Pirandello senso di inquietudine

Pirandello senso di inquietudine

 

 

 

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Pirandello senso di inquietudine

Il senso di inquietudine e di smarrimento, di incertezza che caratterizza la letteratura italiana del Primo Novecento, trova la sua espressione artistica e, in certo senso scientifica, nella vasta produzione narrativa e drammatica di Luigi Pirandello, nato ad Agrigento in Sicilia nel 1867, premio Nobel per la letteratura nel 1934 e morto a Roma nel 1936.
L’opera pirandelliana mira a rappresentare la complessità del dramma umano nel suo ritmo biologico ed esistenziale come si evince dalle numerose Novelle (confluite nella raccolta “Novelle per un anno”) e da “L’esclusa”. Quest’ultima segna, in modo particolare, il distacco dello scrittore dal Verismo alla cui oggettività sostituisce una visione personale della vita, in quanto ritiene che nulla esiste di vero e di oggettivo al di fuori dell’animo umano.
Marta Ajala, protagonista del primo romanzo “L’esclusa”, è una donna che viene cacciata di casa perché ritenuta adultera e poi riammessa in famiglia quando effettivamente, per varie circostanze, commette adulterio. E proprio in questo romanzo si rivelano i temi di fondo di tutta la produzione pirandelliana: 1) contrasto tra apparenza e realtà; 2) lo sfaccettarsi della verità in tante verità quanti sono coloro che presumono di possederla; 3) l’assurdità della condizione dell’uomo e della sua catalogazione (adultero, innocente, ladro, jettatore (il personaggio della “Patente”)), in una forma cristallizzata che soffoca la vita. Di questa assurdità che deriva sia dal caso che regna nelle vicende umane, sia dalle convenzioni sociali, che sono prodotto della storia, Mattia Pascal è un esemplare testimone.
Il brano “Una tragedia buffa” tratto dal romanzo “Il fu Mattia Pascal” evidenzia motivi e temi che, poi, saranno propri delle successive opere dello scrittore: il tema della famiglia, che diventa gabbia che imprigiona e determina infelicità, il tema della tragedia che si risolve in comicità ed umorismo, e infine il tema della crisi di identità che si evidenzia soprattutto quando Mattia si guarda allo specchio:

“…Ah quel mio occhio, in quel momento, quanto mi piacque! Per disperato, mi s’era messo a guardare più che mai altrove, altrove per conto suo. E scappai via, risoluto a non rientrare in casa, se prima non avessi trovato comunque da mantenere, anche miseramente, mia moglie e me.”

Allontanatosi dalla famiglia e dal paese, dopo un litigio con la moglie, Mattia Pascal va a Montecarlo ove vince una forte somma al gioco. Casualmente legge su un giornale una notizia di cronaca secondo la quale è stato ritrovato il cadavere di uno sconosciuto suicida cui è stata attribuita la sua identità. Mattia, uomo modesto e timido per natura, crede di poter trarre profitto da quella circostanza. Il caso sembra favorirlo per la seconda volta. Così pensa di potersi liberare dai condizionamenti sociali e intraprendere una nuova vita con nome mutato: Adriano Meis. Tuttavia i suoi sforzi sono vani. La società lo riavvolge nella sua tela. Adriano scopre che la vera identità per l’uomo è quella che gli riconosce la società. Privo di una identificazione anagrafica non può costruirsi una vita accettabile: gli manca la “forma”, e perciò non può denunciare un malfattore, né sposarsi. Decide così di fingere il suicidio del nuovo personaggio per tornare ad essere Pascal. Però, tornato a casa, trova la moglie risposata, mentre l’ambiente civile si è adattato alla sua assenza. Per lui non c’è più posto. E’ il fu Mattia Pascal che solo di tanto in tanto può portare dei fiori sulla propria tomba.
 

Adriano Meis si fa operare l’occhio strabico, convinto di poter ricominciare a vivere in maniera normale e in questo modo pensa di cancellare per sempre l’ultima traccia della sua identità. Viene assistito dal padrone di casa, il vecchio Anselmo Paleari, che cerca di dimostrargli , con un lungo ragionamento una concezione filosofica “speciosissima”, quella che il narratore chiama la “filosofia del lanternino”.

