Manzoni personaggi Promessi sposi

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Manzoni personaggi Promessi sposi

ANALISI PERSONAGGI DEI PROMESSI SPOSI

DON RODRIGO: uomo insignificante, che non ha il coraggio delle sue azioni meschine (infatti chiederà aiuto all'Innominato). Ha costantemente bisogno di conferme al suo potere (ogni tanto esce di casa allo scopo di vedersi riverito dal popolo) perchè sa di essere un incapace. Vive in un palazzo lussuoso  dove è solito dedicarsi solo ai banchetti insieme ad altri personaggi insignificanti e vuoti come lui che come lui dovrebbero gestire il potere, ma che passano la loro esistenza negli ozi. Egli rappresenta nel romanzo l'inutilità del governo spagnolo che dà in mano i paesi dell'Italia settentrionale a signorotti come lui, rampolli non primogeniti dell'aristocrazia spagnola, che non hanno capacità o intenzione di governare il paese, ma solo di prosciugarne le risorse. Egli incarna anche la vacuità dell'aristocrazia in generale, che vive di rendita senza essere produttiva, a discapito della povera gente. Il borghese Manzoni lo disprezza, ecco perchè di Don Rodrigo non viene fatto neanche un ritratto fisico.

DON ABBONDIO: “un vaso di terracotta costretto a camminare in mezzo a tanti vasi di ferro”. Così lo descrive Manzoni. Egli si fa prete (o meglio i genitori decidono per lui) per sopravvivere in un tempo in cui nascere poveri voleva dire soccombere ai potenti (essere “oppresso”), fare la fame, non avere la possibilità di studiare. Il suo è un compromesso “pacifico” che egli accetta senza particolare trasporto o vocazione. La sua vita tranquilla e abitudinaria viene sconvolta dalla minaccia dei bravi di fronte alla quale egli si dimentica il vero scopo del Cristianesimo e la sua missione: aiutare e difendere gli ultimi e gli indifesi, ovvero gli oppressi. Da quel momento egli è un uomo in preda alla paura e all'angoscia, chiuso nel suo egoismo difeso con sotterfugi meschini (come quello di parlare a Renzo in latino).
Manzoni sa bene che la chiesa del '600 come quella dell' '800 è piena di preti di tal tipo, così come sa che resistere al sopruso a costo della vita è un'operazione che solo pochi animi grandi possono fare. Per questo, pur condannando la sua vigliaccheria, non infierisce mai contro di lui, ma lo tratteggia come un personaggio che suscita ilarità.

FRA CRISTOFORO: rappresenta la Chiesa militante cioè quella che combatte nella storia affinchè la giustizia di Dio trionfi e gli ultimi possano essere aiutati. Rappresenta la Chiesa il cui obiettivo storico è quello di mettersi al servizio degli altri, soprattutto dei giusti; che è presente nella storia, per cambiarla, correggerla, “raddrizzarla”. Cristoforo è il vero spirito del Cristianesimo (è colui che porta Cristo come dice il suo nome), quello in cui crede anche Manzoni. La sua storia, prima di essere Cristoforo, è minuziosamente raccontata; l'uomo viene descritto psicologicamente e fisicamente: egli è altezzoso e superbo per natura, impulsivo, ma giusto, non sopporta l'ingiustizia e il sopruso (come dimostra la sua storia precedente la conversione). Il suo è un pentimento sincero che porta a una sincera vocazione. Da quel momento egli si impegna con tutto se stesso nella causa dei giusti e degli ultimi, abituandosi a tenere a freno la sua alterigia, ricercando in sé l'umiltà, vivendo in povertà. Egli è l'uomo della Provvidenza, che Dio manda a Renzo e Lucia nel pericolo, ma anche l'uomo che crede ciecamente nella Provvidenza e nel perdono. La sua creatura prediletta è Lucia.

