Manzoni formazione culturale

Manzoni formazione culturale

 

 

 

I riassunti , gli appunti i testi contenuti nel nostro sito sono messi a disposizione gratuitamente con finalità illustrative didattiche, scientifiche, a carattere sociale, civile e culturale a tutti i possibili interessati secondo il concetto del fair use e con l' obiettivo del rispetto della direttiva europea 2001/29/CE e dell' art. 70 della legge 633/1941 sul diritto d'autore

 

 

Le informazioni di medicina e salute contenute nel sito sono di natura generale ed a scopo puramente divulgativo e per questo motivo non possono sostituire in alcun caso il consiglio di un medico (ovvero un soggetto abilitato legalmente alla professione).

 

 

 

 

Manzoni formazione culturale

La scelta della storia

Manzoni, nelle varie fasi della sua formazione, ebbe sempre un interesse:l’uomo nella sua globalità e universalità più ancora che in rapporto alla situazione contingente. Fu certamente questa attenzione, oltre all’influenza esercitata su di lui da Fauriel, a portarlo agli studi storici, che egli condusse però in modo del tutto indipendente e non certo come un “curioso” di cose passate, ma con lo spirito di chi vuol carpire dalla storia il segreto, il mistero in cui è immerso quel “guazzabuglio” che è il cuore umano. Perciò egli nei suoi studi storici rivolse la propria attenzione non tanto ai fatti salienti ed alle vicende dei Grandi che lasciarono più marcata la propria impronta nel tempo in cui vissero, ma alle condizioni di vita delle folle anonime, alle loro miserie ed alle loro aspirazioni ed ai loro disinganni, alle loro superstizioni ed alla loro fede. È significativo a tal proposito quanto il Manzoni affermerà nel “Discorso sopra alcuni punti della storia longobardica in Italia”: egli lamenta che gli storici di quel periodo non si siano punto interessati alla condizione delle masse popolari:

«Prenda adunque qualche acuto e insistente ingegno l' impresa di trovare la storia patria di que' secoli; ne esamini, con nuove e più vaste e più lontane intenzioni, le memorie; esplori nelle cronache, nelle leggi, nelle lettere, nelle carte de' privati che ci rimangono, i segni di vita della popolazione italiana. I pochi scrittori di que' tempi e de' tempi vicini non hanno voluto né potuto distinguere, in ciò che passava sotto i loro occhi, i punti storici più essenziali, quello che importava di trasmettere alla posterità: riferirono de' fatti, ma l'istituzione e i costumi, ma lo stato generale delle nazioni, ciò che per noi sarebbe il più nuovo, il più curioso a sapersi, era per loro la cosa più naturale, più semplice, quella che meritava meno d'essere raccontata. E se fecero così con le nazioni attive e potenti, e dal nome delle quali intitolavano le loro storie, si pensi poi quanto dovessero occuparsi delle soggiogate! Ma c'è pure un'arte di sorprendere con certezza le rivelazioni più importanti, sfuggite allo scrittore che non pensava a dare una notizia, e d'estendere con induzioni fondate alcune poche cognizioni positive. Quest'arte, nella quale alcuni stranieri fanno da qualche tempo studi più diligenti [è chiaro che il Manzoni si riferisce al Fauriel], e di cui lasciano di quando in quando monumenti degni di grande osservazione, quest' arte, se non m'inganno, è, ai giorni nostri, poco esercitata tra di noi.»

