Pirandello e Svevo

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Pirandello e Svevo

IL ROMANZO DELLA CRISI
In ambito narrativo, negli anni del Decadentismo la rivalutazione della dimensione dell’irrazionalità porta a un abbandono del romanzo sperimentale naturalista. La pretesa di oggettività lascia posto alla rappresentazione dell’individualità dei personaggi. L’attenzione per l’interiorità dei personaggi e l’indagine del loro disagio esistenziale costituisce il comune denominatore di una nuova stagione narrativa che prende avvio da Decadentismo e prosegue fino agli anni trenta del Novecento. Pur nella specificità delle singole voci, si è soliti definire questa esperienza come romanzo della crisi. Tipica figura è quella del dandy che abbiamo già visto in Oscar Wilde e nel Piacere di D’Annunzio. A questo si aggiungeranno l’inetto dei romanzi di Svevo e il nevrotico-pazzo di Pirandello.
 ITALO SVEVO.
Italo Svevo,  pseudonimo letterario di Ettore Schmitz, nacque a Trieste [città dell’impero asburgico, che partecipava a pieno titolo alla cultura “mitteleuropea”, cioè dell’Europa centrale; Trieste era città di confine in cui convergono tre civiltà: italiana, tedesca e slava, ma anche ebraica] nel 1861, da un’agiata famiglia borghese ebraica; di origine tedesca il padre (da qui Svevo) e italiana la madre (da qui Italo). Dopo il fallimento economico del padre si impiegò in banca, lavoro che trovava arido e opprimente (vedi Alfonso Nitti in Una vita) per cui cercava un’evasione letteraria frequentando la biblioteca civica di Trieste. Successivamente lasciò la banca ed entrò nella ditta del suocero (col matrimonio si fece battezzare ed abiurò la religione ebraica)divenendo un dirigente industriale e tralasciando quasi del tutto l’attività letteraria, vista ora con sospetto (era il tipico senso di colpa dell’intellettuale del tempo che si sentiva parassita nell’età del trionfo industriale). Tuttavia essa rimase in stato latente fino a che si verificarono 2 imp. eventi nella formazione intellettuale di Svevo. : 1) l’incontro con James Joyce, esule dall’Irlanda, dal quale Svevo prendeva lezioni di inglese e riceveva incoraggiamento nel continuare la sua attività letteraria (egli aveva apprezzato i due romanzi Una vita e Senilità, che invece non avevano avuto successo);  2) l’incontro con le teorie psicanalitiche di Freud (che apprezzava come strumento conoscitivo e non come terapia). Così iniziò il suo terzo romanzo La coscienza di Zeno, il quale di nuovo non ebbe successo. Ma fu grazie all’amico Joyce, trasferitosi a Parigi, che S. si pose all’attenzione dei critici francesi ed europei; in Italia intanto veniva fatto conoscere dal giovane amico Eugenio Montale. Morì in seguito ad un incidente d’auto nel 1928.
La cultura.
La natura dell’ambiente triestino e il carattere stesso dell’educazione  ricevuta (non è un letterato puro, è un autodidatta che proviene da studi commerciali) portano Svevo lontano da ogni nozione classicistica, retorica ed estetizzante della letteratura (non serve a proporre valori e modelli assoluti): vide sempre la letteratura come strumento di coscienza e di conoscenza della realtà, strumento di critica verso le illusioni della vita sociale; fu indifferente a ogni formalismo della bella pagina e della perfezione linguistica. Autori formativi furono i grandi del realismo francese- Balzac, Stendhal, Flaubert- per la loro capacità di indagare i comportamenti umani. Proprio questa curiosità suscitò la sua attenzione verso una cultura “negativa”, ma senza compiacimento decadente. Ma su questo fondo si sovrappose un atteggiamento ironico, di distacco e di attenuazione, con cui minimizzava il peso della propria posizione, pronto a presentare le proprie convinzioni come un segno di inferiorità, di incapacità di essere come gli altri. Nei romanzi mira a smascherare gli autoinganni dei suoi personaggi [cfr. Shopenhauer], a smontare gli alibi che essi costruiscono per occultare ai propri stessi occhi le vere motivazioni delle proprie azioni al fine di sentirsi innocenti. Nello stesso modo, per influenza del determinismo positivistico darwiniano, S. presenta il comportamento dei suoi personaggi come prodotto di leggi naturali immodificabili  e non dipendenti dalla volontà; però nella rappresentazione concreta seppe anche cogliere come  quei comportamenti avessero le loro radici nei rapporti sociali e fossero quindi non un prodotto di natura, ma storico ( in tal modo arrivava a mettere in luce le responsabilità individuali dell’agire e poteva approdare ad un atteggiamento critico e ironico). Di conseguenza non ci dà i conflitti di una psiche astratta o dell’uomo in assoluto, ma del borghese in un determinato periodo della storia.
