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(Pomponia Graecina 1,2)
[Pomponia visse la vita senz’altra veste che il lutto,
senz’altro sentimento che la tristezza]
Pascoli vive appieno la duplice crisi che caratterizza la cultura di fine Ottocento: quella della cultura positivistica e della incondizionata fiducia nella scienza e quella dell’intellettuale tradizionale che stenta a trovare un posto ed una funzione di fronte ai nuovi problemi posti dall’industrializzazione, dalla lotta di classe e dallo stesso mutato concetto di cultura.
La sua formazione intellettuale è scolastica e tradizionale, all’insegna del realismo classicistico carducciano, ma è anche contrassegnata da alcuni avvenimenti traumatici come l’assassinio, rimasto impunito, del padre o l’esperienza giovanile del carcere. Per questi motivi ad altri ancora, Pascoli assume un atteggiamento di sfiducia nei confronti del mondo e della vita: il suo universo è dominato dal mistero e dal dolore. Il mistero nasce dalla convinzione che il senso della vita costituisce per l’uomo un enigma cui né la religione, né la scienza, né la filosofia offrono una risposta, che possa fungere da orientamento, ritenuta dal poeta soddisfacente. Questo vuoto di senso genera quel disagio e quell’angoscia in cui l’essere umano sprofonda quando non trova spiegazione, ma soprattutto giudizio e risposta ad un dolore o ad un’offesa subiti da parte di un altro, lasciando così luogo al costituirsi di un trauma, cioè, propriamente, una fissazione del pensiero ad un avvenimento doloroso, fissazione che determina il persistere del dolore stesso.
Pascoli è un uomo che si sente solo in un universo di altri uomini che percepisce come genericamente ostili o minacciosi, tentazione e tendenza tipica di chi non sia riuscito ad elaborare un lutto o l’allontanarsi della persona amata o una grave delusione. Solo riparao contro questo male sempre incombente sono le pareti domestiche: la famiglia gli appare come la sola dimensione sociale in cui siano possibili l’amore, la solidarietà, la mutua assistenza in caso di bisogno.
La famiglia come rifugio del Pascoli non è però, si badi bene, quella in cui si diviene padri e madri e figli, ma quella in cui si è fratello e sorella, non la famiglia insomma che si può formare incontrando un altro ma sempre e solo quella, come si usa dire, d’origine (egli vivrà infatti con la sorella Maria la maggior parte della sua vita), dove vige la solidarietà fraterna. La sua esaltazione della famiglia corrisponde allora ad una sorta di moto regressivo segnato dalla nostalgia dell’età perduta dell’infanzia, che rappresenta agli occhi dell’adulto, innanzitutto un’età in cui non si è oppressi dalla domanda di senso di cui si è detto). Da qui scaturisce il cosiddetto triangolo NIDO-CASA-CULLA che sta al centro del mondo simbolico pascoliano.
Si è detto che in Pascoli (come in genere in tutta l’arte decadente) vi è una netta sfiducia nei confronti delle possibilità conoscitive dell’uomo. Sfiducia non significa però negazione; se è vero infatti che le forme tradizionali di conoscenza sono ritenute fallaci o inutili (scienza, filosofia, ecc.), ne esiste però una che, se non consente una conoscenza strutturata, permetterebbe però contatti intermittenti, saltuari, fugaci con la verità: si tratta dell’intuizione. Poiché tale facoltà si manifesta al meglio nell’ambito dell’arte, (e ciò in ragione del fatto che nell’arte ad essa è lasciato uno spazio e riconosiuto un valore, un’importanza di cui non gode presso la filosofia e la scienza) questa rappresenta allora una vera esperienza teoretica, cioè conoscitiva, sebbene condizionata dall’intermittenza. I frutti dell’intuizione sono immagini isolate come squarci di luce improvvisi, apparentemente assoluti, privi di relazione con i contenuti della coscienza.
Come comunicare però questo genere di esperienza? Quale linguaggio usare per esprimere le intuizioni, le visioni, ciò che si manifesta come un lampo di luce per un istante? Certamente non il liguaggio descrittivo che tenti di darne un’accurata spiegazione. No, l’esperienza dell’intuizione è troppo intima e coinvolge a tal punto sensi, fantasie ed emozioni individuali da non poter essere descritta senza sembrar ridotta a poca cosa (è ciò che può accadere di provare quando si tenta di comunicare ad altri un intenso affetto che stiamo provando: se chi ascolta lo ha anch’esso provato, allora intenderà per analogia, altrimenti è tempo perso – come già ben sapevano i poeti stilnovisti, Dante e Petrarca).
