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CAP. XXXI
La peste che il tribunale della sanità aveva temuto che potesse entrar con le bande alemanne nel milanese, c’era entrata davvero, come è noto; ed è noto parimente che non si fermò qui, ma invase e spopolò una buona parte d’Italia.
Manzoni inizia il capitolo richiamandosi a qualcosa che il lettore dovrebbe sapere bene, e cioè che la peste portata dai Lanzichenecchi si propagò in buona parte dell’Italia e “la spopolò”.
Condotti dal filo della nostra storia, noi passiamo a raccontar gli avvenimenti principali di quella calamità; nel milanese, s’intende, anzi in Milano quasi esclusivamente: ché della città quasi esclusivamente trattano le memorie del tempo, come a un di presso accade sempre e per tutto, per buone e per cattive ragioni. E in questo racconto, il nostro fine non è, per dir la verità, soltanto di rappresentar lo stato delle cose nel quale verranno a trovarsi i nostri personaggi; ma di far conoscere insieme, per quanto si può in ristretto, e per quanto si può da noi, un tratto di storia patria più famoso che conosciuto.
Precisa anche che vuole raccontare come la pestilenza si diffuse e quali furono i suoi effetti terribili non solo per creare un’ambientazione per la storia dei suoi “eroi”, ma anche e soprattutto per far conoscere davvero al lettore un evento di cui molti hanno sentito parlare (“famoso”) superficialmente, ma che nessuno o quasi conosce bene (“conosciuto”). Manzoni tiene alla verità più che ad ogni altra cosa, e una delle cose che non tollera è quando la gente si accontenta di spiegazioni superficiali, che sono quasi sempre false e ingannevoli. La verità storica, sembra dirci, è preziosa perché utile: aiuta a non ripetere gli errori passati. Nel gestire l’emergenza della peste furono fatti molti errori da parte delle autorità e anche della gente comune; questi errori non dovrebbero più ripetersi. Manzoni è uno scrittore che desidera scrivere un’opera utile alla società.
Poi Manzoni fa alcune osservazioni sulle fonti storiche di cui si è servito, cioè i resoconti che alcuni testimoni diretti dell’epoca hanno lasciato a noi posteri: una di queste, spesso citata è quella del Tadino, una persona che fu direttamente coinvolta nella gestione dell’emergenza, e quindi molto informata ed attendibile. Noi tralasciamo questa parte, limitandoci a sottolineare ancora una volta quanto lo scrittore tenga a offrire al lettore indicazioni affinché egli possa documentarsi sui fatti. Manzoni sembra dire: lettore, non sei un bambino, non devi limitarti a credere a me: se vuoi, puoi andare tu stesso a leggere le fonti di cui io mi sono servito.
Per tutta adunque la striscia di territorio percorsa dall’esercito, s’era trovato qualche cadavere nelle case, qualcheduno sulla strada. Poco dopo, in questo e in quel paese, cominciarono ad ammalarsi, a morire, persone, famiglie, di mali violenti, strani, con segni sconosciuti alla più parte de’ viventi. C’era soltanto alcuni a cui non riuscissero nuovi: que’ pochi che potessero ricordarsi della peste che, cinquantatré anni avanti, aveva desolata pure una buona parte d’Italia, e in ispecie il milanese, dove fu chiamata, ed è tuttora, la peste di san Carlo.
Dopo il passaggio tremendo delle truppe dei Lanzichenecchi, insomma, in alcune località lombarde comincia a morire qualcuno per mali misteriosi, che nessuno sa riconoscere se non i pochi che sono abbastanza vecchi per ricordarsi della precedente pestilenza risalente a 53 anni prima, quella che ancora al tempo di Manzoni i milanesi chiamano “peste di S. Carlo” (Borromeo, che era arcivescovo all’epoca).
Il protofisico Lodovico Settala, ché, non solo aveva veduta quella peste, ma n’era stato uno de’ più attivi e intrepidi, e, quantunque allor giovinissimo, de’ più riputati curatori; e che ora, in gran sospetto di questa, stava all’erta e sull’informazioni, riferì, il 20 d’ottobre, nel tribunale della sanità, come, nella terra di Chiuso (l’ultima del territorio di Lecco, e confinante col bergamasco), era scoppiato indubitabilmente il contagio. Non fu per questo presa veruna risoluzione, come si ha dal Ragguaglio del Tadino.
