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LUIGI PIRANDELLO E IL FASCISMO
Nasce nel 1867 a Girgenti, oggi Agrigento. Si laurea all'università di Bonn nel 1891. Sposato con Antonietta Portulano, una crisi delle aziende di zolfo gli crea difficoltà economiche. Intanto nella moglie si aggrava la malattia nervosa, che la porta a sospettare che egli la tradisca: ogni tentativo di Pirandello per convincerla dell'assurdità di tali sospetti è inutile.
Pirandello si dedica all'insegnamento e comincia a pubblicare. Aderisce al fascismo senza che ciò neghi la validità della sua produzione letteraria. Nel 1934 gli viene conferito il premio Nobel. Nel 1936 muore a Roma: vengono rispettate le clausole del suo testamento: essere ravvolto nudo in un lenzuolo e messo in una cassa sul carro dei poveri per un funerale senza fiori, senza discorsi, senza essere accompagnato da alcuno, nemmeno dai figli.
Alla base della visione del mondo pirandelliana vi è una concezione vitalistica, idea ripresa dalla filosofia di Bergson: la realtà tutta è vita, perpetuo movimento vitale, flusso continuo, incandescente, indistinto. Tutto ciò che assume forma distinta ed individuale, comincia a morire.
Questo lo porta ad avere una nuova e rivoluzionaria concezione dell'uomo: esso tende a fissarsi in una forma individuale, che lui stesso si sceglie, in una personalità che vuole coerente ed unitaria; questa, però, è solo un'illusione e scaturisce dal sentimento soggettivo che ha del mondo.
Inoltre gli altri con cui l'uomo vive, vedendolo ciascuno secondo la sua prospettiva particolare, gli assegnano determinate forme. Perciò mentre l'uomo crede di essere uno, per sé e per gli altri, in realtà è tanti individui diversi, a seconda di chi lo guarda.
Ciascuna di queste forme è una costruzione fittizia, una "maschera" che l'uomo s'impone e che gli impone il contesto sociale; sotto questa non c'è nessuno, c'è solo un fluire indistinto ed incoerente di stati in perenne trasformazione.
Ciò porta alla frantumazione dell'io, sul quale si era fondato tutto il pensiero sino a quel tempo, in un insieme di stati incoerenti, in continua trasformazione. La crisi dell'idea di identità e di persona è l'ultima tappa della crisi delle certezze che ha investito la civiltà dei primi del novecento.
La presa di coscienza di questa inconsistenza dell'io suscita nei personaggi pirandelliani sentimento di smarrimento e dolore. In primo luogo provano angoscia ed orrore, seguiti dalla solitudine, quando si accorgono di non essere nessuno; in secondo luogo soffrono per essere fissati dagli altri in forme in cui non si possono conoscere.
Vi è quindi un rifiuto delle forme della vita sociale, che impongono all'uomo "maschere" e parti fittizie. Innanzitutto viene criticata la famiglia. La seconda "trappola" è quella economica, la condizione sociale ed il lavoro; da quest'ultima non vi è alcuna via d'uscita storica: il pessimismo pirandelliano è totale. Per lui è la società in quanto tale che è condannabile, in quanto negazione del movimento vitale; per questo la sua critica è puramente negativa e non propone alternative.
L'unica via di relativa salvezza che viene data ai suoi eroi è la fuga nell'irrazionale, oppure nella follia, che è lo strumento di contestazione per eccellenza delle forme fasulle della vita sociale.
Dal vitalismo pirandelliano scaturiscono importanti conseguenze sul piano conoscitivo: se la realtà è in perpetuo divenire, essa non si può fissare in schemi e moduli d'ordine totalizzanti ed onnicomprensivi. Non solo, ma non esiste neanche una prospettiva privilegiata da cui osservare l'irreale, le prospettive possibili sono infinite e tutte equivalenti.
Ciò comporta un radicale relativismo conoscitivo: ognuno ha la sua verità, che nasce dal suo modo soggettivo di vedere le cose. Da ciò deriva un'inevitabile incomunicabilità tra gli uomini, dato che ciascuno fa riferimento alla realtà come gli appare, mentre non può sapere come sia per gli altri.