Una Vita. [ titolo originario “Un inetto”]
Al centro della narrazione in terza persona c’è il fallimento intellettuale di Alfonso Nitti, che venuto dalla campagna alla città di Trieste giunge al suicidio dopo inutili tentativi di superare i limiti della sua condizione. Alfonso inaugura il personaggio dell’inetto; l’inettitudine consiste in una debolezza, un’insicurezza psicologica che rende l’eroe incapace alla vita. A differenza dei personaggi dannunziani, Alfonso non può rappresentare alcun modello, egli oppone al mondo del consumo solo subalternità, passività; eroe senza qualità, è lontano da ogni compiacimento estetico ed è immerso in una grigia realtà quotidiana. La focalizzazione del romanzo è interna al protagonista, il punto di vista è collocato nella sua coscienza [che diventa un labirinto in cui è già la percezione dell’inconscio]: siamo al passaggio dal romanzo realistico a quello psicologico (ma anche della scalata sociale e di formazione). Spesso, però, è introdotta la voce del narratore (non più onnisciente) a giudicare un’azione, a correggere un’affermazione, a smascherare gli alibi costruiti dall’eroe. Il romanzo si regge tutto sull’opposizione dei due punti di vista antagonistici, che rivela l’atteggiamento critico di Svevo verso il suo personaggio. In questo modo l’autore critica le illusioni della vita sociale, critica il progresso e rappresenta la malattia come vero carattere distintivo della modernità.

Senilità.
Il secondo romanzo di S. ebbe un insuccesso peggiore del precedente, ma risulta libero dagli schemi  e dalle strutture di stampo naturalistico. Anche qui la narrazione in terza persona si concentra sulle vicende  e sul p.d.v. di un personaggio “inetto” di 35 anni, Emilio Brentani, i cui atteggiamenti sono complicati da un senso precoce di senilità. Impiegato, vive una tormentosa storia d’amore con l’esuberante popolana Angiolina. Proprio la relazione con la donna fa venire alla luce l’inettitudine di Emilio ad affrontare la realtà. Questa inettitudine è soprattutto immaturità psicologica, fissazione ad una fase infantile dell’evoluzione psichica. Emilio ha paura della donna e del sesso, e per questo sostituisce alla donna reale, di carne, una donna ideale, trasformando Angiolina in una creatura angelica e purissima, chiaro equivalente della madre. L’immaturità di Emilio segna, così, la crisi del modello dell’individuo borghese ottocentesco, libero, energico, attivo (superuomo): lo scrittore rappresenta impietosamente tutta la miseria e le contraddizioni di un ceto sociale in crisi, che non sa guardare in faccia la propria realtà e che si costruisce maschere. La sorella di Emilio vive un rapporto simile con un amico del fratello. Il romanzo non offre più un articolato quadro sociale, ma si concentra quasi esclusivamente sui 4 personaggi centrali, i cui rapporti si compongono in una struttura equilibrata e simmetrica. I fatti esteriori, la descrizione degli ambienti hanno poca rilevanza, è la dimensione psicologica che interessa all’autore (sempre radicata nel terreno sociale e storico).              Procedimenti narrativi- verso il suo eroe S. ha un atteggiamento critico. Come in Una Vita il romanzo è focalizzato quasi esclusivamente sul protagonista, i fatti sono presentati come li vede lui. Ma poiché Emilio è portatore di una falsa coscienza e si costruisce continuamente maschere e alibi, il suo punto di vista è inattendibile [cfr. Verga]. Questa inattendibilità viene denunciata dall’autore attraverso particolari accorgimenti narrativi: 1) la voce del narratore interviene con commenti a smentire e correggere la prospettiva del protagonista (si hanno, così, due prospettive, quella di E. che mente a se stesso, e quella del narratore, dotato di lucidità), oppure i giudizi sono affidati a piccole sfumature ironiche, che si colgono nell’uso di un aggettivo, di un avverbio; 2) il narratore non interviene direttamente, basta il contrasto tra le mistificazioni che si crea Emilio e la realtà oggettiva che scaturisce dal contesto (ironia oggettiva o implicita, può raggiungere effetti ancora più corrosivi di quella esplicita); 3) il narratore denuncia le mistificazioni del personaggio attraverso la semplice registrazione del suo linguaggio, stereotipato, enfatico, melodrammatico e al tempo stesso banale. In definitiva Svevo fa di Emilio una figura dell’incapacità di vedere le contraddizioni della realtà e dell’io, tipica di tanti modelli intellettuali  di tipo decadente. Ma la sua è anche la condizione più generale dell’uomo moderno perduto dietro fantasmi, modelli astratti, mentre gli sfugge il vero volto della natura.