Ma l’illuminazione intuitiva, come la visione mistica e il sogno, sono esperienze conoscitive in quanto incrinano o spezzano il legame tradizionale (quello che ci si aspetta, cui si è abituati) tra la parola o l’immagine e il suo significato (comune, fisso, vocabolaristico) aprendo uno squarcio improvviso sul proprio essere, rivelando attraverso associazioni e analogie insolite un senso non comune. Questo è il linguaggio simbolico, un lin guaggio in cui le parole non hanno più, o non soltanto, il significato che siamo normalmente abituati ad attribuire loro ma rimandano ad altri sensi attraverso legami analogici più o meno facilmente ricostruibili o decifrabili, sensi comunque tutti fortemente connotati dall’esperienza individuale.
Pascoli perciò come qualunque altro poeta simbolista (e non solo simbolista) si costruisce, per così dire, una sorta di personalissimo dizionario e parlando del suo pensiero vi è chi ritiene più adeguato parlare di costellazione simbolica, o universo simbolico, cioè di un raggruppamento di simboli in qualche modo collegati tra loro per similarità od opposizione e di nuclei tematici piuttosto che di un vero e proprio sistema di concetti logicamente conseguenti.
Al centro dell’universo simbolico pascoliano allora troviamo una linea Nido – Casa – Culla , che dal lato Nido-Casa esprime l’analogia ricercata tra realtà umana e realtà animale-naturale: l’esistenza del mondo animale-naturale ha un andamento ciclico, ripetitivo, ma soprattutto non appare segnata dalle questioni che invece l’essere pensante, l’uomo, si pone. La vita naturale sembra allora consentire di sfuggire all’angoscia suscitata dalle domande irrisolte intorno a ciò che appare come l’enigmatico senso della vita (e quindi del dolore e della morte, poiché tali domande non se le pone mai l’uomo quando è felice e appagato) e può essere quindi presa a modello nelle proprie fantasie (“Ah potessi essere come un …..”).
Il nido, già nella sua forma, rappresenta una ripartizione simbolica dello spazio: quella interna, protetta, sicura, calda, accogliente e dove non si è soli; quella esterna insicura, minacciosa, aggressiva (ci si può persino rimanere ammazzati, come è accaduto al padre) e dove si è soli. Nido e casa sono la sede della famiglia e, per eccellenza, dei piccoli e quindi rinviano alla culla come simbolo dell’età infantile (e spazio quant’altri mai chiuso, fatta eccezione per il ventre materno, e quindi protetto dai pericoli esterni). Poiché, come si è detto, Pascoli intende per famiglia quella in cui si è figli, la costellazione simbolica Nido-Casa-Culla evoca ed invoca quel tempo della vita, beato e, apparentemente agli occhi dell’adulto, spensierato, in cui il padre assicura il sostentamento materiale e la madre consolazione ed affetto.
Cantare la famiglia e l’infanzia corrisponde dunque anche ad una dichiarazione di sfiducia, ma spesso anche timore e paura, e ricusazione nei confronti del mondo, della vita e degli uomini, e al tendere a chiudersi gelosamente nel proprio ambito, considerato protetto. Lasciare la casa equivale ad abbandonare (il legame associativo è rafforzato dalla potenza della memoria dell’avvenimento uscita-morte-abbandono del padre) e tradimento (il poeta fu sconvolto da una profonda crisi in occasione delle nozze della sorella Ida).
Per dilatazione, come in una serie di circonferenze concentriche che perdono di intensità quanto più crescono di raggio, dopo il nido, la culla e la casa troviamo il muro (o la siepe) dell’orto; poi il muro del cimitero (raffigurato come limite ulterior che contiene simbolicamente anche l’orto e la casa) e infine i confini della patria (aggiunta tardiva e che forse doveva giustificare gli atteggiamenti del Pascoli contrari all’emigrazione e nazionalistici): si tratta in tutti i casi di margini, orli, limiti.