L'incomunicabilità accresce il senso di solitudine dell'uomo che scopre di essere nessuno.
Dalla visione complessiva del mondo scaturiscono la concezione dell'arte e la poetica di Pirandello.
L'opera d'arte nasce dal libero movimento della vita interiore, mentre la riflessione, al momento della concezione, non compare o rimane celata sotto forma di sentimento. Nell'opera umoristica, invece, la riflessione giudica, analizzandolo e scomponendolo, il sentimento.
Il dato caratterizzante dell'umorismo è il sentimento del contrario, che permette di cogliere il carattere molteplice e contraddittorio della realtà e di vederla sotto diverse prospettive contemporaneamente. Inoltre accanto al comico è sempre presente il tragico, dal quale non può mai essere separato.
PENSIERO POLITICO DI PIRANDELLO
L’adesione di Pirandello al fascismo nel 1924 avviene nel periodo della massima incertezza e della massima debolezza del regime che Mussolini da poco ha cominciato a instaurare e a realizzare dal punto di vista istituzionale. Tre mesi prima (il 10 giugno), Giacomo Matteotti era stato rapito e poi presumibilmente subito dopo assassinato
Il fascismo vacillava sotto il peso dell'indignazione morale e delle inchieste della Magistratura ordinaria. Si presupponeva, anzi, che sarebbe caduto da lì a non molto. Il cadavere di Matteotti sembrava essere un ostacolo tanto ingombrante sulla strada del potere assoluto da intralciare definitivamente il cammino fino ad allora considerato inarrestabile e incontrastabile praticamente da tutta l'opinione pubblica nazionale e mondiale del Duce verso l'instaurazione del suo dominio personale sulle sorti della nazione italiana. La parola d'ordine della politica attiva, la richiesta che sale dalla classe media, il termine di riferimento dei giornali della borghesia è sempre la stessa: "normalizzazione" (del movimento fascista e della situazione politica).
«La pubblica opinione, fino a ieri in maggioranza fascista, è attonita. La borghesia ha la sua prima vera crisi di coscienza: ubbidire a un governo omicida le ripugna. La Magistratura, l'Esercito, il Clero, la Burocrazia, dopo un attimo di incertezza, guardano con simpatia le opposizioni. I combattenti, gran parte dei fascisti, la stampa e alcuni ministri del governo Mussolini si dichiarano ostili alle camicie nere: è un piccolo affare Dreyfus italiano. Trascorrono giorni grigi, afosi; tutti mormorano, ci si toglie dall'occhiello il distintivo del fascio; i carabinieri sono timidi, incerti. Mussolini, è solo nelle grandi sale di Palazzo Chigi; egli chiama la vedova di Matteotti, vuol vederla, scusarsi, rassicurarla. Le promette che sarà fatta giustizia, che il cadavere del marito sarà ritrovato a tutti i costi, se ne fa garante lui stesso. L'Italia dubita. E' il primo grande dubbio del popolo italiano. Il paese si è accorto che il Duce è un uomo debole, che annaspa, che cerca aiuto, che si confonde. Tutti sanno che il fascismo è finito, che Mussolini non ha più forza, che è solo col cadavere di Matteotti sotto il tetto. I memoriali dei suoi fidi lo accusano; la paura, una paura folle, ha colto i suoi luogotenenti; essi vogliono difendersi e additano in lui il colpevole. La folla si reca ogni giorno sul Lungotevere a porre fiori sul luogo dove fu rapito Matteotti.»
E' in questo clima politico e sociale che, a sorpresa, Luigi Pirandello chiede la tessera del Partito Fascista: il periodo convulso e contraddittorio dell'Aventino gli sembra "il momento più proprio" per aderire a una formazione politica che sembra toccare il minimo storico del consenso popolare.
Il mondo intellettuale e morale di Pirandello non coincideva con quello di Mussolini e con la gerarchia fascista. E, d'altronde, il fascismo non ripagò la fiducia del suo 'gregario'. Pirandello divenne sì Accademico d'Italia (e vinse subito dopo il Premio Nobel anche se entrambi furono, forse, nei confronti del più grande autore teatrale italiano dopo Carlo Goldoni, un atto quasi dovuto), ma non fu mai accettato dalla gerarchia culturale fascista e popolare nei teatri italiani.