La coscienza di Zeno
Svevo pone mano a questo romanzo dopo venti anni di silenzio, durante i quali, però, anche grazie all’amicizia di Joyce, si era confrontato con modelli molto lontani da quelli naturalistici (flusso di coscienza e monologo interiore*). Inizia a lavorare al romanzo pochi mesi dopo la fine della guerra (1919), la stampa fu terminata nel 1923. A differenza dei due precedenti, è scritto in prima persona (narratore auto diegetico): non si presenta come narrazione di una vicenda particolare, ma come un’autobiografia aperta in cui non si segue un disegno organico, ma si aprono squarci su diverse situazioni della vita del protagonista. Si tratta di un personaggio fittizio, Zeno Cosini,  ricco triestino che per liberarsi dalla nevrosi  (vuole uscire dall’accidia, dall’abulia), che si riconosce innanzitutto nell’impossibilità di liberarsi dal vizio del fumo, si è sottoposto ad una cura psicoanalitica e ha ricevuto dal dott. S. l’incarico di ripercorrere per iscritto il proprio passato. Ma questa ricostruzione del passato si compie per salti [tempo misto: gli eventi non sono in successione cronologica, il tempo è soggettivo; il passato (tempo vissuto) riaffiora continuamente e si intreccia al presente (tempo del racconto)] ad un certo punto si interrompe, come interrotta risulta la cura psicoanalitica, per l’insofferenza del paziente verso il medico e il suo metodo. Il testo si compone di 8 capitoli i cui temi più importanti sono: il vizio del fumo, la morte del padre, il rapporto con la moglie e con la giovane amante; alla fine il capitolo Psico-analisi, in cui Zeno sfoga il proprio livore contro lo psicanalista (alla fine sarà proprio quest’ultimo a pubblicare il diario per vendicarsi di Zeno) racconta la sua presunta guarigione, in coincidenza dei suoi successi commerciali ottenuti attraverso speculazioni durante la guerra. Zeno, come Alfonso ed Emilio, rappresenta l’inettitudine a vivere, ad adattarsi al mondo esterno. Ma c’è una differenza: Alfonso ed Emilio escono schiacciati dal confronto con la società, sono “vinti” perché manca loro quella dose di spregiudicatezza e cinismo necessaria a vincere. A Zeno, invece, va tutto bene, anche nella guerra, quando si arricchisce senza scrupoli mentre i soldati muoiono a poca distanza. Il successo gli dà una sorta di euforia, per cui pensa di essere guarito e abbandona la cura: i malati sono coloro che si lasciano prendere dagli scrupoli. Zeno non è solo oggetto di critica, ma anche soggetto; su di lui non pesa solo l’ironia oggettiva, ma è anche Zeno che guarda il mondo che lo circonda con distacco ironico (la d”diversità” e “la malattia”  di Zeno funzionano da strumento straniante nei confronti dei cosiddetti “sani e normali”: padre, suocero, moglie). La nevrosi e la malattia appartengono a tutta la civiltà, all’uomo moderno in generale (schiacciato dalla società capitalistica); proprio la serietà nasconde inganni ed illusioni. Adesso l’atteggiamento di Svevo verso l’inetto non è più quello impietosamente critico, ma più aperto e problematico (proprio perché l’inetto è ora aperto ad ogni forma di sviluppo: l’inferiorità di Zeno alla fine si è risolta nel successo finanziario).
*Si parla di monologo interiore quando viene riprodotto direttamente il flusso dei pensieri  che si svolgono nella mente di un personaggio. Il narratore fa parlare i suoi pensieri senza verbi dichiarativi né segni grafici. È una tipica modalità mimetica, che permette al lettore di entrare nella mente dei personaggi e di condividerne l’interiorità(presente sopratt. nella letter. del ‘900). Il monologo int. si presenta in forma diretta  quando i pensieri del personaggio sono espressi in prima persona con il discorso diretto libero, si presenta in forma indiretta quando l’autore riporta i pensieri del personaggio con il discorso indiretto libero in terza persona e con i verbi al passato (Mastro don Gesualdo).
