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Tra capitolo nono e decimo de I Promessi Sposi arriviamo ad uno snodo fondamentale del romanzo: dopo la "notte degli imbrogli" e la fuga di Renzo e Lucia dalle grinfie dei "bravi" di don Rodrigo, la scena romanzesca si sposta prima sulle rive dell'Adda, poi su un "barroccio", cioè un semplice carro, diretto alla volta di Monza, da dove il protagonista maschile raggiungerà Milano (luogo di nuovi tumulti e della "formazione" di Tramaglino), mentre Lucia, su indicazioni del padre Cristoforo, troverà (o meglio: crederà di trovare) un luogo protetto e riparato presso il convento della celeberrima monaca di Monza.
Con questa figura, una di quelle che più profondamente si radicano nella mente del lettore, Manzoni ci consegna uno dei suoi personaggi più complessi e problematici; a partire dalla descrizione accurata che ne dà, si capisce che nella Monaca (modellata del resto su una figura reale del Seicento lombardo) si condensano molte delle problematiche etico-morali che sono alla base della visione del mondo dell'autore. La "sventurata", costretta dalla famiglia e dall'orgoglio paterno ad una monacazione forzata che l'ha lasciato sofferente ed amareggiata della vita, occupa quasi per intero due capitoli (nel Fermo e Lucia erano ben sei) che ricostruiscono in analessi la sua triste vicenda umana: l'ipocrisia e le imposizioni della famiglia nobile, il noviziato e il rito dell'ingresso nel convento, la vita claustrale e la relazione con il nobilotto Egidio, che la porta addirittura in un omicidio. E a differenza che per l'Innominato, la luce della Provvidenza e la voce della fede, incarnata dall'umile Lucia, per la monaca non si schiudono le porte della salvezza e della redenzione; sarà infatti lei ad obbedire - ancora una volta... - ad un comando maschile, nell'occasione del rapimento della protagonista.
Al termine del capitolo 8, quello della notte degli imbrogli, avevamo lasciato i protagonisti in viaggio su una barca nell’acqua del lago di Como. Ad apertura del capitolo 9 li ritroviamo al momento di sbarcare sulle rive del fiume Adda, tenendosi l’un l’altra le mani in una catena simbolica di affetti. Questa catena apre e connota per opposizione una coppia di capitoli in cui si racconteranno invece di legami famigliari ben diversi, oppressivi, e non di sostegno come invece nel caso dei nostri umili. Gli anelli di questa catena stanno però per separarsi: il viaggio de tre esuli prosegue su un barroccio, su carro, fino a un luogo che l’Anonimo vorrebbe lasciare senza nome, ma che il narratore ci indica ben presto comeMonza. Da qui Renzo ripartirà per Milano, mentre le due donne si fermeranno per cercare l’aiuto del padre guardiano di un monastero di Cappuccini, a cui le ha indirizzate padre Cristoforo. Il padre guardiano decide di metterle al sicuro in un monastero, sotto la protezione della Signora.
Ma chi è costei? Per saperne qualcosa dobbiamo aspettare che Agnese e Lucia trovino il coraggio di domandarlo al barrocciaio mentre si dirigono al convento, apprendendo così da lui che Signora è l’appellativo antonomastico di una monaca giovane ma nobile e quindi con molta autorità nel convento.