Pirandello polemizza con gli esponenti del regime, accentua i loro aspetti deteriori e farseschi, ma non rompe con Mussolini e la sua prospettiva politica né abbandona la prospettiva politica che contraddistingue il fascismo. Tale scelta faranno, invece, alcuni che pur lo sostennero nella sua “prima ora” (Croce che votò la fiducia al primo governo Mussolini) e tanti personaggi che rifiuteranno sempre anche successivamente di aderire al regime pur non essendone lontani da un punto di vista ideologico (D'Annunzio).
Secondo Sciascia uno scrittore può sbagliarsi su se stesso, ma l'opera di un vero scrittore non sarà mai sbagliata.
Pirandello è stato fascista, non però la sua opera ed è certamente corretto mettere in evidenza i limiti di un rapporto come quello successivamente intercorso tra lo stesso Pirandello ed i gestori e gli esponenti ufficiali della culturalità fascista. Ma, d'altronde, come lo stesso Sciascia ben sa e non può fare a meno di ammettere, Pirandello non sconfessò mai la sua scelta del settembre 1924.
Secondo Giovanni Amendola Pirandello aveva aderito al fascismo per mascherare la delusione di non essere stato fatto senatore. Secondo Sciascia l'adesione di Pirandello al fascismo è, una spaventosa necessità: Mussolini rappresenta l'unica soluzione possibile ai problemi del Paese e, soprattutto, rappresenta l'unica possibilità di dare sbocco alla volontà di rivolta e di rivincita di tutti coloro i quali non si riconoscono nella cultura politica rissosa, meschina e volgarmente profittatrice dell'Italia liberale e giolittiana. Il fascismo appare l'unica soluzione possibile dopo il fallimento delle idealità rappresentate dalla convulsa e (solo parzialmente) giustificata esplosione dei Fasci siciliani del 1893 e la crisi del sistema di compromesso tra industriali e classe operaia del Nord messa in atto e proposta come la salvezza del Paese da Giovanni Giolitti. Pirandello qui demistifica le attese e le speranze che venivano collegate al patto d'azione tra liberali e Partito socialista così come poteva presentarsi agli occhi dei suoi lettori (e interlocutori) piccolo-borghesi.
Sotto accusa sembra quasi spontaneamente esser posta la cultura politica dell'Italia liberale: il frutto più maturo, più autorevole e determinato, della gestione del potere da parte di Giovanni Giolitti e la conseguenza (esilarante e micidiale) della prospettiva di compromesso e di conciliazione degli interessi contrapposti tra il padronato e la classe operaia dell'Italia del Nord. Meglio: i settori più avanzati dell'industria meccanica, siderurgica ed elettrica e le aristocrazie operaie che in esse lavoravano. E di esse non è affatto vero Pirandello ignorasse del tutto l'esistenza. Risolve con la sua scelta a favore del fascismo attraverso una pratica di scrittura che si modifica e si trasforma a contatto con l'evoluzione concreta della situazione italiana (e la ricerca qui va fatta non a livello di analisi sociologica, ma leggendo i testi e cercando il politico a livello di scelta estetica ed artistica). Altrimenti non si spiegherebbero testi tanto poco (o, forse, tanto più autenticamente) pirandelliani come le novelle o il romanzo Uno, nessuno e centomila del 1926 (pubblicato, quindi, nella prospettiva di un fascismo che si vuole 'normalizzato' e normalizzatore della vita pubblica e sociale italiana) Che si è sempre voluta e confinata nel registro aneddotico dell'”opportunismo” o della 'viltà' degli intellettuali
La cultura media, le persuasioni diffuse, che Pirandello satireggia, sono al tempo stesso le uniche ch'egli conosca perché sono, paradossalmente, anche le sue. Pirandello non ha convincimenti sostanziali diversi da quelli dei suoi personaggi: il suo è un guardarsi allo specchio. La sua genialità non consiste affatto nella produzione di idee (che, prese ciascuna per sé, si rivelano sempre alquanto scontate o addirittura banali): la sua genialità consiste nel mostrare l'assurdità di un patrimonio culturale, che non è quello delle avanguardie o delle élite, ma quello della gente comune, del borghese medio, del normale individuo pensante, che crede a quello che vede e sa soltanto ciò che crede di vedere.
