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Luigi Pirandello
Luigi Pirandello nasce ad Agrigento il 28 giugno 1867 da un’agiata famiglia d’ideali patriottici. Luigi trascorse l’infanzia dedicandosi alla lettura di romanzi e scrivendo una tragedia già a dodici anni. Dopo aver iniziato gli studi tecnici (il padre lo voleva commerciante) pensa a quelli letterali e s’iscrive alla facoltà di lettere di Palermo.
Nel novembre 1887 si trasferisce a Roma e si dedica agli studi di filologia romanza. In questo periodo ha un notevole sviluppo la sua produzione poetica anche se poco conosciuta e ritenuta meno importante.
Nel 1899 si trasferisce a Bonn, dove si laurea con una tesi in lingua tedesca sui dialetti greco - siculi. La Sicilia e i suoi dialetti vengono studiati da lontano. È l’approccio tipico di Pirandello alla realtà: prima l’avvicinamento all’oggetto che arriva fino all’analisi deformante, poi il distacco e la lettura da lontano.
Rientrato a Roma, è Capuana a introdurlo nel mondo della capitale: collabora con diverse riviste letterarie e dal 1897 diviene insegnante di letteratura italiana. Nel frattempo Pirandello aveva sposato Antonietta Portulano dalla quale avrà tre figli. Nel 1898 compare la sua prima opera teatrale (L’Epilogo) poi nel 1901 esce il primo romanzo (L’Esclusa).
Nel 1903 un avvenimento sconvolge la sua esistenza: una frana provoca l’allagamento della solfara nella quale il padre di Luigi aveva investito i propri averi e la dote della nuora. La famiglia subisce un grave dissesto economico e la moglie finisce in depressione fino alla pazzia. I problemi familiari ed economici inducono lo scrittore a pensare al suicidio ed è probabilmente da questa esperienza che scrive il fu Mattia Pascal(1904).
Pirandello intensifica il suo impegno letterario: continua la collaborazione con alcune riviste e nel 1908 scrive due saggi e compone numerose novelle.
Dal 1910 comincia a occuparsi di teatro e riscuote notevole successo con Pensaci. Intanto la moglie fu portata in una casa di cura data la sua grave situazione mentale.
Lavorare nel teatro diventa l’interesse fondamentale che nel 1925 fonda la Compagnia del Teatro d’Arte. Tra il 1922 e il 1923 continua a scrivere altri atti unici ai quali si accompagnano altre novelle e il suo ultimo romanzo Uno, nessuno, centomila pubblicato nel 26.
Intanto, nel 1924, Pirandello aveva aderito al fascismo e a proposito di quest’adesione molti critici non credono che il pensiero dello scrittore potesse affiancarsi a quello fascista. Il successo internazionale della sua produzione teatrale lo costringe a numerosi spostamenti all’estero e nel 1934 ricevette un premio Nobel. Due anni più tardi è a Roma ma lo coglie una polmonite che lo porterà alla morte, avvenuta il 10 dicembre 1936.
La visione del mondo e dell’uomo che emerge dalle opere pirandelliane affonda le radici in quella delusione storica propria di tutta un’epoca. Pirandello visse in prima persona il disagio della modernità.
Ma Pirandello non ha alcuna fede alternativa, alcuna “religione della famiglia” o della bellezza cui potersi aggrappare: il suo pessimismo assume connotati novecenteschi e moderni; egli, di fronte al frantumarsi di ogni valore e certezza, maturò la convinzione che fosse impossibile individuare nuovi valori da contrapporre ai vecchi. Pirandello approdò a una concezione dell’uomo e della vita tanto pessimistica da potersi definire nichilista.
Come i primi grandi maestri della narrativa del primo Novecento, centrale è in Pirandello il tema dell’esclusione e dello sradicamento, cioè la riflessione sul disagio dell’uomo moderno per la perdita di valori di riferimento sull’inevitabile spersonalizzazione indotta dalla diffusione della civiltà delle macchine. Il pessimismo pirandelliano andò rapidamente consolidandosi nella convinzione dell’assoluta mancanza di senso della vita dell’uomo e dell’irrimediabile frantumazione della stessa identità individuale.
Pirandello ritiene, infatti, che l’universo sia in continuo divenire, che la vita sia dominata da una mobilità inesauribile e, nel caso dell’uomo, da una contraddizione insanabile. L’uomo, infatti, è in balia di questo flusso dominato totalmente dal caso ma cerca di opporvisi costruendo forme fisse, immagini nelle quali potersi riconoscere, che però finiscono con il soffocarlo, imbrigliarlo in maschere in cui non può realmente riconoscersi.