La poetica

Dall’Illuminismo aveva appreso e fatti propri i princìpi di Libertà, Giustizia e Fraternità, princìpi che, dopo la conversione religiosa egli riscoprì nelle pagine del Vangelo. Da questo punto di vista la conversione non fu che un approfondimento della sua moralità. La fede conferì ai suoi valori morali il segno di una certezza che li rendeva incrollabili e li arricchiva di un significato trascendente.
Se la lettura della storia portava alla considerazione che la forza del Male prevale più spesso che quella del Bene nelle vicende umane (concezione pessimistica della storia), il senso del “divino” calato nella storia aveva la forza di santificare il dolore, rendere purificatrice la sofferenza umana e bollare la cattiveria e la violenza dei malvagi col marchio della ribellione alla legge di Dio.
La vita gli appariva come l’eterno conflitto tra il Bene ed il Male, che si svolge continuamente nelle coscienze dei singoli individui come nelle vicende dei popoli e che impegna gli uni e gli altri in infinite prove, in cui si erge a protagonista il libero arbitrio dell’uomo. È nell’impegno di orientare le proprie scelte in favore del Bene che si distingue il cristiano, il quale deve riconoscersi nelle parole con cui il Manzoni definisce l’esempio dato dal Cardinale Borromeo : Naturale quindi che il Manzoni non potesse pensare all’attività artistica se non come un impegno in favore dell’uomo, in difesa del Bene e nel rispetto del disegno divino.
E’ nota la proposizione con cui egli definisce l’arte, la quale deve proporsi il “vero per oggetto, l'utile per iscopo e l'interessante per mezzo”. È chiaro, però, che il Vero dell’arte, cioè il vero poetico”, pur traendo origine dal vero storico, è cosa ben diversa da questo. Infatti il vero storico è l’insieme dei fatti realmente accaduti che hanno avuto a protagonista l’uomo. Esso costituisce la realtà della vita che non deve mai essere elusa o falsata o, peggio, tradita in nessuna circostanza e in nessuna attività umana, se non ci si vuole deliberatamente porre contro la vita stessa. Però l’artista non può e non deve confondersi con lo storico e non può quindi limitarsi a leggere la realtà per come si presenta in superficie. Egli deve invece penetrare quella realtà oggettiva per giungere a scoprire le verità più riposte, cioè tutto quanto si agitava nelle coscienze degli uomini che produssero quella realtà, e ricavare così il vero poetico, cioè l’essenza stessa della vita, che sarà poi il motivo d’ispirazione dell’opera d’arte. Perciò nell’opera d’arte non si riproduce questo o quel momento storico, ma il senso della storia e, quindi, della vita. Questo senso non si trova nell’esame dei fatti oggettivi, ma, attraverso tale esame, bisogna scoprirlo nel cuore degli uomini, nella sede cioè in cui si vive realmente il dramma dell’esistenza. Ed è nella rappresentazione di questo dramma che consiste la poesia: «Più si va addentro a scoprire il vero nel cuore dell'uomo - dice il Manzoni - e più vi si trova poesia vera».
Se il “Vero” (cioè il vero poetico che nasce dall’intuizione del Genio esercitata sul vero storico) deve essere l’oggetto dell’arte, il fine di questa deve essere l’ “utile”, cioè la capacità di trasmettere un messaggio morale che sappia conquistare le coscienze degli uomini, purificarle e rigenerarle. Non è concepibile che l’arte viva da sé e di sé e per sé: essa deve invece nascere dalla considerazione della storia, nutrirsi degli affetti e delle passioni degli uomini e servire all’elevazione del loro spirito. L’ utile costituisce, secondo Manzoni, un fatto intrinseco all’arte: esso rientra nella natura stessa dell’arte: non può esistere opera d’arte veramente tale che non sia morale”.
Infine l’arte deve avere l’interessante” per mezzo, nel senso che deve rappresentare qualcosa di vivo per le coscienze del suo tempo, sicché quel “senso” della vita in essa calato, cioè il “Vero” - che per sua natura è universale ed eterno -, trovi una immediata verifica nell’attualità del momento storico in cui l’opera sorge.
Queste idee furono alla base dell’attività artistica del Manzoni e trovano riscontro nelle opere della sua migliore stagione.
Le opere teoriche più significative, di riflessione sulla poetica;  che accompagnarono la sua scrittura, furono:

  • la “Lettera a Monsieur Chauvet sull'unità di tempo e di luogo della tragedia”, del 1820
  • la “Lettera sul Romanticismo”, del 1823, indirizzata al marchese Cesare D’Azeglio.

Con la prima lettera il Manzoni risponde alle critiche mossegli dal letterato francese Chauvet per non aver egli rispettato il precetto delle famose “unità” aristoteliche di tempo e di luogo nella tragedia “Il Conte di Carmagnola”. Il Manzoni obietta che quelle unità sono assurde in quanto costringono l’autore a condensare ed esasperare le passioni dei protagonisti, facendolo così incorrere in due errori assai gravi per la vera poesia: il primo consiste nel falsare il ritmo psicologico reale di quelle passioni; il secondo nel coinvolgere violentemente lo spettatore in quelle passioni, contravvenendo al canone più naturale della poesia, che è invece quello di mettere lo spettatore nella condizione ideale della “contemplazione disinteressata”. In questa lettera il Poeta ribadisce l’opinione che solo la storia ha la dignità di materia poetica ma che il poeta non può fermarsi, come lo storico, alla conoscenza oggettiva degli avvenimenti e deve invece penetrarli per mettere a nudo la coscienza dell’uomo Nella seconda Lettera il Manzoni tenta di delineare la posizione assunta dai Romantici nei confronti dell’arte, ma in effetti illustra la sua poetica. Egli afferma che gli studi dei Romantici sulla poesia hanno avuto due direzioni: una “negativa” per contestare la poetica neoclassica e cancellare per sempre l’uso della mitologia, dell’imitazione e delle regole prestabilite; l’altra “positiva” per affermare soprattutto che la poesia deve esprimere il “vero” e deve essere popolare. Per quanto riguarda la mitologia egli afferma di condividere la tesi dei Romantici contraria alla pretesa dei classicisti di voler riproporre le “allegorie” che sarebbero insite nei miti classici, ma aggiunge anche che la mitologia gli sembra vera e propria “idolatria”.

«Un altro argomento de' Classicisti era che nella mitologia si trova involto un complesso di sapientissime allegorie. I Romantici rispondevano che, se sotto quelle fandonie, c'era veramente un senso importante e ragionevole, bisognava esprimer questo immediatamente; che, se altri, in tempi lontani, avevano creduto bene di dire una cosa per farne intendere un’altra, avranno forse avuto delle ragioni che non si vedono nel caso nostro, come non si vede perché questo scambio d'idee immaginato una volta deva divenire e rimanere una dottrina, una convenzione perpetua..
«Ma la ragione per la quale io ritengo detestabile l'uso della mitologia, e utile quel sistema che tende ad escluderla... è che l'uso della favola è idolatria. Ella sa molto meglio di me che questa non consisteva soltanto nella credenza di alcuni fatti naturali e soprannaturali: questi non erano che la parte storica, ma la parte morale era fondata nell'amore, nel rispetto, nel desiderio delle cose terrene come se fossero il fine, come se potessero dare la felicità, salvare... Così l'effetto generale della mitologia non può essere che di trasportarci alle idee di que' tempi in cui il Maestro [Cristo] non era venuto, di quegli uomini che non ne avevano né la previsione, né il desiderio; di farci parlare anche oggi, come se Egli non avesse insegnato; di mantenere i simboli, l'espressioni, le formule de' sentimenti ch'Egli ha inteso distruggere; di farci lasciar da una parte i giudizi ch'Egli ci ha dati delle cose, il linguaggio che è la vera espressione di quei giudizi, per ritenere le idee e i giudizi del mondo pagano.»