“E il signor Anselmo, seguitando, mi dimostrava che, per nostra disgrazia, noi non siamo come l’albero che vive e non sente, a cui la terra, il sole, l’aria, la pioggia, il vento, non sembra che sieno cose ch’esso non sia: cose amiche o nocive. A noi uomini, invece, nascendo, è toccato un tristo privilegio: quello di sentirci vivere, con la bella illusione che ne risulta: di prendere cioè come una realtà fuori di noi questo nostro interno sentimento della vita, mutabile e vario, secondo i tempi, i casi e la fortuna.
E per questo sentimento della vita per il signor Anselmo era appunto come un lanternino che ciascuno di noi porta in sé acceso; un lanternino che ci fa vedere sperduti su la terra, e ci fa vedere il male e il bene; un lanternino che projetta tutt’intorno a noi un cerchio più o meno ampio di luce, di là dal quale è l’ombra nera, l’ombra paurosa che non esisterebbe, se il lanternino non fosse acceso in noi, ma che noi dobbiamo pur troppo creder vera, fintanto ch’esso si mantiene vivo in noi. Spento alla fine a un soffio, ci accoglierà la notte perpetua dopo il giorno fumoso della nostra illusione, o non rimarremo noi piuttosto alla mercè dell’Essere, che avrà soltanto rotto le vane forme della nostra ragione?”

Di conseguenza la constatazione del ruolo vincolante delle convenzioni e della impossibilità di uscirne provoca una situazione conflittuale tra l’uomo e la società. Invano l’uomo cercherà di realizzare pienamente se stesso, inutilmente cercherà il dialogo e la comprensione degli altri chiusi a loro volta nella loro gabbia e la vita associata si dissolve e le verità e le certezze, così dette oggettive, svelano la loro natura di costruzioni fittizie e convenzionali.

Pirandello definì “Uno, nessuno e centomila” il romanzo di scomposizione della vita, poiché tutta la narrazione mette in luce l’autodistruzione di una personalità consapevole della propria incapacità di chiudersi in una forma coerente e autentica, della falsità ineluttabile dei rapporti con altri e con se stessi. La crisi di Vitangelo Moscarda inizia quando sua moglie gli fa osservare che il suo naso pende verso destra, cosa a cui non aveva mai fatto caso.

“    “Che fai?”  mia moglie mi domandò, vedendomi insolitamente indugiare davanti allo specchio.
“Niente”, le risposi, “mi guardo qua, dentro il naso, in questa narice. Premendo, avverto un certo dolorino.”
Mia moglie sorrise e disse:
“Credevo ti guardassi da che parte ti pende.”
Mi voltai come un cane a cui qualcuno avesse pestato la coda:
“Mi pende? A me? Il naso?”
E mia moglie, placidamente:
“Ma sì, caro. Guardatelo bene: ti pende verso destra.”

“Che altro?”
Eh, altro! Altro! Le mie sopracciglia parevano sugli occhi due accenti circonflessi, ^ ^, le mie orecchie erano attaccate male, una più sporgente dell’altra; e altri difetti…
“Ancora?”
Eh sì, ancora: nelle mani, al dito mignolo; e nelle gambe (no, storte no!), la destra, un pochino più arcuata dell’altra: verso il ginocchio, un pochino. ”

 

La prima reazione del protagonista è il “proposito disperato” di conoscere quell’estraneo che è in lui, credendo in maniera sbagliata che esso sia solo uno per tutti. Il dramma si complica quando scopre di essere centomila non solo per gli altri, ma anche per se stesso. Inizia così per lui la crisi della sua personalità e del principio d’identità. Egli cerca di distruggere le falsi immagini di sé che sono negli altri e in lui stesso, ma non potrà farlo se non estraniandosi dal contesto sociale. Moscarda alla fine rinuncia all’ambizione di darsi una forma per lasciare che la vita viva in lui, senza la volontà di costruirsi, senza più sentimenti e memoria. Solo ora è felice, avendo rinunciato ad ogni pretesa d’identità, non riconoscendosi più nel proprio nome e vivendo completamente fuori di sé, vagabondo nel flusso della vita universale come un albero, una nuvola, il vento. E solo così egli si salva.
Da tutto ciò si evince che l’uomo è sempre un vinto, la cosiddetta personalità è un puro sogno, perché l’Io, costretto ad entrare in continuo rapporto con il mondo esteriore, non può mai definirsi, nella sua completezza, ma solo relativamente al singolo rapporto. L’uomo è uno, nel momento del singolo rapporto; è nessuno, quando si distruggerà per determinarsi in un altro rapporto; è centomila per questo suo farsi continuo; e se manca il rapporto con l’altro, l’uomo continua a costruirsi lo stesso, alimentando le illusioni, perché bisognoso di illudersi, per non vedersi quale esso è.