Fondamentali nell’opera dell’autore sono così il sentimento della casualità, dell’imprevedibilità, della relatività delle vicende umane, la dicotomia flusso/forma, quindi, l’opposizione maschera/volto: l’uomo non è nessuno eppure egli si ritrova continuamente e consapevolmente definito in forme nelle quali gli è impossibile riconoscersi, maschere che gli sono indispensabili per garantire una qualsiasi identità sociale ma che si rivelano come trappole dalle quali non può fuggire.
Come già detto prima, sotto la maschera non c’è nessuno. La maschera non può che essere provvisoria: come nessuna filosofia o religione può soccorrere l’uomo e offrirgli un punto fermo d’interpretazione della realtà, così nessuna forma può fermare la vita in un suo punto.
La società costringe quindi l’uomo a indossare una maschera diversa a seconda delle circostanze e della persona con cui entriamo in contatto. Ciascuno di noi s’illude di essere “uno”, ma assume “centomila” identità differenti per poi scoprire di essere “nessuno”, di non poter esistere al di fuori delle convenzioni sociali, della fissità di una forma. Se non si dovessero accettare tali forme sociali, si finirebbe subito alla follia.
Il dramma dell’uomo è legato al sentimento del vivere. Guardare se stesso e gli altri all’esterno, con il distacco tragico e riflessivo dall’alto di una consapevolezza superiore è caratteristica peculiare dell’eroe pirandelliano e della filosofia del lontano con cui lo scrittore considera la realtà. Essa consiste ne contemplare tutto ciò che appare normale come distacco e come se si vedesse per la prima volta, come da lontano, per poterne cogliere tutta la sua assurdità e insensatezza.
Una parziale svolta di pensiero si ha nell’ultimo decennio di vita di Pirandello dalla pubblicazione di Uno, nessuno, centomila la cui conclusione si propone come positiva; il protagonista si dichiara come guarito dalla prigioni a delle maschere e ha scelto di aderire alla vita identificandosi completamente con la natura
Se la vita è un flusso continuo, inarrestabile e casuale, essa è priva di senso. L’impossibilità di fermare il tempo si mostra attraverso la scrittura che non trova un punto fermo nemmeno lei, la funzione della scrittura sarà quello di palesare l’impossibilità di tradurre in storia e personaggi la filosofia del lontano. La letteratura e l’arte in generale devono osservare la realtà dall’esterno con il distacco necessario per coglierne l’irrimediabile insensatezza.
Il testo che mostra in modo più organico la poetica pirandelliana è il saggio del 1908 L’umorismo che spiega come un’arte capace di mostrare le contraddizioni della realtà non posa che essere un’arte umoristica: chi “si guarda vivere” ha maturato un distacco dalla vita e alle sue miserie capace di garantirgli uno sguardo ironico e amaro su tutto. Il saggio consiste in due parti: nella prima Pirandello ricostruisce una sorta di percorso storico del concetto di umorismo e di arte umoristica; nella seconda mette in luce essenza, caratteri e materia dell’umorismo. Per definire l’umorismo, Pirandello ne sottolinea la componente riflessiva che lo distingue dalla comicità.
L’umorismo nasce, infatti, dal sentimento del contrario, dalla consapevolezza che la realtà è molto più complessa e frantumata di quanto appaia: se una situazione si mostra contraria a ciò che definiamo “normale”, la troviamo comica e ci viene da ridere. Ma se ci chiediamo cosa ci sia dietro quella situazione comica la risata può tingersi d’amarezza e pietà. L’arte umoristica è quella che induce la consapevolezza della sostanziale contraddittorietà dell’esistere, della sua mancanza di significato.
L’assurdità e l’ambiguità del reale giustificano, in sede di narrazione, la dissoluzione della trama, gli improvvisi scarti nel narratore (passando repentinamente dalla terza alla prima persona), la moltiplicazione dei punti di vista. Il romanzo diviene così “antiromanzo” in quanto, dovendo, rappresentare la complessità del reale, che non è forma cristallizzata, ma flusso diviene tutto il contrario di tutto, ragione e follia, realtà e apparenza. La realtà deformata nella quale si muovono i personaggi pirandelliani è rappresentata con una tecnica espressionistica attraverso l’allegoria.
Il linguaggio dei personaggi si adatta così perfettamente all’estraneità riflessiva prevista dall’arte umoristica: sono personaggi verbosi, che prediligono l’argomentazione, mossi da un estremo bisogno di dire, di ragionare. La parola è al centro di ogni cosa. La lingua dei personaggi di Pirandello è una lingua che deve riflettere il caos, il disordine del reale, dunque non una lingua “dei libri” ma più vicina al fluire della vita, alla realtà quotidiana. Da qui la scelta del dialetto siciliano.
