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Convegno di studi manzoniani,
Casorate d’Adda, 16 Febbraio 1985
Il Natale 1833
Parlare di Enrichetta Blondel non è possibile, se non cominciando dal Natale del 1833 che, tra gli Inni del Manzoni, rappresenta la sua « incompiuta ». La composizione fu iniziata il 14 marzo 1835, e si riferisce a quel Natale, che avrebbe dovuto essere la festa degli affetti domestici, intorno al ciocco ardente e al presepio illuminato: ma fu, invece, quello dello strazio di una famiglia intera, che, mentre cadeva la sera e si accendevano sul cielo le stelle della più dolce notte dell'anno, aveva dovuto allestire la bara per la morte di colei che, a cominciare dal marito, tutti veneravano e rispettavano come « la santa di casa ». Dovettero passare quasi quindici mesi prima che la piaga di quel lutto accennasse a rimarginare, perché il Manzoni, da grande poeta qual era, potesse credere d'aver trovato l'ispirazione giusta per un nuovo Inno, che sarebbe stato la lirica più personale e più cocente della sua vita. E l'avviò, ma, ahimè!, la sua musa si chiamava Enrichetta Blondel, ed essa era morta:
Sì che Tu sei terribile!…
Regni, o Fanciul severo!…
Mentre a stornar la folgore
Trepido il prego ascende
Sorda la folgor scende
Dove tu vuoi ferir.
Si noti il tragico contrasto tra l'ineluttabile e imperscrutabile volere del Padre celeste e l'irremovibilità della sua parola fatale.
Il dolore della vita umana è un enorme mistero, sì, ma è un mistero d'amore che dobbiamo credere senza indagare con inutili « perché ». Ci occorre però un segno che renda ragionevole la nostra fede.
Ebbene il segno c'è: e sta nel fatto che l'innocentissimo Figlio di Dio non ha sottratto al dolore né la sua persona né quella della sua Madre virginea: anch'egli è nato a piangere, anch'egli in una notte primaverile del mese ebraico di Nisan, sotto l'apparente indifferenza del plenilunio, innalzò ripetutamente una sommessa supplica al Padre, che non fu esaudita. E il Padre gli rispose, inviandogli un Angelo per confortarlo a morire sul legno insanguinato della croce. Del resto, non aveva egli stesso predicato alle folle che per Dio non c'è amore più grande di quello che sa offrire la vita per gli amici? E a Lui non v'era nessuno più amico del Padre suo, da glorificare in cielo, e delle anime da salvare sulla terra.
E questa tua fra gli uomini
Unicamente amata,
…….
…….
Vezzi or ti fa, Ti supplica,
Suo pargolo, suo Dio,
Ti stringe al cor, che attonito
Va ripetendo: è mio!
Un dì con altro palpito,
Un dì con altra fronte,
Ti seguirà sul monte,
E ti vedrà morir.
Nell'immagine della Madonna che pargoleggia col Figlio di Dio, il poeta rivide le infinite volte che la sua diletta morta ha pargoleggiato coi suoi bambini, ripetendo: « Sei mio! ». E scrive sulla pagina: « Cara! ». Il ricordo è così vivo, così recente che la melodia del verso inizia, ma non viene: viene solo un'espressione d'affetto.
Il problema del dolore lo ritenta, ed egli interroga ancora il Cielo con implorazioni grondanti lacrime:
Ti vorrei dir: che festi?
Ti vorrei dir: perché?
Il poeta sente che senza Enrichetta, la sua vera Musa, anche la propria vita ha perso le ragioni più sante che la sostengono:
Morrò s'io non ritorno,
Culla beata, a te
……
A te dove s'accoglie
Il Dio che me la toglie,
Il Dio che me la diè.
Dopo il grido « Onnipotente! », a cui vorrebbe attaccarsi per avviare una nuova strofa, il Manzoni con un ghirigoro nervosissimo scrive: Cecidere manus, che potremmo tradurre con altre parole del poeta, tolte dall'ode Il Cinque Maggio.
E sull'eterne pagine
Cadde la stanca man!
La « Beatrice » manzoniana
Un critico di vasta cultura e nemico del favellio frammentarista, il Borgese, ha scritto che la letteratura e l'arte italiana sorsero da un ceppo rigidamente religioso, di cui continuarono tenacemente a nutrirsi. E le considera ‑ letteratura e arte ‑ come un unico secolare poema dove protagonista fu il Pantocratore, cioèil Cristo vincente della Divina Commedia e del Giudizio Universale di Michelangelo; eroina fu la «Panaghía», la tutta santa, la tutta pura, la Vergine amata, la « beata beatrix ».
In Dante il posto della Madonna èpreso da Beatrice, e presenta proporzioni sottomesse e colori casti e freddi in confronto a quelli che avrà la Vergine nell'implorazione posta sulle labbra di san Bernardo nell'ultimo canto della Commedia.
A questo punto rivolgiamoci una domanda: « Che nome ebbe su questa terra, la 'beatrice' di Alessandro Manzoni? Quella che era venuta «di cielo in terra a miracol mostrare? ».
