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Il Decadentismo e la crisi del Positivismo
Le sei unità
Unità 1 |
Il Decadentismo e la crisi del Positivismo: a) Languore di Verlaine e la nuova sensibilità decadente; b) le radici filosofiche e scientifiche della crisi del Positivismo. |
Unità 2 |
La poetica del Simbolismo francese (Baudelaire, Verlaine e Rimbaud) alla base della poesia decadente: il poeta-fanciullino di Pascoli e il poeta-veggente di Rimbaud. |
Unità 3 |
Il volto e la voce ambigua della natura nella poesia dei sue massimi esponenti del Decadentismo italiano: Pascoli e D’Annunzio.
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Unità 4 |
La prima tappa della dissoluzione del romanzo naturalista e verista: il romanzo spiritualista ed estetizzante (J. K. Huysmans, O. Wilde e G. D’Annunzio). |
Unità 5 |
La messa in discussione dell’io e della realtà: la figura dell’inetto nel Fu Mattia Pascal di L. Pirandello e in Senilità di Italo Svevo: a) premessa filosofica, cap. VII e finale de Il fu Mattia Pascal; b) lettura di due passi tratti da Una vita e Senilità. Il riscatto dell’inetto: a) incipit e conclusione di Uno nessuno e centomila (1925); b) trama de La coscienza di Zeno e lettura di un passo tratto dal capitolo Storia del mio matrimonio |
Unità 6 |
L’opera di Pirandello e Svevo: oltre il Decadentismo verso una forma d’arte problematica e moderna. |
1. Il Decadentismo e la crisi del Positivismo
La radice comune alla base del Decadentismo, un complesso fenomeno artistico-letterario e insieme una sensibilità profondamente critica che pervade la cultura di fine Ottocento e inizi Novecento, è il rifiuto delle certezze e della visione granitica e ottimistica del reale, basata sulla fede nella scienza, propria del Positivismo. Come abbiamo visto, tale rifiuto scaturisce da una mutata percezione del reale che è in primo luogo di natura filosofica e insieme scientifica: chi comincia a smontare la solida impalcatura ideologica del Positivismo, rivelandone l’orizzonte limitato e deterministico, è la filosofia dissacrante di Nietzsche, alla quale danno man forte, per così dire la scoperta dell’inconscio da parte di Freud, la nuova concezione del tempo come durata elaborata da Bergson e soprattutto la teoria della relatività ristretta e la rivoluzione della concezione dello spazio-tempo di A. Einstein.
Anche in questo caso, come abbiamo già visto nell’analisi e nella discussione del primo tema generale, l’arte e la letteratura, in sintonia con la filosofia e la scienza, intercettano i segni della crisi, le “crepe” nell’impalcatura apparentemente solida dell’ideologia positivista, iniziando a porre in discussione i fondamenti del Naturalismo e del Verismo e in più in generale di un’arte – quella del secondo Ottocento – che, fatta eccezione per Baudelaire - presenta una marcata impronta realista, pervasa, per così dire, dall’ossessione del “vero”. “Vero” è non caso una parola chiave che accomuna, per es., gli Scapigliati (basti pensare all’ultima strofa di Preludio di E. Praga) e la narrativa verista di Verga. Tanto Zola, quanto Verga muovono dal presupposto che l’arte – in questo caso la letteratura – possa fornire un’immagine completa ed esaustiva della realtà in tutte le sue sfaccettature; ambedue sono convinti pertanto – e proprio in questo si avverte l’influsso potente dell’ideologia positivista – che tutto il reale si possa abbracciare in un’unica prospettiva. Essi hanno cioè una visione positiva, monolitica e granitica della realtà che non cela alcun mistero che la scienza, compresa quella del cuore come direbbe Verga, non possa indagare. Ebbene, il Decadentismo si appunta proprio su questa pretesa di poter esaurire attraverso l’arte e la letteratura la rappresentazione della realtà nella sua totalità; in verità c’è sempre qualcosa che sfugge all’occhio umano, anche il più avvertito; c’è sempre un mistero che si annida nelle pieghe della natura che la scienza pretende di scandagliare e di possedere.
b) La poesia decadente di Pascoli e D’Annunzio: il rapporto con il Simbolismo francese e la tensione continua tra innovazione e tradizione.
La visione relativa, sfuggente e contraddittoria del reale filtrata attraverso l’inconscio (pensa all’Urlo di Munch) trova espressione anche nella produzione lirica di G. Pascoli (1855-1912) e di G. D’Annunzio (1863-1938) che la critica considera in maniera unanime i due massimi esponenti del Decadentismo in Italia. Ai due poeti va innanzitutto riconosciuto il merito di aver traghettato la letteratura italiana dal XIX al XX secolo: mediando tra il vecchio (la lirica ottocentesca tardo romantica esemplificata da G. Carducci) e il nuovo (l’influsso delle poetiche simboliste e della filosofia di Nietzsche), essi esauriscono una tradizione letteraria consolidata aprendo le porte, per così dire, al Novecento. Gli elementi di innovazioni che essi introducono nell’impianto tradizionale della lirica italiano riguardano sia il contenuto che la forma:
1) sul piano dei temi e dei contenuti, per ambedue i poeti, gli elementi del paesaggio naturale o campestre non sono solo cose reali, ma anche, e anzi soprattutto, dei simboli. Pascoli si spinge oltre le apparenze e, attraverso la sua sensibilità esasperata e inquieta, ritrova nella natura una serie di simboli nascosti che trasmettono un messaggio di morte. Anche in D’Annunzio, proprio in virtù dell’approccio simbolico con la realtà (che è, per dirla con Baudelaire, una foresta di simboli), la natura non esiste di per sé, ma in quanto il poeta ne è parte e stabilisce con essa un rapporto di scambio continuo e di reciproca identificazione, che si compie attraverso l’estasi panica (La pioggia nel pineto, Meriggio); In ambedue i poeti, pur in forme diverse, si registra la volontà di un contatto profondo con la natura che si spinge oltre le apparenze attraverso uno sguardo attento ai simboli;
2) per quel che riguarda la veste formale, numerosi e importanti sono gli apporti innovativi che i due poeti introducono nella tradizione lirica italiana, apporti che costituiscono il primo atto, per così dire, di un processo di “disintegrazione” o di esaurimento che avverrà con le avanguardie del Novecento, con Montale e con Ungaretti. Li riproponiamo in estrema sintesi: a) il verso libero (D’Annunzio) e più in generale una certa libertà nell’uso degli schemi metrici tradizionali (per es. Pascoli usa la terzina incatenata del poema dantesco per raccontare l’umile vicenda dei migranti che tornano al nido [in Italy]); b) l’assoluta predominanza della paratassi e il rifiuto del discorso logico gerarchicamente ordinato; c) l’apertura del lessico tradizionale (monolinguistico) a sfere del reale finora escluse (i termini tecnici del lavoro dei campi e della botanica in Pascoli, la precisione botanica di D’Annunzio); d) l’insistenza sulla potenzialità musicale della parola poetica e sul fonosimbolismo.
c) La dissoluzione del romanzo naturalista e verista: il romanzo spiritualista-estetizzante
All’innovazione del linguaggio e temi della poesia corrisponde, tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento, la trasformazione progressiva del genere del romanzo che porta, con Pirandello e Svevo (primi del Novecento), al superamento definitivo delle forme narrative del romanzo ottocentesco, dal realismo romantico al Naturalismo-Verismo degli anni ’80 dell’Ottocento.