La pubblicazione di Uno, nessuno, centomila segna un cambiamento nell’autore: si apre una stagione dei “miti”: il desiderio di ravvicinamento alla vita e alla natura attenua il carattere prevalentemente argomentativo e il tono allegorico. Il linguaggio tende ad allontanarsi dal quotidiano per approdare nella sfera del fantastico, del surreale.
Nell’Esclusa l’autore rimane apparentemente fedele ai canoni del Verismo: stesso ambito regionale (Sicilia), stessa dettagliata analisi dei contesti sociali, stessi temi ricorrenti, identica è anche la tecnica descrittiva. In realtà, tuttavia, la trama che vede protagonista Marta Alaja, cacciata da casa, innocente, perché accusata di tradimento dal marito e riammessa proprio quando si è resa colpevole con Gregorio Alvignani, da cui attende un figlio, indica chiaramente la distanza dal Verismo e dalla sua poetica di rispecchiamento impersonale e, inoltre, l’intento ironico e irrisorio dell’autore verso il valore dell’onore.
Centrale è il tema dell’esclusione sociale e famigliare: si tratta di un’emarginazione vissuta senza colpa reale. Singolare è il fatto che Marta verrà riammessa in famiglia e riabilitata nella società proprio quando ha consumato l’adulterio. Questo sottolinea l’ironica lettura che l’autore dà del rapporto realtà-apparenza.
Si tratta di un romanzo impostato mediante le tecniche narrative del romanzo storico, la cui vicenda si dipana tra Roma e la Sicilia nell’Italia degli scandali bancari e dei Fasci Siciliani di fine Ottocento. L’affresco storico si compone attraverso le vicende di una nobile famiglia di Grigenti, i Laurentano, all’interno della quale si confrontano e si scontrano due generazioni diverse, i “vecchi” e i “giovani”: i primi hanno creduto agli ideali del Risorgimento e ne hanno visto il fallimento, i secondi cercano nuovi ideali, credono di trovarli nel socialismo ma devono anch’essi arrendersi a vederli crollare sotto il peso della irrealizzabilità. Simile a molti romanzi dell’epoca, ma in Pirandello è presente un importante elemento di originalità: la riflessione sull’ineluttabilità di tale insensatezza, la consapevolezza di una sconfitta a priori. Coerentemente con i canoni dall’arte umoristica, tutte le vicende vengono viste da fuori, attraverso lo sguardo del vecchio don Cosmo che rappresenta una sofferenza senza tempo.
Avviato nel 1909 e uscito a puntate tra il 1925 e 1926 su “La Fiera Letteraria” e in volume nel 1926. La frantumazione della narrazione si riflette nella struttura stessa del romanzo, diviso in 63 capitoli molto brevi.
Il racconto è definito retrospettivo e il narratore è il protagonista stesso che ripercorre quanto è accaduto. Non viene più utilizzata la forma testuale del diario o del memoriale ma la narrazione si dipana attraverso la complessità di un lungo monologo, un ibrido nato dalla fusione del genere racconto con il saggio. Il narratore chiama spesso in causa il lettore e lo invita a “fare questo esperimento con me”.
La struttura del testo riflette la sua particolare collocazione all’interno della produzione pirandelliana, essa è la massima espressione della riflessione dell’autore sulla frantumazione dell’identità dell’uomo moderno e apertura verso una soluzione positiva delle contraddizioni della modernità. Il personaggio del testo Vitangelo Moscarda, dopo aver scoperto il carattere illusorio del concetto d’identità, dopo aver messo a nudo le centomila maschere che gli altri gli hanno imposto e che lui ha accettato come “essere sociale”, sceglie di rinunciare a qualsiasi identità possibile, a qualsiasi forma per aderire alla vita.
“Bisogna illudersi, lasciar giocare in noi il demoniaccio beffardo finché non si sarà stancato; e pensare che tutto questo passerà, passerà” . Anche Vitangelo Moscarda si rifiuta di concludere perché “la vita non conclude”, perché lui si sente libero di vivere in una specie di fusione panica con l’intero creato.