A settant'anni il Manzoni, sopra un esemplare dei Promessi Sposi, dedicato a una nipote di nome Enrichetta, scriveva:
Enrichetta! Nome soave, sacro, benedetto per chi ha potuto conoscer quella, in nome di cui ti fu dato; nome che significa fede, purità, senno, amor de’suoi, benevolenza per tutti, sacrifizio, umiltà, tutto ciò che è santo, tutto ciò che è amabile. Possa questo nome, con la grazia del Signore, essere per te un consigliere perpetuo, e come un esempio vivente.
Il primo incontro con Enrichetta
Nell'autunno del 1807 il giovane poeta scriveva all'amico parigino Claude Fauriel:
Devo farvi una confidenza; ho visto quella giovinetta di cui vi ho parlato, a Milano; l'ho trovata gentilissima; mia madre, che pure ha parlato con lei, e più di me, la trova d’eccellente cuore; ella non pensa che alla sua famiglia e al bene dei suoi genitori che l’adorano: infine i sentimenti di famiglia l’occupano del tutto (e vi dico all'orecchio che forse è la sola qui). C’è poi un altro vantaggio che è veramente unico in questo paese, almeno per me: non è nobile, e voi sapete a memoria il poema di Parini. Inoltre è protestante; infine è un tesoro; e immagino che presto saremo in tre a desiderarvi; per ora nulla è deciso ed ella stessa non ne sa nulla .
E le cose corsero alla svelta.
Ma quando anch'egli, « con la lieta furia di un uomo di vent'anni, che deve sposare quella che ama », si presentò al prete della Chiesa cattolica si sentì snocciolare quel tal rosario « di impedimenti », che imbrogliarono il povero Renzo. Manzoni era troppo saputo per gridare: « Che vuol che ne faccia del suo latinorum? » ; però,non senza intima irritazione, scriveva ancora al Fauriel: « I preti non vogliono benedire il mio matrimonio per la differenza di culto » . Che sia stata questa circostanza della sua vita a ispirare le parole di don Abbondio? E noi lo vediamo con l'immaginazione che conta sulla punta delle dita i casi che annullano la validità del sacramento cristiano: « Error, conditio, votum, cultus disparitas... »: èmolto probabile. Ma ad Alessandro la pazienza non durò più che a Renzo, giacché nella stessa lettera avvertiva l'amico che non sarebbe arrivato in tempo col suo epitalamio.
Il gusto dell'allusione al romanzo ci ha fatto mettere insieme momenti diversi: in essi infatti si tratta di celebrare nozze secondo il rito della Chiesa cattolica. Ed era ciò che Renzo aveva diritto d'esigere da don Abbondio e che don Abbondio aveva il dovere di celebrare, se la pavidità non fosse stata così connaturata con la sua indole da renderlo schiavo dell'imposizione altrui.
Lasciamo l'allusione al romanzo e torniamo al matrimonio di Alessandro con Enrichetta celebrato secondo il rito calvinista. Alla sera di sabato 6 febbraio 1808, Giovanni Gaspare Orelli, ministro della comunità evangelico‑riformata, venuto appositamente da Bergamo, non fece altro che leggere il formulario calvinistico di Ginevra:
Con che tutto fu finito [scrive ad un amico lo stesso ministro protestante]. Non vi fu alcun banchetto. Mi hanno dato due paia di calze di seta, un gilet di seta e un paio di pantaloni di seta.
Tutti questi indumenti di seta non devono far meraviglia perché i Blondel possedevano filande di seta.
E così i due si ritennero marito e moglie. Le lingue dei milanesi andavano come spole: un cittadino del «bello italo regno » sposare una svizzera! Un nipote di Cesare Beccaria sposare una borghese! Un parente di un monsignore del Duomo sposare una calvinista! « Tutti si interessano ai fatti miei come fossero miei parenti », scriveva Alessandro ; e, non potendo più resistere, ai primi di giugno, con la madre, e questa volta anche con Enrichetta, ritornava a Parigi: « Ah, divin Paris! » . Quivi furono accolti come compagni da persone che al pari di loro vivevano fuori della Chiesa cattolica: in particolare da Claude Fauriel e da Madame Condorcet. Costei era la vedova del filosofo Condorcet che si era avvelenato per sfuggire alla ghigliottina della rivoluzione francese. Donna spregiudicata e affascinante si era fatto un idolo del filosofo suicida, seppellendolo in un tempietto a stucco nel grande parco della sua villa. Ma lei, intanto, conviveva con Claude Fauriel, adunando in giro alla loro coppia l'aristocrazia degli ingegni parigini.
E’ in quest'ambiente che donna Giulia e Alessandro conducono Enrichetta. Il promettente poeta aveva molto sofferto nella sua prima giovinezza moralmente e più ancora religiosamente: gli erano mancati la carezza e il buon esempio materno. Uscito dal collegio dei barnabiti, fra le pareti fredde e sconsolate della casa paterna non trovò quel calore che si, aspettava. Da precoce giacobino qual era e già imbevuto, del razionalismo volteriano, fu presto indotto a litigare col padre, religioso, ma incolto, con gli zii e con le zie; si fece scacciare da casa e passò gli anni fra i quindici e i venti in preda a una incresciosa dissipazione.
