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La Storia della colonna infame venne pubblicata a dispense a seguito dell’edizione definitiva dei Promessi Sposi del 1842 a Milano, presso gli editori Guglielmini e Radaelli, dopo una profonda rielaborazione strutturale e stilistica.
Inizialmente elaborata all’interno del Fermo e Lucia, non venne inclusa nei tre tomi della prima edizione del romanzo (pubblicata a Milano tra il 1825 e il 1827 presso l’editore Vincenzo Ferrario) per ragioni narrative e politiche (forse la facile identificazione con le pratiche repressive degli austriaci).
Fauriel, in una lettera a Cousin del 26 giugno 1824, aveva scritto che la Storia della Colonna Infame era già stata terminata e separata dal Fermo e Lucia.
Anche Giulia Beccaria, in una lettera al vescovo Tosi del 18 gennaio 1828, diceva che la Colonna era«terminata sì, ma sicuramente al suo solito, Alessandro non solo la ritoccherà, ma la rifarà».
La Storia della Colonna Infame nacque quindi come parte del Fermo e Lucia, legata ai capitoli sulla peste; successivamente venne disgiunta dal romanzo e presentata come Appendice storica.
La prima stesura venne terminata nel 1824, ma Manzoni, benchè avesse già iniziato la revisione del romanzo, decise di non includerla nella Ventisettana: l’autore motivò la sua scelta, dicendo che la Colonna Infame «potrà esser materia d’un nuovo lavoro». Si diffuse allora l’attesa tra il pubblico, che pensava ad una seconda ampia opera narrativa; intanto Manzoni era giunto all’edizione definitiva della Colonna.
Solo nel 1839, in occasione dell’edizione illustrata dei Promessi Sposi, l’autore si ripropose la pubblicazione della Colonna Infame: dopo averla revisionata tra il ’41 e il ’42, in autunno la pubblicò in appendice alla nuova edizione dei Promessi Sposi.
L’opera non era strettamente storiografica o specialistica, piuttosto si presentava come un pamphlet morale che poteva interessare un pubblico vasto come quello dei Promessi Sposi.
Ma nel ’43, in una lettera ad Adolphe de Circourt, Manzoni si lamentava del fatto che quella sua petite histoire non avesse riscosso molto successo; anche scrittori ed accademici considerarono la Colonna un’opera minore.
Da questo pregiudizio derivò una sottovalutazione dell’opera, durato dal 1842 al 1942, con un’unica eccezione: l’edizione annotata di Michele Ziino (Napoli-Genova-Città di Castello, Francesco Perrella, 1928, all’insegna della Biblioteca Rara, testi e documenti di Letteratura d’Arte e di Storia a cura di Achille Pelizzari); un’edizione che comunque si diffuse in ambito strettamente accademico.
In Italia solo il conte Camillo Laderchi, a Ferrara, il 15 gennaio 1843, stampò alcune pagine sulla Storia della Colonna Infame; due recensioni uscirono poi sulla Rivista Europea e sul Giornale dell’Istituto Lombardo.
Nel 1852, Giuseppe Rovani rivalutò il testo, trasmettendo a Dossi, Lucini, Tessa e Gadda (probabilmente) una propensione per la Colonna Infame; anche Carducci, antimanzoniano, ha dimostrato di apprezzarla. Marcella Gorra in Manzoni del 1959 si lamentava del fatto che quel saggio fosse stato «ingiustamente trascurato dagli storici della critica»; infine, nel 1984, Giuseppe Pontiggia ristampò la Colonna come primo numero della collana Vecchi tipi diretta da Angelo Stella.
La Storia risultava indivisa nella prima stesura. Il testo uscì poi nella redazione finale del 1842 divisa in sette capitoli preceduti da un’introduzione.
Nel disegno iniziale del Fermo e Lucia doveva costituire il capitolo V del IV tomo: infatti in fondo al foglio 52 del capitolo IV Manzoni aveva scritto che «il lettore che annojato da questa nostra già lunga digressione accessoria conservasse ancora qualche curiosità di veder la fine della narrazione principale, salti il seguente capitolo» .
Maturata però quasi subito la decisione di estrapolare la vicenda degli untori, per dedicarle una trattazione a parte, Manzoni cancellò la dicitura in fondo alla pagina, spostando materialmente le pagine originali del manoscritto del Fermo e Lucia: esse andarono a costituire, con quelle aggiunte successivamente, un fascicolo di circa sessanta pagine, intitolato prima Appendice, poi Appendice Storica e infine Storia della colonna infame.
L’opera prende il titolo dalla colonna in granito che venne eretta nel XVII secolo nel quartiere della Vetra di Milano, dove era stata abbattuta la casa di uno dei presunti colpevoli, il barbiere Giangiacomo Mora, come monito perenne in seguito alla condanna a morte di cinque innocenti cittadini incolpati di aver diffuso il contagio della peste attraverso unguenti spalmati sui muri di Milano.
Il processo si collocava nell’ambito di un’opinione diffusa nel Seicento per l’ignoranza e la superstizione popolare, ulteriormente suffragata dall’autorità, che la peste fosse dovuta non alle condizioni sanitarie dello Stato attraversato dai lanzichenecchi, ma bensì all’attività malefica degli “untori”, capro espiatorio di fronte a una tragedia razionalmente non dominabile.
La stesura definitiva, che non prevede più una narrazione ininterrotta, forse dovuta al suo essere inizialmente un capitolo del romanzo, è scandita, come abbiamo già ricordato, in sette capitoli. Ciascuno di essi è incentrato su un aspetto particolare della vicenda o alla esposizione di tematiche circoscritte:
I. il presunto reato e l’apertura dell’inchiesta;
II. «osservazioni generali […] sulla pratica di que’ tempi, ne’ giudizi criminali»;
III. l’istruttoria vera e propria – resoconto di interrogatori e torture subite dal Piazza da tutti i punti di vista: dell’autorità responsabile, del difensore del Padilla, dei cronisti del tempo, del Verri, col contrappunto della personale interpretazione dell’autore;
IV. ispezione in casa del Mora – interrogatorio di questi e confronto col Piazza – confessione del Mora;
V. nuove confessioni di Piazza e Mora: si estende la rete delle unzioni «alla persona grande», il Padilla – difese e ritrattazioni dei due condannati – supplizio finale;
VI. altri processi di imputati minori – processo al Padilla;
VII. i giudizi dei contemporanei e dei posteri sino al Verri .
La vicenda è ricostruita sulla base di un manoscritto che conteneva gli atti del processo, il quale viene delineato in parte sinteticamente, in parte attraverso la riproduzione diretta del testo. Alla narrazione si accompagna il continuo intervento ironico e partecipato del narratore, che provvede a richiamare l’attenzione sulle contraddizioni dei giudici. Inoltre è importante il confronto fra il trattamento subìto dai condannati, appartenenti al popolo, e quello riservato ad altri indagati, usciti liberi dal processo per la loro appartenenza alle classi alte della società.
L’attenzione di Manzoni verso il problema degli untori non è casuale, ma si inserisce sempre all’interno della sua riflessione sul problema del male del mondo, e quindi sul ruolo della Provvidenza. L’indagare gli errori del passato è parte integrante della forma mentis illuministica, nell’ottica di rilevare le storture derivanti da superstizioni e false credenze.
Ma ancora più pregnante e vero nucleo tematico dell’opera è la responsabilità individuale dei giudici, immediatamente ricordati nell’incipit dell’Introduzione, quasi i dedicatari in negativo dell’opera.
«Ai giudici che, in Milano nel 1630, condannarono a supplizi atrocissimi alcuni accusati d’aver propagata la peste con certi ritrovati sciocchi non men che orribili, parve d’aver fatto una cosa talmente degna di memoria, che, nella sentenza medesima, dopo aver decretata, in aggiunta de’ supplizi, la demolizion della casa d’uno di quegli sventurati, decretaron di più, che in quello spazio s’innalzasse una colonna, la quale dovesse chiamarsi infame, con un’iscrizione che tramandasse ai posteri la notizia dell’attentato e della pena. E in ciò non s’ingannarono: quel giudizio fu veramente memorabile» .
Manzoni si propone di indagare nella realtà storica il concetto di libertà morale dell’uomo nella storia, operando un affondo diverso e ideologicamente opposto a quello operato da Pietro Verri nelle Osservazioni sulla tortura (1776-77, edite postume nel 1804), in cui l’autore milanese, partendo dallo stesso processo, voleva dimostrare la perversità della tortura in sé, senza affrontare la spinosa questione delle singole responsabilità degli individui.
Alle pagine impetuose del Verri, Manzoni contrappone pagine più meditate e notevolmente scorciate. In realtà il taglio della prima Storia era eminentemente narrativo, tendendo a una rielaborazione delle testimonianze documentarie, sceneggiate e manipolate dalla fantasia del narratore, che spesso non si risparmiava eccessi di colorazione romanzesca. Infatti la prima stesura, immediatamente successiva alla conclusione del Fermo, presentava caratteri strutturali e linguistici assimilabili a quelli del primo abbozzo del romanzo.
Del tutto diversa invece fu la redazione del testo finale. A partire dal ’28-29 la vicenda compositiva della Storia si intreccia con la riflessione che giungerà a maturazione teorica col saggio Del romanzo storico.
Di una lettera di Ermes Visconti a Goethe nel ’29 è la notizia che Manzoni avrebbe voluto fare uno studio sui generi misti di storia e invenzione, e ancora nel ’32-33 veniamo a sapere che prevaleva l’insoddisfazione dell’autore per i suoi Promessi Sposi,intessuti di storico e ideale, di fatti veri e finti. Proprio Goethe si era espresso con riserva sull’eccesso di storicizzazione dei capitoli iniziali del terzo tomo, nei quali soffocava la narrazione principale della storia d’amore, e questa critica doveva essere servita al Manzoni come ulteriore stimolo ad approfondire la propria riflessione teorica .
Perciò si può ben capire perché nell’edizione definitiva l’impostazione narrativa muti per far posto a un’esposizione oggettiva e ordinata dei fatti, appoggiata il più possibile alle testimonianze storiche e ricca di spunti critici e di approfondimento.
Il cambiamento di prospettiva è evidente fin dall’Introduzione, incentrata ora sulla definizione dei compiti dello storico, cui spetta una ricostruzione minuziosa e rigorosa che consenta al lettore di formarsi un’opinione sul ruolo dei singoli protagonisti, ricavandone una lezione più generale sui rapporti tra individuo e società, tra responsabilità personale e ineluttabilità storica, e mettendo in luce nelle singole vicende quelle costanti umane «che non si posson bandire, come falsi sistemi, né abolire, come cattive istituzioni, ma render meno potenti e meno funeste, col riconoscerle ne’ loro effetti, e detestarle» .