Accanto a questo nucleo tematico, che potremmo definire di vita (ma quanto correlato con un lutto irrisolto!), emerge con forza anche – come nel Decadentismo in genere – quello della morte. È facile comprendere, ripensando magari a Leopardi, che se la vita è segnata dalla sofferenza dovuta ad eventi traumatici, il cui ricordo torna insistentemente a turbare la mente, e segnata dall’angoscia per lìincapacità di darsi una ragiome di questo patire, la morte dopotutto non può rapprensentare il peggiore dei mali. Anzi, se la ciclicità dell’esistenza rappresenta una garanzia, essa è d’altra parte evidente proprio nel perenne e ripetitivo succedersi di nascita e morte. Inoltre, se chi muore rimane vivo in una creatura cui ha dato la vita o nella memoria altrui, chi vive può mantenere un legame strettissimo, melanconico, come è il caso di Pascoli, con chi è morto.
Gli uccelli costituiscono i soggetti più ricorrenti della poesia di Myricae, dei Poemetti e dei Canti di Castelvecchio. La cosa, di primo acchito, potrebbe sembrare del tutto normale, considerato che l’ambientazione prediletta dal poeta è quella naturale, se non che essi sono la fauna esclusiva della campagna pascoliana (non ci sono altri animali, neppure i più comuni e domestici, che cpure ci si attenderebbe di trovare in un’ambiente georgico) e inoltre l’inventario ornitologico si riduce a ben vedere, stando alle presenze ricorrenti, sostanzialmente alle rondini e agli uccelli notturni (civette, chiù, pipistrelli): le presenze insistite, così come le insistite assenze, tradiscono esse stesse una sovradeterminazione simbolica. Essi abitano le regioni del cielo, stanno cioè più in alto degli uomini, e il loro verso viene spesso riprodotto attraverso le onomatopee, viene cioè trascritto come si trattasse di messaggio oracolare. Il verso degli uccelli, privo di un significato prefissato, non è privo di senso però per colui che, ascoltandolo, sia sospinto attraverso imprecisabili suggestioni e associazioni, tutte squisitamente individuali, verso dolci o dolorosi ricordi, fantasie ricorrenti. Gli uccelli insomma parlano di vita e di morte, appaiono soprattutto di notte o all’alba, in un’atmosfera che partecipa del sogno e della realtà cosciente contemporaneamente.
Considerato che, per buona parte della storia umana, gli uccelli (ma gli angeli della tradizione cristiana non sono anch’essi messaggeri e creature alate?) interpretati nel loro volo o indagati nelle viscere, sono stati uno strumento di comunicazione tra gli dei e gli uomini, le creature con cui gli dei rispondevano in forma oscura, simbolica appunto, alle domande degli uomini sulla loro vita; considerato che in alcuni casi il legame associativo tra, ad esempio, la rondine e il padre morto è lampante, possiamo supporre, con buona certezza, che gli uccelli nella poesia pascoliana rappresentino lo strumento di una vagheggiata comunicazione fra il regno dei morti e il poeta.
Già parlando del pensiero pascoliano si sono anticipati alcuni principi riguardanti la sua concezione dell’arte e della poesia in particolare; non a caso, poiché in Pascoli, come in altri poeti moderni del resto, la relazione tra la visione generale del mondo e quella particolare della poesia (che pure è sempre forte per qualunque artista) si fa molto stretta, fin quasi all’identità. Occupandosi però in senso stretto di poetica è inevitabile andare alla famosa e citatissima prosa del Fanciullino, uscita nel 1897 sulla rivista Il Marzocco, nella quale Pascoli teorizza la poesia come manifestazione di un altro soggetto che è in noi, il fanciullino interiore appunto. Riprendendo un antico mito platonico (esposto nel Fedone), il poeta afferma che, quando nasciamo siamo due fanciulli, non uno: il primo è quello interiore destinato a non crescere mai e a rimanere sempre ingenuo ed innocente, il secondo è quello esteriore che invece cresce e diviene successivamente bambino, ragazzo, giovane e adulto. All’inizio i due fanciulli coincidono: corrono, giocano e si esprimono in un solo linguaggio;pi, man mano che si cresce, il primo fa sentire sempre più raramente la sua voce, fino ad ammutolire del tutto, a morire perché costretto al silenzio dall’altro.