«La signora,» rispose quello, «è una monaca; ma non è una monaca come l'altre. Non è che sia la badessa, nè la priora; che anzi, a quel che dicono, è una delle più giovani: ma è della costola d'Adamo; e i suoi del tempo antico erano gente grande, venuta di Spagna, dove son quelli che comandano; e per questo la chiamano la signora, per dire ch'è una gran signora; e tutto il paese la chiama con quel nome, perchè dicono che in quel monastero non hanno avuto mai una persona simile»
Come dimostra anche la frequenza dei verbi di dire, quella del barrocciaio è dunque una sorta di vox populi e presenta la Signora, ispirata ad un personaggio storico realmente esistito (Suor Virginia Maria, 1575-1650, al secolo Maria Anna de Leyva y Marino), accentuandone in particolare i tratti più favolistici, colti dall’opinione comune, riguardanti la nobiltà delle sue origini e l’autorità che aveva dentro il monastero. Andrà tuttavia notato che questa prima presentazione, tutta insistita sul decoro di una casata e sul suo potere alto, è affidata per contrasto non all’autorità del padre guardiano, né alla voce letteraria del narratore, bensì alla parlata popolare e un po’ sconnessa dell’umile barrocciaio. Questa descrizione inoltre si discosta molto da quella che scopriremo essere la realtà della Signora. Contro tutto il potere della sua famiglia e del suo nome, la vita della Signora è infatti segnata dall’impossibilità di realizzare pienamente la propria volontà. Ma prima di arrivare alla lunga storia di questa monaca, che occupa in analessi ben due capitoli del romanzo (e che nel Fermo e Lucia si distendeva addirittura per sei) dobbiamo prima incontrarla insieme ai nostri personaggi nel parlatorio del convento. Attraverso gli occhi di Lucia, nel momento in cui la vede per la prima volta, abbiamo un vero e proprio ritratto, completo di cornice, della Signora:
Lucia, [...] vide una finestra d'una forma singolare, con due grosse e fitte grate di ferro, distanti l'una dall'altra un palmo; e dietro quelle una monaca ritta. Il suo aspetto, che poteva dimostrar venticinque anni, faceva a prima vista un'impressione di bellezza, ma d'una bellezza sbattuta, sfiorita e, direi quasi, scomposta.
È il caso di osservare tutta intera la lunghezza della descrizione, che si sofferma su dettagli minuti dei tratti fisici, del vestiario e del comportamento del personaggio, comprendendo anche quei tratti caratteriali e psicologici che vi si possono arguire. Questa è una descrizione molto lunga per gli standard manzoniani. Contando che si tratta della descrizione di una monaca, la cosa dovrebbe porci sull’avviso: perché infatti insistere così tanto sull’aspetto esteriore? La risposta è presto data: perché è la monaca stessa ad attribuire grande importanza alla propria bellezza, a idolatrarla, come dirà il narratore. Il ritratto della signora, chiusa in convento, ma assetata di mondanità, diventa così specularmente opposto a quello della timida Lucia, pronta in ogni momento a nascondersi al mondo, perfino il giorno del suo matrimonio, come succede nel capitolo secondo. Le strutture contrastanti, avversative, contraddistinguono molte parti del ritratto della monaca; abbiamo ad esempio letto ch’ella faceva un’impressione di bellezza, ma "d'una bellezza sbattuta, sfiorita e, direi quasi, scomposta". Notiamo anche quel “direi quasi”: se il ritratto è iniziato attraverso gli occhi di Lucia, prosegue con la focalizzazione del narratore, che osserva molte più cose di quelle potevano “far specie alle due donne, non esercitate a distinguer monaca da monaca”. Nel capitolo precedente, l’ inserimento della voce del narratore nel punto di vista di Lucia aveva caratterizzato il celebre passo dell’Addio monti. Per tornare al nostro capitolo nono, leggiamo ad esempio la descrizione degli occhi della Signora:
Due occhi, neri neri anch'essi, si fissavano talora in viso alle persone, con un'investigazione superba; talora si chinavano in fretta, come per cercare un nascondiglio; in certi momenti, un attento osservatore avrebbe argomentato che chiedessero affetto, corrispondenza, pietà; altre volte avrebbe creduto coglierci la rivelazione istantanea d'un odio inveterato e compresso, un non so che di minaccioso e di feroce: quando restavano immobili e fissi senza attenzione, chi ci avrebbe immaginata una svogliatezza orgogliosa, chi avrebbe potuto sospettarci il travaglio d'un pensiero nascosto, d'una preoccupazione familiare all'animo, e più forte su quello che gli oggetti circostanti.
Oltre all’espressione “attento osservatore” , che ci mette sull’avviso che lo sguardo non è più quello solitamente timido e basso di Lucia, possiamo osservare nel passo l’abbondanza di espressioni che indicano indeterminatezza, oscillazione di sentimenti ed impressioni, incertezza, come ad esempiola nutrita serie di verbi al condizionale. Perché il narratore si decida infine a interrompere la suspense e il mistero di cui ha circondato la signora, dobbiamo aspettare che questa rimanga da sola nel parlatorio con Lucia, quando:
i suoi discorsi divennero a poco a poco così strani, che, in vece di riferirli, noi crediam più opportuno di raccontar brevemente la storia antecedente di questa infelice; quel tanto cioè che basti a render ragione dell'insolito e del misterioso che abbiam veduto in lei, e a far comprendere i motivi della sua condotta, in quello che avvenne dopo.