Quando, nel 1805, s'accingeva al viaggio a Parigi, dove la madre l'invitava, giunse notizia che il conte Carlo Imbonati era morto a 52 anni, il quale nel testamento dichiarava erede universale donna Giulia; e così concludeva:
...prego il sommo Iddio, nostro comune padre e creatore, a ricevere come umilmente gli porgo i voti miei con tutta l'effusione del mio cuore per il miglior bene della detta mia erede e perché ci conceda di benedirlo e adorarlo eternamente insieme .
Si veda fino a qual punto la passione può oscurare la mente di persone anche molto intelligenti: chiedere a Dio un premio per l'adulterio!
Bastino questi cenni per delineare l'ambiente sociale di quella « Parigi divina ».
I Manzoni a Parigi
I Manzoni furono ospiti del Fauriel e della Condorcet: ma sotto il tetto dei ribelli, in quelle camere dove un occhio puro poteva scorgere le ombre del peccato; a quella mensa degli adulteri, la giovane sposa, che forse già si sentiva madre, non poteva acclimatarsi. Ella di tutto quest'ambiente provava una tristissima impressione e un insoffocabile istinto avverso: e lo provava non solo per sé ma anche per Alessandro. Temeva che quell'atmosfera avesse, a poco a poco, a offuscare il proprio spirito religioso. Inoltre, cauta e amante com'era, non le riusciva sempre di scacciare il sospetto che, quel mondo senza pregiudizi e libertino, potesse un giorno o l'altro contagiare il suo Alessandro.
Non tardarono il marito e la madre ad accorgersi delle segrete sofferenze di Enrichetta e per acconsentire ai gusti di lei, Alessandro e donna Giulia si adattarono in un'altra dimora, indipendente, che potesse favorire una vita più raccolta, più isolata, senz'essere solitaria. Fu la prima vittoria di quella donna soave e forte; ma non doveva restare né la sola né la più grande.
Dall'innocenza e dall'amore di Enrichetta emanava una forza irresistibilmente conquistatrice.
Anche la difficile e altera suocera venne attratta nel cerchio di quel dolce e virgineo incanto, e così ne scrisse:
La nostra Enrichetta è un angelo [ ... ]. L'amo ogni giorno più. Ormai ella ha, e non potrà giammai non averlo, tutto il mio amore, tutta la mia tenerezza materna .
Non dobbiamo pensare che queste conquiste fossero senza rinunce e non costassero nulla alla mite nuora. Durante questi primi tempi di matrimonio, consenti a donna Giulia di vendere per l'andamento della casa un suo anello personale e altre gioie. E non ne parlò mai col marito, che seppe il fatto solo dopo la morte di lei. Sapeva anche cedere alla suocera il governo esteriore della casa: a lei soprattutto importava il governo dei cuori, e questo se l'era assicurato con l'umile sua bontà. Per Natale, il primo Natale dopo le nozze, un vagito annunciò una nuova felicità familiare: era nata la primogenita, Giulietta. Fu proprio questa ignara creaturina a sollevare tra quelle persone il problema più grave e più intimo.
Quanto meno espressa, altrettanto più sentita, s'era fatta nella famiglia un'incrinatura: disparitas cultus. Enrichetta aveva diffuso un'aureola luminosa di fede e di pietà nella casa Manzoni: ella aveva portato nella stanza nuziale le devote abitudini della sua cameretta verginale. Talvolta era vista pregare con un'aria così umile e sincera da persuadere che, proprio dalla sua fede, proveniva in lei quella generosa disponibilità d'animo, per cui sapeva in mille piccole circostanze dimenticare se stessa, rinunciare sorridendo alle proprie soddisfazioni per la pace della casa, per la gioia degli altri. Appena la sua creaturina fu in grado di poterlo fare, ella le fece congiungere le manine nel gesto della preghiera. L'impetuosa donna Giulia e il fiero Alessandro, benché ancora traviati nelle idee, conservavano nobile il cuore, aperto a tutto ciò che è bello e puro e, senz'averne piena consapevolezza, respiravano la poesia di quella pietà:
La mamma e l'adorato mio Alessandro [scrive Enrichetta al fratello Carlo] piangono di gioia con me e noi abbiamo fatto congiungere le manine alla mia Giulietta per ringraziare Dio... .
Che delizioso quadretto! Un bambino in casa è sempre una rivelazione divina.
Donna Giulia e Alessandro, dagli esempi di quella dolce sposa ridestati a un sentire sempre più cristiano, dovettero porsi il problema dell'educazione della piccina, la quale, per altro, non era ancora stata battezzata. Allevarla nel cattolicesimo o nel calvinismo? La giovane mamma, che si era creduto questo campo come suo e incontrastato, data l'indifferenza religiosa, tinteggiata d’anticlericalismo, del marito e della suocera, con tutto l'impeto di cui era capace il suo cuore, si rivendicò ogni diritto sulla sua creaturina: strappargliela dalle braccia sarebbe stato meno doloroso che strappargliela dalla sua fede. Alessandro ruminava molto prima di prendere una decisione; ma, una volta presa, era irremovibile. Questa volta aveva deciso: il 23 agosto 1809 nella chiesa di San Nicolao, la primogenita del Manzoni venne battezzata cattolicamente coi nomi di Giulia Maria Claudia.