La prima tappa della trasformazione del genere del romanzo è costituita dal romanzo spiritualista-estetizzante di fine Ottocento, che rifiuta le poetiche veriste e naturaliste, in particolare il canone dell’oggettività, privilegiando la soggettività, l’io in una chiave molto diversa e più problematica (decadente) rispetto al Romanticismo. A tal proposito non si parla più di romanzo naturalista o verista, ma spiritualista ed estetizzante: la prima caratteristica si spiega alla luce dell’attenzione quasi esclusiva sull’analisi della vita interiore dell’io, sull’introspezione psicologica di un’anima turbata e complessa; la seconda è legata al protagonista – spesso personaggio unico – della vicenda narrata (se di “vicenda narrata” si può parlare), l’esteta, cioè colui che vive nel culto assoluto della bellezza, ponendo i valori estetici (della bellezza appunto) al vertice della vita spirituale, arrivando a considerare la vita stessa come ricerca e culto del bello. Dopo aver analizzato la prefazione della seconda edizione di A rebour in cui l’autore, K.J. Huysmans prende definitivamente le distanze dai suo trascorsi di scrittore naturalista accusando Zola e seguaci di aver trascurato “l’anima” a scapito della precisione maniacale nella ricostruzione degli ambienti sociali, ci siamo soffermati su alcuni passi significativi tratti dai romanzi che meglio rappresentano il genere in questione: di nuovo A rebour di J.K. Huysmans, Il ritratto di Dorian Gray di O. Wilde e l’incipit de Il piacere di G. D’Annunzio.
Sotto quali aspetti nei romanzi che abbiamo considerato entra definitivamente in crisi il modello narrativo ottocentesco del Naturalismo e del Verismo?
a) in primo luogo per l’attenzione esclusiva per i “turbamenti” dell’anima: il romanzo spiritualista ed estetizzante recupera dunque il soggettivismo romantico (la centralità dei sentimenti e dei turbamenti dell’io) in una prospettiva moderna che, con le sue contraddizioni estreme anticipa la dissoluzione dell’individuo a cui assisteremo nei romanzi di Svevo e di Pirandello;
b) questo mutamento di prospettiva, piuttosto radicale, dal vero oggettivo alla soggettività problematica, comporta – e siamo al secondo aspetto – l’introduzione di una serie di novità formali e di contenuto:
1) l’interesse per l’intreccio (la costruzione della storia) passa in secondo piano, e così pure la volontà di ricostruire un determinato scenario storico e sociale; prevale invece l’analisi del mondo interiore di un singolo personaggio; alla narrazione dei fatti si sostituisce la registrazione di impressioni, di moti interiori e stati d’animo;
2) l’attenzione si concentra in genere su un singolo personaggio, la cui vita interiore viene analizzata a prescindere dal contesto sociale;
3) l’intera vicenda è spesso orientata secondo il punto di vista soggettivo del protagonista;
4) le tematiche non sono più legate alla rappresentazione oggettiva e allo studio scientifico della realtà, ma sono ispirate all’irrazionalismo e all’estetismo decadente.
Infine, la figura dell’esteta che campeggia nei romanzi che abbiamo considerato, anticipa quella dell’inetto, protagonista dei tre romanzi di I. Svevo e di tante novelle, nonché dei principali romanzi di L. Pirandello. L’inetto (dal latino ineptus = in (non) + aptus (adatto, capace)) è in estrema sintesi colui che, pur prefiggendosi obiettivi ambiziosi (di cambiamento radicale, di affermazione di sé nella società), non è in grado di realizzarli pienamente e di affrontare le difficoltà della vita in modo serio e costruttivo. Se prendiamo in considerazione il profilo sociale e psicologico dei protagonisti dei romanzi di Huysmans, Wilde e D’Annunzio di cui ci siamo brevemente occupati, ci accorgiamo che essi, pur perseguendo l’ideale aristocratico di coltivare la bellezza e il piacere del bello contro la volgarità del presente a prescindere da ogni remora di tipo morale, non riescono a realizzare fino in fondo tale ambizione: a) Des Esseintes (protagonista di A rebour di Huysmans), malato di nevrosi (la cui causa è proprio la solitudine del ritiro volontario dalla vita mondana di Parigi) e afflitto da allucinazioni sempre più frequenti, decide di tornare nel mondo banale e volgare da cui era fuggito: il suo sogno di costruire un mondo alternativo a quello presente fallisce miseramente, perché anche la bellezza artistica non riesce a colmare il suo vuoto interiore; b) l’ideale di Dorian Gray (protagonista de Il ritratto di D. Gray) – sfuggire al decadimento fisico e preservare intatta la giovinezza – ha un esito tragico, che definisce l’impossibilità per l’uomo di condurre un’esistenza fondata sulla ricerca della perfezione estetica. Il desiderio di privilegiare la bellezza fisica sacrificando ogni principio etico e ogni valore morale è destinato a fallire; c) infine A. Sperelli (protagonista de Il piacere di D’Annunzio), mettendo in atto l’insegnamento paterno della menzogna e della finzione per conseguire il massimo piacere dalla vita, ma non avendo la stessa forza di volontà del padre, finisce per mentire a se stesso (finge quello che non è; crede di amare una donna, ma in realtà è innamorato di un’altra) arrivando a una forma di alienazione (non si riconosce più) che lo porta alla stasi, all’impossibilità di agire, a non realizzare alcuno degli obiettivi ambiziosi che si è prefissato.