Questa “Lettera sul Romanticismo” fu scritta nel 1823 ma fu pubblicata dall’Autore solo nel 1871. Ciò ci persuade che essa rappresenti, in definitiva, il credo poetico del Manzoni, anche se fra queste due date comparvero altri scritti che sembrano in parte contraddire la tesi esposta nella “Lettera”. Ad esempio è del 1845 il discorso “Del romanzo storico e, in genere, dei componimenti misti di storia e d'invenzione”, nel quale egli afferma l’impossibilità della sintesi estetica di storia e di invenzione (condannando quindi come opere ibride e poeticamente inconsistenti anche l’ “Adelchi” ed i “Promessi Sposi”!) ed afferma esplicitamente: «Un gran poeta e un gran storico possono trovarsi, senza far confusione, nell'uomo medesimo, ma non nel medesimo componimento

LA CONVERSIONE  E IL PROBLEMA DELLA MORALE CATTOLICA

A Parigi il Manzoni frequentò soprattutto il Fauriel, già amico della coppia Imbonati-Beccaria, col quale strinse rapporti di profonda amicizia nonostante la differenza di età. Ebbene, in quegli anni, il Fauriel si dibatteva intimamente col problema religioso. Egli, illuminista e ateo, aveva più volte espresso anche in pubblico la necessità per l’uomo di affermare le idee di Dio e della Giustizia eterna, senza le quali gli pareva impossibile fare entrare nelle coscienze umane i principi dell’amore, della carità, della solidarietà, insomma della fraternità, convinto come era che l’ateismo portasse all'egoismo. L’influenza del Fauriel non dovè essere estranea a quel misterioso processo spirituale che portò il Manzoni sulla strada del cattolicesimo. Certo è che Manzoni, dopo il matrimonio con Enrichetta Blondel, accettò di buon grado che la moglie frequentasse le lezioni catechistiche del dotto reverendo Eustachio Degola, avendo ella maturato il proposito di convertirsi al cattolicesimo. Anzi alle conferenze del Degola partecipò lo stesso Manzoni, che in seguito istituì col sacerdote rapporti di amicizia.
Degola, però, si professava apertamente un giansenista, cioè un aderente a quel movimento di cattolici iniziato da Giansenio (1585-1638) nel secolo XVII e ben presto condannato dalla Chiesa. Questo movimento affermava che l’uomo a causa del peccato originale aveva perduto la Grazia e la capacità di fare il bene; inoltre riteneva inefficace la redenzione ed affermava il principio della predestinazione: l’uomo, nascendo, ha già segnato il proprio destino di salvezza o di perdizione dalla imperscrutabile volontà divina. Chiaro, dunque, che l’insegnamento del Degola non sarebbe dovuto essere conforme all’ortodossia cattolica. Perché i coniugi Manzoni si rivolsero a lui? Intanto la scelta del maestro è ampiamente giustificata dalla fama che questi aveva di sacerdote dalla vita esemplare, dalla sua vasta e profonda cultura, dalla sua ampia disponibilità al dialogo aperto e non saccente come quello dei gesuiti; e certamente anche dalla assoluta sfiducia verso il clero ortodosso. Esiste poi la prova che il Degola, durante la sua lunga opera di persuasione svolta verso il Manzoni, evitò sapientemente di trattare gli argomenti dottrinali spinosi e preferì la lezione del Vangelo, tanto è vero che quando consegnò alla convertita Enrichetta (ma il destinatario sottinteso era anche Alessandro che si convertirà poco dopo della moglie) il “Règlement” che le avrebbe dovuto far da guida di vita cristiana per l’avvenire, non fece riferimento ai dogmi, ma soltanto a precetti di vita morale. C’è infine da aggiungere che il Manzoni aveva appreso proprio dagli illuministi che il ruolo di ciascun uomo deve essere svolto soprattutto con l’intento di contribuire al progresso morale dell’umanità e questo principio non era certamente estraneo all’insegnamento di Cristo: logico, quindi, che egli rivolgesse la propria attenzione principalmente alla dottrina etica che non a quella teologica della Chiesa cattolica. Ciò spiega quel rigore morale cui informò la propria esistenza pratica, la cui condotta fu esemplare e così simile non solo a quella del Degola, ma anche a quella dell’altro giansenista, padre Luigi Tosi, cui il Degola affidò la direzione della vita spirituale dei Manzoni quando questi si trasferirono in Lombardia.