Si badi a una cosetta, che parrà a tutta prima indifferente, e non lo è. Quando, otto mesi avanti fu notificata la nascita della bambina all'ufficio civile di Parigi, il nome di Maria non c'era. Allora il Manzoni aveva dato a sua figlia soltanto il nome di sua madre Giulia e dell'amico del cuore Claudio Fauriel. Ora, al battesimo, fa capolino un altro nome: Maria. A chi intendeva far omaggio con il terzo nome? Non è difficile intuirlo. Sul buio sentiero dello smarrimento morale, la prima stella che s'accende, benigna e orientatrice, ha nome Maria.
Per Enrichetta il giorno del Battesimo fu di una cupa tristezza. Vide la sua bimba in un rito che non era quello a cui aspirava il suo cuore materno; la vide sostenuta da, Claude Fauriel e da donna Giulia: il primo che non fu mai religioso, la seconda che era ancora lontana dalla pratica religiosa e molto mondana. Le parole della fede e della rinuncia al mondo corrotto, sulle loro labbra le parvero ironia e burla: « Credo », «Abrenuntio ».
All'iscrizione della figlia nel registro dei battezzati, essendo prescritto che si dichiari se la bambina sia di legittime nozze o no, Alessandro dovette confessare la sua posizione irregolare e sentirne un serio richiamo. Il poeta, l'abbiamo già detto, era lento e ponderato per indole; e pertanto la decisione di immettere la figlia nella fede cattolica era indizio di crisi spirituale molto avanzata. Ora, da inesorabile consequenziario qual era, non si ritirò davanti all'ammonimento del parroco di San Nicolao. Per mezzo d'alcuni amici, inoltrò presso la Curia Romana la pratica per convalidare cattolicamente il suo matrimonio, nonostante la disparitas cultus dei due coniugi. Il matrimonio secondo il rito cattolico fu celebrato il 15 febbraio 1810: Enrichetta vi si adattò. Certo ella non dovette rimanere ignara di una clausola del rescritto pontificio che indirettamente riguardava lei, clausola che faceva raccomandazione al marito di rispettare la libertà di coscienza della moglie, ma nello stesso tempo di illuminarla sulla vera fede. Tra i coniugi, perciò, non pochi discorsi dovettero cadere su questo argomento. Così Enrichetta fu indotta a riesaminare le basi delle credenze religiose assorbite, dall'infanzia, soprattutto dalla madre coerente calvinista.
Era turbata e soffriva. Chi era dunque « Costui », invisibile, che si poneva tra lei e suo marito, tra lei e la sua creaturina? Doveva, dunque, rinunciare alle sue più care abitudini e detestare gli intimi sentimenti che l'avevano cresciuta nella casa materna, e la sostenevano, umile e serena, nella casa maritale?
Bisogna che qui io non tralasci un altro episodio. L'ultima volta che Enrichetta era stata alla Pasqua calvinista, uscì da quel rito insoddisfatta e scossa. Si sa che il calvinismo celebra l'Eucaristia solo come una cerimonia di ricordo della passione del Signore, ma non ammette la reale presenza di Gesù sotto le specie del pane consacrato.
Ella improvvisamente sentì il vuoto gelido di quella liturgia, sentì la fredda assenza di qualcosa e di «Qualcuno », che ancora non sapeva chiaramente, ma di cui abbisognava dolorosamente. Il suo cuore di madre fin d'allora provò l'insufficienza dei simboli senza la realtà, dei ricordi senza la sostanza, e chiedeva, inconsciamente, un contatto vero e completo della sua anima col Redentore.
Sospinta così dalla grazia per misteriose vie, ella, che aveva ridestato alla religione il marito, fu dai suoi esempi e ragionamenti condotta a vedere nel cattolicesimo la piena verità della fede. Casualità e provvidenza disposero che nella cerchia degli amici francesi partecipasse un magistrato piemontese, il conte Somis de Chiavrie, il quale, noncurante delle irrisioni di quel circolo di miscredenti per la sua aperta e ferma appartenenza alla Chiesa cattolica, attirò la simpatia e le attenzioni personali di Enrichetta. E quando questa volle conoscere del cattolicesimo qualcosa più di quanto fino allora fosse praticato in casa Manzoni, si rivolse al conte Somis. Egli, pur esultando della preferenza accordatagli, si sentì impari all'impegno di farle scuola e suggerì l'abate Dégola, un sacerdote genovese, presentandolo come una persona di grande bontà e discrezione, nonostante la sua palese professione di giansenismo.
Dopo un corso di lezioni religiose, cui assisteva anche donna Giulia e non doveva essere assente Alessandro, Enrichetta, il 22 maggio 1810 nella chiesa di San Severino a Parigi, fece pubblica abiura del calvinismo ed entrò a far parte della Chiesa cattolica.