2. La dissoluzione dell’io nel romanzo moderno (Pirandello e Svevo). L’identità compromessa: dalla paralisi (l’inetto) al riscatto (la follia)
Se c’è un fil rouge che attraversa l’opera di Pirandello (romanzi, novelle e drammi teatrali) e di Italo Svevo (per lo più autore di romanzi e racconti), questo è senza ombra di dubbio la riflessione sul dissidio dirompente e molto spesso irrisolto tra la vita (l’espressione libera di sé a prescindere dal rispetto delle norme sociali e morali, dalle convenzioni del sistema borghese) e la forma (l’insieme delle norme e delle convenzioni che regolano la vita sociale degli uomini dalla famiglia all’ambiente di lavoro ecc.).
Ciò che accomuna i personaggi di Pirandello e di Svevo è un malessere profondo che affonda le sue radici nella percezione dolorosa di una realtà sfuggente, disgregata, priva di punti fermi e di certezze, nella coscienza che la vita è una specie di puzzle che non si può ricomporre. Il relativismo assoluto che sta alla base di tale smarrimento investe due piani: il primo è la relazione dell’individuo con la società e con la realtà (lo spazio, il tempo), il secondo è il rapporto dell’io con la propria interiorità:
a) da una parte infatti il personaggio–tipo dei romanzi e delle novelle di Pirandello e di Svevo intuisce la vacuità e l’inconsistenza delle norme e critica l’ipocrisia dei rapporti familiari e sociali in genere, perché fondati su valori, su punti fermi e certezze che non esistono più; si sente “stretto” in una maschera – quella della identità o meglio delle identità imposte dal vivere sociale - che non gli appartiene e che gli impedisce di esprimere appieno se stesso, la propria pulsante vitalità. Il personaggio entra dunque in conflitto con la società e prova a ribellarsi, spesso senza arrivare a costruire un modello di vita veramente alternativo (la figura dell’inetto);
b) dall’altro il personaggio-tipo di cui abbiamo parlato capisce, per dirla con Pirandello, che la vita “è una triste buffoneria” o “pupazzata” (cioè uno spettacolo di burattini), perché ciascuno di noi, per poter vivere nella società, interpreta più parti, indossa una serie di maschere, ovvero le “forme” che imbrigliano la vitalità inespressa e confusa dell’io in strutture rigide; per una ragione oscura- nel caso di Pirandello - tendiamo a ingannare noi stessi e gli altri costruendoci realtà fittizie o maschere ogni volta diverse a seconda dei contesti e delle persone; sempre per una ragione oscura, che solo la psicanalisi può mettere a nudo ma fino a un certo punto – e siamo a Svevo – mentiamo continuamente a noi stessi, ci illudiamo di essere guidati dalla volontà e dalla ragione nelle nostre scelte, e poi scopriamo che non è così, che a guidarci è stato un impulso recondito e primordiale che giace nella parte più riposta del nostro io, della nostra coscienza divisa e frammentata.
3. L’inettitudine e il male di vivere della coscienza moderna
La coscienza della tragica problematicità della realtà esteriore (rapporti sociali, identità sociale) e interiore (l’io, la coscienza) e la critica più o meno corrosiva nei confronti dell’inconsistenza delle norme e delle certezze del sistema di valori tradizionale (borghese, ottocentesco) innescano un processo di “messa in discussione” di sé e del reale che porta – volendo semplificare – a due esiti tra loro interrelati ma molto diversi:
a) il primo è la stasi dell’inetto, colui che, pur essendo inadatto a vivere, intuisce la complessità del reale e del proprio io, critica l’ipocrisia dei ruoli, delle maschere sociali, prova a liberarsi di tutto questo fardello ma non ci riesce e rimane paralizzato, insofferente alle norme ma sostanzialmente incapace di liberarsene fino in fondo); rientrano a pieno titolo in questo profilo Mattia Pascal, protagonista de Il fu Mattia Pascal di L. Pirandello (romanziere e drammaturgo, nonché critico letterario nato in Sicilia nel 1867 e morto nel 1934) e Alfonso Nitti ed Emilio Brentani, rispettivamente le due figure principali dei romanzi Una vita (1892) e Senilità (1899), opera dell’autore triestino Italo Svevo (pseudonimo di Aron Hector Schmitz, 1861-1928). Ne Il fu Mattia Pascal (1904), l’inettitudine del protagonista sta essenzialmente nell’incapacità di liberarsi della zavorra inutile dell’identità e di abbracciare la vita nella sua pienezza liberatoria e irrazionale: si illude di poter sfuggire a tutto ciò costruendosi un’altra identità e illudendosi, attraverso di essa, di poter finalmente esprimere se stesso; rientra così nel meccanismo della trappola, della forma, che però non corrisponde a un’identità anagrafica (Adriano Meis per lo Stato non esiste) concreta e quindi non può essere riconosciuta dalla società; inoltre Mattia resta un inetto e non si evolve da tale condizione, perché la soluzione del suo “strano caso”, il bilancio finale della sua assurda vicenda è totalmente negativo: Mattia, ridotto a una sorta di sopravvissuto di se stesso, non può riappropriarsi della sua forma primitiva (l’identità originaria) e deve rassegnarsi a una condizione di passività e di estraneità alla vita, di non-vita in vita (non a caso è ridotto a portare fiori alla propria tomba). Come emerge dal dialogo finale con don Eligio, il protagonista deve ammettere che l’uomo non può vivere né all’interno della forma che lo opprime, né al di fuori di essa. E’ una condizione di paralisi, di stasi che è una caratteristica peculiare dell’inettitudine.
Nei due romanzi di Svevo l’inettitudine è la malattia dell’inquietudine e del disagio che si contrappone alla salute di chi è perfettamente integrato nella società borghese con i suoi schemi, le sue convenzioni e il suo sistema di valori: sia Alfonso che Emilio nutrono aspirazioni ideali alte e profonde (per es. quelle letterarie) nelle quali ripongono la speranza illusoria di poter emanciparsi da una condizione sociale modesta ed emarginata (tutte e due sono impiegati piccolo borghesi); ambedue sono creature deboli e passive, timide e imbarazzate, penosamente soggiogati dai temperamenti più energici (Alfonso con Macariio, Emilio è succube dell’attivismo e del successo in amore dell’amico e rivale Stefano Balli); li accomuna inoltre una sostanziale immaturità psicologica che si manifesta soprattutto nell’incapacità di stabilire relazioni amorose stabili e adulte (Alfonso seduce Annetta, ma poi si sottrae all’impegno di intraprendere una relazione seria; Emilio tenta di riscattare la propria senilità anticipata con una storia d’amore che egli si illude di condurre a proprio piacimento e di cui invece rimarrà vittima). Anche i protagonisti dei due romanzi non sono in grado di sostenere le proprie aspirazioni e i propri ideali con un comportamento adeguato (il loro è un atteggiamento velleitario), il che porta inevitabilmente al fallimento del loro progetto esistenziale: mentre in Alfonso rinuncia alla lotta e alla fine si suicida, Emilio si rassegna alla condizione di sconfitto in partenza, con la rinuncia alla vita, ripiegato in una triste inerzia che costituisce l’attributo principale della sua “senilità”, del suo invecchiamento precoce (è un giovane di trentacinque anni).
