ai medesimi e con il Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica , contro la “spiritualizzazione” che ha reso la poesia moderna «arida, astratta, ostentatamente psicologica, solo in apparenza popolare» , si estende indirettamente, ma con la stessa intensità, anche alla musica e ai musicisti moderni che «stante le circostanze della loro vita, e delle moderne costumanze a loro riguardo, sono per corruzione, per delizie, per mollezza e bassezza d’animo il peggio del peggior secolo che nelle storie si conti […] la feccia della feccia delle generazioni […]» . In sostanza, alla distinzione shilleriana fatta propria da Leopardi, fra la poesia ingenua degli antichi e la poesia sentimentale dei moderni, corrisponde, per analogia, la distinzione fra la musica popolare dei greci che, grazie ai suoi ritmi naturali e mai appiattiti, era in grado di produrre molteplici effetti su personalità diverse, basti come esempio il caso di Alessandro Magno che «tutto il dì occupato nelle cose militari, era a tavola mirabilmente affetto e dominato dalla musica […] di Timoteo» , e la musica tedesca «inutile a tutti fuori che agl’intendenti» .
La denuncia di Leopardi riguarda la decadenza causata dall’incivilimento: nel caso della poesia, che ha il suo fondamento in natura, dal trionfo della ragione che ha svelato l’alone di mistero che avvolgeva la natura e che, grazie al suo fascino, stimolava l’immaginazione dei poeti antichi tanto da fargli attribuire un’anima agli oggetti inanimati, dar voce agli animali, divinizzare i fenomeni naturali, come il tuono, il lampo, il vento, l’eco, di cui avvertivano gli effetti senza conoscere la causa; nel caso della musica, che ha il suo fondamento nell’assuefazione, o ‘seconda natura’, dallo stile di vita moderno e dalla corruzione dei gusti e dei costumi. Se la speranza di un recupero della poesia antica, contemplata da Leopardi all’altezza del Discorso, è destinata a dissolversi nel poeta maturo che vede nella poesia sentimentale la sola poesia adatta ai moderni , per quanto riguarda la musica, invece, l’auspicato «ravvicinamento al popolare» che «non solo è buono, ma necessario, e primo debito della moderna musica» , si concretizza nella musica di un compositore come Rossini, le cui melodie «totalmente popolari, e rubate, per così dire, alle bocche del popolo» riscuotono grande successo presso un pubblico che oggi potremmo definire ‘di massa’, ma non restano immuni neanche alle critiche «degl’intendenti circa il comporre di Rossini, e generalmente circa il modo della moderna composizione, la quale da tutti è sentita essere piena di melodia più che le antiche e classiche, e da chiunque sa è giudicata non reggere in grammatica ed essere scorrettissima e irregolare. Tutto ciò non per altro accade se non perché gl’intendenti giudicano, e giudicando sentono [….] secondo i principi e le norme della loro scienza; e i non intendenti sentono e sentendo giudicano secondo le loro assuefazioni relative al proposito» .


Zib. 1663: «una leggera stonazione in una musica non è capita dal volgo, come il fanciullo non capisce i piccoli difetti della forma umana, e talvolta nemmeno i gravi. In una musica alquanto astrusa, cioè per poco che gli accordi sieno inusitati, egli non capisce neppure le grandi stonazioni, e così proporzionatamente accade alle persone polite, e talvolta anche alle intendenti […]». Da questo passo dello Zibaldone ha tratto spunto A. Colasanti del suo intervento al convegno di studi Leopardi e la musica nel saggio di Clemente Rebora, (17-18 dicembre 1999) svoltosi a Recanati nella sede del Centro Nazionale di Studi Leopardiani, intitolato, appunto, Clemente Rebora: una leggera stonazione,pubblicato in La musica in Leopardi nella lettura di Clemente Rebora cit., pp. 67-85, che così commenta il passo: «già in quel non capire […] scorgiamo la grande arcata leopardiana – l’origine del suo pensiero poetico – quella profonda delusione, il troppo dolore che fa precipitare la mente dentro una pena ammutolita, forse persino demente come per troppa luce di fronte al nonsenso del mondo […]» (p. 67).

Cfr. Zib. 3217.

Zib. 2547-2549.

Zib. 3.

Ibidem.

Ibidem.