Con la sua analisi del gesto Pirandello smaschera se stesso davanti al suo pubblico e smaschera le credenze più profonde e la fiducia del suo pubblico (mette in gioco, cioè, la verità stessa del principio oggettivo dell'esistenza della realtà). La sua filosofia resta quella del disincanto assoluto nei confronti degli uomini e dei loro rapporti sociali e intersoggettivi (che gli appaiono impastati di passione, di follia, di aberrazioni mentali e di straordinari slanci umani e d'amore sempre, tuttavia, inaffidabili e incomprensibili anche per il più acuto dei filosofi) e, di conseguenza, conduce alla distruzione di ogni forma di possibile convivenza con gli altri. E' assai probabile, dunque, che Mussolini appaia a Pirandello un demiurgo in quella coniugazione politica dell'élitismo liberale.
Nel romanzo Uno nessuno e centomila Vitangelo Moscarda esce dal "gregge" dei suoi simili rinunciando a qualsiasi volontà di potenza, di autoaffermazione, di superiorità gerarchica pone, per inciso, delle ulteriori domande sul sovrapporsi e l'intrecciarsi di motivi che spingono Pirandello ad aderire al fascismo. In un articolo su "L'Idea Nazionale" del 23 ottobre 1924 Pirandello dichiara di ammirare il capo del movimento fascista perché, da una parte, "Mussolini sa, come pochi, che la realtà sta soltanto in potere dell'uomo di costruirla e che la si crea soltanto con l'attività dello spirito", ma, dall'altra, perché egli ha anche "chiaramente mostrato di sentire questa doppia e tragica necessità della forma e del movimento", ossia del plasmare e del dissolvere tutto ciò che si manipola»
Tale "doppia e tragica necessità" sembra essere la stessa di Pirandello che vuole essere un intellettuale fascista. Come un Giano bifronte nei confronti della realtà, egli oscilla tra il rifiuto assoluto e l'accettazione della decisione spirituale prodotta dal demiurgo politico Mussolini perché non vede vie d'uscita nel caos spirituale e sociale dell'Italia giolittiana. Fino alla fine, non sceglierà decisamente una delle due strade: è per questo che la sua opera resta feconda e straordinaria ancora oggi e, nello stesso tempo, è per questo che il suo fascismo non può essere passato sotto silenzio o considerato una mera parentesi senza conseguenze.
Critica storica al fascismo
Gli storici hanno opinioni contrastanti per quanto riguarda il fascismo.Lo storico ufficiale del Fascismo, Volpe sostiene che la sua nascita sia da ricollegarsi al Risorgimento in quanto esso ha cercato di dare al nostro Paese una connotazione nazionale e uno stato unitario. Il fascismo, secondo lo storico nasce a causa delle lotte tra interventisti e neutralisti, determinandosi infine nella crisi del dopoguerra come difesa dei valori della vittoria. In seguito, si affermò verso ideali imperialistici. Il fascismo si è imposto in quanto ha ripreso lo spirito di grandezza romana e con la forza ha imposto i diritti dell’Italia in campo internazionale e ha reagito al secolare passato di sottomissione di rinunzie ed inerzia.
Secondo alcuni esponenti della storiografia liberale, di cui il Croce è uno dei massimi esperti, il fascismo non trova affatto continuità con il Risorgimento ma lo considera un fenomeno antistorico, perché arrestò lo sviluppo democratico incominciato in Italia dopo la sua unità.
Secondo il Croce, Mussolini era un uomo privo ed incapace di ogni fede pronto ad accogliere intorno a se una banda di avventurieri e di profittare dei contrasti e debolezze del popolo italiano della confusione e della stanchezza generale, ingannando con dichiarazioni e false proteste.