Pirandello amò particolarmente il genere novella che lo accompagnò in tutto il suo cammino di letterato: la prima la scrisse all’età di 17 anni. Nel 1922 l’autore mette a punto il progetto di riordinare la sua vastissima produzione nella raccolta delle Novelle per un anno. Il progetto inizialmente doveva comprendere 24 volumi per un totale di 360 novelle ma l’opera rimase incompiuta fino a 15 volumi per un totale di 225 novelle. Non è chiaro il criterio seguito da Pirandello per delineare la struttura complessiva dell’opera. nonostante l’ovvio riferimento con il Decameron di Boccaccio pare rispondere a un ordine vuoto, si presenta come un’allegoria della dispersione, dell’insensatezza della vita, in Pirandello non vi è alcun ordine: il tempo è solo vortice, disordine, caos.
L’ambiente che fa da sfondo alle vicende è sempre scelto dall’autore in quanto proiezione della sua particolare visione del mondo: quella siciliana è vista come una società in dissoluzione, in cui ogni individuo è sempre lasciato a se stesso eppure prigioniero degli altri, costretto a recitare sempre la stessa parte. La realtà siciliana non è quindi diversa da quella romana, i personaggi di Pirandello sono emblemi di una condizione umana universale, sono maschere che solo l’assoluta casualità rivela improvvisamente come tali. L’unica linea di demarcazione che è possibile rintracciare all’interno delle novelle è quella che separa di primi tredici volumi dagli ultimi due che raccolgono le novelle scritte negli anni Trenta, quelle dell’ultimo Pirandello. Ma questo non è un elemento significativo che ci aiuta a trovare il modo di organizzazione della raccolta.
Mattia Pascal, giovane inetto e spiantato, assiste alla rovina economica della famiglia a causa di un amministratore disonesto (Batta Malagna). Per vendicarsi, Mattia seduce prima la moglie, poi la cugina Romilda dell’amministratore. Poiché entrambe restano incinte, l’amministratore decide di riconoscere come suo figlio quello nel grembo della moglie e obbliga Mattia a sposare Romilda.
Comincia per il protagonista una vita d’inferno diviso tra il lavoro da bibliotecario e moglie e suocera impossibili. Dopo l’ennesima lite famigliare fugge a Montecarlo dove vince al gioco una notevole somma. Sul treno che lo riporta a casa legge sul giornale la notizia della propria morte.
Mattia, sentendosi libero, incomincia a viaggiare e si stabilisce a Roma con il nuovo nome di Adriano Meis. Qui riesce finalmente ad allacciare una serie di positive relazioni umane e quando, ricambiato, si innamora di Adriana si illude di poter finalmente rinascere a una nuova esistenza. In realtà scopre che si tratta di pura illusione perché non ha identità anagrafica q non può dunque concorre a nozze e nemmeno denunciare un furto subito. Mattia simula allora un secondo suicidio e torna nella sua città a Miragno dove scoprirà che la moglie si è risposata e ha avuto un’altra figlia. Nel paese sembra che nessuno voglia più riconoscerlo. Non gli resta che accettare la sua situazione di definitiva estraneità e sopravvivere come “il fu Mattia Pascal”.
Il romanzo si presenta diviso in 18 capitoli i primi due costituite dalla “Premessa I” e “Premessa II”, nei quali il narratore mette immediatamente il lettore di fronte alla propria situazione. La vicenda ha una struttura perfettamente circolare: prima che il racconto abbia inizio, sappiamo già che il protagonista è morto; poi veniamo a conoscenza della falsa morte di Mattia e della nascita di Adriano Meis , della sua falsa morte e dell’inutile rinascita di Mattia Pascal.
La vicenda è narrata in prima persona, interamente rivissuta nella dimensione interiore del personaggio, priva di riferimenti storici o temporali esterni, e l’intreccio è giocato sulla sottile interferenza dell’io narrante nelle vicende dell’io attore.
Il romanzo propone i temi e i motivi fondamentali della produzione narrativa del primo novecento filtrati attraverso la visione pirandelliana del mondo.
Il tema centrale è la perdita dell’identità, o meglio, l’impossibilità di avere un’identità al di fuori degli schemi imposti dalla società: siamo tutti inevitabilmente differenti dalla maschera che di volta in volta indossiamo nelle diverse situazioni. Mattia cerca di ribellarsi alla trappola della famiglia che lo ingabbia nel suo ruolo di figlio obbediente prima, marito fedele poi, e della società. Ma la soluzione che adotta è pur sempre una trappola: finisce col costruirsi una nuova maschera che imbriglia l’io.
Cos’ Mattia finisce con il perdere la maschera originaria con la quale potrebbe rientrare nel teatro della vita sociale. Fallito il tentativo di tornare a d essere Mattia, è costretto a vedersi vivere come “forestiere della vita”.