LUCIA: semplice e umile contadina, poco istruita, orfana di padre. Vive con la madre a cui è molto legata. Convinta come Fra Cristoforo che Dio alla fine sistemerà ogni cosa, è disposta per questo a mettere la sua vita nelle Sue mani. Nel romanzo la vediamo spesso piangere o pregare (infatti molti critici sostengono che sia un personaggio senza spessore, poco sviluppato psicologicamente). Il suo nome viene da “lux”, luce di Dio, che lei porta in sé, illuminando anche un criminale incallito come l'Innominato con la grazia di Dio. Spesso è costretta a tenere a bada l'impeto del suo fidanzato Renzo, molto più impulsivo e irruento di lei. Da un punto di vista religioso Lucia rappresenta l’abbandono totale alla Provvidenza e alla fede che ogni buon cristiano dovrebbe avere.

RENZO: è un ragazzo di 20 anni, spavaldo e impulsivo; la sua condizione sociale è discreta (filatore proprietario e possidente di un piccolo podere). Vorrebbe risolvere con la forza la situazione con Don Rodrigo, non valutando il pericolo. La sua impulsività lo porterà nei guai anche a Milano. E' semplice; la sua istruzione è minima, ma possiede una sorta di “buon senso” cristiano con cui valuta le situazioni che gli accadono. E' buono e generoso d'animo, anche lui credente; ama sinceramente Lucia e non si rassegna a perderla.

AZZECCAGARBUGLI: rappresenta la vacuità e l'ambiguità della legge secentesca. Esempio di corruzione e di complicità con il potere, la legge asservita ai potenti. E' un uomo che ha furbescamente capito da che parte stare in un secolo di corrotti. Nelle sue mani le grida si manifestano per quello che sono: dei vuoti repertori di parole così contorte da essere lette come si vuole.

GERTRUDE (LA MONACA DI MONZA): primo personaggio storico che si incontra nel romanzo. La sua storia era particolarmente famosa a Monza e nei dintorni. Essa rappresenta un altro aspetto della “barbarie” di questo secolo: la monacazione forzata delle femmine dell'aristocrazia spagnola che non venivano fatte sposare per non disperdere il patrimonio. Il suo ritratto è molto dettagliato psicologicamente e fisicamente ed è caratterizzato dall'ambiguità e dalla doppiezza: c'è una dualità costante tra ciò che lei è  e ciò che vorrebbe essere. In fondo essa finisce per provare gelosia e invidia nei confronti di Lucia perchè ama e può essere riamata e perchè ha saputo dire di no al sopruso, al male, al peccato. Manzoni racconta la sua storia con una grande partecipazione emotiva, mettendo in risalto la crudeltà psicologica del padre. Anche la sua storia ha un significato: resistere alle pressioni di un genitore, o comunque di chi esercita il potere non è semplice se l'alternativa è perdere tutto. La sua storia torbida con Egidio dimostra invece che resistere al peccato non è un'operazione semplice, soprattutto quando si è deboli psicologicamente; occorre un atto di volontà non indifferente.