b) il secondo esito è il riscatto dall’inettitudine che comporta una soluzione della stasi e della paralisi propria della condizione dell’inetto: 1) in Vitangelo Moscarda, protagonista dell’ultimo romanzo di Pirandello, Uno nessuno e centomila (1925), il riscatto dall’inettitudine presuppone come primo passo la negazione totale e consapevole della prigione dell’identità e delle forme: a differenza di Mattia Pascal, che nonostante il finale, resta legato all’identità e giunge a una “conclusione” negativa in toto, «non si limita a confessare di non sapere chi sia, ma afferma deliberatamente di non voler essere più nessuno, di rifiutare totalmente ogni identità individuale, e dunque di fissarsi in qualsiasi forma parziale e convenzionale» (Baldi). Rinunciare in toto alla schiavitù della maschera significa, concretamente, non poter più dire “io”, non poter più fissarsi in una forma precisa, ma assumere forme continuamente diverse assecondando il fluire incessante della vita (vitalismo). Di qui la soluzione positiva, ma pur sempre utopica, del romanzo: ontano dalla città, simbolo dell’alienazione e dell’artificialità, annullare se stessi nel flusso vitale in una comunione profonda con la natura; 2) in Zeno Cosini, protagonista dell’ultimo romanzo di Svevo (1923) la condizione di inetto non è più frustrante e statica, ma è vista sotto una luce positiva: messe da parte le aspirazioni di stampo romantico (affermazione di sé, libertà dalle convenzioni sociali, autodeterminazione), Zeno ha preso coscienza della propria fragilità e si è deciso a utilizzare la propria debolezza esistenziale per ottenere il massimo successo possibile, come dimostra la posizione gratificante di imprenditore di successo che riesce a conseguire a prescindere da meriti effettivi, guidato più dal caso, dalle situazioni favorevoli che dalle proprie capacità e volontà; pur criticando aspramente l’aridità e l’ottusità della società borghese (basti pensare soltanto al ritratto impietoso della moglie che rappresenta la quintessenza del perbenismo borghese), Zeno è anche colui che utilizza e rispetta le convenzioni del suo ambiente sociale per preservare a se stesso uno spazio assolutamente egoistico, ipocrita, di realizzazione e di felicità. In tal senso, secondo l’interpretazione del prof. Cataldi, egli rappresenta l’uomo nuovo novecentesco, l’uomo-massa, disposto a rinunciare ai grandi valori romantico-risorgimentali in nome di una propria felicità personale.
Nella conclusione apocalittica del romanzo (che ricorda operette morali di Leopardi) infine l’inettitudine, da condizione individuale, si allarga a diventare una condizione universale, comune a tutta l’umanità: La malattia è identificata da Zeno con la «vita attuale», che è «inquinata alle radici». L'uomo, con l'espansione delle città, ha occupato gli spazi che erano della natura, degli animali e delle piante, e ha inquinato l'aria con i suoi fumi. Il progresso scientifico e tecnologico (l’uomo potrebbe scoprire e mettere a suo servizio delle altre forze), se da una parte consente l’avanzamento della civiltà, dall’altra, migliorando le condizioni di vita e di salute, potrebbe determinare un’espansione eccessiva e smisurata del genere umano a detrimento del pianeta Terra e delle sue risorse: gli uomini occuperebbero ogni spazio disponibile, ogni metro quadrato. Nella prospettiva pessimistica di Zeno non si dà alternativa a questa degenerazione se non attraverso un'apocalisse distruttiva, che purificherà il mondo dalle malattie. La corsa agli ordigni sboccherà nella costruzione di un «esplosivo incomparabile», che per la follia di qualche uomo «più ammalato degli altri» provocherà un'esplosione immane. Solo così la terra, tornata allo stato originario di nebulosa, errerà nello spazio finalmente libera da malattie. Se la vita umana è malattia, solo la scomparsa dell'uomo potrà eliminare la malattia dalla terra.
4. La destrutturazione della forma romanzo
Alla novità del contenuto dei romanzi di Svevo e Pirandello, corrisponde quello della forma che si colloca nel solco del definitivo superamento dei meccanismi narrativi propri del romanzo naturalista e verista. Volendo semplificare, possiamo affermare che alla problematicità della coscienza dei personaggi fa da necessario pendant una tecnica narrativa che sotto più aspetti riflette la difficoltà di rappresentare un’interiorità disintegrata (un’identità in crisi), una realtà multiprospettica, relativa e contraddittoria e l’assenza di qualsiasi verità o sistema di riferimento assoluti. Il che porta, sul piano formale, alla “destrutturazione” della forma classica del romanzo, strumento narrativo principe dell’Ottocento, e a una sorta di “implosione” che è particolarmente evidente in Uno nessuno e centomila e ne La coscienza di Zeno. In cosa consiste tale implosione (esplosione dall’interno)? Innanzitutto nel venir meno di qualsiasi pretesa di oggettività e di attendibilità della voce narrante, uno dei cardini fondamentali della narrativa ottocentesca (storica, realista e naturalista e verista): ne Il fu Mattia Pascal e soprattutto ne La coscienza di Zeno il compito di ricostruire a ritroso le vicende è affidato a una voce narrante che, pur alla luce dell’esperienza compiuta, non sa dare risposte, è incerta, non riesce a spiegare la ragione dei comportamenti e delle proprie scelte e soprattutto non possiede alcuna verità, alcuna certezza, rimanendo nel dubbio fino alla fine; inoltre, l’impostazione soggettiva del racconto, implica, molto spesso e soprattutto in Pirandello, il prevalere della componente riflessiva e argomentativa sulla narrazione, tant’è che per Il fu Mattia Pascal, ma soprattutto per Uno nessuno e centomila, si può parlare di romanzo-saggio o di romanzo a tesi; la seconda causa di implosione della forma romanzo, è la dissoluzione della sequenza logica e cronologica della narrazione: a) nei romanzi di Pirandello è il caso a far da padrone: ne Il fu Mattia Pascal la presunta morte è un fatto casuale, del tutto inatteso così come tutti gli eventi del romanzo; in Uno nessuno e centomila a innescare il processo di distruzione volontaria dell’identità è la scoperta casuale di un’anomalia fisica del naso del protagonista; b) ne La coscienza di Zeno, l’articolazione tematica prescinde dalla volontà di ricostruire in ordine cronologico il passato del protagonista che è anche la voce narrante e dà vita a una narrazione in cui passato e presente si intersecano e si mescolano continuamente. Ne La coscienza di Zeno, proprio perché è una coscienza problematica a raccontare se stessa a scopo terapeutico, viene meno il tempo lineare del romanzo ottocentesco e ad essa subentra una concezione del tempo soggettivo: il tempo è impuro e misto, perché la narrazione mescola piani temporali diversi in sintonia con il concetto di durata del filosofo H. Bergson.