L'anima di Enrichetta Blondel brillò di gioia e non dimenticò più né quel giorno né quella chiesa,
luogo in cui [scrisse al Dégola] ho cominciato a conoscere la sola e vera speranza del cristiano e dove ho ricevuto tante grazie dalla misericordia di Dio .
Se la nuova fede le toglieva ogni incrinatura con la famiglia Manzoni, le faceva, però, subire una guerra crudele con la famiglia da cui era uscita. I Blondel accusarono Alessandro d'aver violentato la coscienza della loro figlia, e accusarono apertamente Enrichetta di essere « apostata ».
La chiamarono il disonore dei genitori e delle sorelle e le proibirono di mettere piede in casa. La poveretta soffriva e supplicava.
Supplicava il Signore:
Datemi, o Dio di bontà, la forza di sopportare lo sdegno di mia Madre, e d'essere rifiutata, mentre io non vedo che il momento di gioire della sua presenza, e di quella del venerato mio padre e di tutti i miei cari parenti.
Supplicava i suoi familiari con queste singhiozzate parole:
Feci quello che feci, perché credetti dovere mio farlo, altrimenti sarei stata tormentata per tutta la mia vita: non l'ho fatto che dopo averci pensato ben bene; e non con leggerezza e senza riflessione. [ ... ] do la mia parola d'onore davanti a Dio che volli cambiar religione di mia pura e semplice volontà. [ ... ]. Perché è tanto irritata contro di me la tenera mia madre? Ho fatto cosa che è la mia felicità [ ... ] Oh quanto è penosa per un cuore che vi adora l'idea di non più rivedervi! Se mi è rifiutata la vostra porta, che almeno non mi sia rifiutata la consolazione di ricevere, di quando in quando, notizie da voi: sarebbe una barbarie troppo grande .
I Blondel tennero duro a lungo, e del tutto non disarmarono mai. La povera figliuola non poté rivedere i suoi che rarissimamente e fu trattata sempre con voluta freddezza. Quando suo padre cadde malato a morte, accorse, ma non le fu permesso di vederlo. Da qualche indizio riferitole, la figlia amò crederlo per grazia divina salvo in cielo tra i veri credenti. Solo nel Vangelo poteva trovare consolazione, intuendo che certamente Gesù aveva pensato anche a lei quando disse: Non crediate che io sia venuto a portare pace sulla terra; non sono venuto a portare pace, ma una spada. Sono venuto infatti a separare il figlio dal padre, e la figlia dalla madre, la nuota dal a suocera: e i nemici dell'uomo saranno quelli della sua casa .
Il ritorno a Milano
Ormai tutti in quella casa vedevano la vita con altri occhi e la sentivano con altri sentimenti. L'ambiente di Parigi, di quella Parigi che ad Alessandro, e non solo a lui, qualche anno prima pareva « divina », ora non poteva che infastidirli: rimpatriarono per ritirarsi nella solitudine di Brusuglio e della loro casa di Milano, vivendo nel raccoglimento con Dio e con gli affetti familiari e, per Alessandro, con le sublimi illuminazioni poetiche.
L'Abate Dégola volle che Enrichetta completasse la catechesi in Milano. E a questo scopo l'affidò al Canonico di Sant'Ambrogio Luigi Tosi, che, sulle prime fu sorpreso di dover mettere piede in quella casa Manzoni, pochi mesi innanzi tanto chiacchierata. Ma presto si accorse delle meraviglie cui il Signore l'invitava ad assistere e a esserne ministro. All'inizio di settembre, Enrichetta ricevette il sacramento della Cresima e con sua somma gioia, il 15 dello stesso mese, si accostò per la prima volta alla mensa eucaristica.
Tutta la vita di Enrichetta, da allora, fu un continuo salire a Dio, per essere più vicina ai suoi, per circondare il genio religioso di Alessandro con l'atmosfera più tranquilla e più propizia al suo fiorire. Ella sempre aveva sentito il bisogno della religione e della preghiera, in cui trovava speranza, forza e gioia. Si sentiva indegna di ricevere l'Eucaristia, tuttavia non sapeva stare a lungo senza, oltre i quindici giorni. Ascoltava la santa Messa più spesso che le era possibile e, quando qualche infermità l'obbligava a letto, l'accompagnava con cuore diligente, aiutata dal canto del buon popolo di Brusuglio, che giungeva fino a lei dalla vicina parrocchia, e, talora, le produceva nel cuore uno struggimento che la faceva sciogliere in lacrime. La sera, quando avvertiva che Alessandro aveva congedato l'ultima visita scendeva dalla sua stanza e sovente recitava con lui il rosario e la compieta. Dai suoi personali risparmi, inviava, al canonico Tosi, offerte da distribuirsi in elemosina per ottenere la conversione degli ebrei, degli eretici... dei suoi parenti eretici.