La definizione “questa infelice” introduce una storia che è anzitutto racconto di una profonda violenza su un’anima innocente, sulla quale il Manzoni narratore pronuncia una condanna inappellabile. La signora è infatti figlia di un potente nobile milanese di origine spagnola, che, contrario alla possibilità di dividere il patrimonio della famiglia tra più eredi, secondo una prassi non rara all’epoca, decide di conservarlo intatto per il primogenito, destinando tutti gli altri figli alla monacazione:
La nostra infelice era ancor nascosta nel ventre della madre, che la sua condizione era già irrevocabilmente stabilita. Rimaneva soltanto da decidersi se sarebbe un monaco o una monaca; decisione per la quale faceva bisogno, non il suo consenso, ma la sua presenza. Quando venne alla luce, il principe suo padre, volendo darle un nome che risvegliasse immediatamente l'idea del chiostro, e che fosse stato portato da una santa d'alti natali, la chiamò Gertrude.
Qui si notano in germe alcuni degli elementi che costituiranno parte della tragedia di Gertrude: lapresunzione degli uomini di poter controllare il destino altrui, il mancato rispetto delle volontà,l’orgoglio autoritario e imponente del casato nobiliare. Forzare qualcuna alla monacazione, tuttavia, oltre che immorale, era anche all’epoca contro le leggi, e così:
Nessuno però le disse mai direttamente: tu devi farti monaca. Era un’idea sottintesa e toccata incidentemente, in ogni discorso che riguardasse i suoi destini futuri.
La violenza è compiuta dunque in modo subdolo, martellante, ma sempre indiretto e indeterminato, e perciò tanto più efficace e fatale, attraverso i silenzi e le parole. Quando Gertrude prova a resistere ad una forzatura che non desidera, ad un destino che le è imposto, ad una vocazione che non sente, la violenza contro la sua volontà è portata avanti attraverso le armi dei ricatti affettivi, dell’indifferenza e dello scandalo sociale (Gertrude si fa sorprendere con un paggetto), e sfruttando la fragilità della sua personalità ancora adolescente. Ai complotti e alla macchina di tortura psicologica apprestatigli dall’uomo a cui – come dice il narratore stesso – "non ci regge il cuore di dargli il titolo di padre", Gertrude non trova in sé la forza di resistere e ne rimane vittima: così “fu monaca per sempre”.
Riflesso di questa sua condizione di vittima sono gli epiteti con cui Gertrude è indicata dal narratore, a partire dall’aggettivo "infelice". Ci sono le espressioni che la colgono nella sua età infantile e quindi indifesa: "Gertrudina" e "fanciullina", "innocentina" poi "giovinetta" e "Signorina". Ma preponderanti sono le espressioni di descrizione compassionevole della sua condizione esistenziale: infelice, poverina, poveretta, misera.
Nella memoria dei lettori del romanzo, tuttavia, questo personaggio è legato all’aggettivo “sventurata”, fissato dalla celebre frase “La sventurata rispose”, con la quale il narratore condensa ellitticamente una storia scabrosa, raccontata invece per esteso nel Fermo e Lucia, che vede Gertrude diventare, benché ormai chiusa in convento, amante e poi complice di omicidio di uno scellerato. Dopo essersi fatta monaca, Gertrude non trova infatti nessuna pace interiore. Il nostro narratore, con la sua visione religiosa provvidenziale, non manca di avvertirci che, abbandonandosi alla fede:
Gertrude avrebbe potuto essere una monaca santa e contenta, comunque lo fosse divenuta. Ma l'infelice si dibatteva in vece sotto il giogo, e così ne sentiva più forte il peso e le scosse. Un rammarico incessante della libertà perduta, l'abborrimento dello stato presente, un vagar faticoso dietro a desidèri che non sarebbero mai soddisfatti, tali erano le principali occupazioni dell'animo suo.