Questo però vale per la maggior parte degli uomini: il poeta si distingue perché, quale che sia la sua età anagrafica, mantiene vivo dentro di sé quel fancioullino, che è l’origine, la fonte d’ispirazione, colui che detta la poesia. La poesia, dunque, è la registrazione degli stupori, delle meraviglie, degli sgomenti del fanciullino interiore, fatta immediatamente (cioè, apparentemente, senza mediazioni o filtri culturali e razionali). Ne deriva una concezione che presenta alcune analogie con quella degli stilnovisti del Duecento: il poeta che ascolta e dà voce al fanciullino che ha in sé, richiama quello stilnovista che, poetando, scriveva ciò che Amore gli spirava e dettava dentro.
L’interpretazione letterale di questa prosa e quella realistico impressionistica della poesia hanno insieme contribuito a creare l’immagine diffusa e stereotipata di un Pascoli poeta della fanciullezza, sia nel senso che di quella età si farebbe cantore, sia in quello più popolare di poeta “facile”, che scrive cose particolarmente tenere e quindi idonee all’educazione dei bambini e dei ragazzi.
In realtà, si può ritenere la prosa citata (Il fanciullino, 1897) come espressione della poetica pasco liana, intendendola nel suo valore di rappresentazione della sua teoria dell’intuizione artistica. Si torna così al concetto centrale di poesia come attività teoretica, cioè conoscitiva, in quanto intuitiva. Il simbolo più appropriato di quest’arte poetica è il lampo, in effetti assai ricorrente nella poesia pasco liana: il lampo è imprevedibile e con la sua luce abbagliante e brevissima squarcia l’oscurità della notte (quasi sempre inquieta e tempestosa) e permette di cogliere tratti e oggetti immersi nel mistero delle tenebre. Esprime quindi efficacemente sia la natura sia il risultato della creazione poetica. Il carattere sperimentale della poesia pasco liana testimonia altresì l’esigenza di fondare un nuovo linguaggio idoneo a comunicare rivelazioni.
Il Fanciullino: il poeta coincide con il fanciullino che è dentro di noi: anzi l’età veramente poetica sarebbe quella infantile e nel ricordo dell’infanzia si esaurisce la poesia più autentica. Se è così, allora la poesia non si inventa ma si scopre, perché essa si trova nelle cose stesse; ma per coglierla; ma per coglierla bisogna avere gli occhi abbastanza puri (cioè liberi dai significati ormai cristallizzati che le cose hanno in genere per gli adulti), come se si vedessero le cose per la prima volta. Ora, poiché tale purezza di sguardo apparterrebbe al fanciullo in quanto egli osserva <<tutto con meraviglia, tutto come per la prima volta>>, si tratterà allora di “ritornare” fanciulli o, più precisamente, secondo il poeta ridar voce al fanciullino che è in ciascuno di noi, seppure latente perché zittito dalla coscienza nel diventare adulti. Ciò che distingue il poeta dall’uomo comune è allora l capacità del primo di dare dapprima ascolto a questa voce e poi a questa forma di poesia.
D’altra parte il fanciullino indica simbolicamente un altro ordine di esperienza del reale, altro rispetto a quello comunemente accettato come adulto e ragionevole, prima ancora che razionale. Il fanciullino è <<quello che alla luce sogna [ossia sogna ad occhi aperti] o sembra di sognare ricordando cose non vedute mai>>, che <<parla alle bestie, agli alberi, ai sassi, alle nuvole e alle stelle>>: fa, in altre parole, cose che, osservate in un adulto, susciterebbero quantomeno compatimento (l’adulto certe cose non le fa più, anzi non le DEVE fare più, le deve abbandonare…). Il fanciullino <<scopre nelle cose le somiglianze e relazioni più ingegnose (e in questo consiste in effetti il linguaggio simbolico o analogico); <<piange e ride senza perché, di cose che sfuggono ai nostri sensi e alla nostra ragione>> di adulti.
Il fanciullino rappresenta anche un mondo, quello infantile, che agli occhi dell’adulto appare privo di conflitti: desiderare di recuperarlo in sé, significa allaora cullare l’idea di un luogo che si sottragga al caos e alle contraddizioni della società contemporanea, una sorta di oasi di originale innocenza in cui non giungano gli echi delle violenze e delle brutture della nostra vita, in cui si spengano i contrasti e le lotte, in cui scompaiano d’incanto i nostri problemi, che sono anzitutto problemi di relazione con gli altri e col mondo. In tal modo il Pascoli coglie un tratto reale della psicologia e della condizione dell’uomo moderno, che virilmente frena questo desiderio considerandolo (giustamente, aggiungeremmo) un’illusione (che come tale è l’indice di un sintomo), per impegnarsi invece nella, magari dura, vicenda quotidiana del vivere, ma che resta forse sempre disposto a lasciarsi affascinare dall’idea che una tale condizione sia esistita nella propria infanzia, nella quale è certamente vero che vi furono un padre e una madre che, fatte le debite eccezioni, si occuparono di non farci mancare mai nulla, che tennero lontana da noi ogni bruttura e violenza, che furono pronti a soddisfare ogni nostra necessità e non, ecc.
