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Pirandello
1. Vita
Luigi Pirandello nacque il 28 giugno 1867 a Girgenti ( che divenne poi Agrigento). Il padre Stefano discendeva da una famiglia ligure trasferitasi in Sicilia e gestiva delle miniere di zolfo; la madre, Caterina Ricci Gramitto, apparteneva a una famiglia borghese che si era eroicamente distinta nella lotta antiborbonica e unitaria. Compiuti gli studi liceali a Palermo, si iscrisse all’università di Palermo passando nell’87 alla Facoltà di lettere a Roma ma in seguito ad un contrasto con il latinista Onorato Occioni, dovette lasciare l’università di Roma e va in Germania, a Bonn dove si laurea in filologia romanza e vi rimane per un anno come lettore d’italiano. Rientrato in Italia deciso a dedicarsi alla letteratura, ottenne dal padre un assegno mensile e nel ’92 si stabilì a Roma, dove strinse amicizia con il letterato messinese Ugo Fleres e con Capuana, scrittore Siciliano che lo apprezzò e lo seguì nel suo lavoro. Comincia così ad impegnarsi nella narrazione in prosa e nell’estate 1893 scrive il suo primo romanzo con il titolo L’esclusa; intanto collaborava a riviste e scriveva novelle. Anche se le sue prime opere hanno i segni caratteristici del verismo, si riconoscono già i contrasti interiori dei suoi personaggi, personaggi che esprimono una coscienza critica e autocritica che porterà poi a quello che sarà il tema costante dell’opera pirandelliana “non più una realtà univoca ma tanto quanti sono coloro che presumono di possederla”.
Nel gennaio del 1894 sposa Antonietta Portulano che gli dà tre figli. Il primo periodo della vita famigliare fu abbastanza sereno, ma in seguito un grave dissesto economico, la moglie di carattere inquieto e fragile subì una gravissima crisi che compromise definitivamente la sua salute, le viene una paranoia ossessiva che le fa passare il resto della sua vita in una casa di cura. Nel 1897 Pirandello aveva intrapreso la carriera di professore universitario e così a causa dei problemi finanziari fu costretto a dare lezioni private e a collaborare più assiduamente a giornali e riviste per arrotondare il magro stipendio. Lo scrittore ottenne il suo primo grande successo con il romanzo “Il fu Mattia Pascal”. Grazie al successo ottenuto l’editore Treves di Milano pubblica le sue opere e, nel 1908, l’edizione dei due volumi saggisti Arte e scienza e L’umorismo favorì la sua nomina a professore universitario di ruolo di lingua italiana, stilistica e precettistica nello stesso istituto dove esercitava già l’incarico. Ma le sue opere teatrali “Sei personaggi in cerca d’autore”, “Enrico quarto” e Ciascuno a suo modo”, che vengono tradotte in francese e tedesco, gli aprono le porte a tutto il mondo. Dalla vita sostanzialmente sedentaria degli anni precedenti passa a un’inquieta vita da viaggiatore, vive e scrive negli alberghi girando per molti centri teatrali europei e americani. Le sue novelle vengono pubblicate nella raccolta “Novelle per un anno”, ed il primo volume esce nel 1922. Accademico d’Italia dal 1929, riceve nel 1934 il premio Nobel. Muore nel 1936 a Roma. Aveva scritto nel suo testamento: “Carro di infima classe, quello dei poveri. Nudo. E nessuno mi accompagni, né parenti, né amici: il carro il cavallo, il cocchiere e basta. Bruciatemi. E il mio corpo, appena arso, sia lasciato disperdere; perché niente, neppure la cenere, vorrei avanzasse di me.