Il rigore della ricerca storica non è disgiunto, anzi, è accompagnato e sostenuto da una ricchezza di soluzioni stilistiche atte a integrare e svolgere i diversi piani narrativi del discorso.
L’andamento tipico dell’argomentare manzoniano è strettamente aderente al percorso logico e mentale dell’autore: il periodo procede attraverso riprese e sottili distinzioni logiche che permettono di svolgere tutti gli aspetti della questione.
L’intervento dell’autore si esplica attraverso l’uso di esclamative, domande retoriche, apostrofi al lettore che manifestano da un lato la drammaticità della vicenda personale di ciascun personaggio, dall’altro la partecipazione del narratore fino all’immedesimazione.
Per ricostruire la genesi degli interrogatori, Manzoni fa ricorso a un andamento sintattico mimetico del parlato, al quale si alterna continuamente la riflessione manzoniana, che provvede a costruire un tessuto narrativo più vario.
L’elemento stilstico più importante è sicuramente il discorso indiretto libero, seppur usato raramente: impiegato con efficace tecnica nelle fasi più delicate, in particolare nelle parti congetturali che riguardano la psicologia degli accusati. Poiché del travaglio interiore dei personaggi non si hanno conferme dalle testimonianze storiche, la struttura sintattica e i tempi verbali adottati per il piano delle ipotesi meno verificabili (interrogative, esclamative, eventuali) differiscono dalla cronaca dei fatti stilisticamente tradotta dal ritorno ai tempi verbali storici.
Manzoni perciò, nonostante la scarsa fortuna dell’operetta, sebbene il genere del pamphlet non fosse popolare, sia per temi, stile e lingua ha anticipato la narrativa successiva, e in particolar modo quella verista, naturalista e d’inchiesta .
C’è una letteratura che ha per iscopo un genere speciale di componimenti, detti d’immaginazione; e dà o piuttosto cerca le regole per farli, e la ragione del giudicarli. Questa letteratura, non che l’abbia posseduta mai, ma vo ogni giorno, parte dimenticando, parte discredendo quel poco che m’era paruto saperne. […] Ce ne ha un’altra, che è l’arte di dire, cioè di pensare bene, di rinvenire col mezzo del linguaggio, ciò che è di più vero, di più efficace, di più aggradevole in ogni soggetto, che prenda a considerare o a trattare.
[Lettera a Marco Coen, 2 giugno 1832]
Uno dei problemi centrali della poetica manzoniana è quello del rapporto fra poesia e verità, fra vero e inventato. Il ruolo del poeta è diverso da quello dello storico perché quest’ultimo si limita a riprodurre i fatti «nel loro esterno; ci dà ciò che gli uomini hanno fatto. Ma quel che essi hanno pensato, i sentimenti che hanno accompagnato le loro decisioni e i loro progetti, i loro successi e i loro scacchi […] tutto questo, o quasi, la storia lo passa sotto silenzio; e tutto questo è invece dominio della poesia» mentre «i fatti, perché più conformi alla verità, per così dire concreta, possiedono nel più alto grado quel carattere di verità poetica che si cerca nella tragedia… il bisogno della verità è l’unica cosa che possa farci attribuire importanza a tutto ciò che apprendiamo». Un rapporto, quello tra poesia e verità, che si concilia con la generale concezione poetica di Manzoni, sostenitore dell’idea che, per “attribuire importanza” alla creazione artistica, occorre conferirle la funzione di comunicare fondamentali messaggi umani, intellettuali, morali, ricavati dalla meditazione della verità storica, capaci di commuovere il lettore e indurlo alla riflessione.
Tutti questi concetti sono ben presenti ed esemplificati nell’evoluzione del processo elaborativo della Storia della colonna infame, nel passaggio dalla prima redazione del 1824 (che definiamo Storia¹) a quella definitiva del 1842 (che definiamo Storia²), testo difficile da catalogare nei generi letterari, dalla natura multiforme, che non ha mai avuto troppo fortuna né fra i lettori né fra i critici. Destino ben diverso hanno avuto i Promessi sposi, il romanzo storico per eccellenza messo in discussione nel discorso Del romanzo storico, che dimostra l’assurdità del progetto teorico di un componimento misto. L’impossibilità dei componimenti misti è l’impossibilità di far stare insieme la storia e la favola, cioè il vero e il falso. L’unico modo di rappresentare lo stato dell’umanità in una data epoca è la storia, nel senso tecnico della parola, in quanto l’obiettivo del romanzo storico di fondere storia e invenzione è “intrinsecamente contraddittorio” perché conduce a falsificare la verità storica: occorre privilegiare “la verità netta e distinta” su ogni invenzione e sacrificare la soluzione del romanzo storico alla storia vera e propria. Per questi motivi la Storia della colonna infame diventa la negazione del romanzo.
La fase elaborativa iniziale della Colonna Infame può verosimilmente essere situata alla fine del capitolo IV del tomo IV in cui Manzoni, riferendosi ai processi agli untori, scrive:
Passare questi giudizj sotto silenzio sarebbe ommettere una parte troppo essenziale della storia di quel tempo disastroso; il raccontarli ci condurrebbe o ci trarrebbe troppo fuori del nostro sentiero. Gli abbiamo dunque riserbati ad un’appendice, che terrà dietro a questa storia, alla quale ritorniamo ora; e davvero .
Ai processi milanesi contro i presunti untori durante la peste del 1630, Manzoni intendeva dedicare il capitolo V del tomo IV e ultimo del Fermo e Lucia. La prima stesura della Colonna infame nasce sui fogli di questo capitolo. Lo scrittore però si avvede subito, prima di portare a termine la minuta, che questa parentesi storica avrebbe troppo a lungo differito la conclusione del racconto. Perciò estrae dalla compagine dell’opera le carte sugli untori, per riservarle a una “appendice” che avrebbe dovuto corredare la stampa del romanzo. In cima al foglio numerato 53, cassata la dicitura capitolo V, Manzoni scrive Appendice, che cancella per sostituirvi in un secondo momento Appendice storica, e poi Storia della Colonna Infame che sarà il titolo definitivo.
Dell’originario capitolo V lo scrittore riutilizza i fogli 53-57, 62-67, 65-70 inserendone di nuovi fino a comporre un manoscritto di 60 fogli.
La prima stesura della Colonna infame, quindi, è finita nel ’24, quando è già iniziata la revisione del romanzo che occuperà Manzoni per tutti e tre gli anni successivi.
La “ventisettana” non la comprenderà. Alla fine del capitolo XXXII lo scrittore così se ne giustifica con i lettori:
E quantunque uno scrittore lodato poco innanzi se ne sia occupato, tuttavia […] ci è paruto che la storia potesse essere materia d’un nuovo lavoro. Ma non è cosa da passarsene così con poche parole; e il trattarla colla estensione che le si conviene ci porterebbe troppo in lungo. Oltre di che, dopo essersi fermato su quei casi, il lettore non si curerebbe più certamente di conoscere quei che rimangono della nostra narrazione. Riserbando però ad un altro scritto la narrazione di quelli, torneremo ora finalmente ai nostri personaggi, per non lasciarli più, fino all’ultimo.
In questo annuncio che chiude il capitolo Manzoni sottolinea la novità, la diversità del tema e dell’impostazione. Dà, insomma, una definizione di quanto aveva già scritto. La storia delle unzioni e dei relativi processi è così destinata a divenire un altro scritto, totalmente separato. Lo scrittore inizia a progettare la stampa dal 1828, come emerge da testimonianze epistolari e non solo.
Nel ’39, presso l’editore Hoepli, si inizia a progettare un’edizione dei Promessi Sposi illustrata da Jean-Baptiste de Montgrand, lettore e traduttore francese di Manzoni. A questa pubblicazione si volle aggiungere «l’histoire du procès mentionné au châpitre 32 des Fiancés».
In seguito Manzoni riprende in mano il manoscritto e lo revisiona tra il ’41 e il ’42, anno di pubblicazione dei fascicoli presso l’editore Redaelli. Il romanzo verrà illustrato da Gonin e in quegli anni gli scambi epistolari tra Manzoni e il pittore cominciano a riguardare le “vignette” della Colonna infame. Da queste testimonianze si può dedurre che alla fine dell’aprile ’42 più della metà del testo è ancora da rivedere; l’8 agosto resta da scrivere più di un capitolo; il 16 settembre rimangono «la compaginazione del foglio di Parigi, la correzione di mezza la Colonna colla signora Emilia, e la correzione di tre o quattro prove di stampa».
Soltanto alla fine dell’autunno ’42 il testo verrà terminato, dopo un lungo e impegnativo lavoro di rielaborazione e revisione linguistica.
Punto di partenza significativo, a nostro avviso, è il valore che la parola storia assume nelle due introduzioni delle rispettive redazioni.
L’Introduzione di Storia¹, scritta probabilmente a stesura terminata, riporta la parola “storia” per ben cinque volte, ma solo in un caso è usata nella sua vera accezione, mentre negli altri casi è sostituibile con “racconto”.
L’Introduzione di Storia² presenta la parola “storia”, questa volta, con il significato preciso di «esposizione ordinata e sistematica dei fatti umani». L’ambiguità che aleggia nel primo caso è l’indizio di un problema non ancora risolto (il tormentoso dilemma tra poesia e storia) che troverà una soluzione definitiva nella seconda redazione. Il netto cambiamento di prospettive è evidentissimo nella nuova Introduzione incentrata ora sulla definizione delle qualità e dei compiti dello storico. Fare della storia significa non accontentarsi di una osservazione superficiale che utilizzi dati adatti a sostenere la propria tesi (che è quanto aveva fatto Verri nell’Osservazioni sulla tortura), ma dedicarsi a una minuziosa ricostruzione che consenta al lettore di formarsi un’opinione sul ruolo dei protagonisti, ricavandone una lezione più generale sui rapporti tra individuo e società e mettendo in luce quelle costanti umane «che non si posson bandire, come falsi sistemi, né abolire, come cattive istituzioni, ma render meno potenti e meno funeste, col riconoscerle ne’ loro effetti, e detestarle».