L’espressione flusso di coscienza è mutuata dal linguaggio psicologico per definire l’attività incessante della mente umana, il fluire continuo e disordinato, e spesso senza apparente legame, di pensieri, sensazioni, ricordi e fantasie. Il narratore si avvale di questa tecnica quando vuole mostrare il fluire dell’attività mentale spontanea di un personaggio, e la descrive senza riordinarla né organizzarla. Per poter rendere con la scrittura il flusso caotico dei pensieri, spesso il narratore usa al minimo la punteggiatura o non ne utilizza alcuna. La sperimentazione più avanzata  del flusso di coscienza, mirante ad una riproduzione ossessivamente mimetica dell’irrazionalità del movimento della vita interiore è quella dell’Ulyssess di Joyce, apparso un anno prima della Coscienza di Zeno.

 

LUIGI PIRANDELLO
Nacque nel 1867 presso Girgenti (poi Agrigento) da una famiglia di agiata condizione borghese, il padre dirigeva le miniere di zolfo. Si laureò all’università di Bonn, dove entrò in contatto con la cultura tedesca e con gli autori romantici che ebbero profonda influenza sulla sua opera e sulle teorie riguardanti l’umorismo. Si stabilì a Roma, dove divenne professore e si legò in amicizia con Luigi Capuana. A seguito dell’allagamento delle zolfare la famiglia subì il dissesto economico, così anche Pirandello fu segnato dall’esperienza della declassazione con tutte le relative frustrazioni. Nel 1920 la sua produzione drammatica culmina con il capolavoro di Sei personaggi in cerca d’autore; lascia così la cattedra universitaria e si dedica completamente al teatro seguendo le compagnie nelle loro tournées in Europa e in America (negli anni  ’20 e ’30 i drammi di P. furono conosciuti  e rappresentati in tutto il mondo). Nel 1934 ricevette il premio Nobel per la letteratura; ammalatosi di polmonite mentre era impegnato a Cinecittà per le riprese di un film tratto dal romanzo Il fu Mattia Pascal, morì nel 1936.        
La visione del mondo-      1) Il vitalismo.  Alla base della visione di P. vi è una concezione vitalistica, ovvero la realtà è perpetuo movimento, eterno divenire, incessante trasformazione da uno stato all’altro. Così noi crediamo di essere “uno” per noi stessi e per gli altri, mentre siamo tanti individui diversi, a seconda della visione di chi ci guarda. C’è una critica serrata al concetto di “identità personale” e di “io”: nella società novecentesca entra in crisi sia l’idea di una realtà oggettiva, sia di un soggetto unitario, coerente; l’individuo non conta più, si frantuma (con l’affermarsi del capitale monopolistico, della grande industria, delle macchine, delle grandi metropoli si sviluppa una tendenza spersonalizzante). Nello stesso tempo, l’individuo soffre ad essere “fissato”dagli altri in forme in cui non può riconoscersi [ in sostanza c’è un eterno conflitto tra vita, che è continuo movimento, e forma, che spegne la vita perché rappresenta le maschere artificiali che l’uomo è costretto ad indossare nei rapporti con gli altri]. Queste forme sono sentite come “trappole” perché fissano l’uomo negando il movimento vitale; la trappola per eccellenza è la “famiglia”, cui segue quella “economica (condizione sociale e lavoro). Da queste trappole non c’è via d’uscita, quindi il pessimismo è totale. L’unica via di relativa salvezza è la fuga nell’irrazionale o nella follia [ricordiamo la dolorosa esperienza di Pirandello che vide impazzire progressivamente la propria moglie]. Il rifiuto della vita sociale dà luogo nell’opera pirandelliana all’eroe estraniato, colui che si isola rifiutando di assumere la sua “parte”, osservando, con atteggiamento umoristico, gli uomini imprigionati nella trappola. E’ quella che Pirandello definisce la “filosofia del lontano”: contemplare la realtà a distanza in modo da vedere in una prospettiva straniata tutto ciò che l’abitudine ci fa considerare normale, in modo da coglierne l’assurdità e la mancanza di senso. Dunque, nel suo pessimismo radicale, P. si riserva solo un ruolo contemplativo, di lucida critica della realtà. Descrive la piccola borghesia (impiegati, insegnanti) tutti vittime di pregiudizi e alienazione, ma non indaga sulle ragioni storiche del malessere (come Svevo che le individua nel capitalismo); come Verga pensa che sia correlato alla stessa condizione umana. Strutture sociali e sistemi politici, quindi, non hanno nessuna responsabilità
2) Il relativismo conoscitivo.    Dall’idea che la realtà è multiforme ed in continuo divenire scaturiscono importanti conseguenze sul piano conoscitivo; caratteristica della visione pirandelliana è dunque il relativismo, che nasce dalla crisi del Positivismo  e dalla nuova fisica basata sulla relatività dei fenomeni, la quale fa perdere alla scienza le prerogative di verità assolute date dal Positivismo. Questa crisi determina sfiducia nella ragione, insicurezza, scetticismo. Pirandello col suo relativismo psicologico rispecchia questa condizione di incertezza. Non c’è una realtà oggettiva fissata a priori, ma ognuno ha la sua verità che nasce dal suo modo soggettivo di vedere le cose. Ne deriva un’inevitabile incomunicabilità tra gli uomini, che accresce il senso di solitudine dell’individuo che si scopre nessuno, mette in crisi i rapporti sociali e ne svela il carattere convenzionale e fittizio. Protagonista delle opere non è più l’uomo intero, ma un uomo frantumato, che è uno, nessuno, centomila.            