L’INNOMINATO: In seguito alle anticipazioni di Don Rodrigo, la presentazione dell’Innominato avviene nel cap. XIX: «…un terribile uomo. Di costui non possiam dire né il nome, né il cognome, né un titolo, e nemmeno una congettura sopra nulla di tutto ciò. […] un tale che, essendo de’ primi tra i grandi della città, aveva stabilita la sua dimora in una campagna, situata sul confine; e lì, assicurandosi a forza di delitti, teneva per niente i giudizi, i giudici, ogni magistratura, la sovranità; menava una vita affatto indipendente; ricettatore di forusciti, foruscito un tempo anche lui; poi tornato, come se niente fosse […]. Fare ciò ch’era vietato dalle leggi, o impedito da una forza qualunque; esser arbitro, padrone negli affari altrui, senz’altro interesse che il gusto di comandare; esser temuto da tutti, aver la mano da coloro ch’eran soliti averla dagli altri; tali erano state in ogni tempo le passioni principali di costui…».
L’Innominato è una delle figure psicologicamente più complesse e interessanti del romanzo. Figura storicamente esistita, ma riceve dalla rielaborazione artistica del Manzoni una vita autonoma e una interiorità coerente e compiuta. Il dramma dell’Innominato si svolge tutto nell’interno del suo spirito, ed è seguito, nel suo nascere e nel suo sviluppo, con un occhio acuto e scrutatore, che si muove nei meandri dell’anima. Il personaggio, nella rappresentazione fatta dall’autore, non ci si presenta, fin dal principio, come il malvagio spregevole e ripugnante; quella stessa paura che induce la folla a far spazio rispettosamente al suo passaggio, incute timore più che ribrezzo. Conserva, nella sua posizione di “ribelle”, qualcosa di regale e maestoso, come di chi ha creato, anche su presupposti di violenza, una propria legge, e ha raggiunto, attraverso l’immunità ottenuta dalla forza, una propria libertà. L’Innominato è grande anche nel male, superiore di parecchio ai piccoli malvagi tiranni della razza di Don Rodrigo. Egli, dice Manzoni, non vedeva nessuno al di sopra di sé, nemmeno Dio, ma ormai anziano, il tarlo del “dopo” lo assilla.
Solo in un animo simile, svincolato a ogni compromesso, incapace di vie di mezzo, una crisi interiore può portare ad una trasformazione integrale. Quando egli fa la sua entrata nel romanzo, tale crisi è già iniziata, e appare ancora in forma incosciente che da tempo egli sente per la sua vita, piena soltanto delle innumerevoli scelleratezze compiute: un’inquietudine, un disgusto, un fastidio, che si faranno a poco a poco coscienza durante la notte famosa. Della conversione. La crisi tocca il fondo della disperazione, ma il pensiero dell’aldilà, il pensiero di Dio («…E se c’è quest’altra vita…!»), e più le parole di Lucia («Dio perdona tante cose per un’opera di misericordia!»), determinano la sua risoluzione a chiedere perdono. E lo farà “in grande stile” di fronte ad un grande nel bene, il Cardinale Federico Borromeo.
E’ un personaggio molto amato da Manzoni, perché esso rappresenta, da un punto di vista religioso, la grandezza e la peculiarità del messaggio cristiano: anche il delinquente più incallito, se si pente col cuore e opera per il bene, può trovare perdono agli occhi di Dio.

IL CARDINAL FEDERICO BORROMEO
Quasi tutto il capitolo XII del romanzo è dedicato dal Manzoni alla descrizione della vita del cardinale, finemente paragonata ad “un ruscello che, scaturito limpido dalla roccia, senza ristagnare né intorbidarsi mai, in un lungo corso per diversi terreni, va limpido a gettarsi nel fiume” . Vengono pertanto ripercorsi i momenti più salienti della biografia di questo personaggio: la prima giovinezza, in cui il rifiuto degli agi e dei privilegi del nobile ceto di appartenenza si affianca ad un dedizione già completa al bene degli altri; la meditata risoluzione di vestire l'abito ecclesiastico; la nomina ad arcivescovo di Milano; la fondazione della Biblioteca Ambrosiana. Uomo dotto, scrittore prolifico ed eclettico (fu autore di opere di morale, storia, letteratura, arte ecc.) Federigo intese mettere liberalmente la cultura alla portata di tutti fatto particolarmente apprezzato dall’illuminista Manzoni. Alla carità, alla soavità delle maniere, ad un'amabile cortesia, ad un'imperturbabile pacatezza fu interamente ispirata la sua missione sacerdotale e vescovile. E con queste qualità il personaggio si presenta a noi, ormai vecchio ma ancora vigoroso. A Federigo in visita pastorale si rivolge l'Innominato, bisognoso di conforto dopo la terribile notte; di fronte a lui il cardinale appare impeccabile nel suo sereno e rasserenante aspetto, testimonianza di una perfetta armonia interiore. Egli sa trovare le parole giuste che sciolgono il nodo della disperazione nell’Innominato, mostrando a lui il volto del vero pastore evangelico tutto intento ad accogliere la “pecorella smarrita”. Da un punto di vista religioso, nel romanzo egli rappresenta una figura di ecclesiastico, che nonostante abbia raggiunto le sfere più alte del potere, non approfitta della propria posizione sociale per perdersi fra gli agi o fra intrighi col potere, ma la sfrutta per far del bene a chi non ha avuto tale privilegio.