Dopo l’unificazione politica d’Italia c’è grande delusione nelle regioni meridionali, le classi borghesi che vengono a sostituire la vecchia aristocrazia, in realtà non portano alcuna innovazione essendo quest’ultime come i loro predecessori legati alla ricchezza, al potere e a un interesse privato. La Sicilia in particolar modo per le sue condizioni di feudalesimo latifondista e per l’arretratezza intellettuale veniva a trovarsi in una condizione ulteriormente di svantaggio. Le speranze che erano state riposte nel Risorgimento muoiono e la delusione storica investe anche gli intellettuali e si aggrava progressivamente in una serie di crisi e di scandali. Il profondo rammarico delle masse popolari, che avevano sperato nell’abolizione del latifondo e nella distribuzione della terra ai contadini, contribuì alla diffusione del brigantaggio e della criminalità organizzata. Inoltre il popolo siciliano tra il 1864 e il 1874 venne colpito dalla peste e si calcola che nell’anno 1866 all’87 morirono più di 53.000 persone. La realtà di fine ottocento si presenta drasticamente spaccata in due classi: ricchi e poveri, padroni e servi, mercanti e “carusi”. Ci troviamo di fronte ad un atavico dolore e senso di sconfitta che il popolo siciliano ormai porta con se da secoli di dominazione e sfruttamento, da una ormai radicata convinzione che nulla potesse avvenire, “vano sarebbe stato ogni sforzo per scuotere l’abbandono desolato, in cui giacevano non soltanto gli animi ma anche le cose” testimonia Pirandello in I vecchi e i giovani. Davanti a questi fatti, gli intellettuali siciliani assistono impotenti, con il vuoto della speranza, talvolta cercando di riflettere nelle loro opere lo sconforto della gente e la drammatica instabilità dell’identità sociale. Gli scrittori Siciliani anche quando si allontaneranno fisicamente dalla Sicilia manterranno sempre un vivo legame con le loro radici esprimendo nelle loro opere tutta la drammaticità dell’isola, opere ricche di pietà per un popolo martoriato da secoli da un ceco potere. La Sicilia di Pirandello non è molto lontana da questo dramma che i siciliani saranno costretti a vivere ancora per molti anni. La sua filosofia pessimista nasce in parte da questi momenti tragici, difficili da sradicare. Il popolo siciliano vivrà allungo, sulla propria pelle, l’egoismo di una classe dirigente abietta e conservatrice.
3. La formazione intellettuale di Pirandello
Il pensiero pirandelliano viene maturando in quel trapasso dal positivismo a concezioni neoidealistiche in un periodo nel quale la letteratura verista veniva sostituita per una più spiritualistica ed estetizzante. A Verga e a Zola veniva a succedere Bourget e Dostoevskij aprendo così la strada al Decadentismo, con il prevalere dell’individualismo legato allo smarrimento di quella nuova coscienza razionale dell’uomo e del mondo. Questa crisi investì gli scrittori dell’epoca: da Fogazzaro a D’Annunzio, da Pascoli ai crepuscolari, ecc. ognuno dei quali visse in modi propri ed originali quel momento particolare della storia europea. Pirandello partecipò come gli altri alla dissoluzione del positivismo e all’affermazione di esigenze spiritualistiche e idealistiche, ma in modo diverso e più tragico, vivendo la crisi dall’interno. Egli si distaccò sia dall’ottimismo idealista di Croce e sia dall’irrazionalismo dannunziano, perché dal contrasto tra vita ed intelletto, tra vita stessa e le sue forme, tra morale sociale e morale assoluta, non trasse fuori nessun eroe ma solo un senso di sconfitta e di impotenza. Come possiamo leggere nel Dizionario Enciclopedico della Letteratura Italiana, (Laterza-Unedi 1967, p 384):
“ Tanto tragica fu in lui la coscienza del caos della vita, dell’inesistenza di qualsiasi legge, del dominio del caso sulla pretesa razionalità umana, dell’incomprensione che ne deriva tra uomo e uomo, tra l’uomo e se stesso, che non poté placarsi in nessuna delle soluzioni, in fondo pacifiche dei suoi contemporanei.”
La vita è un continuo intrecciarsi di menzogne e di vero, di buono e di malvagio, d’illusorio e di reale, che di essa non si può dare né un concetto omogeneo, né una rappresentazione unitaria. Luigi Pirandello riceve i primi rudimenti della cultura dalla domestica Maria Stella, basati sul patrimonio popolare siciliano, una vita popolare arcaica e su una religiosità esacerbata dalla superstizione e dall’ipocrisia, dai quali si distacca grazie a quel forte interesse che ebbe per la lettura, una lettura che accende in lui il desiderio di studi classici. Egli sentì fortemente il legame con il suo mondo famigliare con quella Sicilia la quale (davanti agli occhi di un bambino) appariva misteriosa, oscura, segreta, fitta di leggende, fantasmi, suggestioni. Negli anni poi venne ad aggiungersi a quel fondo siciliano e risorgimentale, una attenzione al mondo borghese e piccolo-borghese moderno. Osservandolo con occhio attento mettendone a nudo la contraddittorietà del sentimento e delle sofferenze individuali.
Le novelle sono una costante della produzione letteraria di Pirandello che lo accompagnarono per tutta la vita. Una produzione fitta e continua che copre i primi quindici anni dell’ 900 per farsi poi meno costante negli anni successivi.