Presentiamo ora brevemente le caratteristiche fondamentali delle due redazioni:
La prima redazione risente di un impianto narrativo, è un racconto lungo, senza soluzione di continuità né scansioni interne, costruito con un ritmo incalzante. L’autore non ha ancora una linea interpretativa rigorosa, tende a vedere i fatti come «uno di quegli uomini che non hanno pratica degli affari, che mettono le teorie dappertutto, e risolvono le cose col sentimento».
La genesi della Colonna infame nella sua prima forma è strettamente legata al Fermo e Lucia e alle altre pagine dedicate al tema della peste, poiché è identico l’atteggiamento di Manzoni di fronte al materiale storico e identica è la procedura narrativa di presentarlo al lettore.
La revisione della Colonna Infame è parallela all’evoluzione delle idee manzoniane sul romanzo storico, evoluzione che, successiva all’edizione “ventisettana” dei Promessi Sposi, approderà alla condanna del romanzo storico. Già nella revisione per la “ventisettana” dei capitoli storici dedicati a «fame, guerra, e peste» Manzoni mostra di aver cambiato prospettiva: i dati storici e i documenti si amalgamano con la narrazione. Il processo di critica del romanzo storico porta, inoltre, Manzoni a formulare giudizi severi sul romanzo storico considerato «produzione completamente illecita di frivola mezza conoscenza, intollerabile ibrido di Storia e Poesia, di Vero e di Falso» (Carl Witte, Lettere, I, 606).
La seconda redazione rappresenta il punto di arrivo del “processo” del romanzo storico. Il testo definitivo rinuncia alla struttura narrativa e si trasforma in un saggio storico-giuridico. Il resoconto del processo è preceduto da un’Introduzione in cui l’autore si presenta in qualità di storico che si propone di far conoscere il “modo di essere” dell’umanità “in un dato tempo”.
La materia dell’opera è diversamente strutturata: non più esposizione lineare e continua, ma una netta scansione in sette capitoli, ognuno dedicato a un momento preciso dell’ “affare”. Nell’analizzare i fatti Manzoni segue gli estratti autentici del processo, intercalando il racconto breve con i fatti e le congetture.
Alcune sequenze mettono bene in rilievo il passaggio dalla abbandonata gioia del narrare, che il primo getto del romanzo documenta, alla trattazione storiografica dell’opera ultima, che ha per scopo un vero e proprio spoglio giuridico degli atti.
Basta confrontare l’inizio della sua prima redazione, narrativamente tanto mosso, con quello della definitiva:
Storia¹ Due femminelle, Caterina Rosa e Ottavia Boni, standosi sgraziatamente alla finestra di buon mattino, il giorno 21 di Giugno, nella contrada della Vetra de’ Cittadini, videro un uomo coperto d’una cappa nera, con un cappellaccio su gli occhi, venire […] camminar rasente il muro, sotto la gronda, (pioveva), scrivere su una carta che teneva nella mano sinistra, poi levata la destra dal foglio fregarla al muro, e ad un certo punto della via volgersi indietro, tornare verso il Corso dond’era venuto, rispondere su l’angolo al saluto d’uno che entrava nella via, e sparire. |
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Storia² La mattina del 21 giugno 1630, verso le quattro e mezzo, una donnicciola chiamata Caterina Rosa, trovandosi, per disgrazia, a una finestra d’un cavalcavia che allora c’era sul principio di via della Vetra de’ Cittadini, dalla parte che mette al corso di porta Ticinese (quasi dirimpetto alle colonne di san Lorenzo), vide venire un uomo con una cappa nera, il cappello sugli occhi, e una carta in mano, sopra la quale, dice costei nella sua deposizione, metteua su le mani, che pareua che scrivesse. Le diede nell’occhio che, entrando nella strada, si fece appresso alla muraglia delle case, che è subito dopo voltato il cantone, e che a luogo a luogo tiraua con le mani dietro al muro. […] E in quanto all’andar rasente il muro […] era perché pioveva, come accennò quella Caterina medesima […] |
L’apertura di Storia¹ mette in scena la testimonianza di due donne sottoposta all’interpretazione soggettiva dell’autore attraverso significativi elementi: «due femminelle», dove il diminutivo indica la bassa condizione sociale e intellettuale, «standosi sgraziatamente alla finestra». E’ evidente il giudizio negativo di Manzoni. I dati storici, l’ora, il giorno e il luogo, sono presentati al lettore attraverso il filtro della narrazione.
In Storia² il capitolo I si apre come il resoconto di un’inchiesta. La collocazione temporale del fatto è spostata in principio con l’indicazione esatta dell’ora, «verso le quattro e mezzo» e non più genericamente «di buon mattino»; è precisata la posizione dell’osservatrice, «a una finestra d’un cavalcavia che allora c’era sul principio di via della Vetra de’ Cittadini, dalla parte che mette al corso di porta Ticinese», e l’identificazione delle testimoni: da «Due femminelle, Catterina Rosa e Ottavia Boni» a «una donnicciola chiamata Caterina Rosa» e «un’altra spettatrice, chiamata Ottavia Bono».
Le cose raccontate sono, in sostanza, le stesse. In Storia¹ Manzoni inserisce con maggior gusto e colore i particolari come «cappellaccio» contro «cappello»; riporta con la consueta disposizione narrativa le testimonianze desunte dai verbali; bellissimo, a questo fine di racconto, il («pioveva») che in Storia² salta fuori solo più tardi e solo con il suo valore diremmo giuridico.
In Storia² Manzoni ha una coscienza più chiara del suo resoconto storico, che gli permette di separare l’unione ormai impraticabile tra storia e romanzo:
E, cose che in un romanzo sarebbero tacciate d’inverisimili, ma che purtroppo l’accecamento della passione basta a spiegare […] II 686
Vediamo un altro esempio significativo:
Storia¹ «E, che ho visto colui fare certi atti che non mi piacciono», disse quella Catterina, e scese rapidamente nella via, a vedere che segni avesse lasciato l’uomo sospettato. Il romore si diffuse immediatamente, il vicinato accorse […]. |
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Storia² «Et io dissi a questo tale, segue a deporre la Caterina, è che ho visto colui a fare certi atti, che non mi piacciono niente. Subito poi si divulgò questo negozio […]. |
Nella prima Colonna Infame è immaginata la conversazione di una delle donne con un passante di cui è riportato il discorso diretto chiuso dal discorso indiretto seguito dalle reazioni dei vicini messi in allarme.
Nella seconda Colonna Infame Manzoni comincia a seguire subito gli atti del processo riconducendo i particolari nell’ambito di una spoglia giuridicità con intersezione della testimonianza diretta con il racconto dei fatti. In questo modo viene spezzata l’unità narrativa tipica del romanzo storico: il racconto diretto è evidenziato col corsivo e dagli incisi, «segue a deporre», mentre quello indiretto è caratterizzato dall’uso del passato remoto, «si divulgò», o del presente storico.
I modi caratteristici dell’evoluzione del narrare manzoniano sono bene esemplificati dall’analisi psicologica del Piazza:
Storia¹ Una infame e potente speranza gli fu fatta travedere; gli fu promessa l’impunità, s’egli avesse rivelato tutto il delitto, nominati i suoi complici. Rivelarlo non poteva, ma poteva inventarlo […] Chi può indovinare i combattimenti di quell’animo a cui la memoria dei tormenti avrà fatto sentire a vicenda quanto sarebbe doloroso di subirli di nuovo, quanto orribile di farli subire altrui! Chi può indovinare l’angoscia dell’uomo che vittima odiata e incompatita d’un furore cieco, inesorabile, e arbitro nello stesso tempo del destino di chi gli fosse piaciuto, avrà ripassate nella sua mente le persone le persone per vedere chi doveva egli far vittima in sua vece! Quante volte avrà esitato, quante volte assolvendo uno, condannato l’altro, avrà mutata una scelta la quale poteva essere atroce; quante volte avrà risoluto di tutto patire! Vinse finalmente la carne […]. [...] obbligato d’inventare […] doveva cavare i fatti non dalla sua memoria, dove non v’era nulla, ma dalla sua misera, rozza fantasia, combattuta anche, giova crederlo, dal rimordimento del delitto ch’egli stava commettendo. |
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Storia² Il Piazza dunque chiese, ed ebbe l’impunità […]. Non pare però punto probabile che il Piazza abbia chiesto lui l’impunità; […] Ma chi può immaginarsi i combattimenti di quell’animo a cui la memoria così recente de’ tormenti avarà fatto sentire a vicenda il terrore di soffrirli di nuovo, e l’orrore di farli soffrire! a cui la speranza di fuggire una morte spaventosa, non si presentava che accompagnata con lo spavento di cagionarla a un altro innocente! Giacché non poteva credere che fossero per abbandonare una preda, senza averne acquistata un’altra almeno, che volessero finire senza condanna. Cedette, abbracciò quella speranza […].
L’infelice inventava così a stento, e come per forza, e solo quando era eccitato […]. |
In Storia¹ l’analisi psicologica dell’accusato, condotta da Manzoni, viene aperta con il discorso indiretto libero cercando di riprodurre il terribile dilemma del Piazza circa la possibile promessa d’impunità. Il discorso è interrotto da una serie di esclamative ritmate in anafora, intervento diretto del Piazza che dichiara l’impossibilità di esaminare l’animo del torturato, un espediente retorico per, al contrario, analizzarlo. I tempi verbali usati sono: l’imperfetto per il discorso rivissuto, il futuro dell’ipotesi e il passato remoto per il ritorno al punto di vista del narratore onnisciente. Questa prima versione è più drammatica sia per l’indugio sulle terribili alternative del condannato sia per la scelta lessicale: «vinse la carne» contro «cedette».
Diversamente, in Storia², l’attacco dell’analisi psicologica del Piazza introduce due esclamative che ipotizzano la sua situazione interiore e una causale («giacché») per il passaggio logico che lo induce a una decisione; il tempo verbale è l’imperfetto. A seguire, i fatti accertati sono esposti col passato remoto (da «cedette» in poi). E’ evidente la semplicità e l’essenzialità della seconda versione rispetto alle quasi due pagine dedicate ai dibattimenti interiori del Piazza in Storia¹.
Il secondo e terzo estratto della prima Colonna infame presentano la fantasia nei dettagli e la spiccata curiosità del narratore-romanziere, attenuate decisamente nella seconda Colonna infame.