Piissima, sì, ma non bigotta. La sua pietà non pesava su nessuno, ma diveniva la forza che la faceva dimentica di sé per la soddisfazione e la gioia degli altri. In cima ai suoi pensieri, però, sta sempre il marito, dal quale non fu mai lontana un giorno, tanto che fra loro due non occorse nessuna corrispondenza epistolare. Lo assisteva vigile e tremante in ogni dolore; avveduta e pronta a supplire le insufficienze del genio nelle faccende della vita pratica; nascosta e felice, mentre egli ascende nei fulgori della gloria; colta e penetrante fino a comprendere le sue opere; squisita. e affascinante fino a ispirargliele.
Enrichetta « la sposa »
Fiera della sua condizione di sposa, sapeva che nella Chiesa ci sono condizioni di vita, oggettivamente anche più sublimi di quello a cui dalla divina Provvidenza era stata chiamata, e alludeva alla situazione delle « ascose vergini » che vivono di « pure gioie ascose » , ma essa non avrebbe mai cambiato lo stato che aveva sortito per divina volontà con nessun altro.
La sua abitudine d'animo si può paragonare a quello di Ermengarda. Non si sa bene per quale ragione Carlo Magno abbia ripudiato la figlia di Desiderio e sposato Ildegarde di nazione sveva. Sappiamo, però, che il papa Stefano III aveva cercato di dissuadere, a suo tempo, il re dei Franchi a contrarre le nozze con la principessa longobarda, e, ciononostante ci sfugge perché Bertrada abbia favorito tale matrimonio. Lo stato d'animo di Ermengarda, ripudiata, eppure nel suo cuore segreto, ancora amante del re dei Franchi, poteva avere qualche somiglianza con quello di Enrichetta. Al padre Desiderio e al fratello Adelchi che l'interrogano ella risponde solamente:
….D'amistà, di pace
Io la candida insegna esser dovea:
Il ciel non volle... .
E più avanti, quando la sorella Ansberga, monaca e superiora del chiostro di San Salvatore, nella speranza di sopire per sempre in lei lo spasimante ricordo del suo amore incorrisposto, le fa balenare la possibilità di farsi suora e di rivestire l'abito sacro per morire in pace, Ermengarda, sdegnata e risentita, risponde:
…Che mi proponi, Ansberga?
Ch'io mentisca al Signor? Pensa ch'io vado
Sposa dinanzi a Lui; ‑sposa illibata,
Ma d'un mortal. ‑ Felici voi! Felice
Qualunque, sgombro di memorie il core
Al Re de’regi offerse, e il santo velo
Sovra gli occhi posò, pria di fissarli
In fronte all'uom! Ma ‑ d'altri io sono .
E non si pente, no, perché quella è stata la sua vocazione, e la sua gloria non può trovarsi che nell'adempirla interamente:
... quella via
Su cui ci pose il ciel, correrla intera
Convien, qual ch'ella sia, fino all'estremo .
Io sento che la dolce fierezza di sposa, propria di Enrichetta, è passata in quest'Ermengarda; e non per nulla il poeta, proprio a lei, riconoscendosi debitore, ha dedicato il capolavoro della sua poesia drammatica.
Enrichetta si sentiva fiera anche come madre di nove figli, di cui a sette fu pure nutrice. Mirando a lei, così serena nei frequenti travagli della maternità, l'alta fantasia del Manzoni dettò nella Pentecoste i versi più arditi e più delicati che la poesia conosca sui misteri della famiglia:
Spose, che desta il subito
Balzar del pondo ascoso;
Voi già vicine a sciogliere
Il grembo doloroso;
Alla bugiarda pronuba
Non sollevate il canto:
Cresce serbato al Santo
Quel che nel sen vi sta .
E come è bello sorprendere questa mamma in certi atteggiamenti materni: è gelosa se per via incontra bambini che ad altri (non a lei) sembrano più belli dei suoi ; è orgogliosa che Giulietta somigli al papà, ma le fa pena che abbia il naso non troppo bello; si duole della pelle bruna di Cristina, si compiace della biondezza di Sofia. Si curva a spiare il primo sorriso dei suoi piccoli; il poeta la guarda, e scorge in quel primo ridere dell'infanzia, il baleno dello Spirito divino, e l'invocherà:
Spira de' nostri bamboli
Nell'ineffabil riso... .
Enrichetta ha pure una grande cura perché, specialmente di festa, il vestitino dei figli sia lindo e gustosamente elegante: il poeta lo vede e ne resta ispirato:
Oggi esulta ogni persona:
Non è madre che sia schiva
Della spoglia più festiva
I suoi bamboli vestir .
Ed ecco la carità sociale nei pasti:
Sia frugal del ricco il pasto;
Ogni mensa abbia i suoi doni;
E il tesor negato al fasto
Di superbe imbandigioni,
Scorra amico all'umil tetto,
Faccia il desco poveretto
Più ridente oggi apparir .
Cui fu donato in copia,
Doni con volto amico,
Con quel tacer pudico,
Che accetto il don ti fa .