AGNESE: Agnese appare come una donna che dice di avere molta esperienza di vita. Infatti offre preziosi consigli (dal suo punto di vista) anche a Renzo Tramaglino, promesso sposo della figlia, che tuttavia non si rivelano estremamente utili, come quello di fare un matrimonio "abusivo" nel sesto capitolo del romanzo. In realtà, la vantata esperienza di Agnese si riduce per lo più alla meticolosa registrazione di chiacchiere e pettegolezzi del villaggio, a una serie di notizie attinte per sentito dire, da fonti di dubbia attendibilità (da qui, ad esempio, la sua conoscenza della possibilità di effettuare un matrimonio a sorpresa). Abbastanza clamoroso, inoltre, che paia ignorare l'esistenza di Rimini quando le viene comunicato che Fra Cristoforo è stato trasferito in questa città. Agnese non manca peraltro di una certa astuzia: ad esempio la sua idea di distrarre Perpetua nella notte del matrimonio a sorpresa, facendo leva sui complessi della serva derivati dalla sua condizione di nubile, è indubbiamente riuscita. Essa incarna insieme a Perpetua un personaggio tipicamente popolare, ingenuo e ignorante ma fondamentalmente buono. Verso questa fetta della società Manzoni assume un atteggiamento “paternalistico”, ovvero ritiene che coloro che hanno più cultura e istruzione dovrebbero “proteggere” coloro che non hanno strumenti intellettuali per difendersi, prendendo per loro decisioni sagge e giuste.

FERRER: Ferrer ha funzione di gran cancelliere spagnolo a Milano dove fa le veci di Don Gonzalo impegnato nella battaglia di Monferrato; egli aveva fissato un "prezzo politico" per l'acquisto del pane, che non era stato rispettato perché troppo esiguo, ed era diventato pertanto causa prima della carestia e dei tumulti che ne seguiranno.E’ un personaggio secondario, ma il suo temperamento lo si coglie attraverso l'episodio del suo percorso in carrozza per andare in salvataggio del vicario di provvisione che sta per essere vittima del popolo inferocito. Egli riesce a portare una certa calma e a far cadere l'attenzione del popolo su di sé con furbizia e diplomazia.
Renzo lo incontra a Milano e ne rimane colpito positivamente, anche perché egli ne aveva già letto il nome messo in calce a una "grida" che aveva visto nello studio del dottor Azzecca-garbugli. "È quel Ferrer che aiuta a fare le gride?" domandò un uomo vicino il nostro Renzo, che si rammentò del vidit Ferrer che il dottor Azzecca-garbugli gli aveva gridato all'orecchio... "Già: il gran cancelliere" gli fu risposto. "È un galantuomo, ne vero?" "Eccome se è un galantuomo! è quello che aveva messo il pane a buon mercato; e gli altri non hanno voluto... " Non fa bisogno di dire che Renzo fu subito per Ferrer."
Renzo, come la maggior parte dei popolani creduloni cade dunque subito nella trappola dell’affabulatore Ferrer. La sua doppiezza è evidente nel linguaggio, nell'uso di due lingue. Usa l'italiano quando vuol fare il diplomatico con la folla e accattivarsi la sua simpatia, promettendo ingannevolmente "pane e giustizia" (cap. XIII), mentre si serve dello spagnolo, sua lingua madre, quando è sincero per disprezzare la massa che si accalca attorno alla sua carrozza. Si tratta quindi di un istrione che agisce con il solo scopo di andare a liberare il vicario di provvisione assediato dalla folla nel suo palazzo: Ferrer "veniva a spender bene una popolarità male acquistata" (cap.XIII).