5. l’opera di Pirandello e Svevo: oltre il Decadentismo verso una forma d’arte problematica e moderna
Come abbiamo visto fin qui, Pirandello e Svevo, pur essendo il prodotto della stessa crisi letteraria e filosofica da cui era nato il Decadentismo, approdano a esiti molto diversi rispetto a Pascoli e a D’Annunzio.
Sul piano formale, mentre i due poeti, pur rinnovandolo dall’interno, restano ancorati alla tradizione (non rinunciano mai definitivamente al verso, alla rima, alla metrica), l’opera di Pirandello (sia i romanzi che il teatro) e La coscienza di Zeno di Italo Svevo mettono in atto una destrutturazione delle forme narrative tradizionali che di fatto porta alla crisi del romanzo come strumento privilegiato per raccontare la realtà (per questo fine era stato concepito agli inizi del Settecento: pensa alle Avventure di Robinson Crusoe, la storia di un marinaio tratta da un fatto di cronaca, non più le avventure fittizie dei cavalieri dell’epica rinascimentale e tardo-rinascimentale), crisi da cui uscirà (semplificando molto) con il Neorealismo degli anni ’40 e ’50.
La dissoluzione della forma tradizionale del romanzo riflette una visione dell’arte molto più problematica di quella del Decadentismo: in fondo, i poeti simbolisti e gli stessi Pascoli e D’Annunzio, pur discostandosi dalla cultura positivista, di fatto erano più o meno convinti che a una verità si potesse approdare. Certo, non una verità granitica, non un principio saldo e univoco, non un sistema di certezze oggettive, ma pur sempre una verità, un messaggio segreto attingibile solo dal poeta, capace di svelare il senso profondo della vita, la ragione del nostro vivere e morire. Svevo e Pirandello si collocano oltre questa prospettiva decadente, mettendo in dubbio, anzi negando la possibilità stessa di arrivare a una qualsiasi verità, anche misteriosa e inattingibile: la verità non esiste, esistono tante verità possibili in una visione della realtà multiprospettica, dinamica, in continua evoluzione e cambiamento. Pirandello e Svevo negano di fatto la possibilità per l’arte di esprimere un senso, anche sfuggente e difficile da decifrare, e di rappresentare la realtà: il lettore dei romanzi dei due autori o lo spettatore dei drammi di Pirandello sperimenta lo stesso sconcerto o sgomento che proviamo tuttora di fronte a un quadro di Pollock, di Kandinskij, di Braque, di Dalì o di Picasso o dei futuristi Boccioni e Balla: il titolo dell’opera è l’unico indizio che può farci vagamente capire cosa l’opera in questione voglia rappresentare; per il resto, l’interpretazione è “affar nostro”, vale a dire che siamo a noi a dover fornire il nostro contributo, a dover ricostruire un senso. È questa l’arte moderna e Pirandello e Svevo ne sono perfettamente consapevoli, come abbiamo avuto modo di appurare dall’opera di destrutturazione della forma tradizionale del romanzo e come avremo modo di vedere ancora dall’analisi di alcuni passi delle loro opere in cui si compie una riflessione, più o meno consapevole, sul senso dell’arte nell’età moderna.
Oltre il Decadentismo verso il Modernismo
Da questo punto di vista, secondo il critico Romano Luperini, Pirandello e Svevo, un tempo catalogati nella generica etichetta di “autori decadenti”, in realtà non si riconoscono nel Simbolismo e nell’Estetismo e una concezione dell’intellettuale (poeta, scrittore, romanziere) come depositario di una verità. Proprio per questo rientrano nel “Modernismo”, una tendenza letteraria che si afferma nei paesi di lingua inglese nella prima metà del Novecento, ma che, in un’accezione più vasta esprime una modalità di rappresentazione e interpretazione dell’esistenza tipica di tanta arte moderna dai primi del Novecento agli anni Sessanta circa.
Tutto questo è in stretta relazione con l’aperta contestazione dell’arte classica e della tradizione che caratterizza le forme artistico-espressive della prima metà del Novecento, dalla letteratura alla pittura. Più o meno tutti i movimenti artistici di questo periodo, come vedremo meglio nella trattazione del terzo tema generale, si configurano come avanguardie, vale a dire come movimenti che intrattengono con l’arte del passato un rapporto di opposizione spesso molto polemico e virulento, come nel caso del Futurismo (nel Manifesto del Futurismo F.T. Marinetti, il fondatore del movimento, dichiara in maniera provocatoria di voler distruggere tutti i musei, simbolo dell’immobilismo dell’arte tradizionale e classica). Così se l’arte classica è rappresentazione o per dirla con Aristotele, imitazione e riproduzione verosimile del reale, l’arte moderna rifiuta tale principio, elaborando un linguaggio espressivo che non rappresenta la realtà, ma, come avviene nel caso della pittura futurista e cubista, ne crea una del tutto nuova.
Per avere un’idea della dissoluzione della forma, abbiamo messo a confronto due coppie di quadri che rappresentano lo stesso soggetto: da una parte la stazione ferroviaria (C. Monet, La stazione vs U. Boccioni, Addii 1912), dall’altra le ballerine (E. Degas vs i futuristi Balla e Depero). In ambedue i casi abbiamo visto come l’arte distrugge le cose, scompone le forme, abolisce lo spazio prospettico: la logica formale (cioè delle forme geometriche combinate in modo tale da formare una nuova realtà come nel caso dei futuristi) prevale sulla logica della rappresentazione del reale propria dell’arte classica o tradizionale.