Circa l’opinione di Leopardi su questo punto si veda la lettera a Pietro Giordani del 30 maggio 1817, in cui a proposito di una prosa scritta da quest’ultimo «sopra un dipinto del Camuccini e uno del Landi», il poeta si dilunga così: «in questa squisita prosa ho trovato un’opinione sopra la quale avrei qualcosa che dire. Ella ricorda in generale ai giovani pittori che senza stringente necessità della storia (e anche allora con buon giudizio e garbo) non si dee mai figurare il brutto. Poiché, soggiunge l’ufficio delle belle arti è pur di moltiplicare e perpetuare le imagini di quelle cose o di quelle azioni cui la natura o gli uomini producono più vaghe e desiderabili: e quale consiglio o qual diletto crescere il numero o la durata delle cose moleste di che già troppo abbonda la terra? A me parrebbe che l’ufficio delle belle arti sia d’imitare la natura nel verisimile. E come le massime astratte e generali che vagliono per la pittura denno anche valere per la poesia, così secondo la sua sentenza, Omero Virgilio e gli altri grandi avrebbero errato infinite volte, e Dante sopra tutti che ha figurato il brutto così sovente. Perocchè le tempeste le morti e cento e mille calamità che sono altro se non cose moleste anzi dolorosissime? E queste così innumerevoli pitture hanno moltiplicato e perpetuato i sommi poeti. E la tragedia sarebbe condannabile quasi intieramente di natura sua. Certamente le arti hanno da dilettare, ma chi può negare che il piangere il palpitare l’inorridire alla lettura di un poeta non sia dilettoso? anzi chi non sa che è dilettosissimo? Perché il diletto nasce appunto dalla maraviglia di vedere così bene imitata la natura, che ci paia vivo e presente quello che è o nulla o morto o lontano. Ond’è che il bello veduto nella natura, vale a dire nella realtà, non ci diletta più che tanto, veduto in poesia o in pittura vale a dire in imagine, ci reca piacere infinito. E così il brutto imitato dall’arte, da questa imitazione piglia facoltà di dilettare […]». (Ep 66, corsivi miei).

Zib. 2.                      

M. Corti, in «Entro dipinta gabbia». Tutti gli scritti inediti, rari e editi 1809-1810 di Giacomo Leopardi, Milano, Bompiani, 1972, pp. XXVI-XXVII, evidenzia come fosse «prediletto del primo Leopardi il motivo della tempesta, in cui si riflettono non solo consuetudini letterarie dell’epoca […], ma intricati processi interiori localizzabili tra il suo ben noto terrore infantile per i temporali  e il tardo pensiero dello Zibaldone (7 agosto 1822, nn. 2601-2) sulla fecondità delle “convulsioni degli elementi” e sul piacere che dà la “la calma dopo la tempesta”».

Leopardi e lo spettacolo della natura, Atti del Convegno Internazionale (Napoli 17-19 dicembre 1998), a cura di V. Placella, Napoli,  IUO e CNSL, 2000.

E. Gioanola, Il topos della tempesta nell’opera leopardiana, ibidem, pp. 463-472.

Ibidem, p. 467.

Argomento di elegia, p. 336.

Il primo delitto o la vergine guasta, p. 349.

Saggio sopra gli errori popolari degli antichi, pp. 837-838.

Ibidem, p. 838.

Il riferimento di Gioanola è a N. Bonifazi, Leopardi. L’immagine antica, Firenze, Editrice La Ginestra, 1981, pp. 52-54.

Zib. 531.

Zib. 2118, il corsivo è nel testo.

Il testo è quello dell’intervento tenuto al Convegno su Aspetti dell’opera e della fortuna di Melchiorre Cesarotti (Gargnano del Garda 4-6 ottobre 2001), pubblicato a cura di G. Barbarisi e G. Carnazzi, Milano, Cisalpino, 2002, tomo II, pp. 785-816, ora anche in L. Blasucci, Lo stormire del vento tra le piante, Venezia, Marsilio, 2003, pp. 199-235.

Ibidem, p. 210.

Zib. 79.

A. Zanolini, Biografia di G. Rossini, Bologna 1875, p. 287.

Zib. 3229.

Zib. 3209-3210.

Zib. 3217.

Nella formulazione dei suoi giudizi sulla musica, Leopardi tiene presente, come fonte per le informazioni che riguardano la musica greca, il Voyage du jeune Anacharsis en Grèce dell’abate settecentesco J. J. Barhtélemy. Altre fonti utilizzate dal  poeta sono: la rubrica «Belle Arti-Musica» dell’Antologia fiorentina che ospitò, nel tomo III, luglio-settembre 1821, p. 192, e tomo IV, p. 21, la recensione alla Storia generale della musica di T. Busby e nel tomo IV, ottobre 1821, p. 40, le Opinioni intorno alla musica di Gioacchino Rossini, che secondo la testimonianza di C. Rebora, Per un Leopardi mal noto, in Omaggio a Clemente Rebora cit., pp. 71-72 «offriva notizie di fatto o meglio delle idee di quel Rousseau musicista che forse -  in quel tempo almeno - non fu dal Leopardi conosciuto altrimenti»; nonchè il romanzo Corinne ou l’Italie di M.me de Staël.

Zib. 3226.

Zib. 3223.

Zib. 3223-3224.

F. Brioschi, La forza dell’assuefazione, in Lo Zibaldone cento anni dopo. Composizione, edizioni, temi, Atti del X Convegno internazionale di studi leopardiani (Recanati-Portorecanati 14-19 settembre 1998), Firenze, Olschki, 2001, p. 745.

Zib. 3824, corsivi miei.