LE OSSERVAZIONI SULLA MORALE CATTOLICA

Sono un documento centrale del pensiero religioso di Manzoni. L’occasione fu la polemica con lo storico ginevrino Sismondo de’ Sismondi, il quale, nella “Storia delle repubbliche italiane nel Medio Evo”, aveva attribuito al cattolicesimo la colpa della crisi politica e morale del nostro Paese. In particolare, rilevava che mentre in un primo momento i papi cattolici avevano fatto causa comune con i popoli contro i soprusi delle autorità politiche, dopo la Riforma si erano invece alleati con i sovrani assoluti contro i sudditi, conculcandone le coscienze e favorendo così l’insorgere delle superstizioni popolari e la tendenza degli Italiani a praticare solo esteriormente la loro religione. Manzoni, invitato anche dall’abate Tosi, sentì il bisogno di rispondere al Sismondi, ma, sorvolando sulle questioni di natura politica, anche perché in parte concordava con lo storico svizzero, affrontò il problema morale del cattolicesimo. Egli asserì anzitutto che la fonte della morale cattolica è esclusivamente il Vangelo, il quale contiene risposte a tutte le domande dell’uomo: “Quando il mondo ha riconosciuto un'idea vera e magnanima, lungi dal contrastargliela, bisogna rivendicarla al Vangelo, mostrare che essa vi si trova,ricordargli che se avesse ascoltato il Vangelo, l'avrebbe riconosciuta dal giorno in cui esso fu promulgato”; e poi rivendicò la funzione positiva del magistero della Chiesa cattolica che insegna ai fedeli come attingere direttamente dal Vangelo le verità più sublimi soprattutto d’ordine morale: “La Chiesa co' suoi primi insegnamenti può innalzare il semplice, il quale ignora perfino che ci sia una filosofia morale, al più alto punto, non di questa filosofia, ma della morale medesima; a quel punto in cui si trova un Bossuet dopo aver percorso un vasto ciclo di meditazioni sublimi”.

LE TRAGEDIE

Manzoni compose due tragedie, entrambe d’argomento storico, in cinque atti, in endecasillabi sciolti. La prima, “Il Conte di Carmagnola”, fu scritta tra il 1816 ed il 1820 e rappresentata una sola volta a Firenze nel 1828; la seconda, “Adelchi”, fu scritta tra il 1820 ed il 1822 e rappresentata senza successo a Torino nel 1843, a Napoli nel 1873, a Milano nel 1874, e, con un certo successo, in tempi a noi più vicini e precisamente a Milano nel 1938 ed a Roma nel 1960. La realtà è che queste tragedie sono state scritte più per essere lette che per essere rappresentate, dal momento che l’autore difettava di una vera ispirazione tragica, e non aveva esperienza di teatro. Certamente l’ “Adelchi” è opera di grande rilievo poetico, ma va intesa piuttosto come un “poema storico”.
A dispetto tuttavia di questa sua scarsa attitudine verso il teatro e la tragedia, Manzoni volle cimentarsi in queste due opere anzitutto per dichiarare la sua convinzione circa l’utilità della tragedia e poi per dare l'esempio di una tragedia romantica e moderna del tutto affrancata dalla tradizione classica, e principalmente dalle regole pseudo-aristoteliche, come ebbe a dire nella Prefazione al Conte di Carmagnola

«...una questione più volte discussa, ora quasi dimenticata, ma che io credo tutt'altro che sciolta... è: se la poesia drammatica sia utile o dannosa. So che ai nostri giorni sembra pedanteria il conservare alcun dubbio sopra di ciò, dacché il pubblico di tutte le nazioni colte ha sentenziato col fatto in favore del teatro. Mi sembra però che ci voglia molto coraggio per sottoscriversi senza esame a una sentenza contro la quale sussistono le proteste di Nicole, di Bossuet e di G. G. Rousseau, il di cui nome unito a questi viene qui ad avere una autorità singolare. Essi hanno unanimemente inteso di stabilire due punti: uno che i drammi da loro conosciuti ed esaminati sono immorali; l'altro che ogni dramma deva esserlo, sotto pena di riuscire freddo, e quindi vizioso secondo l'arte; e che in conseguenza la poesia drammatica sia una di quelle cose che si devono abbandonare, quantunque producano dei piaceri, perché essenzialmente dannose. Convenendo interamente sui vizi del sistema drammatico giudicato dagli scrittori nominati qui sopra, oso credere illegittima la conseguenza che ne hanno dedotta contro la poesia drammatica in genere. Mi pare che siano stati in errore dal non aver supposto possibile altro sistema che quello seguito in Francia. Se ne può dare, e se ne dà un altro suscettibile del più alto grado d'interesse e immune dagl'inconvenienti di quello: un sistema conducente allo scopo morale, ben lungi dall'essergli contrario.»

Una novità singolare nelle tragedie manzoniane è data dalla presenza dei Cori, uno al termine del secondo atto del “Carmagnola” (“S'ode a destra uno squillo di tromba”) e due nell’ “Adelchi”, precisamente al termine del III atto (“Dagli atrii muscosi, dai fori cadenti”) e dopo la prima scena del IV atto (“Sparsa le trecce morbide”). Questi cori non sono la riproposizione dei cori dell’antica tragedia greca, dai quali si differenziano nettamente, ma rappresentano come una pausa di raccoglimento durante lo svolgimento del dramma, un momento di riflessione sugli avvenimenti rappresentati, uno sforzo per penetrare nel significato più riposto delle vicende e trarne un insegnamento morale: è un mezzo per semplificare al lettore od allo spettatore la strada che conduce allo scopo che si ripropone l’Autore, quello “scopo morale” capace di contraddire l’opinione negativa del Rousseau circa l’utilità della tragedia.