Le novelle verranno raccolte sotto il titolo Novelle per un anno, così chiamate per offrire ai lettori 365 novelle, quanti sono i giorni di un anno, riunite parzialmente con questo titolo dal 1922 e tutte poi nel 1937-’38, dopo la sua morte. Lo scrittore riservò sulle novelle tutto il suo sentire, essi contengono un vastissimo intreccio di temi. I luoghi sono quelli della Sicilia e di Roma, i personaggi sono quelli della realtà popolare, della grande e piccola borghesia, personaggi di poveri impiegati della Roma umbertina tutte figure inquiete assaliti da mali oscuri, da antichi turbamenti. Troviamo soprattutto angoscia, solitudine, disgregazione. L’individuo appare come un ribelle sconfitto, un essere impotente di cui le uniche armi per combattere sono: la logica, l’innocenza, la remissione e a volte l’abbandono.
5. Il dialetto all’interno della lingua standard
Il ricorso a diversi registri in uno stesso testo letterario non è privilegio della narrativa moderna o postmoderna. Da sempre questo artificio è stato usato con diversi fini, anche se limitatamente al discorso diretto o indiretto libero. Possiamo trovare molti esempi nella letteratura italiana ma ne citerò solo alcuni: Dante, Boccaccio, Goldoni, Manzoni, Verga, Pirandello, Passolini, Gadda e Pavese, che seppero intercalare a quello letterario, altri registri linguistici, che vanno dal dialettale, all’italiano regionale, al colloquiale quotidiano popolare. Scrivendo in volgare, Dante cerca di costruire un’identità culturale che, secondo lui, il latino ormai non riusciva ad esprimere. Boccaccio reinvesta la realtà circostante e dà al suo testo narrativo il ritmo del registro colloquiale. Goldoni costruisce i suoi personaggi con maestria, fondendo il registro dialettale-regionale nel testo letterario. Manzoni capisce l’importanza di un linguaggio più vicino alla lingua usata giornalmente, cercando una maggiore approssimazione tra opera e lettore. Verga e Pirandello fanno un esteso uso del dialetto. Il primo con l’obiettivo di descrivere crudamente il reale e il secondo va molto oltre, svelando i contrasti sociali e rivelando le contraddizioni dell’uomo, a prescindere dalla classe sociale di appartenenza, e così via. Quanto detto sopra è stato studiato da Alcebiades Martins Areas: Pavese: tra lo scritto ed il parlato.
Ritornando a Pirandello, l’autore che mi sono proposta in questa tesi di esaminare più da vicino, fin dai suoi primi scritti, Luigi Pirandello si allontanò dalla stilistica. Egli quando scrive dà poca importanza allo stile, alla sintassi per concentrarsi sulla parola. La sua è una parola fortemente espressiva, si affida a una scrittura concreta, capace di mettere a nudo le contraddizioni, la sofferenza, quei mali oscuri che ci tormentano e soprattutto riuscire ad esprimere la solitudine dei suoi personaggi quest’ultima tema costante della sua opera. Guglielminetti e Ioli (Storia della letteratura Italiana, 1995, Cap. XVII par. 16) nel loro studio sul linguaggio di Pirandello fanno riferimento alle osservazioni di Contini, Mazzacurato e Debenedetti. Contini osserva:
“la scrittura di Pirandello, impegnata a trascrivere cose e fatti, personaggi e maschere, è orientata fin dalle origini verso una scelta non formalistica, improntata com’è su uno stile e una lingua medi, in cui irrompono vocaboli e costrutti di ambiente regionalistico, che rendono la sua prosa di tipo espressionistico”.
Egli riconosceva nel linguaggio di Pirandello ”il più proverbiale esempio di Koinè italiana di irradiazione romana”. Il giudizio di Contini viene contestato da Mazzacurato, il quale mette in risalto il complesso lavorio linguistico che sta dietro l’apparente semplicità pirandelliana: “ Bisogna precisare, però, che il suo espressionismo significa lessico attuale, standardizzato, e la sua sintassi significa aderenza al tono linguistico del personaggio, che non è necessariamente romanocentrica. Professore di stilistica e retorica, Pirandello si pose certo il problema della lingua.