I due scritti con cui il giovane Leopardi partecipò alla polemica italiana tra classicisti e  romantici, composti rispettivamente nel 1816 e nel 1818, non furono, in realtà, pubblicati dalle riviste a cui erano stati mandati, la «Biblioteca italiana» e «Lo Spettatore italiano». Delle ragioni di questo rifiuto, «sistematico boicottaggio» nel primo caso, motivi incerti, nel secondo, è resa testimonianza in S. Timpanaro, Classicismo e illuminismo nell’Ottocento italiano, Pisa, Nistri-Lischi, 1969, p. 18, nell’Introduzione a G. Leopardi, Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica, a cura di O. Besomi, D. Continati, P. De Marchi, G. Giambonini R. Martinoni, B. Moser, P. Parachini, L. Pedroia, G. Pedrojetta, Bellinzoni, Edizioni Casagrande, 1988, pp. XI-XVIII, e in L. Blasucci, Dall’imitazione al rimpianto. Leopardi tra «Il discorso di un italiano intorno alla poesia romantica» e l’«Inno ai patriarchi», in Lo stormire del vento tra le piante cit., p. 15, e nota 1.

G. Guglielmi, nel saggio Il Leopardi «mal noto» e la nuova poesia, in La musica in Leopardi nella lettura di Clemente Rebora cit., p. 17, a proposito del concetto di spiritualizzazione, così sottolinea il doppio significato che essa avrebbe avuto per il poeta recanatese secondo l’interpretazione di Rebora: «da una parte significa impoverimento dell’esperienza portato dalla civiltà, uniformazione dei costumi, geometrizzazione della vita; dall’altra rimanda alla più acuta sensibilità dei moderni, a una sensibilità cioè disincarnata, priva di “ogni acquisto di pienezza felice”».

G. Tellini, Leopardi, Roma, Salerno, 2001, p. 78.

Zib. 3228.

Zib. 3425.

Zib. 3226.

Sulla maturazione della coscienza leopardiana circa la possibilità di un recupero della poesia antica, dalla fiduciosa speranza del giovane poeta esperto nella traduzione dei classici, che ritiene possano essere imitati dai moderni attraverso l’esercizio dell’immaginazione, alla sostanziale negazione, nel pensiero zibaldoniano dell’ 8 marzo 1821, di quanto ritenuto possibile in precedenza, si veda il saggio di L. Blasucci, Dall’imitazione al rimpianto cit., pp. 15-30.

Zib. 3226.

Zib. 3209.

Zib. 3218, corsivi miei.

In una lettera del 26 gennaio 1823, così scrive al poeta il fratello Carlo, dopo aver assistito alla rappresentazione della Cenerentola di Rossini

adesso ho conosciuto Rossini: già fra noi un’impressione forma epoca più di un avvenimento: sicchè non mi vergogno di parlarti del gran piacere che mi ha dato questa Musica, che è arrivata a carpirmi le lagrime […] .
Il commento di Carlo sembra non lasciare dubbi circa il livello di popolarità raggiunto da Rossini, ma, come generalmente accade ai personaggi che fanno epoca, il successo attira anche dure critiche, che non si limitano all’attività professionale ma investono gli aspetti più intimi della persona, così, secondo la testimonianza di Radiciotti «tra la numerosa schiera dei grandi musicisti di ogni tempo è ben difficile trovarne uno che, come uomo, sia stato dai biografi e giornalisti più calunniato di Gioacchino Rossini. Non c’è vizio, di cui non l’abbia gratificato la malignità umana, incoraggiata dal silenzio di quel Grande che, per amore della propria tranquillità, o per naturale riservatezza, rifuggendo dalle polemiche, non si decise mai a smentire pubblicamente le fiabe che si propalavano, e non sempre in buona fede, sul suo conto» . Si spendono troppe parole sui grandi uomini, oppure, su di loro scende il silenzio, quell’«obblio» che, secondo Leopardi della Ginestra, «preme chi troppo all’età propria increbbe» .
Cenerentola,l’opera di Rossini che aveva strappato le lacrime a Carlo, era in realtà un’opera comica, e come tale, avrebbe dovuto destare allegria, ilarità e altre sensazioni diverse dalla commozione, tuttavia, se Carlo afferma di non vergognarsi delle lacrime suscitategli dall’opera, la sua esperienza personale non ha niente di anomalo, anzi, è comunissima fra i moderni uditori e trova riscontro in un passo dello Zibaldone, dove Leopardi attribuisce la causa alla generale tendenza al malinconico propria del suo secolo

qual uomo civile udendo, eziandio la più allegra melodia, si sente mai commuovere ad allegrezza? Non dico a darne segno di fuori, ma si sente pure internamente rallegrato, cioè concepisce quella passione che si chiama veramente gioia? Anzi ella è cosa osservata che oggidì qualunque musica generalmente, anche non di rado le allegre, sogliono ispirare e muovere una malinconia, bensì dolce, ma ben diversa dalla gioia; una malinconia ed una passion d’animo che piuttosto che versarsi al di fuori ama anzi per lo contrario di rannicchiarsi, concentrarsi, e restringe, per così dire, l’animo in se stesso quanto più può, e tanto più quanto ella è più forte, e maggiore l’effetto della musica; un sentimento che serve anche di consolazione delle proprie sventure, anzi n’è il più efficace e soave medicamento, ma non in altra guisa le consola, che col promuovere le lagrime, e col persuadere e tirare dolcemente ma imperiosamente a piangere i propri mali anche, talvolta, gli uomini i più indurati sopra se stessi e sopra le lor proprie calamità. In somma, generalmente parlando, oggidì, fra le nazioni civili, l’effetto della musica è il pianto, o tende al pianto […] .