In questo tormento struggente, placato solo talvolta dall’esercizio dell’orgoglio e del potere, attraverso l’atteggiarsi, o meglio essere, “la signora”, in questo vivere non nel presente, ma nei sogni corrotti dall’invidia e dal rimpianto del passato e del futuro, non meraviglia che la condotta di Gertrude nel convento sia caratterizzata da comportamenti bizzosi e oscillanti:
Così era vissuta alcuni anni, non avendo comodo, nè occasione di far di più; quando la sua disgrazia volle che un'occasione si presentasse.Tra l'altre distinzioni e privilegi che le erano stati concessi, per compensarla di non poter esser badessa, c'era anche quello di stare in un quartiere a parte. Quel lato del monastero era contiguo a una casa abitata da un giovine, scellerato di professione, uno de' tanti, che, in que' tempi, e co' loro sgherri, e con l'alleanze d'altri scellerati, potevano, fino a un certo segno, ridersi della forza pubblica e delle leggi. Il nostro manoscritto lo nomina Egidio, senza parlar del casato. Costui, da una sua finestrina che dominava un cortiletto di quel quartiere, avendo veduta Gertrude qualche volta passare o girandolar lì, per ozio, allettato anzi che atterrito dai pericoli e dall'empietà dell'impresa, un giorno osò rivolgerle il discorso. La sventurata rispose.
Questa espressione “sventurata” è da considerare attentamente nella sua duplice valenza. Da una parte infatti si lega alla condizione di “sfortuna” della vita di Gertrude, al suo essere vittima di situazioni storiche avverse, preda di uomini che attentano alla sua volontà a fini scellerati, come il padre e poi Egidio. Ma dall’altra si lega al comportamento, alla responsabilità della stessa Gertrude, che “risponde”, assumendo una parte attiva nel determinare la sua disgrazia. Questa duplice interpretazione dell’aggettivo sostantivato è confermata anche dagli altri passi del romanzo in cui esso compare associato a Gertrude, antecedenti e successivi a quello che abbiamo appena preso in considerazione. Troviamo infatti il primo, quando Gertrude incontra il vicario delle monache incaricato di verificare la sua reale vocazione alla monacazione prima che intraprenda il noviziato e Gertrude decide di mentirgli. Qui Gertrude è sventurata perché “poveretta”, sottoposta alla autorità del principe padre, ma al contempo perché determinata ad ingannare, a mentire, per paura dello scandalo e del patimentoche avrebbe dovuto affrontare in famiglia, se avesse affermato la sua volontà di non monacarsi e le pressioni subite. Il secondo brano, invece, si ritrova non più nei due capitoli che raccontano in analessi la storia di Gertrude, bensì in un punto di svolta della storia dei nostri due umili Renzo e Lucia. Siamo nelcapitolo XX, quando Egidio chiede la collaborazione di Gertrude nel rapimento di Lucia per conto dell’Innominato:
La proposta riuscì spaventosa a Gertrude. Perder Lucia per un caso impreveduto, senza colpa, le sarebbe parsa una sventura, una punizione amara: e le veniva comandato di privarsene con una scellerata perfidia, di cambiare in un nuovo rimorso un mezzo d'espiazione.
"Le veniva comandato": questa è la sventura di Gertrude. Ma lo è anche non trovare la risolutezza per opporsi:
La sventurata tentò tutte le strade per esimersi dall'orribile comando; tutte, fuorché la sola ch'era sicura, e che le stava pur sempre aperta davanti. Il delitto è un padrone rigido e inflessibile, contro cui non divien forte se non chi se ne ribella interamente. A questo Gertrude non voleva risolversi; e ubbidì.
Nessuna conversione insomma per Gertrude, nessuna liberazione dalla schiavitù del peccato e del delitto, neanche a contatto con il modello salvifico di Lucia, come invece accadrà ad un’altra anima altrettanto scellerata, ma grande e volitiva, che incontreremo di qui a poco nel romanzo: l’Innominato
Fonte: http://lnx.salesianivomero.it/joomla/ElencoMateriale/MaterialeDidattico/Prof.Morra/MONACA%20DI%20MONZA.docx
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