La poetica: l’umorismo.   Le concezioni sull’arte e sulla poetica sono esplicitate dallo stesso Pir. in diversi saggi, ma il più importante resta il saggio L’umorismo. Qui l’autore ripercorre la tradizione della letteratura umoristica rivendicandone il valore, in opposizione alla letteratura sublime basata sull’equilibrio e l’armonia. Inoltre, fornisce una definizione del concetto stesso di umorismo. Nell’opera d’arte la riflessione resta invisibile, nell’opera umoristica, invece, la riflessione non si nasconde, ma analizza e scompone il sentimento. Da qui nasce il sentimento del contrario, che è il tratto caratterizzante l’umorismo pirandelliano. Esempio: se vedo una vecchia signora tutta truccata e imbellettata avverto che è il contrario di ciò che la signora dovrebbe essere e questo mi fa ridere; dunque questo avvertimento del contrario è il comico. Se, però, interviene la riflessione e mi rendo conto del perché del suo comportamento, della sofferenza che sta dietro quella maschera (la signora vuole ingannarsi, illudersi perché non accetta la sua condizione), allora si passa dal semplice avvertimento del contrario (comico) al sentimento del contrario, ossia all’umorismo [avvertimento contr.= comico  / sentimento contr. = umorismo]. La riflessione che interviene nell’umorismo coglie, così, il carattere molteplice e contraddittorio della realtà, permette di vederla da diverse prospettive contemporaneamente; guarda con pietà al ridicolo, o viceversa, fa emergere il ridicolo nel serio. Quella di Pir. è un’arte che non costruisce immagini unitarie, armoniche e ordinate del mondo, ma tende a scomporre, a disgregare, a far emergere contrasti . E’ l’arte moderna per eccellenza, perché riflette la coscienza di un mondo ormai frantumato, in cui non vi sono prospettive privilegiate o punti di riferimento fissi, ma solo contraddizioni: è quindi un’arte eminentemente critica, che dissolve tutti i luoghi comuni.