I simboli di questa condizione sono appunto nella letteratura decadente, e nella fattispecie in quella di pascoliana, l’infanzia e la campagna (campagna ànatura à condizione naturale, originaria dell’uomo), ora più ed ora meno esplicitamente contrapposte all’uomo adulto e alla città.
La costante presenza nella lirica pascoliana dell’ambiente naturale, realtà esterna al soggetto (realtà soggetta allo sguardo), può far credere che ci si trovi di fronte ad una rappresentazione oggettiva, descrittiva della realtà. In verità, basta leggere con attenzione alcune poesie, raffrontandole magari con altrettante del Carducci, per accorgerci che non abbiamo a che fare con rappresentazioni oggettive: le norme tradizionali che imponevano ordine, regolarità, prospettiva, rispetto dei rapporti e delle proprorzioni non sono rispettate, e allo sguardo composto che non trova dintorno se non ciò che si attende di trovare, si sostituisce uno sguardo inquieto e irregolare, in cerca senza sapere cosa cercare, che privilegia nella situazione i particolari senza una motivazione ed una logica evidenti. È assai difficile infatti comprendere immediatamente quali siano i moventi di una scelta: di colpo appaiono in primo piano oggetti e dati, senza una preparazione e senza una presentazione; l’infinitamente piccolo e l’infinitamente grande, il filo di paglia e il sole, il sasso e gli astri, si presentano uno dopo l’altro, senza gerarchie di valore o di significato o di importanza prestabilite. Il quadro si scompone negli elementi e nei particolari che lo costituiscono e la poesia pascoliana appare quindi distante dalla regola classica (consacrata dal Carducci), come anche dalle norme positiviste che prevedevano una composizione chiara e distinta, oggettivamente scrupolosa e giustificata nell’elencazione degli oggetti.
Il fatto è che a Pascoli interessa sì la realtà delle cose, ma la sua parola poetica cerca di scoprire ciò che sta al di là del fenomeno, dove la scienza si è fermata e si ferma, cerca di svelare il mistero della vita: potremmo dire che cerca la verità delle cose, ma solo in quanto supposta dare accesso alla verità della condizione umana. La poesia diviene insommauno strumento di conoscenza, con il quale egli cerca di evocare la verità, intuirla, coglierla per un istante come accade per una visione, come accade in un’esperienza mistica, contemplativa ( che, come sappiamo anche da Dante, è l’unica forma di conoscenza che possa avere accesso alla verità ultima, la Verità).
La poesia di Pascoli ha perciò i caratteri della visionarietà (si vedano a testimonianza Temporale e Il lampo), in cui la realtà sembra sfumare nel sogno.
MYRICAE
Il titolo di Myricae (letteralmente: tamerici, piccoli arbusti) veniva dato nel 1891 ad un volumetto che raccoglieva 22 componimenti apparsi in precedenza su diverse riviste. Era la prima edizione di una raccolta che si andò progressivamente accrescendo nel corso degli anni (la seconda edizione del 1892 comprendeva 72 componimenti; la terza del 1894 ne contava 116; nella quarta del 1897 si era giunti a 152) fino alla quinta edizione del 1900 che comprendeva 156 poesie.
La parola Myricae, presa come titolo, e il motto poi presente sul frontespizio – Arbusta iuvant humilesque myricae – rapportano il discorso pascoliano a quello di Virgilio, al Virgilio della quarta ecloga, che canta la rinascita dell’età dell’oro in seguito alla venuta del divino fanciullo, Augusto. Pascoli però, nell’atto di citarlo, nega il discorso virgiliano. Il poeta latino,infatti, iniziava il suo canto pregando le muse per alzare il tono e affrontare temi temi più impegnativi, dal momento che quelli bassi e quotidiani (come quelli cantati nelle Georgiche) possono anche non piacere: <<Sicelides Musae, paulo maiora canamus /non omnes arbusta iuvant humilesque myricae>> (O sicule Muse, cantiamo di fatti un poco più grandi: non tutti aman gli arbusti e le modeste tamerici). Come si vede, Pascoli, estrapolando dal contesto le parole di Virgilio, le ha private della negazione in modo tale da rovesciarne completamente il senso: arbusti e tamerici piacciono a tutti e, sembra aggiungere, sono le sole cose che contano.
