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di Marino Faggella
Nel 1816, allorché Manzoni si accingeva a dare all’Italia la tragedia moderna, non s’era ancora sopita la disputa fra tradizionalisti e romantici, Il Sermone sulla mitologia del Monti fu composto nel 1825, di poco posteriore (1827) seguì la prefazione al Cromwel di V. Hugo, un testo fondamentale per capire il genere tragico moderno e l’arte romantica in generale. Queste date dimostrano come l’apporto del Manzoni nella costruzione della tragedia fosse decisivo come lo sarà più tardi per il romanzo, la cui edizione ventisettana avrebbe aperto in Italia la stagione della narrativa moderna. L’impresa di rinnovare il genere tragico dovette risultare al Manzoni non certamente agevole, in quanto dietro di sé egli non aveva il vuoto, ma una lunga tradizione teatrale con cui doveva fare i conti, particolarmente quella del ‘700, il secolo per eccellenza del teatro, che poteva vantare importanti riforme in quasi tutte le specie del dramma: Metastasio aveva perfezionato quel melodramma che tanta fortuna avrebbe avuto proprio nel secolo del Manzoni, la commedia aveva trovato nel Goldoni il suo grande riformatore, quanto all’Alfieri si può dire addirittura che egli avesse dato all’Italia il teatro tragico, l’unica corona che le mancava. In effetti dal Rinascimento inoltrato, allorché fu riscoperta e tradotta la poetica di Aristotele, ad andare innanzi i teorici avevano disputato, alcuni di essi, come il Cinzio, si erano impegnati personalmente a realizzare tragedie secondo le regole, ma i risultati erano stati inferiori alle attese: l’Orbecche dello stesso Cinzio, la Rosmunda del Ruccellai e il Torrismondo del Tasso non potevano certo competere col teatro elisabettiano che aveva trovato in Shakespeare il suo straordinario poeta, un genio universale della statura di Dante. Il nostro ‘500, pertanto, pur fra le dispute ed impegnandosi con qualche risultato non era riuscito a valorizzare la tragedia degli antichi, né a raggiungere la poesia del tragico; sicché, come è stato ben sostenuto: “Il vero teatro italiano nel senso della libertà inventiva e della realizzazione estetica non è propriamente quello tragico, ma l’altro elegiaco, pastorale...dall’Orfeo del Poliziano all’Aminta del Tasso, al Pastor Fido del Guarini (Battaglia)”. Pertanto il campione dei generi drammatici del ‘500 non fu la tragedia ma il dramma pastorale. Per andare alla ricerca delle cause si potrebbe dire che gli autori della nostra tradizione teatrale, dal Rinascimento in poi, pur sapendo “innestare con decoro accademico l’ipotesi tragica”, raramente furono in grado di conoscere “la recondita risonanza del dolore né la desolata poesia della repentina fatalità” (ivi), caratteristiche essenziali per la resa artistica della tragedia. Ma non fu solo questione di scarsa vocazione, o d’una insufficiente disposizione per il genere se i risultati del nostro teatro tragico furono modesti.Eppure la cultura letteraria del ‘500 aveva offerto risultati straordinari in tutti i generi, si pensi all’Orlando dell’Ariosto, al Principe del Machiavelli e alla scrittura storica del Guicciardini; se essa denunciava dei limiti di fronte ai risultati tragici doveva esserci anche una più profonda ragione culturale. In effetti la nostra tragedia era nata con vistoso difetto d’origine: era il genere più scolastico della nostra tradizione letteraria. Ciò comportava una specie di soggezione, che talvolta si manifestava come un autentico complesso d’inferiorità, dei nostri autori nei riguardi di quel modello letterario. Questo contegno, passando senza interruzione attraverso i secoli, è durato si può dire fino al ‘700 inoltrato non risparmiando neppure l’Alfieri e condizionando in qualche modo i risultati delle opere manzoniane. I risultati ottenuti dall’astigiano nella tragedia furono innegabili ; ma con tutte le innovazioni che apportò al genere in polemica soprattutto con i francesi, non si può dire che egli fosse del tutto insensibile di fronte alle regole. Pertanto anche l’Alfieri protoromantico, così lo aveva definito il Croce, pur avendo manifestato per natura un’autentica vocazione per il genere, (tanto che la scelta della tragedia si dimostrò per lui congeniale in quanto corrispondeva al suo stato d’animo, al suo intimo sentire e alla stessa condizione della vita dominata dai contrasti) aveva finito col rispettare i paradigmi e gli schemi del teatro classicista. L’astigiano, infatti, pur polemizzando con i francesi che avevano sostituito all’ethos dei greci l’eros moderno riducendo la tragedia con una estrema stilizzazione a genere della mondanità, aveva accettato la partizione del dramma in cinque atti, non mancando inoltre di osservare le unità aristoteliche. E’ stato detto che tale scelta era dettata da un’intima oltre che artistica necessità: la divisione scenica e il rispetto delle regole erano i giusti argini entro i quali il poeta poteva finalmente arginare la violenza della passione e la forza prorompente della sua ispirazione. Non so fino a che punto una tale spiegazione possa appagare, rimane il fatto che anche l’Alfieri, primo poeta romantico e venuto al mondo quasi per uno scherzo della natura in un’età sbagliata, osservando le regole aveva versato al secolo del classicismo il suo contributo. Per questo, quando Manzoni, in polemica con i tradizionalisti, si accinse a dare all’Italia la tragedia moderna era convinto di andare anche contro l’Alfieri, ma pur non nascondendosi le difficoltà si augurava comunque di compiere un’impresa memorabile e fondamentale.