Lo stile di Pirandello, quel suo alterare le forme letterarie, il passaggio da un genere all’altro, suscitarono non solo le perplessità di Croce, ma anche quelli di Debenedetti, il quale gli rimproverava di aver devastato ”gli equilibri e gli assestamenti, talora anche bellissimi, di linguaggio raggiunto dal naturalismo”, “Tutto questo le dà un linguaggio ibrido, una maniera corriva […]”. Per Pirandello si tratta di una vera e propria demistificazione dell’illusione linguistica. Il problema della comunicazione, sentito anche per via dello stile giornalistico di molti suoi racconti, investiva anche le sue radici regionalistiche e lo costringeva per un verso ad allontanarsi dal dialetto, sentito come lingua straniera inadatta all’invenzione narrativa, e, per l’altro verso, a introiettarlo per un uso espressionistico del linguaggio. La sua lingua, insomma si plasmava sui personaggi, caratterizzati da una fisicità che è anche parlata, a favore della forza del significato. Interrogazioni, dialoghi concitati, frasi spezzate, umori, sentimenti, dubbi, stupori sono tutti protesi ad affermare il senso vero della vita che si andava narrando. La lingua di Pirandello, non vuole spiegarci chiarire o consolarci, ma piuttosto mostrare quando il linguaggio spesso sia incapace di poter esprimere la realtà interiore.
Come già accennato nella prefazione l’opera narrativa di Pirandello fu fonte di ispirazione per altre forme d’arte e in particolar modo venne usata nel cinema. A portare lo scrittore sullo schermo sono stati registi come: Marco Bellocchio con “La balia” (tratto da una novella di Luigi Pirandello ambientata nella Roma del primo Novecento), ed “Enrico IV “dall’omonimo dramma; “Il lume dell’altra casa” di Ugo Gracci e “Lo scaldino” di Augusto Genina; “Kaos” e “Tu ridi” dei Fratelli Taviani ed altri. Pirandello sembra l’autore italiano più filmato, peraltro con sbalorditiva continuità da un’epoca all’altra, nonostante i diversi cambiamenti nei contenuti e nello stile cui il cinema via via è andato incontro. Lo troviamo per accennare soltanto ad alcuni titoli significativi, negli anni ’20 con “ Il fu Mattia Pascal”, nei ’30 con “La canzone dell’amore” (primo film sonoro italiano), nei ’40 con “Enrico IV”, nei ’50 con “Vestire gli ignudi”, nei 60 con “Liolà”, nei ’70 con il “Viaggio”, negli ’80 con “Kaos”, nei ’90 con “Tu ridi”. La sua non è stata una fortuna solo italiana ma anche straniera: si pensi al francese “Fu Mattia Pascal” di Marcel L’ Herbier e agli americani “Come tu mi vuoi” di Gorge Fitzmaurice e “Questo nostro amore” di William Mieterle. Pirandello stesso venne affascinato da questa nuova forma d’arte e vi lavorò personalmente, lavorando alla stesura di soggetti cinematografici. Il suo interesse per il cinema che nasce quando ancora il cinema era muto si dimostra con il romanzo “Si gira” Per Giulio Bragaglia e, dai soggetti offerti a Lucio D’Ambra e Nino Martoglio, con collaborazioni firmate o non firmate, dai primi film realizzati negli anni Venti in Francia e in Germania. In Storia della letteratura Italiana, 1995, Cap. XVII, par. 11, troviamo la citazione di C. Vicentini, in L’estetica di Pirandello, Mursia, Milano 1985, p. 204, dove Pirandello dice:
Io credo che il Cinema, più facilmente, più completamente di qualsiasi mezzo d’espressione artistica, possa darci la visione del pensiero. Perché tenerci lontani da questo nuovo modo d’espressione che ci permette di rendere sensibili fatti appartenenti a un ambito che è quasi del tutto interdetto al Teatro e al Romanzo?
Pirandello legatosi alla cinematografia non se ne distacco più, suggerendo scene ed episodi, assistendo alle riprese e con l’avvento del sonoro, privo ancora delle tecniche di doppiaggio, lo scrittore si chiese come ovviare al problema linguistico dei film internazionali, arrivando alla conclusione che il cinema avrebbe dovuto accostarsi non alla letteratura, ma alla musica, inventando un nuovo linguaggio, visivo e musica, chiamato “ cinemelografia”, ma egli non riuscì a vendere la sua idea. Accantonato il progetto dell’immagine unita alla musica, Pirandello nel 1928 cominciò a lavorare di nuovo sulla parola.
v. AA.VV., Storia della Letteratura Italiana, 1995, Cap. XVII, par. 1.
Fonte: http://www.maths.lth.se/matematiklth/personal/mario/patri/pirand.doc
Sito web da visitare: http://www.maths.lth.se/
Autore del testo: Patrizia Rosa Verner Egerland
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