Riportiamo qui di seguito un caso interessante ancora legato all’immagine del Piazza in Storia² :
Si fa venire il Piazza, e, alla presenza del Mora, gli si domanda, tutto di seguito, se è vero questo e questo e questo; tutto ciò che ha deposto. Risponde: Signor sì, che è vero. Il povero Mora grida: ah Dio misericordia! Non si trouarà mai questo. / Il commissario: io sono a questi termini, per sostentarui voi. / Il Mora: non si trouarà mai; non prouarete mai d’esser stato a casa mia. / Il commissario: non fossi mai stata in casa vostra, come vi son stato; che sono a questi termini per voi. / Il Mora: non si trouarà mai che siate stato a casa mia.
L’estratto mette in scena il confronto tra il Piazza e il Mora, il barbiere accusato ingiustamente, che Manzoni riferisce con tecnica teatrale introducendo le battute con brevissime didascalie: la sequenza non è riportata con la consueta obiettività che caratterizza la redazione definitiva, ma è sceneggiato. Lo scrittore ricorre a questa tecnica probabilmente per rompere la monotonia delle domande e contestazioni dei giudici e dei momenti di routine dell’istruttoria.
Analogamente la storia del Baruello è presentata in veste di racconto visionario, quasi fosse un romanzo noir.
Il Baruello […] cominciò una storia: che un tale (il quale era morto) l’aveva condotto dal barbiere; e questo, alzato un telo del parato della stanza, che nascondeva un uscio, l’aveva introdotto in una gran sala, dov’eran molte persone a sedere, tra le quali il Padilla […] [il personaggio] si mise a tremare, a storcersi, a gridare: aiuto! a voltolarsi per terra, a volersi nascondere sotto una tavola. Fu esorcizzato, acquietato, stimolato a dire; e cominciò un’altra storia, nella quale fece entrare incantatori e circoli e parole magiche e il diavolo, ch’egli aveva riconosciuto per padrone.
Manzoni in Storia² ha definitivamente eliminato l’invenzione ancorandosi ai dati storici e filtrandoli in mancanza di indizi certi, ma non può ignorare la sua esperienza di narratore.
Concludendo risulta illuminante il giudizio dello scrittore Riccardo Bacchelli, lettore esperto di Manzoni e molto attento alla congiunzione storia-invenzione: «la Colonna Infame, nella sua spoglia e terribilmente sobria qualità artistica e documentaria di un fatto orrendo, è una forte opera d’arte. Come tale vuol essere letta […] e come potente testimonianza, a suo modo poetica, a suo modo lirica […] delle angosce manzoniane, nobilissime e umanissime».
Manzoni, sin nell’Introduzione alla Storia della Colonna Infame, fa riferimento alle Osservazioni sulla Tortura di Pietro Verri (1777), ma, a differenza di quest’ultimo che voleva convincere dell’atrocità della pratica della tortura («non cerco di sedurre né me stesso, né il lettore, cerco di camminare placidamente alla verità. … Se la ragione farà conoscere che è cosa ingiusta, pericolosissima e crudele l’adoprar le torture, il premio che otterrò mi sarà ben più caro che la gloria di aver fatto un libro, avrò difesa la parte più debole e infelice degli uomini miei fratelli; se non mostrerò chiaramente la barbarie della tortura, quale la sento io, il mio libro sarà da collocarsi fra moltissimi superflui» .), egli ha intenzione di dimostrare la responsabilità del giudizio umano e del libero arbitro in qualsiasi situazione.
Se si affermasse che nel processo contro gli untori, svoltosi a Milano nel 1630, le atrocità commesse sugli innocenti siano da attribuire solo all’ “ignoranza dei tempi” ed alla legislazione che legittimava l’uso della tortura, si considererebbero i giudici solo strumenti attraverso i quali applicare il Diritto, togliendo loro qualsiasi possibilità di agire sugli eventi, e si arriverebbe a «negar la Provvidenza, o accusarla» . Manzoni, dunque riprende il trattato di Verri e lo legge sotto un’ottica nuova:
«Ma quando, nel guardar più attentamente a que’ fatti, ci si scopre un’ingiustizia che poteva esser veduta a quelli stessi che la commettevano … è un sollievo il pensare che, se non seppero quello che facevano, fu per non volerlo sapere, fu per quell’ignoranza che l’uomo assume e perde a suo piacer, e non è scusa, ma una colpa».
È da ricordare che il Verri scriveva mentre era scottante il dibattito circa l’abolizione della tortura: l’8 gennaio 1776 il Cancelliere di Stato di Maria Teresa trasmise la risoluzione dell’imperatrice intesa all’abolizione della tortura ed alla limitazione della pena di morte; sollecitava un pronunciamento in merito del Senato di Milano e del Consiglio di Giustizia di Mantova. Gli organi competenti di Mantova optarono per il mantenimento dello status quo, il Collegio Fiscale di Milano assunse un atteggiamento più disponibile, ma il Senato il 19 aprile si oppose alla richiesta, approvando la consulta di Gabriele Verri, padre di Pietro. L’anziano senatore riteneva la pratica indispensabile per mantenere la pubblica sicurezza, scoprire la verità, punire i colpevoli dei reati, fungere da deterrente ai disonesti; il figlio, nel trattato, argomentava invece che la tortura estorcesse confessioni ad innocenti ed addusse come prova le tristi fini di Piazza, Mora e di tutti gli innocenti giustiziati in quel processo. L’abolizione della tortura fu estesa a tutto l’impero solo con il decreto dell’11 settembre 1784 emanato dall’imperatore Giuseppe II.
Sia Verri sia Manzoni compiono un’analisi sistematica della tradizione giuridica e storiografica, una ricostruzione realistica dei fatti e delle situazioni storiche, un’indagine psicologica sui personaggi grandi e piccoli della storia; ma Manzoni, anche alla luce della politica della Restaurazione (es. le sentenze contro i patrioti intellettuali come il Pellico ed aristocratici milanesi come il Confalonieri), universalizza il suo discorso, facendo del processo agli untori lo specimen di una eterna condizione umana.
Nel Cap. I Manzoni riferisce la cronaca degli avvenimenti analogamente allo scritto del Verri, ma in alcuni punti addebita al raziocinio dei giudici la colpa di non aver saputo valutare correttamente i fatti:
«E con queste parole» le accuse rivolte al Piazza «già piene d’una deplorabile certezza, e passate senza correzione dalla bocca del popolo in quella de’ magistrati, s’apre il processo; il sospetto e l’esasperazione, quando non siano frenati dalla ragione e dalla carità, hanno la trista virtù di far prender per colpevoli degli sventurati, sui più vani indizi e sulle più avventate affermazioni».
Nel Cap. II Manzoni fa riferimento alla legislazione poco chiara circa l’impiego della tortura: lo Statuto di Milano era complicato da una quantità di grida anche fra loro contraddittorie, sottoposte ad immediate modifiche ad ogni cambiamento di governo («l’autorità de’ quali - i governatori - era anche legislativa, non valevano che per quanto durava il governo de’ loro autori»). Dal Codice di Giustiniano (VI sec.) e dalle Nuove Costituzioni (1541) di Carlo V, si evinceva che la tortura era ammessa solo se la colpa era provata, non per provare la colpa; mentre i giudici del processo del 1630 invertirono la causa con la conseguenza («l’effetto era diventato causa»). Il Verri (Cap. XII) cercava l’origine della legittimazione della pratica della tortura: ammessa durante le tirannie, motivo già valido di per sé per essere inammissibile; non consentita né dalla Bibbia, secondo la quale si deve giudicare l’imputato sulla base delle prove fornite dai testimoni; né dai Greci e Romani, se non sugli schiavi considerati non-persone; a Roma iniziò ad essere praticata durante l’impero, una volta perduta la democrazia. Nel Cap. XIII sosteneva che dal XIV secolo, si iniziò a studiare il Diritto e pullularono moltissimi pessimi criminalisti (ne citava ben ventisei ed affermava che ce ne fossero molti altri) che, mal interpretando le antiche legislazioni, legittimarono la tortura:
«è certo che niente sta scritto nelle leggi nostre, né sulle persone che possono mettersi alla tortura, né sulle occasioni, nelle quali possano applicarvisi, né sul modo da tormentare, se col fuoco o col dislogamento e strazio delle membra, né sul tempo per cui duri lo spasimo, né sul numero di volte da ripeterlo; tutto questo strazio si fa sopra gli uomini coll’autorità del giudice, unicamente appoggiato alle dottrine dei criminalisti citati. Uomini adunque oscuri, ignoranti e feroci (…) uomini, dico, oscuri e privati con tristissimo raffinamento ridussero a sistema e gravemente pubblicarono la scienza di tormentare altri uomini, con quella tranquillità medesima colla quale si descrive l’arte di rimediare ai mali de corpo umano».
Manzoni confuta tale asserzione:
«il Verri perché, dall’essere quell’autorità riconosciuta» dei criminalisti «al tempo dell’iniquo giudizio,» il processo del 1630 «induceva che ne fosse complice e in gran parte cagione; noi perché, osservando ciò ch’essa prescriveva o insegnava ne’ vari particolari ce ne dovrem servire come d’un criterio, sussidiario ma importantissimo, per dimostrar più vivamente l’iniquità, dirò così, individuale del giudizio medesimo».
A tal proposito cita svariati passi dei diversi giuristi menzionati dallo stesso Verri, i quali, pur ammettendo la tortura, la circoscrivevano ai soli casi in cui si fosse in presenza di prove schiaccianti contro l’imputato e condannavano aspramente i giudici che ordinavano tale pratica per loro sadico compiacimento. Infine riprende il giudizio verriano circa i criminalisti («Uomini adunque oscuri, ignoranti e feroci») per ribadire la responsabilità individuale di chi è preposto all’applicazione della Legge:
«E come mai era più feroce l’uomo che lavorava teorie, e le discuteva dinanzi al pubblico, dell’uomo ch’esercitava l’arbitrio in privato, sopra chi gli resisteva?»
Verri nel Cap. IV affermava che Guglielmo Piazza, dopo essere stato imprigionato, negò di essere a conoscenza delle macchie di unto rinvenute sui muri presso Porta Ticinese, ciò fu ritenuto una «bugia», perciò «fu posto ai tormenti». Il medesimo fatto è riportato da Manzoni, all’inizio del Cap. III, ma, citando alcuni criminalisti, in particolare il Farinacci (1554-1618) , dimostra che i giudici agirono contro la Legge, poiché la bugia doveva essere di una qualche rilevanza e provata. Manzoni, come il Verri, ritiene la tortura, oltre che inumana, assurda, poiché se si è certi della colpevolezza dell’imputato, è inutile averne la confessione, se si è incerti non si può rischiare di torturare un innocente; però ritiene che i giudici, in ogni circostanza, possano emettere sentenze giuste anche servendosi di leggi ingiuste, se si avvalgono di un saggio giudizio. Nel caso del processo in questione, invece essi «non cercavano una verità, ma volevano la confessione», poiché miravano ad estorcere la confessione a chi era ritenuto colpevole dall’opinione pubblica:
«Tutto Milano sapeva (è il vocabolo usato in casi simili) che Guglielmo Piazza aveva unti i muri, gli usci, gli anditi di via della Vetra; e loro che l’avevano nelle mani, non l’avrebbero fatto confessar subito a lui!»