Pirandello
Per Pirandello, come abbiamo appurato dall’analisi del cap. XI de Il fu Mattia Pascal e dalla lettura del passo tratto dal saggio sull’umorismo del 1908, l’arte moderna è essenzialmente umoristica, un’arte che rifiuta il canone aristotelico della “mimesi” o rappresentazione della realtà e che invece di riprodurre il reale, lo scompone soffermando l’attenzione sulla disarmonia, su ciò che risulta deforme e distorto e amplificandolo o meglio esasperandolo allo scopo di evidenziare le contraddizioni e l’inconsistenza del sistema di valori e delle verità di cui abbiamo bisogno per vivere. E’ un’arte che va alla ricerca del “contrario” e lo studia, lo analizza, lo amplifica allo scopo di evidenziare, come si è detto, la vacuità dei principi su cui si fonda la convivenza sociale degli individui che Pirandello concepisce come una trappola soffocante (gli obblighi professionali e familiari per es.); non è un’arte “comica” che si limita a percepire la dissonanza in superficie senza andare a fondo, ma “umoristica” nel senso che indaga le ragioni del “contrario”, della disarmonia che possono risultare comiche di primo acchito, ma che, una volta studiate a fondo, suscitano comprensione e pietà (sentimento del contrario).
Più nel dettaglio:
a) mentre l’arte tradizionale fornisce una rappresentazione coerente e unitaria della realtà, perché mira all’individuazione di un senso, di una verità univoca e universale (i valori), quella umoristica predilige la discordanza, la disarmonia, la contraddizione, distrugge le gerarchie e i sistemi di valore del passato per mostrare che la vita non è più riducibile agli schemi tradizionali;
b) se un’opera d’arte tradizionale (un quadro, una statua, un romanzo) risponde a un criterio di integrità, di compiutezza, di organicità (secondo una sequenza predefinita che prevede un inizio, uno sviluppo e una conclusione), l’opera d’arte umoristica (un quadro, una statua, un romanzo) punta a strutture aperte e inconcluse, proprio perché la vita “non conclude”, cioè non ha un ordine, un senso, un’unica direzione;
c) mentre nell’arte tradizionale l’io, il soggetto è l’unità di misura di tutte le cose (in particolare nell’arte romantica ma anche nell’arte classica con la centralità dell’eroe e del suo sistema di valori), perché è dotato di una sua precisa identità, di una sua compattezza e organicità di fondo, nell’arte umoristica o moderna il soggetto viene gettato giù dal suo trono tradizionale, non è più l’unità di misura del reale, perché l'anima cessa d'essere il luogo dell'identità, dell'autenticità e dell'integrità e si caratterizza invece per la compresenza di spinte contrarie e contrastanti e addirittura di diverse personalità; d) l’eroe tipico dell’arte e della tradizione classica è Oreste, che agisce senza dubbi ed esitazioni, uccidendo la madre Clitemnestra per vendicare la morte del padre Agamennone e obbedendo a una norma sociale arcaica che impone di lavare il sangue con il sangue, cioè che giustifica il delitto in nome dell’onore; il personaggio che l’arte umoristica prende come esemplare è Amleto, che resta prigioniero delle contraddizioni e per questo non riesce ad agire, vendicando la morte del padre.
Un esempio di arte umoristica è indubbiamente la novella Il treno ha fischiato (dalla raccolta Novelle per un anno): a) in primo luogo perché l’euforia e l’esuberanza del contabile Belluca a primo acchito possono risultare comiche nel senso che violano una norma e al lettore l’improvviso scatto di pazzia del povero contabile appare comico e assurdo (com’è possibile che il fischio di un treno provochi una reazione di tali proporzioni?). Se tuttavia facciamo scattare la riflessione, cioè indaghiamo il caso Belluca proprio come fa il narratore-testimone ed esaminiamo a fondo le sue condizione di vita, al riso o al sorriso iniziale subentrano la pietà e la comprensione, all’avvertimento del contrario, cioè alla notazione superficiale della violazione di uno schema convenzionale, della normalità, subentra il sentimento del contrario, ossia la presa di coscienza che la follia del povero Belluca è scaturita da una vita al limite dell’impossibile, da una vita disumana e alienata; b) in secondo luogo, perché la situazione professionale e familiare del contabile è volutamente deformata e portata all’eccesso fino a risultare inverosimile: non solo sembra eccessivo e paradossale il carico di lavoro che grava sulle povere spalle di Belluca, ma anche la sua situazione familiare appare assurda, volutamente caricata per far risaltare la dimensione alienante e asfissiante della trappola, della forma, delle convenzioni sociali che imprigionano la vita del protagonista: come è infatti possibile che in una famiglia normale vi siano ben tre donne cieche e due figlie vedove con rispettivi pargoli? Ciò è in perfetta sintonia con la concezione dell’arte umoristica, che come si è detto, privilegia e rappresenta tutto ciò che è paradossale, incoerente e deforme, nel caso della novella, proprio per mettere a nudo il dissidio tra la vita e la prigione soffocante della forma (in una situazione di vita apparentemente ordinaria e normale).
b) Svevo
Per quel che riguarda l’opera di Svevo, l’idea stessa di fare della coscienza di un personaggio il centro di un romanzo è indicativa della modernità della visione, dal momento che la coscienza in questione è vista nell’ottica della psicanalisi di Freud, dunque è una coscienza scissa, problematica, contradditoria e soprattutto malata, incapace cioè di tenere a bada le pulsioni contrastanti generate dalla coesistenza di ES (parte istintiva e pulsionale) e Super Io (la parte razionale e normativa). Soprattutto è una coscienza menzognera, che mente continuamente a se stessa e agli altri, che, per dirla con Freud, rimuove inconsapevolmente le vere cause del proprio disagio o le spinte del tutto irrazionali che guidano le sue scelte di vita. La realtà vista ed esplorata da una coscienza di questo tipo non può essere dunque, in sintonia con l’arte umoristica di Pirandello, scomposta, disorganica e deformata, priva di senso.
Per approfondire questo discorso, abbiamo analizzato il primo capitolo de La coscienza di Zeno, la prefazione scritta dal dottor S., lo psicanalista che ha avuto in cura Zeno.
a) La funzione fondamentale di questa premessa – e sta qui il primo elemento della visione moderna dell’arte per Svevo – è di porre il lettore in uno stato di sospetto, contravvenendo alla regola fondamentale del cosiddetto patto narrativo: nell’arte tradizionale – si pensi soprattutto all’epica e al romanzo – il lettore, per accettare la verità della storia e immedesimarsi in essa (da questo deriva il piacere della fruizione dell’opera), deve sospendere l’incredulità, ossia deve considerare attendibili anche le avventure più strane, anche le vicende che verosimili non sono affatto (basti pensare alla fantascienza, ai romanzi d’avventura, o, per fare un esempio moderno, a Harry Potter e al suo mondo); per entrare nel meccanismo della narrazione e provare piacere, il lettore deve smettere di sospettare che il racconto non sia vero o possibile. Al contrario, proprio all’inizio de La coscienza di Zeno, troviamo un appello autorevole (come quella dello psicoanalista che parla del proprio paziente) a diffidare, a non credere alle vicende narrate nel romanzo. Anziché sospendere il principio di incredulità, il lettore è chiamato a rafforzarlo al massimo, mantenendo uno stato di vigilanza e di sospetto costanti. È l’esatto opposto di quanto si chiedeva al lettore nella narrativa verista e naturalista: siamo decisamente agli antipodi rispetto alla letteratura dell’Ottocento.