DON FERRANTE

Nobile milanese nella cui casa viene ospitata Lucia dopo essere stata liberata dall'innominato e nel quale si compendiano tutte le caratteristiche negative del "dotto" del XVII secolo: l'uomo possiede circa trecento volumi, fra cui molte opere di nessun valore che sono il tipico prodotto della cultura del secolo interessata ad argomenti frivoli e privi di utilità, alla cui analisi l'autore dedica la conclusione del cap. XXVII: dalla scelta degli argomenti e degli autori fatta dal gentiluomo si deduce la superficialità dei suoi interessi letterari, comuni alla gran parte degli "intellettuali" del Seicento. Una parte importante hanno i volumi dedicati all'astrologia, il cui studio era assai diffuso nel XVII secolo in quanto si credeva agli influssi delle stelle sulle vicende umane (anche riguardo alla peste, come si vedrà) e nella quale don Ferrante mostra una certa erudizione, citando spesso Gerolamo Cardano come un'autorità in materia (si tratta di uno scrittore pavese oggi quasi sconosciuto, sostenitore nelle sue opere di bislacche superstizioni).
La cultura di questo personaggio è un bizzarro miscuglio di aristotelismo, machiavellismo e strampalate convinzioni astrologiche e naturalistiche, proprie di tanti presunti intellettuali del tempo  che, cosa più grave, finiscono per influenzare negativamente l'operato delle pubbliche autorità, come emerge nella drammatica vicenda della peste: il pericolo della sua diffusione viene dapprima sottovalutato, poi attribuito al maligno influsso astrale, infine all'opera criminale degli untori causando vari episodi di linciaggio, fino al celebre processo che portò alla condanna del Piazza e del Mora.

DONNA PRASSEDE

È la nobildonna milanese moglie di don Ferrante che accoglie nella propria casa Lucia dopo la sua liberazione dal castello dell'innominato, in seguito alla conversione del bandito dopo il suo incontro col cardinal Borromeo: è introdotta nel cap. XXV, quando ci viene detto che lei e il marito soggiornano in un paesetto vicino a quello dove Lucia e la madre Agnese sono ospiti in casa del sarto, proprio nei giorni successivi alla liberazione della ragazza. Il casato cui appartiene la nobildonna non viene citato (col consueto espediente della reticenza dell'anonimo) e l'autore la presenta come una persona estremamente bigotta, convinta di dover fare del bene al prossimo ma per puntiglio personale e senza una vera inclinazione caritatevole, per cui molto spesso si intestardisce a voler intervenire in faccende che non la riguardano, usa mezzi che non sono opportuni o leciti e talvolta impone le sue decisioni a persone che non lo richiedono e che ne farebbero volentieri a meno (la sua figura risulta a tratti decisamente grottesca). Il caso di Lucia ha destato molto interesse nei dintorni e donna Prassede esprime il desiderio di conoscere la giovane, per cui un giorno manda una carrozza a casa del sarto per condurla alla propria casa di villeggiatura: Lucia vorrebbe schermirsi, ma il sarto convince lei e la madre ad accettare l'invito e così le due donne fanno la conoscenza della nobildonna, che propone a Lucia di venire ad abitare nella sua casa di Milano dove potrà aiutare la servitù nelle faccende domestiche e sarà al sicuro dalle mire di don Rodrigo, assecondando così i desideri del cardinale che sta cercando un rifugio per la ragazza. Lucia e Agnese decidono a malincuore di accettare e così Lucia si separa dalla madre per trasferirsi a Milano (cap. XXVI), dove resterà sino allo scoppio della peste del 1630.
La permanenza di Lucia nella casa aristocratica non è tuttavia delle più felici, poiché sin dal loro primo incontro donna Prassede si è convinta che la ragazza si sia incamminata su una brutta strada, dal momento che si è promessa al famigerato Renzo Tramaglino e dunque a un giovane ricercato dalla legge: la nobile non perde dunque occasione per cercare di far dimenticare alla ragazza quel partito così sconveniente (cap. XXVII), ottenendo il risultato paradossale di suscitare ancor più in lei il ricordo e la nostalgia del suo promesso lontano a dispetto del voto pronunciato in precedenza (per fortuna, osserva con amara ironia l'autore, la nobildonna deve fare del "bene" anche ad altre persone, quindi talvolta cessa di tormentare Lucia).