Circa il rinnovo della tortura al Piazza il giorno seguente, Verri affermava laconicamente:
«decretò il Senato che il presidente della sanità e il capitano di giustizia, assistendovi anche il fiscale Tornelli, dovessero nuovamente tormentare il Piazza acri tortura»;
mentre Manzoni fa riferimento di nuovo a vari criminalisti per dimostrare che anche questa decisione fu presa contro il Diritto vigente, poiché la tortura si poteva rinnovare solo in presenza di nuove prove più evidenti delle precedenti.
Dal momento che il commissario di sanità non confessava, nonostante la seconda tortura, i giudici gli promisero l’impunità a patto che ammettesse di essere l’untore e svelasse i suoi complici; ma, fa notare Manzoni, anche questo decreto fu applicato scorrettamente, poiché solo al sovrano era consentito concedere l’impunità. Si evidenzia anche la malafede dei giudici che promisero l’impunità al Piazza senza un atto formale autentico, perché si sarebbe resa evidente la manipolazione della grida. Lo stesso Manzoni sottolinea che né Ripamonti, né Verri erano a conoscenza della promessa di impunità fatta dai magistrati al Piazza, anzi ritenevano che l’avesse chiesta l’imputato, il quale pur di non essere nuovamente torturato, decise di deporre una falsa confessione. E’ significativo perciò rilevare che il Verri riteneva che il trauma della tortura avesse indotto il commissario di sanità ad accusare se stesso ed il barbiere, iniziando così la lunga serie di denunce conclusasi poi con l’esecuzione di molti innocenti, invece Manzoni dimostra che tutto ciò fu causato dal miraggio dell’impunità.
Nel Cap. IV Manzoni, come il Verri, si occupa della sorte del barbiere Gian Giacomo Mora la cui bottega venne perquisita ed egli arrestato, ma evidenzia che, ancora una volta, si contravvenne alla Legge, perché non era ammesso credere ad una confessione compiuta nella promessa di impunità
«c’era in questo caso una circostanza che rendeva l’accusa radicalmente ed insanabilmente nulla: l’essere stata fatta in conseguenza d’una promessa d’impunità.»
Non contenti i giudici, vollero scovare altri complici, così accusarono il Piazza di non avere detto tutta la verità e perciò di non meritare l’impunità. Quindi egli alluse, senza nominarli, ai vicini di casa del Mora e fu torturato di nuovo applicando l’interpretazione di Giulio Claro (XIV sec.) al Diritto Romano («Affinché il detto complice faccia fede, è necessario che sia confermato ne’ tormenti, perché, essendo lui infame a cagion del suo proprio delitto, non può essere ammesso come testimonio, senza tortura» ); la Legge fu comunque infranta, poiché il commissario di sanità agì ancora sperando nella promessa di impunità; inoltre Manzoni ipotizza che la tortura a cui fu sottoposto, fu più lieve delle precedenti, non essendo registrati negli atti i lamenti del Piazza, come nelle due volte precedenti. Si sottolinea ancora la malafede dei giudici: non vollero rendersi conto che il commissario di sanità, mentre stava per essere ricondotto in cella, individuò dei complici (Baruello, Girolamo e Gaspare Migliavacca) solo per compiacerli («Ma coloro che l’avevano interrogato, potevano non accorgersi che quell’aggiungere era una prova di più che non aveva che rispondere?») e ritennero inverosimile che il barbiere, secondo quanto deposto, avesse voluto procurare un rimedio contro la peste ad una persona che conosceva solo di vista, mentre pensarono credibile che le avesse affidato l’unguento pestilenziale. Inoltre Manzoni evidenzia che il capitano di giustizia nella lettera al governatore falsò la realtà, riportando il confronto diretto fra i due imputati, affermò:
«Il Piazza animosamente gli ha sostenuto in faccia, esser vero ch’egli ricevè da lui un tale unguento, con le circostanze del luogo e del tempo»;
mentre dagli atti risultava che il commissario di sanità si limitò ad annuire alle domande dei giudici, con un semplice Signor sì, che è vero. L’autore ritiene che il Piazza, dopo il confronto, individuò Baldassarre Litta e Stefano Buzzio come testimoni che avrebbero provato la sua amicizia con il barbiere, per suggerimento dei giudici i quali «volevano un pretesto per mettere Mora alla tortura»; poiché i criminalisti spiegavano che si poteva sottoporre alla tortura chi ha negato il legame di amicizia con l’imputato, solo se tale rapporto era confermato da almeno due testimoni. Questi non fornirono particolari informazioni, ma i giudici, contravvenendo alla Legge, sottoposero il barbiere alla tortura, perché gli attribuirono due bugie: aver negato l’amicizia con il Piazza ed aver strappato il foglio su cui era scritta la composizione del rimedio alla peste. Tutte le decisioni citate mostrano, a differenza dell’analisi verriana, che i giudici scientemente agirono contro la legislazione; inoltre, dopo la confessione del barbiere, estorta con la tortura, non vollero considerare la contraddittorietà dei moventi («due cagioni, non solo diverse, ma opposte e incompatibili») addotti dai due imputati (il Piazza affermava che il Mora gli aveva ingiunto di imbrattare i muri in cambio di molto denaro; Mora invece affermava che il Piazza gli aveva chiesto di produrre l’unguento mortifero, perché, diffondendo la peste, entrambi avrebbero avuto grandi guadagni: l’uno come commissario di sanità, l’altro vendendo l’antidoto), nonostante la chiarezza del Farinacci: «la confessione non avesse valore, se non c’era espressa la cagione del delitto, e se questa cagione non era verosimile e grave, in proporzion del delitto medesimo»
Nel Cap. V, come nell’Osservazione sulla tortura, si afferma che il Piazza coinvolse nel presunto losco affare una persona grande da cui Mora avrebbe ricevuto denari, ma si sottolinea che affermò ciò «o per farsi sempre più merito, o per guadagnar tempo», poiché i giudici lo minacciarono di non concedergli l’impunità, non avendo egli affermato di aver procurato al barbiere la bava degli appestati (ennesima invenzione che era stata estorta al Mora). Istruito il processo, i giudici scelsero, esercitando il loro raziocino, per il barbiere un avvocato d’ufficio debole ed incompetente, il quale rifiutò l’incarico:
«davano per difensore uno che mancava delle qualità necessarie a un tal incarico, e n’aveva delle incompatibili! Con tanta leggerezza procedevano! Mettiam pure che non centrasse la malizia».
L’accusa che il Piazza rivolse a Giovanni Gaetano Padilla, ufficiale spagnolo figlio del Castellano di Milano, di essere la persona grande, menzionata precedentemente, fu confermata dal Mora, ma non sotto tortura, bensì durante un confronto diretto, poiché, come osserva il difensore di Padilla, «senza questo, o altro simil mezzo, non sarebbero certamente riusciti a fargli buttar fuori quel personaggio. La tortura poteva renderlo bugiardo, ma non indovino». Lo stesso barbiere, subito dopo il confronto, si contraddisse: dalle testimonianze raccolte dall’avvocato di Padilla, si evinceva che il Mora «protestava di non raccordarsi di non haver forsi mai parlato con alcuno spagnuolo, et che se li havessero mostrato detto Sig. Don Giovanni, non l’haverebbe né anche conosciuto». Tale asserzione fu riferita da un prigioniero che conversava con un servitore dell’autorità di Sanità preposto a sorvegliare il barbiere, perciò Manzoni si chiede:
«ma vogliam noi credere che i giudici, i quali avevan messo, o lasciato mettere per guardia al Mora un servitore di quell’auditor così attivo, così investigatore, non risapessero, se non tempo dopo, e accidentalmente da un testimonio, quelle parole così verisimili, dette senza speranza, un momento dopo quelle così strane che gli aveva estorte il dolore?»
Come nell’analisi verriana poi si riporta il carosello di accuse e contro-accuse che i due imputati lanciarono contro altri innocenti, a loro volta torturati, sino all’atroce esecuzione dei presunti colpevoli ed all’erezione della colonna infame.
Nel Cap. VI si affronta l’interrogatorio di Baruello, (accusato sia dal Piazza sia dal Mora i quali lo individuavano l’uno come il mandante dell’altro e viceversa), il Verri focalizzava l’attenzione sulla crudeltà dalle torture cui era sottoposto, riportandone i lamenti ed i gemiti, Manzoni invece sottolinea che l’imputato «sostenne bravamente i tormenti» ed accusò il Padilla solo quando gli fu promessa l’impunità; si ripeté dunque la prassi, contro la Legge, applicata per il Piazza. Inoltre i moventi addotti all’ufficiale spagnolo erano palesemente inverosimili e contraddetti dallo stesso imputato: prima affermò che Padilla avesse voluto contagiare i milanesi per vendicare gli insulti rivolti a Don Gonzalo de Cordova, poi per «farsi padrone di Milano». Inoltre, nonostante il figlio del Castellano potesse provare che in quei giorni non si trovava in città, contro di lui fu istruito il processo che si concluse solo nel maggio 1632, con la sentenza di innocenza. A questo punto, Manzoni mostra la sua indignazione nel constatare che, pur assolvendo colui che era stato individuato come il mandante supremo delle unzioni, i giudici non ammisero di avere condannato degli innocenti e la colonna infame rimase eretta sino al 1778:
«Assolvendo insomma, come innocente, il capo, conobbero» i giudici «che avevan condannati come complici degl’innocenti? Tutt’altro, almeno per quel che comparve in pubblico; il monumento e la sentenza rimasero; i padri di famiglia che la sentenza aveva condannati, rimasero infami; i figli che aveva resi così atrocemente orfani, rimasero legalmente spogliati».
In conclusione della narrazione dei fatti, dunque, si accusa ancora la mala fede dei magistrati, mentre il Verri (Cap. VIII) esclamava: «Tanti malori poté cagionare la superstiziosa ignoranza!»