L' “Adelchi”

La tragedia “Adelchi” è preceduta da “Notizie storiche” suddivise in “Fatti anteriori all'azione compresa nella tragedia”, “Fatti compresi nell'azione della tragedia” e “Usanze caratteristiche, alle quali si allude nella tragedia”. E ancora da una commossa dedica ad Enrichetta

Nelle notizie storiche l'Autore risale all'anno 568, quando il popolo dei Longobardi, guidato dal re Alboino, abbandona la Pannonia e si stanzia in Italia su terre sottratte alla giurisdizione dell'Impero Romano d'Oriente, cioè dei Bizantini. Da quell'anno il dominio dell’Italia è grosso modo ripartito fra il re dei Longobardi, l'imperatore d'Oriente ed il Pontefice, che hanno per loro sede ufficiale rispetti­vamente Pavia, Ravenna (ove risiede l'Esarca che governa in nome dell' Imperatore) e Roma. Da allora fra i Longobardi ed il Pontefice i rapporti sono stati difficili, i primi invadendo spesso i territori del secondo, questi invocando ogni volta l'aiuto dei Franchi.
La situazione non mutò quando, alla morte del re Astolfo, fu eletto re dei Longobardi, nel 756, il duca di Brescia Desiderio, benché questi avesse avuto l'appoggio del papa Stefano II in cambio della promessa di restituzione delle terre sottratte al papa da Astolfo. Intanto in Francia, morto Pipino, il regno fu diviso fra i suoi figli Carlo e Carlomanno e, alla morte di quest’ultimo, riunificato da Carlo sotto il suo scettro a scapito dei due figli  del fratello (che, insieme con la madre Gerberga, si rifugiarono presso la corte di Desiderio). I rapporti tra Carlo (il futuro Carlo Magno)  e Desiderio, che sembravano aver trovato un qualche equilibrio dopo le nozze del re di Francia con Desiderata o Ermengarda, figlia di Desiderio, si rifecero drammatici allorché Carlo ripudiò la moglie per sposare Ildegarde, di nazionalità sveva. Di ciò approfittarono Paolo I e Stefano III, successori del papa Stefano II, per invocare nuovamente l'aiuto dei Franchi contro Desiderio, il quale non solo non aveva restituito i territori promessi, ma ne aveva sottratti ancora altri al papato. Ma è il papa Adriano I ad ottenere l’ultimo decisivo intervento da parte dei Franchi.
Carlo decide la guerra e nel 772 scende in Italia. Dopo due anni, anche con l'aiuto di traditori longobardi, riesce vincitore: Desiderio, fatto prigioniero, è relegato in un monastero francese ove trascorre santamente gli ultimi anni di vita; suo figlio Adelchi, che resisteva in Verona, si rifugia a Costantinopoli, ove è accolto con grandi onori, e pochi anni dopo torna al comando di un esercito greco per combattere i Franchi e trovare la morte sul campo; Ermengarda si ritira in convento e morirà di crepacuore. Sono questi i fatti inclusi nella tragedia, con qualche libertà di cui lo stesso Manzoni ci avverte in un passo delle "Notizie storiche", che è forse opportuno riportare testualmente per una nota che riguarda "la parte morale".

I atto

Il primo atto si svolge quasi interamente nel palazzo reale di Pavia ove lo scudiero Vermondo annunzia ai due re (Desiderio ha associato al governo regale il figlio Adelchi) l’imminente arrivo della ripudiata Ermengarda. Nelle prime battute già si delineano le due diverse fisionomie di Desiderio e di Adelchi: fiero, risoluto, vendicativo e intransigente il primo; non meno fiero e risoluto, ma prudente e d’animo equo il secondo. Desiderio è impaziente di scontrarsi con Carlo per fargli pagare l’oltraggio del ripudio, ma Adelchi calcola realisticamente i rischi di una guerra che li trova circondati da sudditi pronti al tradimento e che egli ritiene oltretutto ingiusta per il suo popolo che si è reso colpevole di aver invaso i territori del papa. Quando però Desiderio mette in dubbio il suo onore di soldato e la sua lealtà di figlio, allora non esita a dichiararsi pronto a misurarsi nelle armi con Carlo per vendicare l’oltraggio sofferto dalla cara sorella, e fa dono al padre di tutta intera la sua volontà. Poche battute bastano al Manzoni per tratteggiare il carattere dell’infelice Ermengarda: delusa nelle sue più affettuose speranze, non riesce tuttavia a sopire l’ardente amore che la legò a Carlo, su cui teme la vendetta paterna; sa che non potrà più amare nessun altro uomo e chiede licenza di poter dedicare il resto della vita “a quello Sposo che non mai rifiuta”, raggiungendo la sorella Ansberga nel monastero di S. Salvatore in Brescia (che fu fondato dalla madre, la regina Ansa). Nel frattempo giunge un legato di Carlo che impone a Desiderio di abbandonare le terre del papa. E' un ultimatum. Al rifiuto del re, il legato ha l’ordine di dichiarargli guerra a nome di Carlo. L’atto si conclude in casa di Svarto, un oscuro soldato ma ambizioso e pronto a tutto pur d’emergere, ove si riuniscono segretamente alcuni duchi longobardi che già meditano di accordarsi con Carlo (come aveva ben previsto il prudente Adelchi).

II atto

Il secondo atto ci porta in un’epoca molto più avanzata, nel campo dei Franchi in Val di Susa. Il re Carlo è sfiduciato e dispera di poter mai superare le barriere delle Chiuse, che presentano ostacoli naturali e difese artificiali pressoché insormontabili. Annuncia quindi la sua decisione di rinunziare all’impresa nonostante le esortazioni del legato pontificio, quand’ecco che gli si presenta il diacono Martino, messo del Vescovo di Ravenna, che gli dice d’esser giunto al suo campo per un varco sconosciuto ai Longobardi e praticabile da un esercito. Dice anche che i Longobardi sono sprovvisti di difesa alle loro spalle. L’arrivo di Martino sembra a Carlo un soccorso e un invito della Divina Provvidenza per proseguire nella guerra e, rincuoratosi, dà immediatamente le necessarie disposizioni per muovere il campo ed assalire il nemico alle spalle.