Secondo gli storici democratici, il fascismo fu un regime politico che ha offeso e distrutto i principi di libertà, sovranità popolare e di nazionalità, tutti ideali presenti nel Risorgimento. Il fascismo rimase in realtà l’atteggiamento di un momento e non diede mai la sensazione di poter essere un fatto permanente, esso non riuscì ad assorbire le forze costruttive che si erano sviluppate nella vita italiana. Le forze della cultura e della società non si identificarono mai con esso; non fu mai una vera forza militare, non riuscì a convertire i partiti a sè ma li logorò. Lo stato fascista ebbe sempre una fatale debolezza dovuta alla sua natura violenta e dittatoriale riuscì solo con la forza a controllare la vita della nazione. Gli ideali del Risorgimento nei cuori degli italiani non vennero sostituiti, bensì cacciati con la forza lasciando a loro posto il vuoto. Secondo Fortunato, il fascismo mancò di ogni percezione dell’effettivo essere italiano e la sua tragedia fu un continuo sognar lontano per non vedere vicino. Esso si modellò sopra un formalismo liberale anziché su uno spirito vero di libertà, consolidando i privilegi degli agiati e aggravando la miseria dei poveri.
Gli artefici dell’ascesa fascista
Un famoso storico inglese Smith, sostiene che l’avvento del fascismo è determinabile dalla politica di coalizioni governative, inaugurata da Cavour e seguita dai suoi successori. Tale politica si occupa degli interessi personali , con il pretesto di salvaguardare la nazione, ma non della lotta tra i partiti. Questa politica è ripresa dai fascisti. Il sistema politico italiano viene considerato corrotto e corruttore dove i partiti sono diventati clienti e non hanno più spirito di lotta che è alla base della democrazia.
Secondo il Valeri, invece la dittatura fascista non rappresenta una rivoluzione anche se al posto della legalità viene usata la violenza. La loro ascesa è stata aiutata dalla monarchia, dall’esercito, dalla finanza e dagli industriali. L’obiettivo fascista è di distruggere i comunisti con la violenza.
Sempre per il Valeri, la situazione italiana non è un caso isolato ma interessa alcuni paesi come la Germania hitleriana, la Spagna, l’Argentina. L’unico interesse di queste nazioni è di difendersi dal comunismo. Il critico Federico Chabod analizza la situazione italiana e l’ascesa fascista:
tra il ‘19 e il ‘22 la situazione è particolarmente difficile in quanto è presente una forte inflazione, vengono presi d’assalto i grandi magazzini, vi è forte scarsità di beni alimentari, vi è aumento vertiginoso nella miseria, dove è il disagio dei reduci di guerra. Tutti questi fenomeni, sconvolsero la vita sia della piccola borghesia che dei grandi proprietari terrieri che temevano l’avvento di una rivoluzione comunista in Italia. Vennero offesi anche alcuni importanti sentimenti come l’amor di patria e il mito della vittoria mutilata. L’Italia di questi anni era nel più totale disordine e l’anarchia aumentava di giorno in giorno.
E’ proprio in questa situazione che il movimento fascista accresce i propri consensi tra la borghesia che viene vista come l’unica ancora di salvezza per avere uno stato forte. Anche gli agrari e gli industriali per tutelare i propri interessi, appoggiarono ed aiutarono finanziariamente il fascismo.
La responsabilità più grande per l’ascesa di Mussolini, l’ebbero i due partiti più importanti: socialista popolare, e gli uomini di governo.
I socialisti dilaniati dai contrasti interni tra rivoluzionari e riformisti, non riescono a prendere il potere e non sono disposti a dividerlo con i partiti borghesi per questioni ideologiche. Anche i popolari guidati da Don Sturzo divisi tra conservatori e democratici sono ostili ai governi forti. Entrambi i partiti non compresero la necessità di fare fronte comune per contrastare l’imminente dittatura fascista.