Nel Cap. VII si riprende quanto annunciato nell’introduzione: la polemica contro gli storici che ricostruirono i fatti senza ricercare la verità attraverso un’analisi critica, ma affidandosi alle notizie tramandate («nel caso nostro, c’è parso cosa curiosa il vedere un seguito di scrittori andar l’uno dietro all’altro come le pecorelle di Dante, senza pensare di informarsi d’un fatto del quale credevano di dover parlare»). Il primo ad essere menzionato è il Ripamonti che, in diversi passi del De Peste , «non solo non nega espressamente la reità di quest’infelici (…), ma pare più d’una volta che la voglia espressamente affermare»; Manzoni imputa tale condotta alla viltà dello storico di fronte all’opinione pubblica e ne cita un’espressione: «mettersi in guerra con tanti sarebbe un’impresa dura e inutile; perciò, senza negare, né affermare, né pender più da una parte che dall’altra, mi ristringerò a riferir l’opinioni altrui». Anche Verri (Cap. VII) ne aveva dato un simile ritratto («Anzi lo stesso Ripamonti, che di proposito scrisse la storia di quella pestilenza, per timidità piuttosto che per persuasione sostenne l’opinione degli unti malefici») e ricordava che definiva coloro i quali morivano sotto tortura: strozzati dal demonio. Il Manzoni poi prosegue nella carrellata di storici che hanno tramato una visione distorta degli eventi (nominando anche il Muratori ed il Giannone ), per riconoscere al Verri il primato di aver dichiarato la reale innocenza dei condannati («Venne finalmente Pietro Verri, il primo, dopo cento quarantasett’anni, che vide e disse chi erano stati i veri carnefici, il primo che richiese per quegli innocenti così barbaramente trucidati, e così stolidamente aborriti, una compassione, tanto più dovuta, quanto più tarda»), ma egli si limitò a riconoscere colpevoli delle atrocità commesse l’ignoranza dei tempi e la pratica della tortura, senza accusare chiaramente i magistrati, per un rispettoso timore verso il Senato milanese del quale il padre Gabriele allora era presidente («A ogni modo, Pietro Verri non era uomo da sacrificare a un riguardo di quella sorte la manifestazione d’una verità resa importante dal credito in cui era l’errore, e più ancora dal fine a cui intendeva di farla scrivere; ma c’era una circostanza per cui il riguardo diveniva giusto. Il padre dell’illustre scrittore era presidente del senato. Così è avvenuto più volte, che anche le buone ragioni abbian dato aiuto alle cattive, e che, per la forza dell’une e dell’altre, una verità, dopo aver tardato un bel pezzo a nascere, abbia dovuto rimanere per un altro pezzo nascosta»).
In conclusione è da notare la differenza di stile dei due autori: il Verri dava largo spazio alle descrizioni della pratica della tortura, riportava i lamenti dei condannati, si serviva di parecchie esclamazioni, cercava di coinvolgere emotivamente il lettore; il Manzoni invece adotta un’equilibrata eloquenza, per una rigorosa contestazione senza concitazione, così da argomentare e dimostrare pragmaticamente la propria tesi, lo scritto diventa una sorta di inchiesta che, attraverso una distaccata riflessione, descrive il fatto, evoca il Diritto, verifica le prove e confuta le obiezioni.
«La più dolorosa e inquieta e acuta meditazione di Alessandro Manzoni cattolico».
È in questo modo che Sciascia definisce la Storia della colonna infame. E in questa definizione possiamo anche vedere la motivazione principale sia del suo insuccesso iniziale che del suo successo postumo. Perché la Storia della colonna infame non ebbe grande riscontro tra i suoi contemporanei?
Per capirne i motivi, bisogna anzitutto inquadrare il contesto storico in cui nasce l’opera di Manzoni. Egli infatti scrive dopo i moti del 1821. Si apre così un periodo di forti repressioni, procedure giudiziarie, processi contro i carbonari; inoltre ci si rende conto che i metodi utilizzati sono gli stessi del 1789 e del consolato di Napoleone. Il sistema giudiziario non è più dunque figlio di una politica “illuminata”, ma gli austriaci gestiscono i processi con procedure non legalmente corrette e attribuendo pene spesso non conformi al reato in questione. Questo è accaduto non per scarse conoscenze giuridiche, pregiudizi, superstizioni o inciviltà, ma per eliminare al più presto possibile il dissenso, come per i rivoluzionari del 1793 e Napoleone. L’istruttoria, le sentenze improvvise e indiscutibili non sono garanzie per gli imputati, anche se apparentemente sembrano corrette. E così era stato anche nel 1630. Manzoni dunque vive in un periodo storico, in cui si susseguono velocemente numerosi eventi che portano con sé notevoli cambiamenti. A partire dalla rivoluzione francese nel 1789 si ha il crollo degli antichi regimi, la presa al potere di Napoleone, la Restaurazione e poi appunto una serie di persecuzioni contro gli oppositori al nuovo sistema politico. Gli eventi, mostrandosi così rapidamente, non hanno lasciato modo agli uomini, dai più colti al popolo, di poterli cogliere, di prenderne atto. Così l’unica possibilità per poter controbattere i fatti è di agire altrettanto velocemente, in maniera avventata, attraverso decisioni realizzate in poco tempo, senza riflessioni profonde alla base. Il processo agli untori, trattato nella Colonna Infame, deriva proprio sull’onda di questo periodo storico “acceso”. Quest’ultimo infatti viene messo a confronto con l’anarchia popolare, la dissoluzione dei poteri e dei diritti dei cittadini e l’aumento esponenziale di esecuzioni e torture, tratti presenti nel 1630.
Il bisogno del “vero” quindi continua a farsi sentire nell’animo del Manzoni. La Colonna Infame infatti rappresenta il culmine della sua ricerca della verità attraverso la scrittura. Essa propone infatti un’ottica non romanzesca, ma storiografica. Osservare gli errori del passato non significa non interessarsi dei problemi del presente, anzi è esattamente il contrario. Si parla a proposito del concetto di posterità. Dal passato infatti si possono trarre lezioni importanti, coglierne gli errori, affinché si possano risolvere i problemi del presente e, di conseguenza, costruire un futuro migliore. Per questo viene di aiuto il caso del processo agli untori, perché, come già affermato in precedenza, mostra caratteri affini alla situazione storica dell’autore. Manzoni quindi si è posto la questione a proposito del genere letterario che possa degnamente trattare un periodo storico, come quello del 1630, costituito da eventi ancora immersi nel dubbio o divisi da interpretazioni diverse, senza perdere di vista l’obiettivo principe della sua opera, ossia cercare e mostrare la verità. Infatti la Colonna Infame è stata definita come un’opera di “crisi”. Come sostiene Mino Martinazzoli «la Storia della colonna infame va situata in un passaggio di vera riflessione, e, dunque, in una crisi […]. Occorre, semmai, una profondità di lettura capace di stringere, appena dietro la compostezza della prosa i fili assai tesi della passione manzoniana». Il risultato sarà alla fine un’opera di «alta unitarietà», secondo Maurizio Cucchi, «un’unitarietà non propriamente classificabile, non facilmente definibile: di ordine, se vogliamo, etico-storico-poetico, che non sollecita una netta distinzione interna tra verità storica e tensione poetica, tra l’ “assertimento storico” e l’ “assertimento poetico” […]. Ma la Colonna Infame non voleva essere opera di genere misto e in essa l’autore voleva praticare il vero distinto dal verisimile […]. Lo scrittore intanto abbandona il precedente stile più distesamente narrativo […], l’invenzione veniva decisamente esclusa» . Pertanto ciò che Manzoni consegna al pubblico una relazione, un racconto-inchiesta, un saggio storiografico, in cui «gli strappi narrativi, come brevissime sequenze o fotogrammi emozionanti che s’incidono nella memoria, acquistano una singolare, ulteriore potenza , nel “vero” del loro essere prelevati direttamente dagli estratti del processo» . Secondo Giuseppe Rovani, Manzoni dona ai posteri un’opera «rinnovata e rivestita […], una prosa nuova e non mai tentata in Italia, la prosa versatile che percorre tutti i toni e può riflettere l’indefinita varietà della vita […], pur fece qualche scoperta anche in quelle materie che uscivano dalla sfera letteraria propriamente detta, mostrando quanto profondo acume avesse nelle disquisizioni di giurisprudenza […], storia[…], filosofia morale e nelle materie teologiche». In lui riconosce «il genio e la conoscenza della storia». Infatti ciò che contraddistingue l’opera del Manzoni è proprio per il fatto che l’autore «gettò sguardo più acuto sull’ignoranza dei tempi e su quella barbarie della giurisprudenza; così dopo una esplorazione lunga e diligente, uscì con l’annuncio di una scoperta […], che la giurisprudenza […] non era barbara in tutto» . Manzoni dunque, spaziando in diverse discipline, riesce a realizzare un’indagine ampia, completa, attenta, scrupolosa e meditata, senza lasciare nulla in sospeso, ma andando a scavare a fondo le ragioni ultime della questione.
Ma, per avere una visione così acuta, a Manzoni non è bastato l’utilizzo esclusivo della ragione. Ciò che ha dato una spinta in più al suo lavoro è la sua Fede Cattolica. Attraverso un confronto con l’opera di P. Verri, Osservazioni sulla tortura, possiamo mettere in evidenza questa “colonna portante” dell’opera manzoniana. Nella premessa alla Colonna Infame si nota come, un altro dei motivi per cui è stato composto questo racconto-inchiesta, sia stato proprio il fatto che, rispetto allo scritto del Verri, «quantunque il soggetto» il processo agli untori del 1630 «fosse già stato trattato da uno scrittore giustamente celebre[…], gli pareva che potesse essere trattato di nuovo con diverso intento» . Infatti l’analisi del Verri converge a colpevolizzare la giurisprudenza, le norme così come si presentavamo, perché il fine del suo scritto tocca proprio quest’ambito. Ciò che preme maggiormente al Verri, dato il contesto storico turbolento che si trova ad affrontare pure lui, ma diverso dal Manzoni, riguarda la volontà di cambiare le leggi. Per questo la sua analisi si ferma solo “alla superficie”, ossia all’apparenza delle norme, perché a lui interessa solo questo aspetto. Verri, da illuminista quale lui è, è mosso dalla passione verso l’uomo in quanto tale: dunque il suo obiettivo è esclusivamente l’abolizione della tortura nel Lombardo- Veneto, alla legge in sè, perché scalfisce la dignità umana. Manzoni invece va più a fondo. «Manzoni comincia là dove Verri finisce», sottolinea giustamente Mino Martinazzoli. Egli infatti, ricercatore e difensore del “vero” quale lui è, indaga le reali ragioni che hanno portato all’applicazione da parte dei giudici di tali leggi. Manzoni scopre che in realtà, al contrario di quanto sostiene Verri, la giurisprudenza vigente a quell’epoca non permetteva un ampio utilizzo della tortura, ma anzi cerca di limitarlo. Non sono ingiuste le leggi. Non basta dunque eliminare la norma. La questione che solleva Manzoni trova le sue radici in profondità, nella natura umana. Nella premessa all’opera egli sottolinea che «l’illustre scrittore suddetto»(Pietro Verri) non vede«mai, in nessun caso, l’ingiustizia personale e volontaria dei giudici». Ecco ciò che Manzoni ha voluto aggiungere all’opera del Verri:
«Dio solo ha potuto vedere se que’ magistrati, trovando i colpevoli di un delitto che non c’era, ma che si voleva, furon più complici o ministri d’una moltitudine che, accecata, non dall’ignoranza, ma dalla malignità e dal furore, violava con quelle grida i precetti più positivi della legge divina, di cui si vantava seguace. Ma la menzogna, l’abuso del potere, la violazion delle leggi e delle regole più note e ricevute, l’adoprar doppio peso e doppia misura, sono cose che si possono riconoscere anche dagli uomini negli atti umani; e riconosciute, non si posson riferire ad altro che a passioni pervertirci della volontà» .