Croci non le mancarono: frequenti e gravi. La prima ferita alla sua maternità fu inferta nell'agosto del 1823: la piccola Clara, di due anni appena, le moriva di colera. Si dovette seppellirla di notte, senza nessun accompagnamento funebre. Allora come gli occhi e il cuore di Enrichetta andarono a quelle « così indegne esequie »! Lo strazio, profondo e contenuto, di questa sventura è forse quello che è passato alla madre di Cecilia. Ricordano? Bisogna ricordare: è troppo bello! Troppo necessario!
Scendeva dalla soglia d'uno di quegli usci, e veniva verso il convoglio, una donna, il cui aspetto annunziava una giovinezza avanzata, ma non trascorsa; e vi traspariva una bellezza velata e offuscata, ma non guasta, da una gran passione, e da un languor mortale: quella bellezza molle a un tempo e maestosa, che brilla nel sangue lombardo. La sua andatura era affaticata, ma non cascante; gli occhi non davan lacrime, ma portavan segno d'averne sparse tante; c'era in quel dolore un non so che di pacato e di profondo, che attestava un'anima tutta consapevole e presente a sentirlo. Ma non era il solo suo aspetto che, tra tante miserie, la indicasse così particolarmente alla pietà, e ravvivasse per lei quel sentimento ormai stracco e ammortito ne’cuori. Portava essa in collo una bambina [ ... ], morta; ma tutta ben accomodata, co’ capelli divisi sulla fronte, con un vestito bianchissimo, come se quelle mani l'avessero adornata per una festa promessa da tanto tempo, e data per premio. Né la teneva a giacere, ma sorretta, a sedere sur un braccio, col petto appoggiato al petto, come se fosse stata viva; se non che una manina, bianca a guisa di cera, spenzolava da una parte, con una certa inanimata gravezza, e il capo posava sull'omero della madre, con un abbandono più forte del sonno: della madre, ché, se anche la somiglianza de’volti non n'avesse fatto fede, l'avrebbe detto chiaramente quello de’ due ch’esprimeva ancora un sentimento. [ ... ]. La madre, dato a questa un bacio in fronte, la mise lì come sur un letto, ce l'accomodò, le stese sopra un panno bianco, e disse l'ultime parole: ‑ addio, Cecilia! riposa in pace!. Prega intanto per noi; ch'io pregherò per te e per gli altri.
Così detto, rientrò in casa, e, un momento dopo, s'affacciò alla finestra, tenendo in collo un'altra bambina più piccola, viva [ ... ]. Stette a contemplare quelle così indegne esequie della prima, finché il carro non si mosse, finché lo poté vedere; poi disparve.
La seconda ferita l'ebbe nel 1826, quando fu costretta a dare a balia Filippo, il settimo venuto; ella, che teneva tanto a nutrire personalmente i suoi figli.
Ma la sua salute deperiva irreparabilmente. S'era sperimentato un soggiorno in Toscana e poi la spiaggia di Livorno, ma senza vantaggio sensibile. La nascita di Matilde, nel 1830, diede l'ultimo crollo alla resistenza del suo fisico: un filo di febbre non l'abbandonò più.
La salute rovinata l'obbligò a mettere Vittoria in collegio a Lodi: e fu un'altra grande pena per il suo cuore materno che non poteva sopportare la lontananza di nessuno della sua famiglia.
Quante volte [le scrive] dacché tu mi hai lasciata, mia cara piccina, ho girati intorno a me gli occhi per cercarti, quante volte i miei orecchi hanno creduto di sentire la tua voce!….
E in un'altra lettera:
... il tuo povero papà tornò ieri a casa tutto commosso, perché aveva incontrato fuori una bambina che gli sembrava tutta la sua Vittorina….
Finite le vacanze autunnali del 1832, Vittorina torna in collegio e la mamma sente subito il bisogno di scriverle:
I miei occhi hanno veduta uscire dalla porta la carrozza che ti riaccompagnava, e l'hanno seguita finché hanno potuta scorgerla... il mio cuore ti segue di continuo. Andai più tardi in chiesa con Enrico, e puoi credere con che cuore offrii a Dio la pena da cui ero oppressa in quel giorno….
Nell'agosto 1833 le speranze di salvarla svanirono rapidamente una dopo l'altra. Alessandro rifiutava d'arrendersi, all'ineluttabile: si sforzava di sperare contro speranza. Diceva in quei giorni: « Ogni dì l'offro al Signore, e ogni dì gliela domando ».
Fra tutti la meno illusa, la più pronta alla separazione era lei, Enrichetta. Era talmente staccata ormai dalla vita da dire che, se avesse potuto riprenderla, non l'avrebbe fatto: eppure amava immensamente...
Qualche anno prima, all'epoca dell'ultimo parto, ella aveva creduto di dover morire. Fatta ardita dalla morte, scrisse una lettera testamento al marito, da leggere dopo la sua sepoltura. Accenti infiammati le erompono dall'anima:
A te, adorato mio Alessandro, ardisco manifestare le mie intenzioni, nel caso in cui Dio, secondo i suoi divini decreti, mi richiami da questo mondo nei nuovi dolori che si preparano per me! [ ... ] Tu, mio caro amico, tu che formasti la felicità di colei che volesti tua compagna [ ... ], prega per il suo riposo e non lasciarti abbattere!... Te lo domando nel nome di Dio che ti darà la forza necessaria... Te lo domando nel nome dell'amore che sempre abbiamo avuto per i nostri, figli e di quella tenera affezione che ci ha sempre stretti l'uno all’altra....