«La musica […] consta inseparabilmente di suoni e di armonia, e l’uno senza l’altro non è musica» , ma l’armonia, rispetto al suono che è l’elemento primitivo, ovvero la materia su cui la musica si fonda, è un’arte e, in quanto tale, elabora e compone i suoni secondo l’idea che intende rappresentare o il sentimento che desidera esprimere, tenendo naturalmente conto delle assuefazioni, da questo deriva, all’interno della musica, la distinzione fondamentale tra le due entità che la compongono, una distinzione che si manifesta attraverso gli effetti differenti prodotti dal suono e dall’armonia

l’effetto naturale e generico della musica in noi, non deriva dall’armonia, ma dal suono, il quale ci elettrizza e scuote al primo tocco […] .

In sostanza, l’effetto prodotto dal suono sull’animo umano non ha altra intermediazione che l’udito, laddove l’efficacia dell’armonia dipende dall’imitazione, perché, mentre il suono agisce come elemento naturale, vale a dire nella stessa maniera in cui agisce un paesaggio sulla vista e, quindi, immediatamente sull’animo, l’armonia agisce come agirebbe lo stesso paesaggio rappresentato su un quadro, producendo effetti secondari e ascrivibili alla sfera del  bello, non a quella del piacere, esattamente come avviene per tutte le altre arti.
Il rapporto tra armonia e suono è stato interpretato in chiave filosofica, com’è noto, agli inizi del secolo scorso, da Clemente Rebora nel suo saggio Per un Leopardi mal noto , dove l’autore, riprendendo le intuizioni a cui era pervenuto Arturo Graf, attraverso l’analisi di alcune liriche, nel suo saggio Foscolo, Manzoni, Leopardi , sull’idea leopardiana di musica, in particolare, per ciò che concerne il legame tra la poesia dei Canti e alcuni nuclei meditativi dello Zibaldone (prima ancora che fosse pubblicato), estende il significato di questo legame al rapporto tra filosofia e poesia in Leopardi, tra «meditazione» e «canto», per dirla con un titolo abbastanza recente di Cesare Galimberti . L’aspetto ‘mal noto’ a cui si riferisce Rebora nel titolo del suo saggio, nato come tesina che doveva accompagnare, secondo l’usanza del tempo, la tesi principale di laurea all’Accademia scientifico letteraria di Milano, intitolata Gian Domenico Romagnosi nel pensiero del Risorgimento , è rappresentato dai pensieri sulla musica espressi da Leopardi nello Zibaldone . Dei sei capitoli che formano il saggio, il primo, oltre a indicare le fonti teoriche che sono alla base della meditazione leopardiana sulla musica, passa in rassegna le occasioni d’ascolto e i titoli delle opere a cui il poeta ha assistito a Recanati, a Roma, a Bologna e infine a Napoli; mentre il secondo, che contiene già le tracce su cui si muoverà lo sviluppo dei capitoli successivi del lavoro, è imperniato principalmente sulla distinzione tra armonia e suono, e non c’è da stupirsi se, nel riconoscimento leopardiano di una «seconda natura», prodotta dall’assuefazione, che si affianca alla «natura» principale e autentica,  Rebora, «malato d’assoluto», veda incarnati  i due estremi filosofici, il relativo e l’assoluto che convergono nella musica, l’unica «forma artistica che sia in grado di comporre la frattura fra il particolare e l’universale, fra corpo e pensiero e di sanare il  divorzio fra le parole e le cose, del quale la prima generazione del Novecento prese coscienza in modo drammatico» .
Il primato della musica su tutte le arti è basato interamente sull’effetto del suono, ma Leopardi tiene a specificare che
non è [….] propriamente neppure il suono o la voce, cioè la sensazione dell’orecchio, che la natura ha fatto capace d’influire piacevolmente sull’udito umano, ma solo certi particolari suoni, ed oscillazioni di corpi sonori […] .

È chiaro che il suono a cui il poeta fa riferimento è il suono musicale, un suono articolato che si avvia a diventare melodia, sono praticamente le note da cui nasce la musica, ed è un suono differente da quello naturale e inarticolato rappresentato dal tuono o dal vento, ma anche dalla voce di un bambino che non è ancora in grado di modulare i suoni secondo il codice del linguaggio, come quella descritta nei Ricordi d’infanzia e di adolescenza

sento una voce di donna che non conoscea né vedea ec. […] sentivo un bambino che certo dovea essere in fasce e in braccio alla donna e suo figlio ciangottare con una voce di latte suoni inarticolati e ridenti […] .