IL GIUDIZIO SUL TUMULTO DI SAN MARTINO

L'autore non approva i moti di piazza in quanto forieri di violenze sommarie e sostanzialmente controproducenti per il popolo, dunque l'intera rappresentazione della sommossa ne mette in luce il carattere negativo e inefficace: la rivolta è presentata attraverso lo sguardo "straniante" di Renzo, agli occhi del quale Milano è il "paese di cuccagna" in quanto si semina pane e farina per terra, mentre più avanti il giovane osserva che distruggere i forni non è una "bella cosa", dal momento che il pane non si può certo produrre nei pozzi (senza contare l'incredibile spreco di farina causato dai rivoltosi, del tutto contrario all'etica cristiana del romanziere). La condanna emerge in maniera ancor più netta rispetto al tentativo di linciaggio del vicario di Provvisione, accusato a torto di essere responsabile della penuria e tratto in salvo da Ferrer che è il vero colpevole della rivolta con la sua decisione di imporre il calmiere, anche se il gran cancelliere è accolto dalla folla come un beniamino. Nella visione politica conservatrice di Manzoni il popolo è incapace di prendere decisioni in autonomia, poiché si abbandona ad atti di violenza ed è trascinato dalla fame e dal bisogno, perciò è necessaria una politica di riforme calata dall'alto che provveda alle necessità delle classi sociali più umili, ma sappia anche guidarle ed educarle verso una partecipazione politica più responsabile e pacata (l'autore condanna al tempo stesso la miopia e l'incapacità di governo delle autorità milanesi, che coi loro insensati provvedimenti hanno dapprima scatenato la rivolta, poi hanno cercato di soffocarla col sangue e con altri provvedimenti che hanno aggravato in modo irreparabile la penuria). L'episodio dell'assalto alla casa del vicario di Provvisione, storico, è forse ispirato ai disordini che nel 1814 portarono all'uccisione di Giuseppe Prina, ministro delle finanze del governo napoleonico di Milano.

IL GIUDIZIO SULLA PESTE

L'autore descrive la terribile epidemia con l'occhio attento e obiettivo dello storico, citando spesso le fonti a sua disposizione e sottolineando soprattutto l'incuria e la negligenza mostrate dalle autorità milanesi nel sottovalutare il rischio del contagio, e poi nel tacere e minimizzare la pestilenza quando essa era già scoppiata; essa è stata causata soprattutto dall'insensata guerra per la successione di Mantova, che oltre ad essere nata da assurde questioni dinastiche ha anche sottratto risorse e aiuti che potevano essere spesi per provvedere alla popolazione (gravi in questo senso sono le colpe dei due governatori milanesi, don Gonzalo Fernandez de Cordoba e Ambrogio Spinola). Quanto all'aspetto religioso del flagello, Manzoni presenta la peste come una terribile prova inviata da Dio agli uomini in base ai suoi disegni imperscrutabili, per cui è vano cercare una logica nell'azione di un morbo che ha colpito egualmente colpevoli e innocenti, personaggi malvagi e buoni: il male nella storia è un enigma insolubile e ciò appare chiaro soprattutto nel dramma dell'epidemia, di fronte al quale l'atteggiamento del romanziere è spesso di sbalordito attonimento e lontanissimo da quello di altri scrittori del passato, che l'avrebbero prontamente interpretato come un meritato castigo divino. Del resto anche i personaggi del romanzo hanno pensieri del tutto diversi riguardo alla spaventosa moria, da Don Rodrigo che si fa beffe del morbo ma poi è inorridito quando si scopre ammalato, a Renzo e Lucia che accettano la malattia con cristiana rassegnazione, a fra Cristoforo che vede nella peste l'occasione di sacrificarsi nel servizio caritatevole al prossimo, fino a don Abbondio per il quale la peste è stata una "scopa" che ha spazzato via prepotenti e malvagi, massima che è conforme al suo consueto gretto egoismo. Val la pena di ricordare ancora lo scombinato ragionamento con cui don Ferrante, alla fine del cap. XXXVII, nega che il contagio si propaghi da un corpo all'altro e attribuisce la pestilenza, forte della sua filosofia aristotelica, agli influssi astrali: rifiuta di prendere qualunque precauzione e finisce per ammalarsi, morendo a letto come "un eroe di Metastasio, prendendosela con le stelle", mentre la sua famosa biblioteca finisce probabilmente in vendita sulle bancarelle.

 

Fonte: http://www.mcurie.gov.it/files/salvioni.emanuela/analisi_dei_personaggi_dei_P_S_copia.doc

Sito web da visitare: http://www.mcurie.gov.it/

Autore del testo: non indicato nel documento di origine

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