Proprio come Ermengarda, a cui fu necessario il delirio e la morte imminente perché osasse esprimere tutta l'incandescenza del suo amore in un tono che altrimenti non avrebbe mai trovato. Ricordiamo:
Amor tremendo è il mio.
Tu nol conosci ancora; oh! tutto ancora
Non tel mostrai: tu eri mio:secura
Nel mio gaudio io tacea; né tutta mai
Questo labbro pudico osato avria
Dirti l'ebbrezza del mio cor segreto .
Un critico, appena pubblicato l'Adelchi, riportando questo brano, disse: « Signor Manzoni, questo brano non è roba vostra; ve l'ha suggerito una donna ». Indovinava: gliel'aveva suggerito « il verecondo amor » della sua sposa.
Il tramonto del Natale 1833
Era il Natale del 1833, Enrichetta, che nella notte santa della vigilia aveva voluto ricevere, presente a se stessa, il viatico, pregava e attendeva, sfinita e tranquilla, la grande visita del Signore. Guardava in faccia, lungamente, silenziosamente, ciascuno dei suoi cari; mancava Vittorina che era in collegio, mancava Matilde, l'ultima nata, che ella non aveva voluto rivedere. Sentiva che il cuore non le avrebbe potuto reggere nel baciare quella creaturina che tra poco sarebbe rimasta orfanella a tre anni.
La sua missione era finita. Aveva ricevuto dal buon Dio il compito di essere l'ispiratrice di un grande poeta, l'unico che può dirsi per altezza d'ingegno fratello di Dante. Si sa che ogni poeta ha una donna ispiratrice. Ma, purtroppo, di solito, non è quella che hanno sposato all'altare dell'Altissimo. Il Manzoni, poeta della famiglia cristiana, è l'unico che abbia per ispiratrice la sua « diletta e venerata moglie », la madre dei loro nove figli.
Come abbia potuto questa donna esemplare esercitare tale perenne fascino, ce l'ha svelato, nella dedica premessa all’Adelchi, il Manzoni stesso, il quale testimonia d'aver trovato in Enrichetta Blondel qualcosa che gli richiamava la Madonna perché « insieme con le affezioni coniugali e con la sapienza materna "aveva saputo" serbare un animo verginale ».
Ora, finita la sua missione, questa sposa e madre singolare, se ne va in pace con il sorriso della Madonna sulle labbra. Con quel sorriso si spense, piano piano, come una lampada sull'altare a cui sia venuto meno l'olio.
Si spense: ma ella, umile e grande cristiana, vive nell'immortalità celeste, e quaggiù sta in quelle due dolci e innamorate figure della poesia italiana che hanno nome Ermengarda e Lucia Mondella.
Lettere, a c. di CESARE ARIETI, Milano, Mondadori, 1970, t. I, p. 57 s.
I Promessi Sposi, cap. II.
Lettera del 27gen. 1808 in Lettere…, p. 64.
Carteggio di Alessandro Manzoni, a c. di GIOVANNI SFORZA e GIUSEPPE GALLAVRESI, Parte I, Milano, Hoepli, 1912, pp. 137 e 139.
Lettera del 27 gen. 1808 al Fauriel.
Ibidem.
ORAZIO M. PREMOLI, Vita di Alessandro Manzoni, Milano, « Amatrix », 1928, p. 41.
Lettera del 9 nov. 1808 a Carlo Blondel in Carteggio…, p. 160.
Lettera del 20 ott. 1809 in Lettere familiari, a c. di GIUSEPPE BACCI, Bologna, Cappelli, 1974, p. 112 s.
Lettera del 7 apr. 1817 in Lettere familiari…, p. 214.
Lettera del 29 giu. 1810al padre in Lettere familiari…, p. 120 s.
Mt. 10, 34‑35.
La Pentecoste, vv. 133‑134.
Adelcbi, a. I, vv. 221‑223.
Ibidem, a. IV, vv. 95‑101.
Ibidem, vv. 103‑105.
Vv. 57‑64.
Lettera del 18 nov. 1809 a Carlo Blondel in Lettere familiari…, p. 114 s.
La Pentecoste. vv. 129‑130.
La Risurrezione, vv. 89‑91.
Ibidem, vv. 92‑98.
La Pentecoste, vv. 125‑128.
I Promessi Sposi, cap. XXXIV.
Lettera del 30 ag. 1831in Lettere familiari…, p. 302.
Lettera del nov. o dic. 1831in ibidem, p. 308.
Lettera dell'1 nov. 1832 in ibidem, p. 337
Ibidem, p. 287 s.
Adelchi, a. IV, vv. 148‑153.
Fonte: http://www.chiesadimilano.it/polopoly_fs/1.2736!/menu/standard/file/20030626_Dioc_Vesc_Colombo_Int_19850216.doc
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