Basandosi sul privilegio legato all’immediatezza del suono, Leopardi ammette che anche gli animali possano essere in qualche modo attratti dalla musica, ovvero dalle stesse successioni di suoni che attirano gli uomini, ma tale possibilità non può essere avvalorata dal paragone con gli effetti prodotti dal suono sull’uomo, perché si tratta di due specie distinte e dotate di organi e modi di sentire differenti tra loro. Già fra gli uomini, infatti, la disposizione ad accogliere i suoni è molto differente e soggettiva, dunque è difficile ipotizzare che le stesse successioni di suoni che dilettano gli uomini possano dilettare nella stessa maniera tutti gli animali indistintamente , tutt’al più, riconosce il poeta, se la distinzione «non sarà molto grande o almeno avrà qualche rapporto con noi in questo punto, il suono farà colpo in quei tali animali, come leggiamo dei delfini e dei serpenti (vedi Chateubriand)» . A “fare colpo” su questi animali è il suono musicale che in potenza è melodia,  ma contiene in parte la naturalezza del puro suono che agisce in maniera incondizionata, mentre l’idea di armonia che è relativa, ammesso che possa essere compresa dagli animali, certamente non può essere intesa secondo i nostri canoni, così:

non è la musica come arte, ma la sua materia cioè il suono che farà effetto in certe bestie. E infatti come vogliamo pretendere che le bestie gustino la nostra armonia, se tanti uomini si trovano che non la gustano? Parlo di molti individui che sono tra noi, e parlo di nazioni, come dei turchi che hanno una musica che a noi par dissonantissima e disarmonica. Eccetto il caso che qualche animale si trovasse in disposizione così somigliante alla nostra, che nella musica potesse sentire se non tutta almeno in parte l’armonia che noi ci sentiamo, vale a dire giudicare armonico quel che noi giudichiamo […] .

Un discorso analogo a quello sull’armonia può essere applicato anche al canto che, per i poeti antichi, possedeva il potere e il privilegio di ammaliare perfino i serpenti, infatti, ricorda Leopardi

anticamente si diceva excantare, ora incantare i serpenti e frigidus in pratis  CANTANDO rumpitur anguis dice Virgilio, ma son favole che non hanno esperienze moderne a favore. D’Arione si legge che innamorò i delfini col suono. Chateaubriand racconta di quel serpente ammansato dal suono ec. ec. Del resto i poeti dicevano favolosamente che le bestie si fermassero a udire il canto di questo o di quello […] .

Ma i poeti antichi generalizzavano un fenomeno osservato magari sporadicamente, e creavano le loro favole, enfatizzando l’effetto che il canto umano poteva avere su alcuni animali, senza interrogarsi sulle differenti modalità di ricezione dei loro organi rispetto ai nostri e, quindi, sulla relatività del piacere nei confronti del canto, basti pensare al canto degli uccelli di cui, certamente, l’uomo non può intendere l’intrinseca armonia, per comprendere come, a loro volta, gli uccelli e gli altri animali non siano in grado gustare l’armonia né  il canto umano.
Se «la natura […] è composta, conformata e ordinata ad un effetto poetico» , che i poeti antichi esprimevano grazie all’uso della fantasia e dell’immaginazione, con una semplicità concettuale e stilistica, che si è tradotta in ricercatezza e astruseria nella poesia moderna, Leopardi considera il suono come legame autentico tra il poeta e la natura, suscitatore di immagini e di effetti poetici, perché, prima ancora di essere musica, e quindi arte, il suono è rumore «sussurro indistinto o stridore immodulato delle cose» , è voce che conserva il fascino dell’arcano e continua ad alimentare l’immaginazione dei poeti, nonostante la ragione e la scienza ce ne abbiano consegnato un’origine del tutto fisica.
E di questa origine, il poeta è ben consapevole fin dal Saggio sopra gli errori popolari degli antichi, dove la «segreta simpatia per il fascino di quelle fantasie primitive» , come la definisce Blasucci, non implica certo la condivisione dei principi mitici e esoterici che le ispiravano, ma è semplicemente frutto della generale ammirazione leopardiana nei confronti del mondo antico e della capacità, propria solo degli antichi, di guardare la natura così come si mostrava ai loro occhi e di rappresentare gli effetti delle cose nella loro globalità senza sezionarle in varie parti per analizzarne le cause. Leopardi sa che quei suoni, il tuono, la folgore, il vento, che negli antichi destavano un timore reverenziale, non rappresentano affatto la voce della divinità,  esattamente come tutti gli altri enti della natura che essi consideravano animati e che, in realtà, non lo sono, ma non vuole rinunciare ugualmente al piacere di credere in quelle ‘favole antiche’ senza le quali la poesia non sarebbe mai nata, così come il suo pensiero maturo non rinuncerà alla perenne difesa di una poeticità fondata sull’uso dell’immaginazione.
Così si esprimerà, infatti, il poeta in un passo dello Zibaldone datato 22 agosto 1823

e siccome alla sola immaginazione ed al cuore spetta il sentire e quindi conoscere ciò che è poetico, però ad essi soli è possibile ed appartiene l’entrare e il penetrare addentro ne’ grandi misteri della vita, dei destini, delle intenzioni sì generali, sì anche particolari, della natura. Essi soli possono meno imperfettamente contemplare, conoscere, abbracciare, comprendere il tutto della natura, il suo modo di essere, di operare, di vivere, i suoi generali e grandi effetti, i suoi fini […] .