Prima di affrontare il discorso sulla poetica tragica del Manzoni e sulle sue generali considerazioni estetiche occorre premettere che il meglio dell’opera dell’autore milanese si colloca negli anni che vanno dal 1812 al 1827: il periodo maggiormente creativo del Manzoni, durante il quale nacquero i suoi scritti più importanti che, annunziati dalla novità degli Inni Sacri e proseguiti con la composizione delle tragedie e delle Odi, trovarono il loro coronamento nella difficile stesura dei Promessi Sposi, il punto culminante della parabola del pensiero della poetica dell’autore. Non è possibile parlare delle tragedie manzoniane senza chiarire contemporaneamente le ragioni teoriche dell’arte del loro autore, perché tutto ciò che egli scrisse in questo periodo venne affiancato da operette e piccoli saggi con i quali cercò di spiegare a se stesso e agli altri le ragioni della sua poetica. Diversamente dagli autori più rappresentativi del secolo, compreso Leopardi il cui pensiero estetico ebbe un carattere più occasionale che sistematico, le idee letterarie del Manzoni, pur legate a particolari contingenze storico-artistiche, sorrette come sono dalle capacità riflessive del loro autore e distinguendosi per una loro coerente organicità, consentono al lettore di seguire l’intero svolgimento del pensiero e dell’arte manzoniani. A tal proposito, non tanto per ragioni di comodo, ma per seguire con maggiore chiarezza espositiva questo itinerario teorico-artistico, divideremo in tre parti l’intero svolgimento dell’opera dell’autore, individuando contemporaneamente tre livelli nello svolgimento della sua poetica.Tutti gli studiosi concordano nel riconoscere nell’ultima strofe del carme In morte di Carlo Imbonati (1806) i primi segni della teorica manzoniana, individuando in particolare nei due verbi “sentire e meditare” i primi annunzi della futura poetica. L’esordio poetico del Manzoni, a parte i sonetti alfieriani e le scolastiche poesie d’imitazione, aveva trovato nell’ode Il trionfo della libertà l’espressione più convinta del suo ottimismo illuministico, che comunque risultava caratterizzato da un astrattismo di fondo denunziante un’evidente origine libresca dell’ideale della libertà che successivamente il Cuoco, fresco dalla lezione vichiana, si preoccuperà di guarire. Anche per questo il giovane Manzoni aveva abbandonato la letteratura di contenuto illuministico per una concezione dell’arte letteraria fedele ai modelli neoclassici, retorica e altisonante nella lingua, moraleggiante nel migliore esempio del Carme, evasiva e assolutamente idillica nell’Adda e nell’Urania. L’incontro con l’Imbonati, cantato nel Carme come esempio di padre virtuoso, era avvenuto nel 1805, l’anno in cui il Manzoni s’era trasferito a Parigi per incontrare la madre, che poi fu anche l’intermediaria fra il giovane e gli ideologi della seconda generazione. La frequentazione di Auteil, l’incontro con questi intellettuali seguaci del Condillac, sensisti per il loro fondamentale metodo d’indagine e liberali e repubblicani in politica, fu molto importante per il Manzoni; particolarmente decisivo quello col Fauriel, appassionato studioso della storia e della filosofia tedesca, tramite fondamentale, forse in misura maggiore della Staël e del Sismondi, nella trasmissione e nell’acquisizione delle idee romantiche da parte del Manzoni. Non si insisterà mai abbastanza sull’importante lezione del Fauriel e dei componenti del circolo di Meulan ai fini della formazione delle idee fondamentali del giovane e del suo metodo di indagine filosofica particolarmente attento all’analisi minuta dei fatti, fondato appunto sul “sentire e meditare”. Nel 1809, dopo la composizione dell’Urania, come testimoniano le letture del Fauriel del tempo, andava in crisi il sistema idillico dell’arte manzoniana aprendosi a diverse prospettive più intimiste e meno retoricamente esteriori. Ma non solo ragioni estetiche avevano indotto Manzoni a questa “conversione estetica” del 1809, ma più profondi motivi interiori, spiegabili con la conversione religiosa del 1810, lo avevano indotto al rifiuto della sua precedente forma d’arte retoricamente perfetta ma destituita di profondi valori morali. Come questa conversione sia avvenuta, se Manzoni sia stato influenzato dal Giansenismo in questo suo ritorno alla fede è questione che autorevoli studiosi dal Codignola al Ruffini hanno affrontato. Si vuol dire qui soltanto che l’arte recò certamente i segni della dottrina dei portroyalisti: il tema della grazia è il filo conduttore degli Inni, il pessimismo delle tragedie è certamente segnato dal cupo moralismo dei seguaci di Giansenio. Quanto alla conversione si ha fondata ragione di ritenere che per intenderla, più che investigare fra le confessioni peraltro molto rare dell’epistolario, sarebbe meglio guardare al famoso episodio dell’Innominato del romanzo, la cui conversione si presenta con evidenti caratteri autobiografici.