I romanzi [vedi libro di testo : Il fu Mattia Pascal; Si gira; Uno, nessuno, centomila]
Il teatro.      L’interesse di Pirandello per il teatro ha radici lontane, ma i suoi drammi cominciarono ad essere rappresentati solo dal 1910 (scrisse sia in dialetto che in lingua). Prima di lui nei teatri italiani dominava la commedia borghese, di origine francese e di impianto naturalistico [o il tetro di D’Annunzio basato sul mito del superuomo] che si incentrava sui problemi della famiglia e del denaro, ossia dell’adulterio e delle difficoltà economiche. Era un dramma serio, fondato sulla verisimiglianza, sulla riproduzione fedele della vita quotidiana, sulla proposizione di personaggi a tutto tondo, con la rigida consequenzialità di causa-effetto propria del determinismo naturalistico.  Pirandello, invece, porta sulla scena una vera rivoluzione, dando al suo teatro una dimensione europea e mondiale. Infatti fu scoperto prima all’estero che in Italia, dove la cultura era più arretrata e provinciale [all’inizio solo A. Gramsci sull’Avanti ne fa una recensione d’eccezione] 1) Il teatro grottesco.  Pirandello apparentemente riprende i temi e gli ambienti del teatro borghese, ma  porta la logica delle convenzioni borghesi alle estreme conseguenze, fino a farla esplodere. I ruoli imposti dalla società borghese, il marito, l’uomo d’affari, vengono assunti con estremo rigore, sino a giungere al paradosso e all’assurdo, e così vengono smascherati nella loro inconsistenza.  Al centro dei suoi drammi e delle sue commedie in tre atti (Pensaci, Giacomino!;  Così è, se vi pare; Il giuoco delle parti; Il piacere dell’onestà)  vi sono quasi sempre complicazioni familiari entro lo schema di partenza del “triangolo”: i personaggi si muovono all’interno della contraddizione tra i loro sentimenti e la posizione richiesta dai rispettivi ruoli vissuti nel rapporto matrimoniale; ne sorgono situazioni artificiose e paradossali. In questi drammi Pirandello sconvolge due capisaldi del teatro borghese naturalistico, la verisimiglianza e la psicologia. Gli spettatori non hanno l’illusione di trovarsi di fronte ad un mondo naturale , de tutto simile a quello in cui sono abituati a vivere, ma vedono un mondo stravolto, ridotto alla paradia e all’assurdo, in cui i casi della vita “normale”sono forzati all’estremo e deformati. Parimenti i personaggi non sono caratteri corposi, dalla psicologia coerente ed unitaria, ma personaggi scissi, sdoppiati, contraddittori, quasi trasformati in marionette. A questo processo di riduzione all’assurdo di situazioni e figure concorre il linguaggio: concitato, convulso, fatto di continue interrogazioni, frasi interrotte, sospensioni, sottintesi, che danno l’idea dell’agitarsi delle passioni come nel vuoto, in uno spazio astratto dalla vita reale, e impediscono l’identificazione emotiva degli spettatori, inducendoli a vedere la scena in una prospettiva straniata, a leggerla criticamente. Il suo teatro, così, si accosta al grottesco; cioè, il grottesco non è che la forma che l’arte umoristica  assume sulla scena.   2) Il teatro nel teatro.  Il testo diventa metateatrale, attraverso l’azione scenica si discute del teatro stesso [libro di testo: Sei personaggi in cerca d’autore].   3) La tragedia borghese.  Pirandello in un secondo tempo si sente spinto a cercare forme più stabili, alla scomposizione del dramma borghese si sostituisce la sublimazione della tragedia, all’analisi della contraddizione tra realtà e maschera si sostituisce una ricerca del senso nascosto dietro la maschera. Vengono abbandonati gli ambienti della piccola borghesia e si preferisce il mondo della grande borghesia.  Il nuovo Pirandello cercava la strada della tragedia borghese [libro di testo: Enrico IV].   4) Il pirandellismo.  L’ultima produzione  è rappresentata da personaggi dell’alta borghesia, si ricorre ad effetti troppo artificiosi ed esteriori, ricorrono sempre gli stessi temi; è presente un eccesso di cerebralismo, di interpretazioni manierate.   5) I miti.   Contemporaneamente a questi drammi, Pirandello cerca la via di un teatro dietro cui si manifesta  un proposito di edificazione ideologica, di trasmissione di valori ufficiali. Non rappresenta più la realtà sociale borghese, ma  colloca i testi in un’atmosfera mitica, simbolica, utilizzando elementi leggendari, meravigliosi, soprannaturali (il più interessante è I giganti della montagna).
Pirandello e il fascismo. Nel 1924 Pirandello aderì ufficialmente al fascismo, come  definitivo rifiuto dell’Italia liberale giolittiana: nel fascismo egli credette di vedere il movimento della vita che distruggeva le forme di una realtà di maschere e menzogna. Ma l’adesione di Pirandello al fascismo comportava  una vera e propria contraddizione con il senso della sua opera precedente, con la sua negazione delle illusioni, delle maschere e delle finzioni sociali. Egli stesso dovette rendersi conto ben presto di quanto il fascismo si risolvesse in vuota ufficialità, in volgare parata e messa in scena. Nel corso degli anni ’30 il suo giudizio si modificò (la critica delle maschere non poteva risparmiare il regime, che della falsità del meccanismo sociale era un esempio macroscopico), ma egli preferì evitare qualsiasi rottura, si piegò alle forme e ai rapporti ufficiali pur disprezzandoli profondamente.

 

 

Fonte: http://www.liceolinguisticolanza.it/wp-content/uploads/2012/11/SVEVOPIRAND.docx

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