  • Nella prospettiva di una poesia che attraverso l’uso dell’immaginazione sappia recuperare i grandi modelli del passato e riproporne la naturalezza e la grazia, gli “errori popolari” che riguardano, in questo caso, i fenomeni acustici, diventano espedienti poetici finalizzati alla creazione dell’effetto vago-indefinito tipico della maggiore poesia leopardiana. Il vento, ad esempio, che veniva considerato dagli antichi come «percezione di una voce del Lontano» , come segno tangibile della presenza divina, poiché essi osservavano gli effetti, gli «alberi agitarsi e crollare, mentre per l’aria udivasi un soffiar veemente e un romor forte», senza comprendere le cause, per Leopardi, senza voler attribuire un sovrassenso a certi suoi versi o porre eccessiva enfasi su annotazioni come «voce e canto dell’erbe rugiadose in sul mattino ringrazianti e lodanti Iddio» , non ha valenza religiosa o metafisica, come non ce l’hanno il suono, la voce, il canto, ma rappresenta semplicemente un’immagine poetica che compare nei Canti in due versioni, una «lene» e una «tempestosa». All’immagine lene del vento che stormisce o mormora o sussurra, secondo l’analisi di Blasucci , appartengono i vv. 45-46 (e l’atro / bosco mormorerà fra le alte mura) di A un vincitore nel pallone, i vv. 30-31 (e non de’ faggi / il murmure saluta) dell’Ultimo canto di Saffo, i vv. 25-26 (l’errante / per li giovani prati aura contempli) dell’Inno ai Patriarchi; all’immagine tempestosa del vento che muggisce o fischia, appartengono il v. 25 (il vento muggia nella foresta) del Frammento XXXVIII incluso nell’appendice dei Canti, i vv. 154-155 (Di lor querela il boreal deserto / e consce fur le sibilanti selve)  di Sopra il monumento di Dante, i vv. 44-45 (la secreta / nelle profonde selve ira de’ venti) dell’Inno ai Patriarchi.
  • Nei paragrafi dedicati alla ‘teoria del piacere’, Leopardi afferma che la «facoltà immaginativa» che «può concepire le cose che non sono, e in un modo in cui le cose reali non sono» , sopperisce al vuoto lasciato nell’uomo dal desiderio del piacere a cui l’anima tende incessantemente e, non potendolo mai abbracciare, perché la sua estensione e la sua durata sono infinite, si abbandona alle sensazioni vago-indefinite che, in qualche modo, la appagano.
  • In un passo dello Zibaldone datato 4 gennaio 1821, il poeta così illustra il rapporto che intercorre tra infinito e indefinito:
  •  
  • non solo la facoltà conoscitiva, o quella di amare, ma neanche l’immaginativa è capace dell’infinito, o di concepire infinitamente, ma solo dell’indefinito, e di concepire indefinitamente. La qual cosa ci diletta perché l’anima non vedendo i confini, riceve l’impressione di una specie d’infinità, e confonde l’indefinito coll’infinito, non però comprende né concepisce effettivamente nessuna infinità […] .
  •  
  • Le sensazioni vago-indefinite che generano gli “effetti di infinito” nella poesia leopardiana, appartengono a due categorie, quella ‘visiva’ e quella ‘uditiva’, descritte dettagliatamente nello Zibaldone, dove a partire dal principio ispiratore della ‘teoria del piacere’, il poeta sostiene che il desiderio di infinito connaturato all’uomo, trova la sua espressione e dimensione ideale in ciò che non ha confini e lascia spazio all’immaginazione, o viceversa, di fronte ad un impedimento che sollecita la curiosità verso ciò che può esserci ‘oltre’
  • qualunque cosa ci richiama l’idea dell’infinito è piacevole per questo, quando anche non per altro. Così un filare o un viale d’alberi di cui non arriviamo a scoprire il fine. Questo effetto è come quello della grandezza, ma tanto maggiore quanto questa è determinata, e quella si può considerare come una grandezza incircoscritta. Ci piacerà anche più quel viale quanto sarà più spazioso più se sarà scoperto, arieggiato e illuminato, che se sarà chiuso al di sopra, o poco arieggiato, ed oscuro, almeno quando l’idea di una grandezza infinita che ci deve presentare deriva da quella grandezza che cade sotto i nostri sensi, e non è opera totalmente dell’immaginazione, la quale come ho detto, si compiace alcune volte del circoscritto, e di non vedere più che tanto per poter immaginare ec. […] .
  •  
  • Qualsiasi situazione dalla quale trapeli una visione indistinta delle cose, è direttamente proporzionale allo sviluppo dell’immaginazione, dunque, e delle sensazioni indefinite che derivano dal suo uso: una torre antica, sebbene occupi uno spazio circoscritto, produce  l’idea di infinito perché «il concepire che fa l’anima di uno spazio di molti secoli, produce una sensazione indefinita, l’idea di un tempo indeterminato, dove l’anima si perde» ; «le parole lontano, antico e simili sono poeticissime e piacevoli, perché destano idee vaste, e indefinite, e non determinabili e confuse» ; l’immagine di una campagna «arditamente declive in guisa che la vista in certa lontananza non arrivi alla valle» o «di un filare d’alberi, la cui fine si perda di vista» ; «la luce del sole o della luna, veduta in luogo dov’essi non si vedano e non si scopra la sorgente della luce» .
  • La stessa cosa vale per le sensazioni pertinenti all’udito:
  •  quello che altrove ho detto sugli effetti della luce  degli oggetti visibili, in riguardo all’idea di infinto, si deve applicare parimente al suono, al canto, a tutto ciò che spetta all’udito […] .
  •  
  • Il suono produttore di effetti vago-indefiniti nella poesia leopardiana, prima di diventare suono musicale e canto, è suono naturale, è lo «stridore notturno delle banderuole traendo il vento» , è l’abbaiare del cane di notte, il rumore delle ruote del carro, il tintinnio dei sonagli, che compaiono fin  dal primo pensiero dello Zibaldone
  •  
  •  palazzo bello. Cane di notte dal
  • casolare, al passar del viandante.
  • Era la luna nel cortile, un lato
  • Tutto ne illuminava, e discendea
  • Sopra il contiguo lato obliquo un raggio…
  • Nella (dalla) maestra via s’udiva il carro
  • Del passegger, che stritolando i sassi
  • Mandava un suon, cui precedea da lungi
  • Il tintinnìo de’ mobili sonagli […] .
  •  
  • È il «suono della natura» e delle «opere umane», è il «suono della voce della donna amata», ma anche «suono delle armi e del tempo» , è il «puro suono» che per Leopardi, secondo l’analisi di Enrico Capodaglio, «consente […] l’incontro tra gli uomini e la natura» e «già l’ascolto dei suoni, sia pure non armonizzati e non messi in melodia, accende fortemente l’immaginazione: il verso della rana rimota alla campagna ma anche la “voce dei cani” (Appressamento canto I, 5) già possono agire, al di fuori del bello civile e convenzionale» .
  • Le onde del suono che si allontana «appoco appoco» dal punto in cui nasce, come una serie di sfere concentriche che si allontanano dal centro, giungendo all’udito in modo via via più confuso e indistinto fanno sì che anche l’attenzione di ascolta si allenti, lasciando spazio all’immaginazione o al ricordo. E nella stessa maniera in cui «il suono, gli odori, i raggi luminosi si estinguono a una certa distanza dal centro della sfera» , se il centro è rappresentato dal tempo, si perdono anche i contorni reali degli oggetti e degli avvenimenti ai quali subentra la rimembranza
  •  
  • un oggetto qualunque, per esempio un luogo, un sito, una campagna per bella che sia, se non desta alcuna rimembranza, non è poetica punto a vederla. La medesima, ed anche un sito, un oggetto qualunque, affatto impoetico in se, sarà poetichissimo a rimembrarlo. La rimembranza è essenziale e principale nel sentimento poetico, non per altro se non perché il presente, qual ch’egli sia, non può essere poetico, in uno o in un altro modo, si trova sempre consistere nel lontano, nell’indefinito, nel vago […] .
  •  