Il secondo livello della poetica manzoniana è da riportarsi al 1815.L’anno della Restaurazione veniva a segnare una profonda crisi morale e politica nell’animo del Manzoni, così grave da far temere anche sugli effetti positivi della sua conversione e a far vacillare la sua mente, caduta in un abisso pauroso, in preda ad una dilacerazione drammatica originata dall’opposizione tra la verità della fede da poco conseguita e il negativo svolgersi dei fatti della storia, di fronte ai quali si costituiva per contrasto il più profondo “pessimismo storico” e avveniva la maturazione della sua ideologia politica democratica e antireazionaria. Così scrive il Sapegno: “La ferma adesione ai principi del Cristianesimo non portava insomma senz’altro il Manzoni a ripiegare, come altri teorici della Restaurazione, su posizioni reazionarie: non l’induceva per esempio a rinnegare la sua convinzione dell’eguaglianza fra gli uomini, se mai a sottolineare il sentimento fortissimo della personalità umana, della dignità individuale del singolo; non lo guidava a giustificare...la ragione di stato e l’assolutismo, le iniquità sociali e le prepotenze dei ceti privilegiati....Il Manzoni cristiano rimase illuminista, democratico, umanitario anche a costo di mettersi con i propri giudizi fuori della storia”. Ma il 1815 segnava anche contemporaneamente la seconda e più importante conversione letteraria del Manzoni che, coincidendo con la sua più calda adesione al Romanticismo, apriva la stagione più impegnativa e creativa dell’autore. Sappiamo che Manzoni non era propriamente uno spirito militante, che anzi rifuggiva spesso per carattere dalle polemiche; ma quando decise di impegnarsi nel genere tragico s’indusse a chiarire le ragioni per cui la tragedia non poteva essere composta secondo gli antichi e le loro regole, ma doveva essere rifondata secondo criteri moderni, in una parola romantici. A questo proposito, come sostiene Sapegno: “Già prima di accingersi alla composizione del Carmagnola, Manzoni s’era formata una sua poetica del genere tragico abbastanza definita” che comportava prima di tutto “l’abbandono del sistema classico con le sue regole e la ferma convinzione che quelle regole a quel sistema costituivano un impedimento e un limite all’espressione piena e immediata del sentimento, una ragione di angustia e di artificio” (ivi). “Queste regole - diceva - non sono forse state per lo più un inciampo a quelli che tutto il mondo chiama pedanti ?”. L’impresa non era agevole, in quanto si trattava di contrapporre in un confronto serrato due sistemi: uno già fatto, quello dei classicisti garantito da una lunga tradizione e quello nuovo, il suo e in fieri che sentiva la necessità di essere accreditato. Ma il sistema tradizionale, soprattutto il teatro francese di Racine e Corneille, per osservare troppo da vicino le regole era stato costretto ad incrementare le passioni, a sostituire l’ethos dei greci con l’eros, la più distruttiva e meno educativa di esse. Tali difetti riscontrati nel teatro francese avevano indotto alcuni grandi spiriti, come Rousseau e Bossuet, a pronunziare una decisiva condanna morale della tragedia. Partendo da queste premesse, la meditazione estetica del Manzoni si mosse all’inizio secondo due direzioni: scardinare il sistema delle regole aristoteliche, reintegrare la moralità del teatro. In alcune pagine della Lettera al signor Chauvet (1820-23), un’autentica summa delle idee letterarie dell’autore, oltre che nei Materiali estetici, a Manzoni riuscì meglio di esprimere in modo sintetico i limiti dell’antico teatro teso ad esaltare le passioni cui contrappose i pregi del nuovo sistema tragico “suscettibile -a suo modo di intendere- del più alto grado di interesse e immune dagli inconvenienti di quello”, un teatro dallo scopo morale, come quello dei drammi immortali di Shakespeare: “Non è tentando di scatenare in anime calme la tempesta delle passioni, che il poeta esercita il suo maggior potere. Facendoci scendere in basso ci sconvolge e ci rattrista. A che scopo tanta fatica per un simile risultato ? Chiediamogli soltanto di essere vero, e di sapere che non è comunicandosi a noi che le passioni possono commuoverci in modo tale da avvicincerci e interessarci, bensì favorendo in noi lo sviluppo della forza morale, coll’aiuto della quale si può dominarle e giudicarle”. Si comprende come partendo da tali premesse egli a questo punto si ponesse il problema della funzione e della destinazione dell’arte (qui vista solo in relazione al dramma tragico, ma che può estendersi a tutta l’opera, come fanno fede le cosiddette introduzioni al romanzo) e facendo sue le idee del romanticismo italiano giungesse alla fondamentale conclusione che l’arte non poteva essere semplicemente l’occupazione gratuita di pochi spiriti disoccupati, ( “Se le lettere dovessero soltanto avere per fine di divertire quella classe di uomini che non fa altro che divertirsi, sarebbero la più frivola, la più servile, l’ultima delle professioni” ) ma al contrario, avendo già in sé nella sua natura una profonda ragione di moralità, doveva porsi come preciso compito quello di educare ed illuminare le coscienze non solo in senso religioso e spirituale ma anche sociale e politico. Proprio lo scopo della moralità e l’ufficio pedagogico dell’arte inducevano di necessità l’autore a modificare i metodi della destinazione del fatto letterario, per cui esso non veniva più rivolto a pochi specialisti ma ad un pubblico più vasto di lettori. Questo concetto della “popolarità” (tema centrale della Lettera di Grisostomo al figlio di Berchet, comunque già presente nel Corso di letteratura drammatica dello Schlegel e nel libro della Staël De la litterature) era l’acquisizione più nuova ed importante dei romantici rispetto alla posizione dei classicisti che facevano dell’arte solamente e in generale un fatto accademico. Proprio in nome della popolarità e di un più vasto numero di lettori Manzoni e i romantici si indussero a rinnovare le forme, semplificandole, e a privilegiare quei contenuti che fossero più vicini alla realtà.