Manzoni quindi punta l’accento sul libero arbitrio dell’uomo. Anche se quei giudici, di fronte all’incalzare degli eventi, furono portati ad agire e ad intervenire il più presto possibile, per eliminare i dissensi, con un’interpretazione erronea delle leggi, ciò non giustifica il loro operato a favore dell’ingiustizia. Infatti come sottolinea Carla Riccardi «alla ragione umana non sfugge, pur nei condizionamenti culturali, sociali, politici, il dovere morale di valutare senza pregiudizio il passato come il presente. Nell’osservare i meccanismi che determinano il male nel mondo, i fatti atroci dell’uomo contra uomo non ci dobbiamo fermare all’opinione pregiudicata, all’ignoranza, alla stortura degli intelletti, che ci fanno vedere la natura umana come inclinata inesorabilmente al male, ma considerare l’ignoranza morale che deriva dalla volontà di credere bene il male» . Non è dunque l’arretratezza delle leggi, l’ignoranza dell’epoca o il contesto storico problematico, perché altrimenti, sempre secondo Carla Riccardi, «esso sarebbe giustificato come prodotto di un male metafisico, che è parte della natura umana e che potrebbe frenare solo da un sistema sociale di geometrica perfezione, risultato dalle illuminazioni illuministiche; ma se si dimostra che quell’ingiustizia poteva essere veduta da quelli stessi che la commettevano, che questi trasgredivano le regole ammesse anche da loro, che compivano azioni opposte ai lumi che non solo c’erano alo loro tempo, ma che essi medesimi in circostanze simili, mostraron d’avere, si pone al centro la volontà deviata, la passione pervertita da un’ignoranza che l’uomo assume e perde a suo piacere, e non è una scusa, ma una colpa, e si sottintende l’estraneità di un’etica non fuori di noi, ma dentro di noi» . Quindi, nel pensare che «cambiare le istituzioni, riformare la macchina della giustizia, eliminerebbe con assoluta sicurezza il male del mondo», ci si muove «senza tener conto che le buone, come le cattive istituzioni, non si applicano da sé». Per cui bisogna considerare la «variabile umana per cercare le cause del male fatto da uomini ad altri uomini, bisogna esplorare la zona opaca delle ragioni, delle motivazioni e dei fini per cui persone con vite biografiche, situate, determinate, scelgono e agiscono» .Manzoni si muove dunque in quest’ottica: la semplice eliminazione dell’errore non porterà ad un cambiamento duraturo. Per un reale miglioramento futuro, è necessario capire le ragioni dell’errore, scavare a fondo, per estirpare le sue radici e non permettergli, quindi, di avere più linfa per continuare a vivere. Verri si ferma all’apparenza, Manzoni invece scopre il cuore della questione.
Ed è proprio per queste peculiarità che la Colonna Infame non viene accettata dal pubblico degli anni Quaranta dell’Ottocento. Ma sono proprio questi motivi, scatenanti l’insuccesso iniziale, che invece saranno rivalutati e apprezzati successivamente.
Uno dei motivi per cui l’opera non fu apprezzata riguarda il gusto del pubblico, il quale, dopo l’uscita de I promessi sposi, si aspettava la pubblicazione sempre di un nuovo romanzo, mentre abbiamo visto come la Colonna Infame appartenga a tutt’altro genere.
A questo proposito Rovani afferma che l’insuccesso deriva dal fatto che «fu l’essere creduto dal pubblico impaziente, per quasi vent’anni, che dovesse riuscire una degna sorella de I Promessi Sposi, che fosse per conseguenza un’opera d’arte fatta per l’immaginazione e per il cuore. Il pubblico, che s’era preparato a leggere un romanzo, si riputò dunque ingannato quando si trovò davanti una disquisizione legale, una difesa criminale» . Inoltre, secondo Carla Riccardi, «non interviene direttamente nelle presente, ma universalizza, facendo del processo agli untori lo specimen di una eterna condizione umana» , quando invece abbiamo constato come alla base della sua ricerca vi sia una riflessione ben più ampia e profonda, riguardo l’idea di errore e di passato, come guida per il futuro (il concetto di posterità). E a proposito di questo si inserisce proprio in un contesto culturale, come quello milanese, con una visione completamente opposta alla sua. Essa infatti è rivolta esclusivamente a mostrare fiducia verso il presente e il futuro. Infine sempre secondo Rovani «in quanto alla storia della Colonna Infame era ormai tanto nota da non valere la pena di parlarne ancora; che il Verri ne avea già cavato tutto il partito possibile per uno scopo filosofico e pratico», mentre invece abbiamo notato come ciò che ha portato Manzoni a scrivere quest’opera vi sia un ben altro «diverso intento».
E sono invece proprio tutti questi aspetti che rendono l’opera preziosa come sottolinea Rovani: «eppure la Colonna Infame non è per nulla inferiore alle altre opere di Manzoni, anzi è preziosa perciò che rivelò un altro lato del suo ingegno e della sua dottrina, e la profonda sua acutezza nelle materie giuridiche; preziosissima poi perché dalla novità dell’intento ch’egli s’era proposto fu condotto a fare, quasi diremmo, una scoperta» . Inoltre «adempì alle lacune che lasciò la storia». Cita il De Magri «il quale nel render conto della Colonna Infame […] sembrò di poter cogliere dal fatto miserando del processo agli untori, conclusioni e ammaestramenti nuovi all’ intutto e neppur sospettati» . Lo stesso Giancarlo Vigorelli sottolinea proprio il contributo di Rovani nella rivalutazione della Colonna Infame, il primo dopo dieci anni di totale indifferenza, ed emerge con la sua opera La mente di Alessandro Manzoni del 1858. Egli, inoltre, avrebbe trasmesso al Dossi, a Lucini, al Tessa e a Gadda una propensione alla Colonna Infame. Più vicina nel tempo, sempre tra gli studiosi che hanno riscoperto e apprezzato l’opera, Vigorelli indica Marcella Gorra nel suo Manzoni (1958), la quale ha criticato come la Colonna Infame fosse stata ingiustamente messa da parte dagli storici della critica.
Sempre secondo Vigorelli, di notevole importanza sono le figure di Sciascia e Moravia. Nell’introduzione alla Colonna Infame Sciascia debutta con un breve excursus storico a proposito dell’influenza della superstizione nella società. Egli sottolinea che la credenza di malattie, quali peste e colera, venissero sparse attraverso il contatto fisico è antica. Ci testimonia questo Livio il quale ci indica che, nel 428 sotto l’impero di Claudio Marcello e Caio Valerio, si attribuivano le pestilenze a veleni diffusi da matrone romane. Poi fino al XIII e XIV secolo non troviamo traccia di queste motivazioni, se non il volere di Dio o l’influsso degli astri e la propagazione delle malattie avveniva per scambi e viaggi. In seguito invece ritorna il primo tipo di credenza. Sciascia sostiene che ciò è accaduto «nel momento in cui veniva ad essere constatata e conseguentemente dot trinata la separazione della politica dalla morale. Quel che sappiamo quasi con certezza, qui ed ora è che nel secolo XIV nessuno aveva il sospetto di una peste manufatta e diffusa, […] per decisione del potere (visibile o invisibile) o di una associazione cospirativa contro il potere o un gruppo delinquenziale che si propone nella calamità più facile depredazione; mentre nel secolo XVII un tale sospetto non solo viene formulato, ma arriva alla certezza medica e giuridica» . E a Milano nel 1630 si può riscontrare una situazione simile: «poiché i cattivi governi, quando si trovano di fronte a situazioni che non sanno o non possono risolvere e nemmeno si provano ad affrontare hanno sempre avuto la risorsa del nemico esterno cui far carico ad ogni disagio e di ogni calamità, l’opinione dei milanesi fu mossa contro la Francia, allora nemica della Spagna dei cui domini lo Stato di Milano era parte. […] Tuttavia la squallida personalità di costoro fece sì che l’opinione dei più ripiegasse sulla cospirazione non politica (interna o esterna) ma delinquenziale: e che il gruppetto degli untori altro non mirasse, seminando la morte, che al disordine, alle ruberie e ai saccheggi» . Seppure vigeva questa mentalità, Sciascia fa notare, grazie agli esempi di Federico Borromeo e del Ripamonti, che nonostante tutto si poteva riuscire a vedere in essa la falsità di cui era portatrice. Infatti egli si sente più vicino alle posizioni del Manzoni che al Verri, perché riconosce che in questi processi agli untori l’unica parte principale è stata giocata essenzialmente dalle scelte di ogni giudice: «Pietro Verri guarda all’oscurità dei tempi e alle tremende istituzioni, Manzoni alle responsabilità individuali» . Poi l’analisi di Sciascia si volge ad un confronto tra il processo agli untori e i campi di sterminio nazisti. In questo modo, oltre a mostrare la sua affinità di pensiero con Manzoni, perché come quest’ultimo nella Colonna Infame utilizza un fatto del passato per leggere e capire gli eventi del presente, per un cambiamento futuro, sostiene l’idea del libero arbitrio manzoniano come vera origine a cui bisogna guardare per capire a fondo la storia e i suoi protagonisti: «che quei giudici erano onesti e intelligenti quanto gli aguzzini di Rohmer erano buoni padri di famiglia, sentimentali, amanti della musica, rispettosi degli animali. Quei giudici furono burocrati del Male: e sapendo di farlo» . A proposito invece di Federico Borromeo, «quanto a inganni ed artifici di principi e re stranieri per diffonderlo, ed a congiure per devastare Milano, egli nega che ve ne siano stati. Circa l’unto venefico per spargere la peste, le misture avvelenate, i venefici, egli lascia in dubbio se realmente ve ne furono, ovvero se li abbia sognati la vanità e i timori degli uomini […]; ciò solo è sicuro ed evidente, che la peste afflisse Milano per voler celeste, affinché i cittadini si emendassero» . Questo è ciò in cui crede e che fu riportato dal Ripamonti. In seguito quest’ultimo continua, mettendo in chiaro la sua posizione, simile a quella del cardinale. Anche lui sostiene che «furonvi molti i quali per iscusarsi della loro riprovevole negligenza, divulgavano che venne loro attaccata la peste cogli uguenti, mentre la contrassero coll’alito od il contatto» . Comunque, sebbene permangono dubbi nei due personaggi, dovuti inevitabilmente al contesto storico-sociale di appartenenza, Sciascia constata che queste persone non cedettero alle unzioni. E si chiede quanti si fossero trovati nella loro stessa posizione. Non è dunque ancora una volta l’ignoranza dei tempi la causa dei mali dell’epoca. Ma con questi esempi mette bene in chiaro la novità assoluta dell’analisi manzoniana. Nell’ultima parte della sua introduzione Sciascia si dedica alla ricezione dell’opera. Egli sostiene che Manzoni non poteva comporre un romanzo come I promessi sposi, sebbene le aspettative del pubblico fossero in questa direzione: «il componimento misto di storia e d’invenzione gli sarà parsa inadeguata e precaria; e la materia dissonante al corso del romanzo, non regolabile ad esso, sfuggente, incerta, disperata» . Lo stesso Manzoni riconosce in anticipo l’insuccesso che avrebbe riscosso la sua opera. Sciascia sottolinea questo aspetto: Manzoni «conosceva benissimo gli italiani» e già di fronte alla mole sarebbero rimasti delusi, per non parlare del contenuto: «non c’era mai stato niente di simile in Italia». Nonostante tutto alcuni suoi contemporanei apprezzarono l’operato, quali Adolphe de Circout, Lamartine e Augustin Thierry. E lo stesso Sciascia ne riconosce il valore, proprio per la sua visione ampia, che abbraccia più epoche, in quanto tratta «quel che è sembrato vero e importante alla coscienza», divenendo così un’opera della «più bruciante attualità».