Lodovico Settala è una persona competente (è un vecchio e autorevole medico che, da giovane, aveva assistito alla “peste di S. Carlo” e all’epoca aveva anche coraggiosamente curato molti malati); sapendo che c’è il rischio di un nuovo contagio (cosa che molti sapevano, si sapeva che tra i Lanzichenecchi covava un’epidemia) da tempo egli si è “messo in guardia” e non tarda a capire, dalle notizie riguardanti le misteriose morti, che la pestilenza ha contagiato la popolazione. Non perde tempo: avvisa subito le autorità. Quest’uomo è l’esempio di come si dovrebbe comportare chi governa: capire subito la gravità di un problema e porre prontamente rimedio. Ma le autorità sanitarie milanesi (il tribunale della sanità), invece, sono lente e pigre (“Non fu per questo presa veruna risoluzione, come si ha dal Ragguaglio del Tadino”). Manzoni in queste pagine sulla peste denuncia insistentemente le responsabilità e gli errori delle autorità; chi governa deve saperlo fare e deve avere come obiettivo il bene della gente: invece le autorità di Milano si sono dimostrate pigre, incapaci, interessate ai propri fini personali piuttosto che al bene della comunità che era loro affidata.
Ed ecco sopraggiungere avvisi somiglianti da Lecco e da Bellano. Il tribunale allora si risolvette e si contentò di spedire un commissario che, strada facendo, prendesse un medico a Como, e si portasse con lui a visitare i luoghi indicati. Tutt’e due, «o per ignoranza o per altro, si lasciorno persuadere da un vecchio et ignorante barbiero di Bellano, che quella sorte de mali non era Peste»[qui, tra virgolette, Manzoni sta citando testualmente la sua fonte]; ma, in alcuni luoghi, effetto consueto dell’emanazioni autunnali delle paludi, e negli altri, effetto de’ disagi e degli strapazzi sofferti, nel passaggio degli alemanni. Una tale assicurazione fu riportata al tribunale, il quale pare che ne mettesse il cuore in pace.
Finalmente il tribunale della sanità si decide ad indagare, e manda due persone a ispezionare le zone dove sono avvenute le misteriose morti. Ma questi due individui (uno dei quali è un medico) si informano in modo scandalosamente superficiale: anziché andare a vedere di persona, si accontentano di credere a un barbiere del luogo (nei villaggi il barbiere era visto come persona un poco più istruita delle altre, e quindi era una specie di piccola “autorità”) il quale afferma con assurda sicurezza che quelle morti non sono dovute ad altro che all’aria malsana delle paludi oppure agli stenti cui la popolazione è stata sottoposta durante il passaggio dei soldati tedeschi. I due ispettori gli credono, dice il narratore, “o per ignoranza o per altro”: cosa significa questo “per altro”? Per pigrizia? Perché avevano fretta di tornare a casa loro, ai loro affari? Perché avevano paura di trattenersi in quelle zone? Perché, sotto sotto, temevano anch’essi un contagio? Con queste parole, “per altro”, Manzoni insinua che essi preferirono non approfondire la questione per motivi non proprio lodevoli.
Ma cosa più incredibile è che anche il tribunale della sanità si accontenta per il momento di questa spiegazione (“Una tale assicurazione fu riportata al tribunale, il quale pare che ne mettesse il cuore in pace”). Così i giorni passano e intanto il contagio si propaga: se invece si fosse fatto qualcosa subito, esso avrebbe potuto ancora essere fermato. Ancora una volta, chi poteva agire non lo ha fatto, ed è stato questo a rendere irrecuperabile la situazione.
Ma arrivando senza posa altre e altre notizie di morte da diverse parti, furono spediti due delegati a vedere e a provvedere: il Tadino suddetto, e un auditore del tribunale.
Ecco che finalmente il tribunale della sanità si rende conto che il problema non è affatto risolto, che bisogna approfondire l’indagine (“vedere”) e prendere provvedimenti (“provvedere”). Quindi altri due vengono spediti a fare accertamenti. Uno è il Tadino, autore di un resoconto della peste che Manzoni utilizza come fonte.
Quando questi giunsero, il male s’era già tanto dilatato, che le prove si offrivano, senza che bisognasse andarne in cerca. Scorsero il territorio di Lecco, la Valsassina, le coste del lago di Como, i distretti denominati il Monte di Brianza, e la Gera d’Adda; e per tutto trovarono paesi chiusi da cancelli all’entrature, altri quasi deserti, e gli abitanti scappati e attendati alla campagna, o dispersi.
Insomma, ormai il danno è fatto: la pestilenza sta dilagando e in molti paesi la gente è scappata per isolarsi ed evitare il contagio.
«et ci parevano, - dice il Tadino, - tante creature seluatiche, portando in mano chi l’herba menta, chi la ruta, chi il rosmarino et chi una ampolla d’aceto».
Fa pena questa povera gente, che si aggira per i boschi come animali selvatici, abbandonata al contagio dalle autorità che avrebbero invece dovuto provvedere a proteggerla, gente che cerca di proteggersi da sé, ma troppo ignorante per capire quali rimedi sarebbero efficaci. Popolarmente si credeva che la peste fosse provocata da una “corruzione” dell’aria, e quindi che le sostanze odorose (erbe aromatiche, aceto) potessero purificare dal male l’aria che si respirava; per questo le persone tenevano vicino al naso queste sostanze.