Per rispondere al primo proposito, quello di scardinare le regole, l’autore premise al Carmagnola una Prefazione nella quale, chiarendo le ragioni della sua arte tragica, affrontava lo spinoso problema delle unità drammatiche (soprattutto quelle di tempo e di luogo), abbattendole. Erano queste le più note e fondamentali regole del genere tragico che, costituite nell’età rinascimentale, erano giunte intatte, o con poche modificazioni, al Classicismo moderno. Occorre chiarire che, dopo la scoperta del testo della Poetica di Aristotele nel ‘500, erano stati i teorici del tempo (particolarmente il Castelvetro, come ritiene il Manzoni nel suo trattato Del romanzo storico: “E siccome non è mai stato affatto inutile il conoscere l’origine degli errori che hanno avuto molta voga, in qualunque materia così aggiungo che il vero autore del precetto delle due famose unità, fu, secondo ogni apparenza il Castelvetro”) a fornire un’interpretazione non del tutto fedele dello stesso testo del filosofo.
Comunque allorché nell’età rinascimentale si stabilirono tutti i canoni classicisti (necessità della imitazione dei modelli, necessità di concepire i generi letterari come l’uno diverso dall’altro, etc.) anche la tragedia era stata sottoposta a regole fisse, ed in particolare:
Pertanto, componendo il Carmagnola dal 1816 al ‘19, pubblicato nel ‘20 e allestendo tra il 1820 e il ‘22 l’Adelchi, Manzoni in polemica con i classicisti, squalificando le regole cercò di applicare nuovi criteri alle due tragedie. Prima di tutto è notevole l’abbattimento dell’unità di tempo, come si evince dal fatto che la vicenda del Carmagnola si svolge in sette anni (dal 1423 al 1432), mentre la durata dell’Adelchi, pur sviluppandosi nell’arco più breve dei tre anni (dal 772 al 774) andava ben al di là del cosiddetto “arco di sole” di aristotelica memoria. Era un autentico “schiaffo alle unità”, come disse l’autore, originato e richiesto dalla durata considerevole dell’azione. Manzoni, inoltre, liquidava anche l’unità di luogo: ciò è dimostrato dal fatto che nelle due tragedie egli mutava la scena da un atto all’altro anche più volte, sicuro che lo spettatore non se ne adontasse, come ebbe a dire più tardi nella Lettre: “Anche in Italia, da quello che sento, lo spettatore non ci patisce e non si chiama offeso se, nel corso di una tragedia, vede alzarsi una scena e venir giù un’altra”. Poi per vincere l’ostilità dei classicisti più ostinati, sostenne che le due unità non erano “regole fondate sulla ragione dell’arte, né connaturali all’indole del poema”, dovute anzi a suo modo di vedere “ad una autorità non bene intesa e derivata da principi arbitrari; l’una originatasi dalla circostanza del tutto casuale che le tragedie greche “imitano un’azione la quale si compie in un sol luogo”, l’altra (quella di tempo) nata da una dubbia se non errata interpretazione di un passo di Aristotele. Al di là delle giustificazioni sottili addotte dal Manzoni, per comprendere le ragioni artistiche di una tale squalificazione bisogna pensare soprattutto ad una consonanza di idee e di principi con gli amici romantici, al pari dei quali egli era convinto che l’arte dovesse essere prima di tutto espressione della vita, per cui era chiaro proprio per questo che la vicenda di un personaggio non poteva essere concentrata in un arbitrario limite di tempo, il cosiddetto “arco di sole”, ma era necessario al contrario che si dislocasse nello svolgimento della vita stessa. Quanto all’unità d’azione, argomento solo accennato nella Prefazione e trattato particolarmente dal Manzoni nella Lettre, occorre dire che egli, movendosi con maggiore cautela, non l’abbatteva del tutto, ma la veniva definendo e applicando diversamente. Egli per unità d’azione non intese, come pretendevano i tradizionalisti, che la tragedia dovesse girare intorno ad un solo fatto, ma sostenne al contrario che il fatto dovesse essere non unico ma unitario: cioè sintesi organica, la congruenza di più fatti portati ad unità dalla capacità sintetica dell’artista.Con tali argomentazioni contenute nella Lettre e rispondendo agli appunti dello Chauvet che aveva accusato il Manzoni di aver distrutto il carattere del personaggio proprio a causa della mancata applicazione della regola, egli dava un duro colpo a tutto il sistema delle regole classiciste, e col sostituire all’obiettività esterna dei precetti la superiore ragione e la libertà dell’artista di intervenire all’interno della sua opera salvava il fondamentale principio moderno dell’originalità dell’arte. Dalla