Anche Moravia riconosce questo motivazione nell’insuccesso iniziale dell’opera, che invece, ora, è motivo del suo successo: «proprio quei motivi che lo fecero a suo tempo condannare dallo storicismo ottocentesco, ne formarono ora il successo […]. Il Manzoni non era uno storico, bensì un poeta e un narratore: ma i lettori di oggi gli sono egualmente grati di aver fatto la “sua” storia. Cioè di aver dato alla sua passione etica anche un’altra faccia oltre quella che già conoscevamo nei Promessi Sposi. Tra i critici ottocenteschi che giudicarono la Colonna Infame e il pubblico di oggi che le ha fatto buon viso, è il pubblico che ha ragione. Altresì se ne potrebbe dedurre che oggi non c’interessa tanto la verità, quanto chi, anche travisandola, la dice: e il modo soprattutto come la dice […]» . A questo proposito parla di autobiografia, ossia «un riferimento […] costante ai fatti che cadono sotto il controllo diretto della sensibilità dello scrittore. […] questo modo consapevole e determinato di riferire ogni cosa alla propria sensibilità è nuovo. […] oggi la coscienza molto lucida, che soltanto la sensibilità possa giustificare un’attenzione, restringe singolarmente il numero delle cose cui l’attenzione stessa si rivolge» . E l’opera manzoniana è «espressione indistruttibile di un’ispirazione personale e autobiografica. Così si torna all’autobiografia; ma non senza avere accertato quanto essa possa allargarsi ed arricchirsi. […] per tale allargamento e arricchimento occorrono ben altri ausili che quelli della sola sensibilità e che, insomma, non si dà grande arte senza un corrispondente sistema di pensiero. Come appunto nel Manzoni» .
In conclusione possiamo affermare, rifacendoci a Vigorelli, che essenzialmente «la più dolorosa e inquieta e acuta meditazione di Alessandro Manzoni cattolico» non fu recepita proprio per «il rifiuto di quel santo Vero che secolarmente ognuno e tutti, i nostri letterati arcadicamente svisarono sino ad eliminarlo, preferendogli[…] l’italica dissimulazione onesta» . E, citando il Laderchi, mentre risponde a una lettera del Manzoni, il motivo risiede nel fatto che «forse non c’è mai stato tanto bisogno di scrittori che ai doni dell’ingegno uniscano, come Lei, l’amore della verità e la rettitudine delle intenzioni, […] nell’epoca forse la più antifilosofica che ci sia mai stata, poiché […] schiva la ricerca delle più alte cagioni» . Ed è quindi proprio per questo che l’opera del Manzoni viene rivalutata, riconoscendo il valore alla luce della stessa personalità dell’autore, come sottolinea Rovani: «è notevole quel suo coraggio di uscir a combattere un’opinione appunto allora che è fatta universalissima e di mostrare che tutti hanno torto nel momento che tutti sono persuasi che non è più possibile non aver ragione […]; al coraggio si confedera la santità del proposito, quando è provocato dalla convinzione coscienziosa» .
EDIZIONI UTILIZZATE DELLA STORIA DELLA COLONNA INFAME
A. Manzoni, Storia della colonna infame, a cura di G. Barni, Milano, Rizzoli, 1961.
—, Storia della colonna infame, con una nota di L. Sciascia,Palermo, Sellerio, 1981.
—, Storia della colonna infame, a cura di C. Riccardi, Milano, Mondadori, 1984.
—, Storia della colonna infame, a cura di M. Cucchi, Milano, Feltrinelli, 1992.
—, Storia della colonna infame, con un saggio introduttivo di M. Martinazzoli,Lecco, Periplo, 1997.
—, Storia della colonna infame, edizione critica e commento a cura di C. Riccardi, Milano, Centro Nazionale di Studi Manzoniani, 2002 Milano.
STUDI SULLA STORIA DELLA COLONNA INFAME
A.MAZZA, La prima «Colonna infame», in Studi sulle redazioni de «I Promessi Sposi», Milano, Edizioni Paoline, 1968.
M. PUPPO, Poesia e verità. Interpretazioni manzoniane, Messina, D'Anna, 1979.
G. ROVANI, La mente di Alessandro Manzoni, Milano, Libri Scheiwiller, 1984.
A. MORAVIA, Opere 1927-1947, a cura di G. Pampaloni, Milano, Bompiani, 1986, p. 1028.
R. LUPERINI, La scrittura e l’interpretazione. Dal Barocco al Romanticismo, Firenze, Palumbo, 2001
C. SEGRE, C. MARTIGNONI, L’età napoleonica e il romanticismo, Milano, Edizioni scolastiche B. Mondadori, 2001, p. 308
C. RICCARDI, La memoria letteraria. Il secondo Ottocento, Firenze, Le Monnier, 2003
PER IL CONFRONTO CON VERRI
P. VERRI, Osservazioni sulla Tortura, a cura di G. Barbarisi, Milano, Istituto di Propaganda libraria, 1993.
Cfr. Introduzione in A. MANZONI, 1984, op. cit., p. XLVII
A. MANZONI, 1984, op. cit., p. 3
C. SEGRE, C. MARTIGNONI, L’età napoleonica e il romanticismo, Milano, Edizioni scolastiche B. Mondadori, 2001, p. 308
A. MANZONI, 1984, op. cit., p. 6
Introduzione, cit. pag. LVIII-LIX
Introduzione in P. VERRI, Osservazioni sulla Tortura, a cura di G. Barbarisi, Milano, Istituto di Propaganda libraria, 1993.
Introduzione in A. MANZONI, Storia della colonna infame, edizione critica e commento a cura di C. Riccardi, Milano, Centro Nazionale di Studi Manzoniani, 2002 Milano.
Ibid.
Introduzione inA. MANZONI, 2002, op. cit.
Praxis et Theoricae criminalis .
G. Claro, Sentetiarum recepturam.
Praxis et Theoricae criminalis.
De peste Mediolani quae fuit anno 1630 (1640).
Del Governo della peste e delle maniere per guardarsene (1721).
Dell' istoria civile del regno di Napoli (1723).
Nota in A. MANZONI, Storia della colonna infame, con una nota di L. Sciascia,Palermo, Sellerio, 1981, p.176.
La storia infinita in A. MANZONI, Storia della colonna infame, con un saggio introduttivo di M. Martinazzoli,Lecce, Periplo, 1997, p. 12.
Introduzione in Storia della colonna infame, a cura di M. Cucchi, Milano, Feltrinelli, 1992, p.VIII.
Ivi, p. X.
G. ROVANI, La mente di Alessandro Manzoni, Milano, Libri Scheiwiller, 1984, p.530.
Ivi, p.531.
A. MANZONI, 1992, op. cit. ,p. 3.
Ivi, pp. 5-6.
Introduzione in A. MANZONI, 2002, op. cit., p. XLVII-XLVIII.
Ivi, p. XLIX.
Ivi, p. L.
G. ROVANI, op. cit., p. 544.
A. MANZONI, 2002, op. cit.,p. LXXII.
G. ROVANI, op. cit., pp. 544-545.
Ivi, p.545.
Nota in A. MANZONI, 1981, op. cit., p. 174.
Ivi, p. 175.
Ivi, p. 176.
Ivi, p. 177.
Ivi, p. 178.
Ivi, p.179.
Ivi, p. 186.
A. MORAVIA, Opere 1927-1947, a cura di G. Pampaloni, Milano, Bompiani, 1986, p. 1028.
Ivi, pp. 1026-1027.
Ivi, p. 1029.
Nota in A. MANZONI, 1981, op. cit.., p. 176.
G. Vigorelli in A. MANZONI, 2002, op. cit., p. XXVI.
Ibidem.
G. ROVANI, op. cit.,pp. 563-564.
Fonte: http://attach.matita.net/ziorufus/file/riccardi/2009/Tesina%20Storia%20della%20colonna%20infame%5B1%5D.doc
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