Atto III

Nel terzo atto è di scena il campo dei Longobardi, ove si immagina che la smobilitazione del campo nemico sia dovuta a disegni di ritirata. Si pregusta la vittoria e Desiderio loda con commosse parole l’eroismo di Adelchi, salvatore della patria. All’improvviso la catastrofe: un soldato trafelato annunzia che i Franchi hanno assalito l’accampamento in gran forza alle spalle ed hanno preso i Longobardi alla sprovvista: i soldati fuggono in cerca di scampo e non c'è modo di trattenerli per organizzare una difesa, per altro certamente inutile. Adelchi non si rassegna e corre fra i suoi, ma ogni tentativo di ripresa è vano. In un bosco solitario incontrerà il vecchio padre fuggente e si porrà al suo fianco per proteggerne la vita. Intanto Carlo, nel campo longobardo ormai conquistato, riceve l’omaggio dei duchi traditori, ai quali suggerisce di persuadere tutto il popolo dei Longobardi ad accettare il nuovo re, che è venuto solo per scalzare dal trono una famiglia indegna del Cielo: chi gli consegnerà Desiderio ed Adelchi avrà una lauta ricompensa: nomina intanto Svarto Conte di Susa! Quindi congeda i suoi nuovi “prodi fedeli”, ma, appena i traditori vanno via, rivolto ad un suo Conte, dice amaramente: «Rutlando, ho io chiamati prodi costor? errato ha il labbro del re. Questa parola ai Franchi miei in guiderdon la serbo. Oh! possa ognuno dimenticar ch'io proferita or l'abbia». E invece rende sincero onore al morente Anfrido, scudiero di Adelchi, che ha cercato la morte in battaglia e, prima di spirare, trova la forza di esprimere al vincitore un ultimo pensiero d’amore per il suo signore

coro

Al termine del terzo atto il Manzoni collocò il primo Coro. Sono undici strofe di sei versi dodecasillabi ciascuna. Il poeta immagina di vedere il “volgo disperso” degli Italiani aprirsi alla speranza di liberarsi dei padroni longobardi con l’aiuto dei Franchi, ma li ammonisce severamente

Atto IV

Il quarto atto è in gran parte dominato dalla figura di Ermengarda, che trascina ormai la sua pena in un corpo cadente nel monastero di cui la sorella è badessa. Le suore l’hanno condotta in giardino per farle ancora una volta mirare il cielo della sua patria. L’infelice affida ad Ansberga i suoi ultimi messaggi d’amore che son per il padre e per il fratello, ma anche per... Carlo. Ella perdona allo sposo tutto il male che le ha fatto e dall’alto del cielo pregherà anche per lui. Ansberga vuole rincuorarla e cerca  di allontanare dalla sua mente l’idea della morte imminente: l’invita a farsi suora, a dimenticare, a ritrovare la pace nella calma del chiostro. Ma come potrebbe Ermengarda, che ancora ama il suo Carlo e ancora... spera, tradire il Signore con una falsa promessa? Ansberga insiste: a che sperare, se il malvagio “di nuove inique nozze si fe' reo?”. A questa notizia, così incautamente rivelatale, Ermengarda sviene ed inizia il delirio della morte. In un barlume di lucidità, chiede alle suore di riportarla a letto e qui dolcemente si spegne, “col tremolo sguardo cercando il ciel”.
L’ultima parte dell’atto ci porta invece a Pavia ove il Conte Gundigi, preposto alla difesa della città ed alla protezione del re Desiderio, si accorda con Svarto per arrendersi al re Carlo.

coro

A questo punto si colloca il secondo Coro della tragedia, che consente al Poeta di approfondire ulteriormente il dramma della segreta pena d'amore che non ha mai abbandonato la “pia” Ermengarda, ma anche di meditare sull’antica legge del destino che vuole che le colpe dei padri ricadano sui figli. Sì, ma la sventura toccata agli innocenti è come mandata dal Cielo per sottrarli appunto ad un più severo giudizio che rimbomberà in eterno. E perciò il Manzoni può dire ad Ermengarda con tutta certezza

Atto V

Nel quinto atto si conclude il dramma dei re longobardi: nel palazzo reale di Verona i duchi annunziano ad Adelchi che Carlo, nelle cui mani son caduti Pavia e Desiderio, chiede la resa dell’ultimo baluardo longobardo. La scena si sposta poi nel campo dei Franchi ove Desiderio prega inutilmente il re Carlo di lasciare libero Adelchi che non ha colpa di quella guerra. Ma giunge la notizia della resa di Verona che è stata difesa da pochi prodi guidati da Adelchi: questi è mortalmente ferito e chiede di venire al cospetto del padre e di re Carlo. Segue un commosso dialogo fra padre e figlio. Quest’ultimo implora Carlo, ottenendone solenne promessa, che la prigionia del padre non sia grave e che il vecchio non debba soffrire gli insulti dei traditori. Lasciati soli nella tenda di Carlo, padre e figlio consumano il proprio destino

Il messaggio principale della tragedia è contenuto nella scena finale, nella particolare visione che Manzoni affida al principe morente. Il conflitto fra logiche e valori in componibili (politica e morale, religione e mondo) viene riassunto in una regola cruda:


Gran segreto è la vita, e nol comprende
che l'ora estrema. Ti fu tolto un regno:
deh! nol pianger; mel credi. Allor che a questa
ora tu stesso appresserai, giocondi
si schiereranno al  tuo pensier dinanzi
gli anni in cui re non sarai stato, in cui
né una lagrima pur notata in cielo
fia contra te, né il nome tuo saravvi
con l'imprecar de' tribolati asceso.
Godi che re non sei, godi che chiusa
all'oprar t'è ogni via: loco a gentile,
ad innocente opra non v’è; non resta
che far torto, o patirlo. Una feroce
forza il mondo possiede, e fa nomarsi
dritto: la man degli avi insanguinata
seminò l'ingiustizia; i padri l'hanno
coltivata col sangue; e omai la terra
altra messe non dà. …

La Pentecoste

L’interrogarsi manzoniano sull’inconciliabilità fra i valori della storia umana e la giustizia lo porta, dunque, a un aradicale pessimismo e alla negazione della possibilità di far viviere la giustizia nel mondo.
Sono, questi, gli anni dell’approfondimento sui temi della morale cattolica, dello studio dei mistici e dei moralisti spagnoli del ‘600. nel 1822 Manzoni compone La Pentecoste, quinto Inno degli Inni sacri. La Pentecoste, cinquantesimo giorno dopo Pasqua, celebra la discesa dello Spirito Santo, che spinse finalmente gli apostoli ad uscire da loro isolamento e a dare inizio alla predicazione di una Novella che avrebbe rivoluzionato il mondo. È appunto la riflessione su questa Rivoluzione che il porta importanti correttivi al pessimismo manzoniano: diffondendosi nel mondo, grazie al sostegno dello Spirito, il messaggio evangelico aveva radicalmente rovesciato la prospettiva, facendo della speranza nell’amore per Dio e nella sua promessa di riscatto un conforto vivo nella realtà dell’esistenza.  Il tema generativo della Pentecoste è, dunque, nel rovesciamento di valori determinato dal cristianesimo. Ma la nuova condizione donata dallo Spirito Santo all’umanità non si limita a una dimensione interiore, aprendosi all’auspicio di una solidarietà cristiana capace di accorciare le distanze sociali.
Non dunque la rievocazione di un miracolo, ma il canto per un processo di salvazione e di riscatto perennemente in atto e che la Chiesa è chiamata a testimoniare nella storia, come un lievito continuo di Bene nella eterna lotta contro il Male.

I motivi fondamentali dei Promessi sposi: la Provvidenza e la Storia

La vicenda dei protagonisti è essenziale all’Autore per poter esprimere la sua profonda ispirazione, il suo Vero, che consiste nella eterna lotta tra il Bene ed il Male, ma essa si inserisce costantemente in situazioni ben più rilevanti della storia di quegli anni (la carestia, la peste, la guerra per la successione al ducato di Mantova, la discesa dei Lanzichenecchi; il malgoverno spagnolo, la crisi della giustizia, le violente contestazioni popolari, ecc.) senza per questo annullarsi e neppure ridimensionarsi agli occhi del lettore, che partecipa al dramma dei due giovani promessi (come a quello di tanti altri personaggi minori: ad esempio, la madre di Cecilia) con non minore commozione di quella che lo coglie alla visione dei campi desolati e inariditi dalla siccità, delle strade di Milano ora invase dalla folla tumultuante ora squallidamente deserte per timore della peste, dell’agghiacciante scenario del Lazzaretto. Forse è proprio qui il segreto della “coscienza storica” del Manzoni, che non riesce a cogliere alcun significato nei grossi avvenimenti della storia se non verificandone cause ed effetti nelle singole coscienze degli uomini, potenti od umili che siano, dato che la vera tragedia della storia è lì che si compie.
E che di tragedia si tratti è dimostrato dalla considerazione, tutt’altro che gratuita, che la vita è essenzialmente “dolore”, l’egoismo non paga, la fede in una superiore Giustizia resta l’unica risorsa dell’uomo per fargli accettare la vita come dolore ed il Bene come un valore. Si spiega così nel romanzo la costante presenza della Provvidenza, che non è un personaggio a sé stante come i miti delle divinità pagane nelle opere classiche, ma è indistintamente, impalpabilmente dappertutto: è l’anima stessa della storia. D’altra parte la storia, al di là delle apparenze che ce la mostrano assai spesso in contrasto con la Legge di Dio, non può che tendere verso il fine supremo prescritto da Dio. Scrive a proposito il Sapegno: «In questo mondo basso, più triste che lieto, l'opera di Dio la senti soprattutto nelle tribolazioni, negli affanni, e in quegli spiragli di luce che s'aprono improvvisi in mezzo alle tenebre dell'angoscia e chiudono le porte alla disperazione... E' una presenza paterna, amorosa e severa, che palpita in ogni cosa; e il poeta l'avverte con la fede semplice e intatta di un fanciullo, la fede dei suoi contadini e di tutta la povera gente... Non a caso i Promessi Sposi sono stati chiamati il romanzo della Provvidenza». Ma se questo è vero, è pure vero che «se davvero di un protagonista sensibile si vuol parlare - come osserva il Russo -, bisognerebbe pensare e sostenere che protagonista è tutto un secolo, è tutta una civiltà, protagonista vero e immanente in ogni pagina è il Seicento». Leggiamo questa pagina interessantissima del Russo:

«Di quel secolo egli viene tracciando l'intera vita, la quale, perché svuotata del sentimento intimo di Dio, deve essere necessariamente vana, pomposa, barocca. Il puntiglio e l'orgoglio, ecco le più vere divinità di quel secolo esteriore e farisaico. Don Rodrigo muove tutta l'azione per spuntare un impegno, per tenere fede a una vile scommessa; il conte Attilio e il conte zio debbono sostenere l'onore del casato; il podestà, l'onore della formale dottrina giuridica; don Ferrante, il più innocente di tutti, l'onore della scienza umbratile ed inutile e quello delle buone regole ortografiche. Il cancelliere Ferrer, per tutelare l'onore del governo, prima abbassa il prezzo del pane, e poi sguinzaglia i suoi bargelli; e don Gonzalo Fernandez de Cordova, per salvare l'onore di un trono, conduce una guerra funesta per la conquista del Casal Monferrato. Più cupo di tutti, come eroe di questo pregiudizio dell'onore e del decoro, il principe-padre, che sacrifica e conduce alla perdizione una figliuola.».