lettura della Prefazione e della lettera allo Chauvet risulta chiaramente che la vera intenzione del Manzoni era quella di costruire in Italia il dramma moderno che, rinunziando ai canoni antichi, finiva per porsi quale modello artistico la tragedia di Shakespeare e come base teorica i ragionamenti contenuti nel Corso di letteratura drammatica di A.G. Schlegel. Proprio per questo la Prefazione e la Lettre sono documenti di fondamentale importanza in quanto testimoniano, l’una, la prima dichiarazione di fede romantica dell’autore, l’altra, la sua definitiva e più piena adesione al nuovo movimento. Non mi pare, pertanto, si possa dar ragione a quei critici che, più che considerare la consonanza degli intenti del Manzoni col gruppo del Conciliatore, hanno insistito su una sua posizione appartata e solitaria o addirittura talvolta in contrasto con quella degli amici lombardi, come si ricava ad esempio da un giudizio del De Castris: “Egli costruiva cioè un sistema di idee che noi oggi chiamiamo romantico perché la via italiana del romanticismo fu decisamente condizionata dal Manzoni, ma che egli non avrebbe accettato di definire a cuor leggero romantico: giacché dalle istanze più immediatamente romantiche, e dai modi con cui si ponevano in atto, egli consapevolmente si distingueva, producendo anzi un inesausto lavoro di razionalizzazione e di esorcizzazione di quella mitologia ( quella romantica s’intende)”. Considerazioni che ricevono da parte del Sapegno una chiara e motivata smentita: “Non si riesce ad intendere bene il significato della sua opera in quegli anni, se non la si inserisce nel quadro di una cultura in movimento, riscaldata e sorretta da un proposito di rinnovamento radicale di tutti gli schemi letterari e degli stessi strumenti espressivi. Dal 1816 in poi fino al momento della stesura dei Promessi Sposi, il Manzoni è in pieno fervore di attività creativa; e la sua esperienza di artista si svolge tutt’altro che solitaria; in un clima culturale alacre e moderno, attraverso uno scambio di idee, spunti, suggerimenti con gli amici del gruppo romantico lombardo”. Sebbene risulti che nessuno degli articoli del “foglio azzurro” portasse mai la firma del Manzoni, ciononostante egli fu impegnato certamente in prima persona, in linea con quelli che egli amava definire “mes amis et compagnons de souffrance litteraire”, per i quali non mancò di essere maestro ineguagliabile. Che egli sia stato il capo della nuova scuola è testimoniato dal fondamentale giudizio di un interprete contemporaneo come il Tenca, che nel 1850, in occasione della pubblicazioni di Opere inedite del Nostro ebbe a dire: “Col nome di Manzoni si congiunge non solo la fama di un ingegno eminente, ben anche un’intera scuola letteraria che ha lungamente dominato le menti italiane, e di cui egli sta quasi a capo”; dove nel “quasi” non è da vedersi alcuna esitazione a proposito del ruolo di caposcuola esercitato dal Manzoni, sibbene un segno cauteloso di rispetto del critico verso chi era risaputamente ostile ai titoli e alle investiture. A conclusione del discorso, affinché non si parli della poetica del Manzoni come una particolare estetica “ad usum sui” diremo che soprattutto su un punto essi coincidevano: la concezione dell’arte come rappresentazione della verità. Che il principio del vero fosse fondamentalmente condiviso dal Manzoni e dai suoi amici lombardi si intende dagli scritti di estetica dell’autore che, pur connessi a particolari necessità e rispondenti ai suoi bisogni artistici, sono prima di tutto come sostiene Puppo “la più lucida, completa e organica interpretazione e chiarificazione teorica di quel principio essenziale di quel nostro movimento”. Tra gli scritti della poetica manzoniana la lettera sul Romanticismo, che il Manzoni scrisse nel 1823 indirizzandola al Marchese Cesare D’Azeglio e nella quale egli definitivamente ratificava il suo credo romantico, è un documento di sicura importanza per due ragioni: prima di tutto in quanto il fenomeno romantico viene osservato a distanza dal suo primo manifestarsi, in secondo luogo perché, incentrandosi il discorso prevalentemente sul contenuto dell’arte, vi è sottolineato l’essenziale principio del vero. La lettera si divide in due sezioni, una “pars destruens” nella quale egli, riprendendo le argomentazioni della Prefazione e della precedente lettera allo Chauvet, smentiva la maggior parte dei precetti del classicismo, ed una “pars construens”, in cui si sforzava di chiarire l’intero sistema romantico dell’arte.