S’informarono del numero de’ morti: era spaventevole; visitarono infermi e cadaveri, e per tutto trovarono le brutte e terribili marche della pestilenza. Diedero subito, per lettere, quelle sinistre nuove al tribunale della sanità, il quale, al riceverle, che fu il 30 d’ottobre, «si dispose», dice il medesimo Tadino, a prescriver le bullette, per chiuder fuori dalla Città le persone provenienti da’ paesi dove il contagio s’era manifestato; «et mentre si compilaua la grida», ne diede anticipatamente qualche ordine sommario a’ gabellieri.
I due delegati trasmettono al tribunale della sanità che vi è un’epidemia in atto; a Milano dunque viene emanato un divieto di accesso alla città per chi proviene dalle zone contagiate.
Intanto i delegati presero in fretta e in furia quelle misure che parver loro migliori; e se ne tornarono, con la trista persuasione che non sarebbero bastate a rimediare e a fermare un male già tanto avanzato e diffuso.
Vi è dunque una specie di dolorosa rassegnazione nei due ispettori: loro, che hanno visto la gravità della situazione, sanno per primi che gli ordini che hanno dato nei paesi contagiati non varranno a fermare l’epidemia. La peste inevitabilmente arriverà anche a Milano: ormai è solo questione di tempo.
Arrivati il 14 di novembre, dato ragguaglio, a voce e di nuovo in iscritto, al tribunale, ebbero da questo commissione di presentarsi al governatore, e d’esporgli lo stato delle cose.
Nuova missione per i nostri due poveri delegati: andare dal governatore e raccontargli del “piccolo problema” che sta per piombare su Milano. Cerchiamo ora di ricordare perché il governatore non si trovava, in quel momento, a Milano. Manzoni, poche righe sotto, ci preciserà che il governatore Gonzalo Fernandez de Cordoba era stato “licenziato” per i suoi insuccessi nell’assedio di Casale Monferrato; lo aveva sostituito Ambrogio Spinola, che stava appunto continuando l’assedio a quella città piemontese, parte del ducato di Mantova-Monferrato che si trovava conteso tra Spagna e Francia (ricordate?). Anche questo nuovo governatore, come quello precedente, era molto più concentrato sull’assedio che sul governo di Milano, per la semplice ragione che una vittoria in guerra fa fare più carriera che un buon governo . Quindi che poteva importargli del problema della peste? E infatti sentite la sua risposta:
V’andarono[dal governatore, a Casale Monferrato] e riportarono [riferirono la sua risposta, che è la seguente]: aver lui di tali nuove provato molto dispiacere, mostratone un gran sentimento; ma i pensieri della guerra esser più pressanti: sed belli graviores esse curas [la frase è in latino perché cita testualmente un’altra fonte storica del Manzoni, il Ripamonti, un’opera in latino]
Insomma: mi dispiace tanto per Milano e la sua peste, ma io qui ho da fare cose più importanti. Il governatore non si cura affatto del problema. Ma il colmo dell’irresponsabilità lo raggiunge quando, pochi giorni dopo…
due o tre giorni dopo, il 18 di novembre, emanò il governatore una grida, in cui ordinava pubbliche feste, per la nascita del principe Carlo, primogenito del re Filippo IV, senza sospettare o senza curare il pericolo d’un gran concorso, in tali circostanze: tutto come in tempi ordinari, come se non gli fosse stato parlato di nulla.
Il governatore ordina ai milanesi di organizzare una grande festa pubblica perché al re di Spagna era nato un figlio. Una festa per far bella figura con il re, e magari avere una promozione; ma immaginate quanto possa favorire il contagio una riunione del popolo in massa, una festa alla quale vorranno partecipare anche gli abitanti delle campagne circostanti, quelle dove appunto si era scatenato il contagio!
Era quest’uomo, come già s’è detto, il celebre Ambrogio Spinola, mandato per raddirizzar quella guerra e riparare agli errori di don Gonzalo, e incidentemente, a governare; e noi pure possiamo qui incidentemente rammentar che morì dopo pochi mesi, in quella stessa guerra che gli stava tanto a cuore; e morì, non già di ferite sul campo, ma in letto, d’affanno e di struggimento, per rimproveri, torti, disgusti d’ogni specie ricevuti da quelli a cui serviva.