Furono pochi ad accorgersi di quello che stava per avvenire in Italia. Molti uomini politici di spicco si sbagliarono sul fascismo. L’errore più grande viene commesso da Giolitti il quale pensava che il fenomeno fascista fosse una conseguenza del dopoguerra; egli credeva di poterlo usare e poi assorbire a proprio piacimento offrendogli dei ministeri di secondaria importanza. Proprio per questo ne agevolò l’ingresso alla camera e se ne servì contro i socialisti e i popolari auspicando l’intenzione di liberarsene presto.
L’errore commesso da Giolitti è di valutazione, perché lo valutò secondo i vecchi canoni della lotta politica. Ma il movimento fascista non era di vecchio stampo bensì si beffava della legalità e del parlamento. In particolare quando i capi videro che potevano avere qualcosa in più della semplice azione, mirarono alla conquista del potere e dello stato grazie anche ai molti consensi.
Successivamente lo statista si accorse degli errori e tentò l’opposizione ma questo avvenne troppo tardi.
Motivi che portarono alla caduta del fascismo.
Il 25 luglio del 1943 su richiesta del Gran Consiglio, un decreto reale pone fine alla dittatura fascista. Dopo 21 anni Mussolini è costretto a lasciare il potere. Gli italiani non ebbero alcun risentimento ma accolsero la notizia con senso liberatorio.
Lo storico americano Matthews, fornisce una risposta sulla gioia degli italiani alla caduta del regime fascista e su come sia stato possibile un così lungo periodo di vita. Egli afferma che gli italiani avevano sopportato il ventennio, perché credevano nel rilancio promesso dal duce ma siccome questo non avvenne, ne decretò il fallimento perché la sua rovina non fu ideologica ma pratica in quanto non venne colta solo dagli idealisti ma da tutto il popolo. Il fascismo promise agiatezza economica, potenza, potere, conquiste imperiali, un posto di primo piano ma queste rimasero solo promesse teoriche perché la realtà dei fatti è totalmente diversa in quanto il regime aumentò la miseria del paese, la disuguaglianza sociale, la corruzione personale, ebbe molti disastri militari, perdita della libertà individuale e nazionale. Tutte queste promesse per Mussolini, rappresentavano lo stato e tentò in tutti i modi di coinvolgere il popolo italiano. In realtà lo Stato serviva a soddisfare la voglia di gloria e potere della gerarchia fascista. Gli italiani si mostrarono ingenui nel credere al Fascismo e commisero l’errore di credergli e di dargli uno chèque bianco cioè un assegno in bianco, che si dimostrò un cattivo investimento. Così l’esperimento fascista fallisce miseramente.
L’errore più grave di tutti, però, fu l’entrata in guerra dell’Italia al fianco dei nazisti. Quest’entrata fu considerata senza ragione, senza scusa e senza onore. Questa è una frase storica di Pietro Nenni, il quale afferma che la guerra è senza ragione perché non è in gioco alcun interesse dello Stato italiano. Senza scusa, perché una vittoria tedesca avrebbe consegnato l’Italia e l’Europa a Hitler. Senza onore, perché l’Italia attaccò la Francia già duramente sconfitta facendo passare gli italiani per sciacalli. Inoltre il nostro intervento non fu di alcun aiuto per i tedeschi ma ebbe solo il compito di coinvolgerli in stravaganti progetti.
L’ingresso in guerra di Mussolini è stato giudicato dalla storia in modo molto negativo perché considerato molto avventato. Per Smith, il duce entrò in guerra per contrastare la Germania più che per aiutarla convinto che in pochi mesi la guerra sarebbe finita, e nonostante innumerevoli morti, avrebbe potuto sedersi al tavolo della pace come belligerante al fianco dei vincitori. L’entrata in guerra dell’Italia dimostrò l’inadeguatezza del regime fascista che non preparò l’eventuale ingresso in guerra ne militarmente ne economicamente. La guerra venne ordinata con assoluta leggerezza senza disporre neppure l’aumento della produzione delle munizioni e non ascoltando lo Stato Maggiore dell’esercito, il quale affermava che un ingresso in guerra per lo Stato sarebbe stato un suicidio.
I fascisti sostengono che i comandanti dell’esercito disubbidirono a Mussolini, mentre storici stranieri sostengono che nonostante i pochi mezzi a disposizione, gli italiani combatterono lealmente per difendere il loro paese.