I tempi non vanno, come afferma Virgilio, per il meglio, anzi; e non importa la poesia impegnata, quella da vate politico e sociale; sono importanti le myricae, le cose umili, modeste e la poesia che ad esse si ispira. Il titolo anticipa allora due caratteristiche fondamentali della poesia contenutavi: il carattere bucolico-rurale della rappresentazione di un mondo modesto e quotidiano e il pessimismo che lo contrassegna.
La raccolta propone perlopiù composizioni brevi e brevissime (rapidi quadretti, sensazioni, scene della memoria, ecc.) che si avvalgono di un’espressione semplice ma controllatissima che, pur muovendosi nell’ambito della sintassi e della metrica tradizionali, non perde mai il carattere sperimentale e innovatore. La tecnica della rappresentazione, come già si è detto altrove, sembra oggettiva e realistica, ma alcune presenze insistenti ( a fronte di assolute assenze) rivelano un intento e valore simbolico, non descrittivo.
Nella prefazione alla seconda edizione il Pascoli scriverà, ricordando i familiari: <<Non soggiacquero essi al destino comune e non li sperse la natura coi suoi strali […] Li uccise tutti nel mio padre, la malvagità degli uomini, i quali finiscono la loro vittima non l’annullano […] Non si spense d’essi con la vita il dolore: questo (oh, solo questo) rimane d’essi >>.
Testimonianza di grande rilievo è inoltre la prefazione-dedica che egli scrisse per l’edizione del ’94 e che riportiamo qui per intero.
Rimangano, rimangano questi canti su la tomba di mio padre!…Sono frulli d’uccelli, stormire di cipressi, lontano cantare di campane: non disdicono ad un camposanto. Di qualche lagrima, di qualche singulto, spero trovar perdono, poiché qui meno che altrove il lettore potrà o vorrà dire: Che me ne importa del dolor tuo?
Uomo che leggi, furono uomini quelli che apersero quella tomba. E in quella finì tutta una fiorente famiglia. E la tomba (ricordo un’usanza africana) non spicca nel deserto per i candidi sassi della vendetta: è greggia, tetra, nera.
Ma l’uomo che da quel nero ha oscurato la vita, che è bella, tutta bella; cioè sarebbe; se noi non la guastassimo a noi e agli altri. Bella sarebbe; anche nel pianto che fosse però rugiada di sereno, non scroscio di tempesta; anche nel momento ultimo, quando gli occhi stanchi di contemplare si chiudono come a raccogliere e riporre nell’anima la visione, per sempre. Ma gli uomini amarono più le tenebre che la luce, e più il male altrui che il proprio bene. E del male volontario danno, a torto, biasimo alla natura, madre dolcissima, che anche nello spingerci sembra che ci culli e ci addormenti. Oh! Lasciamo fare a lei, che sa quello che fa, e ci vuol bene.
Questa è la parola che dico ora con voce non ancor ben sicura e chiara, e che ripeterò meglio col tempo; le dia ora qualche soavità il pensiero che questa parola potrebbe esser di odio, e è d’amore. (Livorno, marzo del 1894)
CANTI DI CASTELVECCHIO
I Canti di Castelvecchio rappresentano la continuazione dell’esperienza condotta nelle Myricae. Tale continuità, oltre che dai temi, dalle caratteristiche stilistiche e metriche e da ragioni di composizione, è sottolineata dallo stesso poeta che dedica questa raccolta alla memoria della madre e appone sul frontespizio la stessa citazione virgiliana della raccolta precedente: <<Arbusta iuvant humilesque myricae>>. La composizione di questa raccolta è stratificata come qauella di Myricae ed è anche intrecciata cronologicamente con essa: un primo gruppo di sette poesie era infatti già composto nel 1897 al tempo della quarta edizione della prima raccolta. Negli anni successivi, quindi, Pascoli comporrà sia per l’una che per l’altra, e giungerà all’edizione definitiva dei Canti di Castelvecchio nel 1910: 66 poesie più un’appendice di altre 8 dedicata alla sorella.