Il discorso dell’autore, però, riusciva più convincente nella parte negativa, perché il Manzoni, pur facendo riferimento a concetti abbastanza diffusi nell’ambito romantico (immaginazione e realtà, storia e invenzione, verosimile e verità), non era in grado di dare una definizione del tutto convincente degli stessi concetti, in particolare non riusciva a distinguere il vero poetico dal vero storico a causa della mancata sistematicità del suo pensiero, rivelatosi abbastanza debole e privo, a parte le conoscenze che potevano derivargli dal sensismo, di una consistente base filosofica (difetto che - come disse più tardi il De Sanctis - egli aveva in comune con gli altri del gruppo), capace di chiarirgli fino in fondo il concetto della verità dell’arte. Si pensi a tal proposito, non certo per assolverlo, che sarà proprio il De Sanctis in epoca più avanzata a giungere a conclusioni più importanti intorno al problema estetico solo dopo la lettura dell’Estetica di Hegel. E’comprensibile, pertanto, l’incertezza del Manzoni nella parte conclusiva della lettera: “Non voglio dissimulare a Lei (cioè al D’Azeglio, destinatario della lettera), ché sarebbe un povero e vano artificio ... quanto indeterminato, incerto e vacillante nell’applicazione sia il senso della parola vero .... il vero tanto lodato e tanto raccomandato nelle opere di immaginazione, non ha mai avuto un significato preciso...è dunque qualche cosa di diverso da ciò che si vuole esprimere ordinariamente con quella parola, è qualche cosa di non definito; né il definirlo mi pare impresa molto agevole”. Al di là dei limiti del pensiero dell’autore la lettera sul romanticismo è molto interessante in quanto qui vi si affronta in modo risolutivo l’importante questione dei nuovi contenuti dell’arte secondo i romantici, che quasi unanimemente furono indotti al rifiuto totale della mitologia. E Manzoni romantico in accordo con gli amici lombardi sostenne che “l’uso delle favole è idolatria”, che l’arte dovesse essere espressione del vero non del falso ( “la poesia deve proporsi per oggetto il vero, come l’unica sorgente di un diletto nobile e durevole, giacché il falso può bensì trastullare la mente, ma non arricchirla né elevarla” ); e per vero intese la verità della storia o quella interiore dell’uomo, ispirato ai principi religiosi della fede. La storia occupa un posto centrale nella concezione del Manzoni, e ciò è testimoniato dal fatto che volendo l’autore qualificare l’intero sistema della sua arte e quello dei romantici, lo definì “sistema storico”. Per questo egli, accingendosi alla composizione delle tragedie, pensò bene di premettere le cosiddette “Notizie storiche”, col proposito di chiarire gli avvenimenti fondamentali che sarebbero stati il teatro e la cornice delle tragedie. All’Adelchi, inoltre, aggiunse oltre alle notizie storiche un’operetta, il Discorso sopra alcuni punti della storia longobardica in Italia, che a ragione è stata definita un autentico corollario della tragedia, dove egli si proponeva, valendosi della duplice lezione del Vico e del Muratori e mettendo a punto un nuovo metodo storico, di dimostrare che non spettava alla Chiesa ed in particolare al papa Adriano la responsabilità della guerra e della sofferenza dei latini durante la guerra tra i franchi e i longobardi. Ma quale fosse la condizione, lo stato reale degli italiani al tempo dei longobardi Manzoni non giunse mai a dimostrare, arrivando alla conclusione spietata che la storia, “quello stato così naturale all’uomo e così violento e così pieno di dolori”, non è altro che un nodo inestricabile, simile a quel guazzabuglio del cuore umano di cui parla nel romanzo. Al di là del risultato della pura indagine storica, l’operetta è importantissima ai fini della poetica manzoniana, in particolare quella del romanzo, dal momento che nella conclusione il suo autore sosteneva di aver fatto comunque un’importante scoperta: cioè che milioni e milioni di uomini erano passati nel corso della storia e pur grondando lacrime e sangue non avevano trovato nessuno disposto a parlarne: “Un’intera moltitudine di uomini, una serie di generazioni, che passa sulla terra, sulla sua terra, inosservata, senza lasciarci traccia, è un tristo ma importante fenomeno; e le cagioni di un tal silenzio possono riuscire ancor più istruttive che molte scoperte di fatto”. Qui Manzoni ispirandosi agli storiografi democratici francesi, polemizzava con gli scrittori aulici e tradizionali i quali, secondo lui, avevano fatto solo la storia dei grandi personaggi dimenticando le plebi e i reietti che pur avevano contribuito a subire più che a fare la storia. Senza negare l’importanza del Manzoni storico (si ricordi a questo proposito che insieme al Troia egli è il più grande rappresentante della scuola neoguelfa in Italia) è il caso di sottolineare ancora una volta che l’operetta prima di tutto è valida ai fini dello sviluppo successivo della poetica del romanzo, particolarmente quella del personaggio, in quanto qui il suo autore, in opposizione al protagonista eroico del classicismo, scopriva gli umili, la gente meccanica e forse già pensava di farli protagonisti di una storia. I precedenti teorici della teorica dei Promessi Sposi e dell’arte maggiore del Manzoni sono già contenuti nella lettera indirizzata allo Chauvet, nella quale egli riprendendo il discorso delle unità drammatiche, in particolare quella d’azione, forniva una soluzione al difficile problema del rapporto storia-arte, verità-invenzione, suggerendo una loro conciliazione, provvisoria sì, ma anche decisiva ai fini dei risultati del romanzo in cui storia ed invenzione, vero storico e vero poetico avrebbero trovato la loro definitiva resa artistica. Nella “ Lettre” il Manzoni, dopo aver analizzato i diversi compiti dello storico e del poeta arrivava alla conclusione che entrambi hanno come scopo di dire la verità, anche se differenti sono i rispettivi campi del vero, e “la diversità fra le due diverse