Secondo Smith, i soldati italiani si resero immediatamente conto della complessità della guerra e gli insuccessi militari sconfortarono l’opinione pubblica che ora contrasta apertamente le teorie fasciste, nonostante l’estremo tentativo del duce di galvanizzare la massa popolare offendendola nel suo orgoglio. Il tentativo fallì e nessuno sapeva cosa l’Italia avrebbe guadagnato dalla guerra e persino i generali e la dirigenza fascista ascoltava radio Londra per sapere effettivamente e realmente quello che stava succedendo.
Il bilancio
Il bilancio del fascismo non è del tutto negativo perché sono stati potenziati gli impianti industriali, i mezzi di comunicazione, è stata bonificata l’area dell’agro pontino e si è avuto un lieve sviluppo agricolo, furono assistiti gli Italiani all’estero e valorizzate le colonie. Gioacchino Volpe fa un ritratto della situazione italiana dopo un quinquennio dalla fine della guerra. Egli sostiene che il fascismo ha fatto breccia sulle grandi masse di italiani che lo vissero non come uno stato autoritario ma come un governo. Molti italiani auspicavano un governo forte che ponesse fine ai disordini frequenti nel dopoguerra, e limitasse i poteri del Parlamento che rendeva ingovernabile il paese in mancanza di una maggioranza forte. Il fascismo diede maggiore slancio alla politica estera italiana cercando un’indipendenza economica dagli altri paesi europei, valorizzando le colonie fonte di lavoro per gli stessi italiani e soprattutto conquistare un posto di primo piano nella politica internazionale. Un altro punto a favore del ventennio, è la fine del dissidio con la Chiesa e la firma dei patti Lateranensi per far convivere insieme Stato e Chiesa.
Al bilancio del Volpe, che è lo storico più importante a sostegno del fascismo, rispondono gli storici democratici che, allo scenario positivo, contrappongono numerosi eventi negativi. Tra gli altri ricordiamo la privazione della libertà, quindi della dignità, il servilismo, cariche statali importanti affidate ai fascisti, persone importanti, perché contrarie all’Ideologia, esiliate o incarcerate. L’errore più importante e grave è l’alleanza con Hitler che porta l’Italia in guerra e allo sfascio.
Il Salvatorelli traccia un bilancio positivo per quanto riguarda l’assistenzialismo. In politica economica il bilancio è misto tra positivo e negativo. Sulla giustizia sociale è negativo, mentre sul piano etico-politico è profondamente negativo. Lo storico considera il popolo italiano politicamente adolescente all’inizio della guerra. Croce sostiene che la retorica fascista portò gli italiani allo scetticismo, perché li privò della libertà ma non la sostituì con nessun altro vero ideale.
Agli storici del periodo fascista si contrappongono gli storici che nacquero in quel periodo. Questi criticarono i precedenti, perché troppo moralisti che accettarono il fatto compiuto in modo passivo. Per comprendere realmente il fascismo, bisogna superare i concetti di democrazia-dittatura e rivoluzione-controrivoluzione. Zangrandi lo definisce un pasticcio all’italiana, per Carocci è un seguito di improvvisazioni e contraddizioni. Il critico De Felice ne traccia un bilancio negativo; considera il fascismo reazione capitalista-borghese al proletariato che è riuscito a giungere al potere, grazie ad una serie di appoggi e di debolezze altrui oltre ad alcune circostanze favorevoli. Inizialmente, pochi compresero la vera realtà del fascismo che si mostrava come il difensore dei più deboli, illudendo il Popolo italiano che potesse avere un ruolo importante a livello internazionale. In realtà, Mussolini non era moralmente forte ma badava a seguire le correnti più importanti senza rendersi conto che egli non era l’arbitro della situazione, come credeva, anzi il suo potere diminuiva in maniera inesorabile.
Fonte: http://www.uicfrosinone.it/uic2.0/file/tesina_01_07_2005.doc
Sito web da visitare: http://www.uicfrosinone.it
Autore del testo: non indicato nel documento di origine
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