L’opera, composta su libretto di Jacopo Ferretti e ispirata all’omonima fiaba di Charles Perrault, fu rappresentata per la prima volta a Roma, nel Teatro Valle, il 25 gennaio 1817.

Ep. 507.

G. Rossini, Il barbiere di Siviglia: guida attraverso la commedia e la musica, a cura di G. Radiciotti,  Milano, Bottega di poesia, 1923, pp. 20-21.

La ginestra, p. 42.

Zib. 3310-3311, i corsivi sono nel testo.

Zib. 1934.

Ibidem.

C. Rebora, Per un Leopardi mal noto, in «Rivista d’Italia», anno XIII, fasc. IX, settembre 1910, pp. 373-449, poi nell’opera collettiva Omaggio a Clemente Rebora, Bologna, M. Boni Editore, 1971, pp. 69-165, ora in C. Rebora, Per un Leopardi mal noto, a cura di L. Barile, Milano, Libri Scheiwiller, 1992, e in Idem, Arche di Noè, a cura di C. Giovannini, Milano, Jaca Book, 1994, pp. 63-124.

A. Graf, Foscolo, Manzoni, Leopardi, Torino, Loescher, 1898. Nuova edizione, Torino, Chiantore, 1945, pp. 185-442. Le liriche leopardiane prese in esame da Graf sono: Aspasia, Sopra il ritratto di una bella donna, A Silvia, La vita solitaria, La sera del dì di festa, Le ricordanze, Alla sua donna e Il tramonto della luna.

C. Galimberti, Leopardi: meditazione e canto, in G. Leopardi, Poesie e prose, a cura di R. Damiani e M. A. Rigoni, con un saggio di C. Galimberti, Milano, «I Meridiani» Mondadori, 1987, pp. XIII-LXXIX.