forme d’espressione non è nell’oggetto o nella materia, ma nel modo con cui essa è trattata” (Sansone). In questo modo egli veniva superando la vecchia posizione aristotelica dei classicisti per i quali oggetto dell’arte doveva essere non il vero bensì il verosimile, la semplice ipostatizzazione del probabile. Detto questo, restava al Manzoni di verificare precisandoli i rispettivi metodi dello storico e del poeta, onde concludeva che pur occupandosi entrambi dello stesso oggetto storico essi avevano però procedimenti mentali diversi. Nella “ Lettre” il Manzoni riprendendo la vecchia polemica contro la storiografia tradizionale considerava la storia “come si presenta normalmente nei libri che portano quel nome: cioè come un complesso di fatti materiali ed esterni politici o militari” (Puppo) che gli storici si limitavano ad elencare preoccupandosi solo della loro successione: “una delle più importanti facoltà della mente umana quella di afferrare, tra gli avvenimenti, i rapporti di causa ed effetto, d’anteriorità e di conseguenza che li legano; di ricondurre ad un unico punto di vista...più fatti separati dalle condizioni del tempo e dello spazio, scartando altri fatti collegati ad essi solo per coincidenze accidentali. Questo è il lavoro dello storico”. Ma gli storici di professione, limitandosi a raccontare i fatti più significativi ed importanti, “degli avvenimenti che non sono per così dire conosciuti che dall’esterno; ciò che gli uomini hanno compiuto”; lasciavano intentate ed inespresse le ragioni interne, morali e psicologiche cioè le emozioni dei personaggi che erano state i moventi delle loro azioni. A questo punto interveniva il poeta, che secondo l’autore non creava, ma intuiva, cioè coglieva con la sua particolare sensibilità i sentimenti, le passioni più segrete che avevano spinto gli uomini ad agire: “ma ciò che hanno pensato, i sentimenti che hanno accompagnato le loro decisioni e i loro progetti, i loro successi ed i loro infortuni; i discorsi con i quali hanno fatto o tentato di far prevalere le loro passioni e la loro volontà...con i quali in una parola, essi hanno rivelato la loro individualità: tutto ciò è il dominio della poesia”; sicché egli, senza negare la dignità della storia, riteneva che la poesia fosse altrettanto importante, anzi finiva per essere una “specie di storia superiore” in quanto completava la storia stessa arricchendone il concetto di verità. A questo punto un componimento come il romanzo storico, pur con tutti i limiti e le riserve sul “romanzesco” poteva anche essere accettato e realizzato.Certo non tutto era stato chiarito e risolto teoricamente dall’autore, rimanevano aperte e ancora in piedi alcune questioni: prima fra tutte la definizione della creazione poetica, del “poiéin”, che nella “Lettre” aveva trovato solo una provvisoria sistemazione. Manzoni da buon cristiano non riconobbe mai al poeta il compito di creare perché era convinto che tale ruolo spettasse solo a Dio e pur di non averla a portata di mano avrebbe volentieri espunto dal suo vocabolario finanche la parola “creazione”. In senso filosofico egli diede una risposta definitiva al problema nel dialogo Dell’invenzione (1850), nel quale mettendo a frutto la lezione del Rosmini e del suo spiritualismo arrivò a concludere definitivamente che non spettava al poeta l’opera di creare ma a Dio nella cui mente in senso platonico o neoplatonico si collocava principalmente l’idea stessa dell’arte, giacché “il pensato non può essere senza un pensante e l’unico pensante non può essere che Dio il quale è e sempre sarà, mentre noi che siamo, una volta non eravamo e potevamo anche non esserci”. Così il Manzoni, parlando delle funzioni del poeta, eliminava finalmente quella parola creazione che l’aveva tante volte angustiato. Il sistema dell’arte manzoniana che nella lettera allo Chauvet aveva trovato la sua consacrazione ufficiale si reggeva però su un precario e difficile equilibrio che non sarebbe durato a lungo. Infatti già a partire dalla Lettera sul Romanticismo si apriva una crisi nel pensiero estetico del Manzoni che cominciava a vacillare in quanto “il vero della storia e quello dell’arte che nella “Lettre” procedevano così concordi, integrandosi e quasi compiendosi, qui si scoprono diversi, di una diversità impossibile, secondo Manzoni, a definirsi” (Sansone). Dello svolgimento di questa crisi, che coincide col terzo livello della poetica manzoniana, lo stesso Sansone traccia le linee generali: “La crisi apertasi nel pensiero manzoniano con la lettera sul Romanticismo culmina e si conclude nel discorso Del romanzo storico, e, in genere dei componimenti misti di storia e di invenzione (composto dal 1830 in poi, ma pubblicato solo nelle Opere varie, 1854-55). Qui la posizione della “Lettre” è rovesciata, ed il poeta stesso dichiara che egli sarebbe in un bell’impiccio se dovesse mettere d’accordo le idee sostenute nella Lettre e quelle del Discorso”. In effetti in quest’ultimo saggio il Manzoni, dimostrando di aver cambiato totalmente opinione su alcuni dei suoi postulati fondamentali giungeva a conclusioni opposte rispetto alla Lettre, arrivando a negare teoricamente ciò che aveva realizzato artisticamente: “Un grande poeta e un grande storico possono trovarsi, senza far confusione nell’uomo medesimo, ma non nel medesimo componimento”. Prendendo ad analizzare il romanzo storico lo definiva ora “genere ibrido”, mostruoso impasto di “facta atque infecta”, di storia e di romanzesco, per cui concludeva che storia e poesia avevano campi e scopi totalmente diversi (con Aristotele disse che campo della storia era il particolare, campo dell’arte l’universale) sicché non erano, secondo lui, assolutamente conciliabili. E ciò espresse con la mediocre metafora dell’olio e dell’acqua, che, per quanto agitati non arriveranno mai a mescolarsi. Il fatto che Manzoni facesse del romanzo il suo bersaglio principale era testimonianza della vistosissima crisi del suo autore.