«Persuaso che la vita non è già destinata ad essere un peso per molti, e una festa per alcuni, ma per tutti un impiego, del quale ognuno renderà conto, cominciò da fanciullo a pensare come potesse render la sua utile e santa». A confortare e sostenere la difficile prova del cristiano vale la fede nella Provvidenza Divina, la fede in quel Dio che «non turba mai la gioia de' suoi figli, se non per prepararne loro una più certa e più grande».

«...che cosa ci dà la storia? dei fatti che non sono, per così dire, conosciuti se non nel loro aspetto esteriore; quello cioè che gli uomini hanno fatto: ma quello che hanno pensato, i sentimenti che hanno accompagnato le loro deliberazioni e i loro progetti, i loro successi e le loro sventure; i discorsi per mezzo dei quali essi hanno fatto o cercato di far prevalere le loro passioni e la loro volontà su altre passioni e altre volontà, per mezzo dei quali hanno espresso la lor collera, dato sfogo alla loro tristezza, hanno, in una parola, rivelato la loro individualità, tutto questo è passato quasi sotto silenzio della storia; e tutto questo è il dominio della poesia».

«O padre! / Un nemico si mostra, e tu mi chiedi / ciò ch'io farò? Più non son io che un brando / nella tua mano».

Al ciel diletto/ è Adelchi, o re. Da questo giorno infame/ trarrallo il ciel, lo spero, e ad un migliore/ vorrà serbarlo: ma, se mai... rammenta/ che, regnante o caduto, è tale Adelchi,/ che chi l'offende, il Dio del ciel offende/ nella più pura immagin sua. Lo vinci/ tu di fortuna e di poter, ma d'alma/ nessun mortale: un che si muor tel dice.

Udite! Quei forti che tengono il campo, / che ai vostri tiranni precludon lo scampo,/ son giunti da lunge, per aspri sentier:/ Si vider le lance calate sui petti,/ a canto agli scudi, rasente agli elmetti/ udiron le frecce fischiando volar./ E il premio sperato, promesso a quei forti,/ sarebbe, o delusi, rivolger le sorti, / d'un volgo straniero por fine al dolor?/ Tornate alle vostre superbe ruine,/ all'opere imbelli dell'arse officine, / ai solchi bagnati di servo sudor./ Il forte si mesce col vinto nemico,/ col novo signore rimane l'antico;/ l'un popolo e l'altro sul collo vi sta./ Dividono i servi, dividon gli armenti;/ si posano insieme sui campi cruenti /d'un volgo disperso che nome non ha.

Te della rea progenie/ degli oppressor discesa,/ ….. te collocò la provida /sventura in fra gli oppressi:/ muori compianta e placida;/ scendi a dormir con essi:/ alle incolpate ceneri / nessuno insulterà.

ADELCHI:  O Re de' re tradito/ da un tuo Fedel, dagli altri abbandonato!../ . Vengo alla pace tua: l'anima stanca / accogli.
DESIDERIO: Ei t'ode: oh ciel! tu manchi! ed io../ in servitude a piangerti rimango

 

Fonte: http://www.itisravenna.it/didonline/doc/Informatica/5ainf/Lettere/Lezione/BAZZI_MIRKA/Manzoni_appunti_per_ITIS.doc

Sito web da visitare: http://www.itisravenna.it/

Autore del testo: non indicato nel documento di origine

Il testo è di proprietà dei rispettivi autori che ringraziamo per l'opportunità che ci danno di far conoscere gratuitamente i loro testi per finalità illustrative e didattiche. Se siete gli autori del testo e siete interessati a richiedere la rimozione del testo o l'inserimento di altre informazioni inviateci un e-mail dopo le opportune verifiche soddisferemo la vostra richiesta nel più breve tempo possibile.

 

Manzoni formazione culturale

 

 

I riassunti , gli appunti i testi contenuti nel nostro sito sono messi a disposizione gratuitamente con finalità illustrative didattiche, scientifiche, a carattere sociale, civile e culturale a tutti i possibili interessati secondo il concetto del fair use e con l' obiettivo del rispetto della direttiva europea 2001/29/CE e dell' art. 70 della legge 633/1941 sul diritto d'autore

Le informazioni di medicina e salute contenute nel sito sono di natura generale ed a scopo puramente divulgativo e per questo motivo non possono sostituire in alcun caso il consiglio di un medico (ovvero un soggetto abilitato legalmente alla professione).

 

Manzoni formazione culturale

 

"Ciò che sappiamo è una goccia, ciò che ignoriamo un oceano!" Isaac Newton. Essendo impossibile tenere a mente l'enorme quantità di informazioni, l'importante è sapere dove ritrovare l'informazione quando questa serve. U. Eco

www.riassuntini.com dove ritrovare l'informazione quando questa serve

 

Argomenti

Termini d' uso, cookies e privacy

Contatti

Cerca nel sito

 

 

Manzoni formazione culturale