La conclusione del romanzo è un pessimismo disperato: l’uomo moderno, di cui Mattia Pascal è una delle prime incarnazioni letterarie non può ambire ad altro che a essere un semplice spettatore della vita perché qualsiasi sforzo volto a definire “una” identità si rivela vano come la pretesa di controllare l’assoluta casualità della vita.
Il punto di vista è interno e il narratore non ha certezze, si dibatte costantemente nel dubbio, rendendo ironico e non sempre attendibile il suo modo di ricostruire il passato. Troviamo un narratore interno il cui sguardo obliquo è incapace di cogliere nel suo complesso la realtà. Essa finisce così frantumata e il narratore ha bisogno di continui ammiccamenti al lettore, continue iterazioni e interrogative, che sollecitano la complicità del lettore nella scoperta della relatività di tutte le cose.
Relativamente al monologo presente in modo massiccio nel Fu Mattia Pascal, la critica ha coniato l’espressione di soliloquio recitato, “recitato” perché si tratta di un discorso che, prevedendo esplicitamente degli ascoltatori-lettori, prosegue un “livello di comunicazione immediata” e si presenta come una specie di dialogo tra le diverse anime di uno stesso personaggio.
Non tradizionale è l’atteggiamento di fondo dello stile e del linguaggio pirandelliano: ciò a cui mira l’autore è scrivere bene e non il bello scrivere. Cerca dunque una prosa sciolta lontana da modelli letterari paludati.
Utilizza anche uno stile giornalistico.
Pirandello occupa una posizione centrale nella storia del teatro del Novecento nonostante lo stesso autore considerò la sua produzione teatrale come una parentesi della sua carriera narrativa.
Pirandello arriva alla scrittura teatrale in modo progressivo all’interno della narrativa, di una costante attenzione alla teatralità del racconto, come è evidente nel crescente spazio dedicato ai dialoghi. Il teatro dunque si configura progressivamente come il luogo più naturale per mostrare la realtà dell’esistenza umana, ridotta a una recita, una grande finzione simile a quella che si svolge sul palcoscenico.
Pirandello scrive le sue prime opere per attori famosi, soprattutto siciliani, dal 1923 comincia a produrre per un pubblico internazionale; nel 1925 con la collaborazione dell’attrice Marta Abba, fonda la Compagnia del teatro d’Arte di Roma al fine di rappresentare come voleva lui le sue opere.
Nella produzione teatrale pirandelliana possiamo riconoscere tre fasi:
L’unico rifugio, l’unico osservatorio dal quale l’uomo può difendersi dallo sfaldamento della realtà intorno a lui, dalla frantumazione dell’identità è la pazzia, la pazzia viene intesa come soluzione dell’esistenza umana.
Per le convenzioni sociali, anche la pazzia è in fondo una maschera, la rassicurante etichetta con la quale i “normali” si liberano dall’ansia e dall’imbarazzo provocato da chi contravviene alle regole, ma si tratta di una maschera che consente la costante infrazione: il pazzo è libero perché proprio la sua maschera gli consente di sottrarsi alle regole del gioco.
Il protagonista dell’Enrico IV per dodici anni della sua vita fu pazza ma per altri otto lo finse, esiliandosi volontariamente dalla vita, scopre che la pazzia è comunque una maschera, una condanna dalla quale non può liberarsi e per continuare a vivere non gli resta altro che continuare a fare il pazzo.
La pazzia diventa così consapevole e volontario esercizio di ribellione verso quell’autentica follia costituita dai meccanismi sociali che rendono l’uomo falso e inautentico.
Un’altra novità del teatro pirandelliano è la dissoluzione della finzione scenica nel cosiddetto teatro nel teatro, innovazione tecnica che consente di rappresentare un’opera teatrale nel suo farsi. In fondo tutta la produzione di Pirandello mira a scardinare le consuetudine teatrali.
Pirandello abbatte la quarta parete e mostra il teatro nel suo farsi, come è evidente in Sei personaggi in cerca d’autore, nel 1921, esempio di teatro nel teatro ruotante attorno al conflitto tra l’essere e l’esistere, la vita e la forma. Tema rilevante è anche quello dell’incomunicabilità che domina i rapporti tra attori e personaggi. Questi ultimi, infatti, non si riconoscono negli attori, si sentono traditi, avvertono la propria verità come altra diversa da quella mostrata sulla scena.
La “forma” la fissità della maschera, rappresentata dai personaggi, è inevitabilmente dissolta, tradita nel momento in cui viene interpretata dagli attori e immersa nel flusso della vita.
Fonte: http://info5b.altervista.org/Italiano/Pirandello.doc
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Autore del testo: non indicato nel documento di origine
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