b) Il secondo aspetto che fa dell’opera di Svevo un esempio di arte moderna è il compito affidato al lettore (e più genericamente al fruitore dell’opera d’arte) di fronte alla problematizzazione della verità: proprio perché lo psicanalista definisce Zeno un truffatore, La coscienza di Zeno non è un romanzo da leggere in maniera superficiale, per puro diletto, ma un’opera che richiede una lunga e paziente analisi per ricavarne il significato profondo, per estrapolare, separando le tante verità dalle tante menzogne, una verità che va al di là della verità posseduta dal protagonista-narratore e che trascende la coscienza di chi parla. Il lettore non ha infatti di fronte la rappresentazione oggettiva e accurata di una determinata realtà sociale come nei romanzi naturalisti, né peraltro il resoconto puro e semplice di una vicenda biografica, ma una coscienza “contaminata” in cui trovano posto tanto le verità quanto le menzogne, tanto la confessione quanto l’inganno, tanto la rivelazione delle proprie debolezze quanto la costruzione di alibi per tutelare la propria dignità e la propria innocenza».
In sintesi, «il contributo fondamentale di Svevo nella letteratura del Novecento è la problematizzazione della verità (in questo affine a Pirandello), non più la verità basata sull’autorevolezza del punto di vista, ma una verità nuova che nasce problematicamente da una collaborazione tra il lettore e l’opera. La coscienza di Zeno fonda quindi una responsabilità nuova per il lettore, che è poi caratteristica di tutta l’arte moderna (un quadro astratto – si pensi a Kandinskij, a Magritte, a Pollack ecc. – non contiene una verità rappresentativa paragonabile a quella di un quadro figurativo; il quadro astratto rappresenta infatti un’ipotesi di significato o per meglio dire una sfida semantica che può essere vinta solo nel momento in cui il fruitore dell’opera decide il significato possibile, non arbitrariamente, ma dialogando con gli stimoli l’opera stessa propone ). E ciò è vero anche per la letteratura. I lettori dei romanzi di Svevo e di Pirandello sono chiamati a prendere posizione e a decidere il significato profondo di ciò che leggono o di ciò che vedono rappresentato sulla scena» (P. Cataldi, Videolezione sulla prefazione de La coscienza di Zeno) .
Uno sguardo sulla narrativa europea di inizio Novecento: l’Ulysses di James Joyce
La destrutturazione della forma romanzo – strumento privilegiato dai narratori dell’Ottocento per raccontare e documentare la realtà e l’epopea della borghesia – è un processo che accomuna la narrativa europea dei primi del Novecento, caratterizzata appunto dalla sperimentazione di forme narrative nuove e da un linguaggio radicalmente innovativo rispetto alla tradizione. Ci soffermeremo soltanto sull’Ulysses di James Joyce, anche in relazione al rapporto di amicizia e di stima che legò lo scrittore irlandese al nostro Italo Svevo.
L’Ulysses, pubblicato nel 1922 e più volte censurato per oscenità (siamo nella cattolicissima Irlanda di inizio Novecento), è probabilmente il romanzo che più di ogni altro simboleggia la rottura stilistica e tematica del Novecento. Che cosa “racconta” infatti l’Ulysses? E qual è il senso del richiamo all’Ulisse omerico?
Soffermiamoci innanzitutto sulla trama: Ulisse racconta non solo e non tanto gli avvenimenti vissuti a Dublino, in una sola giornata, da Leopold Bloom, agente pubblicitario di origine ebrea, ma ciò che avviene nella sua coscienza in questo periodo di tempo. E se i pensieri e le sensazioni inconsce del protagonista si sviluppano nello spazio temporale di poche ore, in essi il presente s'intreccia indissolubilmente con tutto il suo passato individuale e con quello dell'umanità intera. «Ogni episodio della giornata di Leopold trova un proprio corrispondente tematico-simbolico nell'Odissea. Come l'Ulisse del mito omerico, Leopold cerca di ricongiungersi a un figlio, rappresentato nel romanzo da Stephen Dedalus, un giovane intellettuale. Mentre Bloom la mattina si separa dalla moglie Molly, cantante, per recarsi a un funerale, Stephen lascia la torre dove abita con un amico. Durante la giornata, Leopold e Stephen s'incontrano in luoghi diversi della città, finché a sera, in un quartiere malfamato, il giovane, ubriaco e aggredito da due soldati inglesi, viene salvato da Leopold, che lo conduce a casa sua. I due parlano sino a notte inoltrata; poi Stephen se ne va. Molly è già a letto e, non potendo addormentarsi, si abbandona a ricordi, immagini, pensieri fluttuanti fra la memoria, il sogno e la riflessione consapevole. Il suo lungo monologo interiore, condottò attraverso la tecnica del "flusso di coscienza", conclude il romanzo.
Quali sono le analogie e le differenze tra l’Ulisse di Joyce e l’Ulisse omerico?
Come Ulisse rappresenta l'eroe greco antico e, insieme, aspirazioni e valori dell'umanità tutta, così Leopold rappresenta l'uomo moderno e, insieme, l'esperienza umana nel suo complesso e nella sua varietà molteplice. Il mediocre Bloom, uomo comune, è, perciò, un modello e un "eroe". Ma è un eroe moderno e dunque inevitabilmente degradato, in quanto inetto, grottesco, mediocre. La modernità "abbassa" ironicamente il mito, mostrandone il rovescio e ponendo in primo piano le inquietudini, le debolezze, le irrisolte contraddizioni dell'eroe. La sua è l'odissea dell'uomo comune. Da questo punto di vista, Leopold è anche una parodia di Ulisse, così come Molly, la moglie, è una parodia di Penelope. Anche nel romanzo di Joyce, come in Pirandello, l’arte moderna, rappresentata da Leopold Bloom, si definisce in opposizione all’arte classica il cui emblema è appunto l’Ulisse omerico: mentre quest’ultimo, per dirla con Pirandello, agisce sotto un cielo compatto e senza crepe, sorretto da un sistema di valori e di verità che non mette in discussione e che anzi costituiscono i parametri del suo comportamento, l’Ulisse moderno di Joyce si muove sotto un cielo pieno di crepe, senza punti di riferimento, ed è pertanto inetto (cioè inadatto all’azione) e pieno di contraddizioni. Non solo: mentre Omero attraverso la vicenda mitica di Ulisse crea e trasmette valori e modelli di comportamento, produce cioè una verità, Joyce attraverso il suo Ulysses-Leopold, goffo, sgraziato, mediocre e inaffidabile si limita semplicemente a mettere a nudo le contraddizioni irrisolte e il male di vivere dell’uomo moderno senza creare miti e valori, anzi distruggendoli.