Questa requisitoria contro quel genere che egli stesso era riuscito a nobilitare in modo straordinario fino ad annullare il romanzesco che era in fondo il suo difetto principale, non solo aveva il sapore di una violenta ritrattazione di quel modello letterario (nel quale - egli diceva - “devono entrare la storia e la favola, senza che si possa stabilire, né indicare in quale proporzione, in quali relazioni ci devono entrare; un componimento insomma che non c’è il verso giusto di farlo, perché il suo assunto è intrinsecamente contraddittorio”) ma era anche e soprattutto il segno più evidente del declino artistico del suo autore, della caduta definitiva della sua ispirazione. La sfiducia nei riguardi del romanzo era anche sfiducia nella poesia, in quell’arte straordinaria della sua migliore stagione, allorché era riuscito a fondere mirabilmente in una sola cornice verità e invenzione, la favola con la certezza dei fatti della storia. A questo punto, dopo la crisi e la caduta del vero poetico, dopo l’ammissione della sua assoluta inconciliabilità col vero storico, quale alternativa rimaneva al non più giovane Manzoni se non la ricerca di una storia assoluta e senz’arte. La ricerca del vero anche in quest’ultima stagione non s’era spenta in lui, ma era un vero che “gli tornava ormai tra le mani spento e senz’anima, sordo e oggettivo, perché privato di quell’animazione ideale che l’aveva redento” (De Castris). L’ultima stagione manzoniana non fu in effetti inoperosa, ma spesa preferibilmente in ricerche teoriche e filosofiche, illuminata solo a tratti da qualche ritorno di letterarietà. A parte l’indagine filosofica, confortata dalla guida paterna e affettuosa del Rosmini, (che il Manzoni aveva conosciuto già dal 1824, quando ancora come testimonia il Tommaseo “se ne stava contento del sensismo” e lontano dal prevedere quel “gran salto” della conversione filosofica che lo avrebbe indotto a sottoporre a critica spietata l’impalcatura ideologico-sensistica per approdare allo spiritualismo) e i pressanti e mai smessi interessi della lingua, fu la storiografia a impegnarlo fine al termine della vita. Ma negli ultimi lavori, a parte la letterarietà e la serietà della ricerca storica si faceva evidente l’involuzione culturale dell’autore che, solo recuperando l’antico abbozzo di un capitolo del Fermo e Lucia riusciva a comporre quella Storia della Colonna infame che con le sue cupe atmosfere, col suo moralismo da inquisizione rivelava anche il ritorno, pericoloso in questa età della sua vita, di quel pessimismo oscuro che la fede e la sua calda pietà cristiana avevano già redento alle soglie della maturità, dopo l’uscita dalla giovinezza. In questa fase, terminata la composizione delle tragedie, dopo una faticosa ricerca egli era riuscito a trovare un Dio capace di rivivere nella vita quotidiana e nella storia, mentre nell’ultima sua ricerca “anch’essa rivolta alla storia ma senza l’illusione e il fervore della poesia, non vi trovava che il male, caos e disperazione” (De Castris), un male per dirla con le parole dello stesso critico “non più redimibile nel cuore del poeta, in un libero slancio di umana giustizia, bensì asservito e punito, in un amara e senile implacabilità, da una legislazione opprimente”. Anche l’ultimo lavoro del Manzoni il famoso Saggio Comparativo su “la rivoluzione francese del 1789 e la rivoluzione italiana del 1859”, interrotto a ottantacinque anni già suonati e pubblicato postumo, pur rivelando nell’impianto l’interessante confronto dei due momenti rivoluzionari, tradiva nella considerazione della prima rivoluzione, quella francese, una disposizione tipicamente senile che indusse lo storico a pronunciare una condanna senza appello di un fatto della storia che pure nella sua giovinezza aveva giudicato con una certa indulgenza. Nella seconda parte, per quanto non finita, l’impianto abbastanza sicuro del discorso se da un lato consentiva positivamente allo storico di esaltare i meriti e la saldezza morale dei fondatori della nostra nazione tradiva anche i limiti di un metodo che non appare in grado di formulare un giudizio sull’azione della nostra classe politica ottocentesca, dimostratasi inadatta a risolvere i gravi problemi postunitari proprio a causa dell’involuzione politico-culturale di quella borghesia che pure era stata sua parte integrante e protagonista della nostra rivoluzione cui, si può dire, che lo stesso Manzoni per elezione appartenesse.
Fonte: Il capricorno http://www.lucaniainrete.it/dawload/uscita_3/Manzoni_ribellione_romantica_contro_le_regole.doc
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