Parafrasi: “Questo governatore era il famoso Ambrogio Spinola, quello che il re di Spagna aveva inviato a sostituire don Gonzalo, a ripararne gli insuccessi (nell’assedio di Casale Monferrato) e, secondariamente (ironico!), a governare Milano. E anche io (Manzoni) qui posso ricordare secondariamente (ironico!) che egli, di lì a poco, sarebbe morto: ma non in battaglia (come si converrebbe a un buon generale) bensì nel suo letto: morì di crepacuore per l’ingratitudine dei suoi superiori (insomma, non ebbe quella carriera che riteneva di meritare. Pover’uomo! ha tranquillamente lasciato migliaia di persone morire di peste perché doveva badare alla sua guerra, e alla fine non ha neppure ottenuto la carriera a cui mirava. Si percepisce nettamente il sarcasmo dell’autore).
La storia ha deplorata la sua sorte, e biasimata l’altrui sconoscenza; ha descritte con molta diligenza le sue imprese militari e politiche, lodata la sua previdenza, l’attività, la costanza: poteva anche cercare cos’abbia fatto di tutte queste qualità, quando la peste minacciava, invadeva una popolazione datagli in cura, o piùttosto in balìa.
Parafrasi: “Gli storici dell’epoca lo hanno rappresentato come una vittima, hanno rimproverato l’ingratitudine verso di lui, ne hanno esaltato le imprese in guerra, le sue qualità di lungimiranza, di operosità, di tenacia: ma non lo criticano, come invece dovrebbero, per il fatto di non aver usato tutte queste belle qualità quando la peste minacciava la popolazione di Milano, che gli era stata affidata come un bambino nelle mani della sua balia”. Qui Manzoni abbandona il tono ironico e il suo giudizio si fa serio ed estremamente severo: quest’uomo ha gravissime responsabilità e non è giusto che venga dipinto come una vittima, ma i suoi sbagli (non involontari) devono apparire chiari a noi, uomini di oggi, affinché nessuno li ripeta.
Ma ciò che, lasciando intero il biasimo, scema la maraviglia di quella sua condotta, ciò che fa nascere un’altra e più forte maraviglia, è la condotta della popolazione medesima, di quella, voglio dire, che, non tocca ancora dal contagio, aveva tanta ragion di temerlo. All’arrivo di quelle nuove de’ paesi che n’erano così malamente imbrattati, di paesi che formano intorno alla città quasi un semicircolo, in alcuni punti distante da essa non più di diciotto o venti miglia; chi non crederebbe che vi si suscitasse un movimento generale, un desiderio di precauzioni bene o male intese, almeno una sterile inquietudine? Eppure, se in qualche cosa le memorie di quel tempo vanno d’accordo, è nell’attestare che non ne fu nulla. La penuria dell’anno antecedente, le angherie della soldatesca, le afflizioni d’animo, parvero più che bastanti a render ragione della mortalità: sulle piazze, nelle botteghe, nelle case, chi buttasse là una parola del pericolo, chi motivasse peste, veniva accolto con beffe incredule, con disprezzo iracondo. La medesima miscredenza, la medesima, per dir meglio, cecità e fissazione prevaleva nel senato, nel Consiglio de’ decurioni, in ogni magistrato.
Sembra incredibile, ma nella stessa Milano nessuno voleva aprire gli occhi e rendersi conto di ciò che stava per accadere: non la gente, non le autorità pubbliche (il senato, il consiglio dei decurioni, i vari magistrati). Della morte di decine di persone nelle zone circostanti (paesi che formano intorno alla città quasi un semicircolo ) si aveva conoscenza; ma si tendeva ad autoingannarsi, quasi a non voler vedere il problema; se ne davano spiegazioni varie (la penuria dell’anno antecedente, le angherie della soldatesca, le afflizioni d’animo), evitando di prospettarsi alla mente la possibilità che si trattasse della peste; anzi, quei pochi che avevano il coraggio di usare la ragione e parlavano di questa ragionevole possibilità, venivano derisi quando non addirittura attaccati dalla maggioranza.
Manzoni insiste molto sul fatto che questa cecità risulta per noi incredibile (un’altra e più forte meraviglia), che non riusciamo a spiegarci come tanta gente (gente di ogni condizione, dall’uomo comune a chi aveva ruoli di responsabilità) abbia voluto così ostinatamente nascondere a se stessa la verità, sia caduta nel proprio autoinganno; eppure è andata proprio così! Come a dire che nella storia ci possono essere dei blackout, si possono verificare circostanze in cui la gente perde pericolosamente la capacità di ragionare, rifiuta letteralmente di ragionare e si arrabbia persino con chi cerca di farla ragionare. L’uomo, insomma, non è sempre un essere ragionevole, e questa è la sua più grande sciagura. Questa osservazione di Manzoni ci dovrebbe far pensare molto, perché di questi blackout possiamo ricordarne anche altri, e gravissimi, e forse altri ancora ne stanno avvenendo anche oggi.
Fonte: http://www.iisraffaello.gov.it/wp-content/uploads/2014/09/Promessi-sposi-lezione-sul-cap.-31.docx
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Autore del testo: non indicato nel documento di origine
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