In classe abbiamo letto la seconda parte del monologo di Molly Bloom, che chiude il romanzo. La signora Bloom, a letto, accanto al marito, coricatosi dopo di lei, non riesce a dormire e si abbandona a ricordi, fantasticherie, immagini disordinate fra la riflessione, la memoria, il libero accostamento di pensieri e sensazioni, il sogno. L'oggetto prevalente del suo fantasticare, immaginare, ricordare è la figura del marito e la vita di coppia, ma numerosi sono anche i riferimenti a momenti, anche banali, della vita presente e i ricordi dell'infanzia e, in generale, del proprio passato. Nel passo che abbiamo letto la signora Bloom ricorda un viaggio in Spagna e il primo amplesso con Leopold (il futuro marito) sulle colline di Howth, in Irlanda.
Il brano è esemplificativo del carattere rivoluzionario delle innovazioni tecniche dell’Ulysses di Joyce. In primo luogo lo stream of consciousness o flusso di coscienza, che è portato alle estreme conseguenze (a differenza di quanto avviene per es. nei romanzi di V. Woolf): il flusso dei pensieri del personaggio viene registrato in assoluta libertà, senza una sequenza logica e soprattutto senza rispettare le regole sintattiche, grammaticali e ortografiche. Non vi è l’intervento della voce narrante che selezioni il magma di pensieri e che dia loro un ordine. E’ come se il lettore potesse gettare uno sguardo dentro la mente del personaggio, assistere allo scorrere magmatico e confuso dei pensieri. Il flusso di coscienza si limita a registrare la combinazione caotica e anarchica di ricordi, immagini, sensazioni, voci che si affollano nella mente di Molly Bloom, senza che ci sia un narratore – esterno o interno – che metta ordine e che soprattutto inserisca punti, virgole, pause sintattiche significative arginando, per così dire, la “cascata” di pensieri. All’associazione casuale di cui abbiamo detto si aggiungono la sovrapposizione e l’intrecciarsi continuo e caotico di luoghi lontani (Irlanda e Spagna) e tempi diversi: nel rievocare l’incontro d’amore con Leopold sul promontorio di Howth in Irlanda, Molly interseca a tale ricordo quello di altri amanti e persone e soprattutto di un viaggio in Spagna, per poi tornare nuovamente al primo rapporto con Leopold.
Qual è la differenza rispetto a quanto avviene ne La coscienza di Zeno? «Nella Coscienza di Zeno il protagonista, attraverso il suo "monologo", ricostruisce aspetti della sua esistenza passata, traccia ritratti di personaggi, racconta vicende, dà vita a scene, a sequenze narrative ordinate e consequenziali, introduce analisi psicologiche, commenti, come il narratore di un romanzo tradizionale. Tutto ciò lo fa per iscritto, redigendo una specie di memoriale. Non si ha quindi il semplice germinare dei suoi pensieri, il "flusso" nel suo scorrere casuale e disordinato: il personaggio-narratore costruisce logicamente il discorso, gli dà un ordine, seleziona i materiali che espone, in base alla loro pertinenza all'argomento che vuol trattare, i fatti salienti della propria vita da ricostruire. Il fatto che il monologo sia messo da Zeno per iscritto è veramente fondamentale, discriminante: quelle di Bloom nell'Ulisse sono associazioni assolutamente libere, senza alcun controllo e alcuna censura della coscienza; il mettere parole su carta, per Zeno, presuppone invece inevitabilmente un controllo; non emerge immediatamente il profondo: il personaggio che scrive erige solide, accurate barriere, censura, rimuove, distorce secondo i suoi fini. Non solo, ma se Bloom pensa fra sé, Zeno si rivolge a un preciso destinatario, il dottor S.: anche questo obbliga ad un controllo attento, ad erigere barriere di rimozione, che filtrino l'affiorare spontaneo dei contenuti della psiche». (Baldi, pp.201 s.)
Alcune coordinate temporali e altre notizie spicciole da non dimenticare per evitare brutte figure
1. |
Luigi Pirandello (siciliano, originario di Agrigento, nato nel 1867 e morto nel 1936) e Italo Svevo (triestino di lingua tedesca nato nel 1861 nel e morto in un incidente d’auto nel 1928; Italo Svevo è lo pseudonimo di Aroon Hector Schmitz, pseudonimo che salda insieme la doppia identità linguistica e culturale dell’autore, tedesca [più propriamente austriaca visto che il Friuli Venezia Giulia faceva parte dell’Impero Austro Ungarico] e italiana) sono contemporanei di Gabriele D’Annunzio (abruzzese, nato a Pescara nel 1863 e morto a Gardone, nella sua dimora-museo sulle rive del Lago di Garda, nel 1938) e poco più giovani di G. Pascoli (poeta romagnolo, nato nel 1855 e morto nel 1912). |
2. |
Alcune notizie relative alle opere:
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Poeta scrittore, |
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Cosa intendiamo per “poetica” di un autore |
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Un altro aspetto importante è il rapporto con la psicanalisi. Per Svevo la psicoanalisi è un potentissimo strumento conoscitivo dell'animo umano, ma non è affatto una medicina, perché conoscere la verità su di sé non farebbe che aggravare la malattia. È esattamente il contrario di ciò che pensava Freud, e di questo bisogna tener conto leggendo il romanzo. L'uso che Svevo fa della psicoanalisi, infatti, è duplice: da una parte si serve delle categorie freudiane per creare psicologie verosimili e attendibili, ma dall'altra nega che sia possibile guarire davvero dalla nevrosi, e anzi ridicolizza il dottor S. e le sue analisi (lo stesso gesto di pubblicare le memorie di un suo paziente «per vendetta» getta sin dall'inizio un'ombra di discredito sulla sua deontologia professionale). Del resto, Zeno si dichiarerà (e si sentirà) effettivamente guarito, nel finale del libro, quando interromperà la cura.
Fonte: http://www.liceomedi-senigallia.it/Members/prcesposto/a-s-2015-2016/5bli/sintesi-dei-temi-generali/2-sintesi-del-secondo-tema-generale-il-decadentismo
Sito web da visitare: http://www.liceomedi-senigallia.it
Autore del testo: non indicato nel documento di origine
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