C. Rebora, G. D. Romagnosi  nel pensiero del Risorgimento, «Rivista d’Italia», XIV, novembre 1911.

Per l’interpretazione reboriana dei pensieri di Leopardi sulla musica si vedano: R. Pistellato, Scheda sul Leopardi del primo Rebora, in «Primo Quaderno di filologia, lingua e letteratura italiana», Padova, 1979, pp. 143-165; D. Rondoni, Rebora e Leopardi, in “Avvenire”, Milano, 8 marzo 1986; F. Centofanti, Leopardi in Rebora, in Leopardi e noi. La vertigine cosmica, a cura di A. Frattini, G. Galeazzi, S. Sconocchia, Roma, Studium, 1990, pp. 439-451; Introduzione a C. Rebora, Per un Leopardi mal noto, a cura di L. Barile cit., 1992, pp. 9-30; S. Magherini, Per la memoria leopardiana di Rebora, in «Studi Italiani», 8, 1992, pp. 77-88, L. Barile, Il Leopardi di un Rebora “malato d’assoluto”, in Poesia e spiritualità in Clemente Rebora, a cura di R. Cicala e A. Muratore, Novara, Interlinea, 1993, pp. 131-134; T. Salari, Leopardi, Rebora e la musica, in «Microprovincia», 34, gennaio-dicembre 1996, pp. 349-365; A. Girardi, Rebora, Leopardi e la musica, in Stilistica, metrica e storia della lingua. Studi offerti dagli allievi a Pier Vincenzo Mengaldo, a cura di T. Matarrese, M. Praloran, P. Trovato, Padova, Antenore, 1997(ora anche in A. Girardi, Lingua e pensiero nei Canti di Leopardi, Venezia, Marsilio, 2000, pp. 101-122); A. Folin, Il Leopardi di Rebora tra contingente ed eterno, in Leopardi e l’imperfetto nulla, Venezia, Marsilio, 2001, pp. 115-124; G. De Santi - E. Grandesso (a cura di), La musica in Leopardi nella lettura di Clemente Rebora cit.; si veda, inoltre, R. Cicala e V. Rossi, Bibliografia reboriana, con Presentazione di M. Guglielminetti, Firenze, Olschki, 2002.

L. Barile, Il Leopardi di un Rebora “malato d’assoluto” cit., p. 133.

Zib. 1748.

Ricordi d’infanzia e di adolescenza, p. 363, corsivi miei.

Cfr. Zib. 1786: «io credo ancora che molti uomini o per infermità o per natura ec. ec. non solo non sieno dilettati, ma decisamente disgustati o da tutti o da alcuni de’ suoni o voci piacevoli al comune degli uomini. Ciò accade appunto in molte specie di animali organizzate altrimenti che la nostra, sebbene altre specie organizzate analogamente alla nostra gradiscano detti suoni ec. Molto più credo, anzi son quasi certo di questo, rispetto alle diverse armonie, ed al deciso disgusto ed effetto disarmonico ch’elle producono in certi uomini e in certe specie di animali […]».

Zib. 156.

Ibidem.

Zib. 158.

Zib. 3241.

Questa è la formula adoperata da C. Rebora, Per un Leopardi mal noto, in Arche di Noè cit., p. 72, per distinguere il rumore inteso come forma primitiva del suono, dall’armonia. E. Capodoglio, nel suo saggio dal titolo Il puro suono, in La musica in Leopardi nella lettura di Clemente Rebora cit., pp. 91-104, si sofferma sul rapporto tra suono e rumore, sulla “dissonanza”, ovvero «un rumore che col tempo diventa musica» e, citando gli studi di Chailley, Les passions de J. S. Bach, 1963, e di  M. Imberty, Suoni Emozioni Significati, a cura di L. Callegari e J. Tafuri, Bologna, Clueb, 1986, pp. 38-39, conclude che «la musica ci dà senso di naturalezza, e quindi di bello, in sintonia con l’epoca acustica che viviamo mentre il rumore immediato ha esso paradossalmente dell’artificioso. Il puro suono di cui parla Leopardi esprime perciò ancora, fino al 1823, una fiducia nella consonanza vocale degli uomini, e nell’attrattiva naturale umana, nell’armonia implicita delle voci umane e dei suoni sociali, più resistente al giudizio che nelle sue riflessioni sulla lingua letteraria. Erano i tempi in cui non esisteva l’inquinamento acustico, anche se Schopenhauer perdeva ogni concentrazione al crudele schiocco di frusta del vetturino sul cavallo. Mentre nella Milano del decollo industriale, Rebora si misura proprio sul confine tra suono e rumore, nella dissonanza tra vita quotidiana, cittadina e utopia cosicché, armonizzandole poi nei suoi metri e ritmi, diventa testimone essenziale di una storia della musica poetante, proprio perché ricerca una natura perenne per via di civiltà attuale […]» (pp. 95-96).

L. Blasucci, Lo stormire del vento tra le piante. Parabola di un’immagine, in Lo stormire del vento cit., p. 39.

Zib. 3242-3243.

M. Orcel, Il suono dell’infinito. Saggi sulla poetica del primo Romanticismo italiano da Alfieri a Leopardi, Napoli, Liguori, 1993, p. 96.

Zib. 55.

Cfr. L. Blasucci, Lo stormire del vento tra le piante. Parabola di un’immagine, in Lo stormire del vento cit., pp. 34-37.

Zib. 167.

Zib. 472.

Zib. 185.

Zib. 1429.

Zib. 1789.

Zib. 1431.

Zib. 1744.

Zib. 1927-1928.

Zib. 47.

Zib. 1.

Cfr. E. Capodaglio, Il puro suono, in La musica in Leopardi nella lettura di Clemente Rebora cit., pp. 93-94.

Ibidem, p. 95.

Zib. 150.

Zib. 4426.

 

Fonte: http://dspace.unical.it:8080/jspui/bitstream/10955/105/1/L'idea%20di%20musica%20in%20Leopardi%20e%20la%20sua%20incidenza%20sui%20Canti.doc

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Autore del testo: S.Nociti

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