I temi, come si diceva, sono piuttosto simili a quelli di Myricae: la vita agreste (il Castelvecchio del titolo è Castelvecchio di Barga, presso Lucca, dove il poeta si è trasferito con la sorella Maria nel 1895, dopo la crisi seguita al matrimonio dell’altra sorella, Ida) il focolare domestico, i ricordi familiari, la presenza consolatrice dei morti, uccelli, fiori, campane.
Anche stilisticamente le due raccolte si somigliano: se nelle Myricae si oscilla tra espressionismo ed impressionismo e si sforza di cogliere e registrare ogni minimo sussulto dell’anima e dei sensi, nei Canti di Castelvecchio il discorso acquista, attraverso una maggior padronanza della strumentazione verbale, maggior efficacia e capacità penetrativa, nelle analogie, connessioni e parallelismi. Ricordando in ogni caso quanto appena detto riguardo alla sovrapposizione cronologioco-compositiva fra le due raccolte, si può affermare il poeta abbia indirizzato le nuove creazioni ora verso l’una (più acerba, audace, occasionale), ora verso l’altra (più matura, meditata, approfondita).
Critici e lettori, del resto, pur dando maggior consenso ora all’una ora all’altra, a seconda dei gusti personali, hanno comunque sempre considerato insieme le due raccolte, ritenendole il frutto più originale e sentito della poesia di Pascoli e il suo contributo più significativo al simbolismo europeo.
Un passo di una lettera che il poeta scrisse nel 1899 ad un amico pittore, De Witt, ci fornisce un’utile chiave di lettura per le due raccolte:
C’è del gran dolore e del gran mistero nel mondo; ma nella vita semplice e familiare e nella contemplazione della natura, specialmente in campagna, c’è gran consolazione, la quale pure non basta a liberarci dall’immutabile destino.
L’ALTRO PASCOLI
Si è già detto della difficoltà di considerare le opere pascoliane secondo una linea di progressione cronologica (le raccolte presentano una struttura aperta, per cui crescono e si stratificano di edizione in edizione) e di evoluzione, dal momento che la loro produzione, a partire almeno dal 1894, si intreccia, alterna e accavalla in una simultaneità di registri espressivi e stilistici. Nel decennio di più intensa attività creativa (1890-1900) si possono rilevare tre linee creative che, pur accavallandosi e intracciandosi, si possono individuare con sufficiente chiarezza.
L’ultima produzione pascoliana da Odi e inni (1906) alle Canzoni di Re Enzo (1909), dai Poemi italici (1911) ai postumi Poemi del Risorgimento, esprime la velleità dell’autore di proporsi come poeta-vate, ed è caratterizzata da un tono retorico e mostra una modesta attitudine del poeta a trattare tematiche ideologiche, politiche e sociali.
LO STILE
Lo stile pascoliano può essere sintetizzato nelle seguenti caratteristiche, in riferimento soprattutto alle due raccolte poetiche maggiori:
Ricapitolando, è possibile riassumere ciò che caratterizza la poesia pascoliana nel modo seguente, umiltà di temi e toni accompagnata ad una ricchezza lessicale (non forbita o ricercata al modo di D’Annunzio, però) che giunge sino alla sperimentazione linguistica, rinnovando il linguaggio poetico entro strutture più tradizionali.
Il cosiddetto “sperimentalismo” pascoliano, cioè il mescolare in maniera inedita linguaggio aulico e tecnico a linguaggio umile, comune costituisce una svolta importante nella tradizione italiana, sempre un po’ stagnantemente classicheggiante, si avvicina, anche se non consapevolmente alle esperienze simboliste europee e suggerisce tecniche e temi alla poesia del ‘900, a partire da quella pure programmaticamente umile e raffinata al tempo stesso dei Crepuscolari.
Lessico
Strutture foniche e retoriche
Sintassi
Metro e ritmo
G. Contini: << Quando si usa il linguaggio normale vuol dire che dell’universo si ha un’idea sicura e precisa, che si crede in un mondo certo (…). Le eccezioni alla norma significherebbero allora che il rapporto tra l’io e il mondo in Pascoli è un rapporto critico, non è più un rapporto tradizionale. E’ caduta quella certezza assistita di logica che caratterizzava la nostra letteratura fino a tutto il primo romanticismo>>.
Fonte: http://www.liceomedi.com/public/doc/D091/Pascoli.doc
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Autore del testo: non indicato nel documento di origine
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