 

Comincia a scrivere presto per il teatro, ma in modo episodico. Solo durante la I Guerra Mondiale vi si dedica completamente, ottenendo dopo qualche anno, un clamoroso successo dovuto all’attualità del suo teatro che mette in discussione tutte le certezze tradizionali già duramente colpiti dagli strascichi della guerra appena finita, dal trionfo della rivoluzione sovietica, dai contrasti internazionali e dall’aggravarsi della crisi sociale. Il teatro, pertanto, è la logica evoluzione della sua arte. Numerosi sono i lavori teatrali (una quarantina raccolti insieme con il titolo di “Maschere nude”) che alludono alla duplicità di ogni personaggio costretto a svelare la propria dolorosa essenza rompendo la maschera che la società gli impone. “L’Enrico IV” e i “Sei personaggi in cerca d’autore”  sono le opere che meglio esprimono la sua concezione dell’arte e della vita.
In “Enrico IV”  il tema centrale è la pazzia: la lucida follia, tipica condizione del personaggio pirandelliano, cioè di colui che comprende la propria inconsistenza come persona. Il personaggio, aprendo la valvola della pazzia, si accorge che in lui vi coesistono due identità, quindi possiamo dire che nell’opera pirandelliana è presente il dramma della vita e del gioco delle parti, di cui ognuno, di volta in volta, è chiamato a svolgere ­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­un ruolo come ha fatto Enrico IV.

 Un giovane gentiluomo impersona l’imperatore Enrico IV in una cavalcata storica. Caduto dal cavallo perde il senno e per dodici anni si crede davvero l’imperatore. Quando rinsavisce scopre che la donna amata è diventata l’amante di un suo rivale, Belcredi. Decide così di fingersi ancora pazzo. Rivela la finzione alla donna che non ama più, mentre sente di essere attratto dalla figlia di lei, Frida, che riesce ad abbracciare. Scoperto dal Belcredi lo ammazza. D’ora in poi non potrà più abbandonare la finzione della follia.
 

Nei “Sei personaggi in cerca d’autore” invece si evidenzia un duplice dramma: quello dell’incomunicabilità e quello dell’incapacità di poter diventare personaggi.

 

Mentre una compagnia di attori sta provando il “Gioco delle parti”, irrompono d’improvviso sul palcoscenico sei persone. Sono dei personaggi nati dalla mente di un autore che, però, dopo averli creati, li ha rifiutati. Per questo i personaggi chiedono al capocomico di rivivere davanti a lui e agli altri attori la loro storia, nella speranza che egli prenda il posto dell’autore e li fissi per sempre in una forma definitiva. Ognuno presenta il suo dramma secondo il proprio punto di vista, senza poter trovare comprensione degli altri.
La loro storia di desolata miseria morale si viene tuttavia delineando ed esasperando in alcune scene e gesti conclusivi. Il Padre, dopo aver avuto un Figlio, induce la Madre ad andarsene con un altro uomo, capace, secondo la sua psicologia tortuosa, di comprenderla e amarla meglio di lui. Dalla nuova unione nascono tre figli: la Figliastra, il Ragazzo, la Bambina. Anni dopo, il Padre troverà la Figliastra, ancora in lutto per la morte del proprio padre, in una casa d’appuntamenti, e solo l’intervento della Madre troncherà sul nascere lo squallido rapporto. Si ricostituisce così la famiglia, su una base di reciproco rancore, di vergogna e d’incomprensione, che condurrà alla tragedia: la Bambina, lasciata incustodita durante una delle tante scenate domestiche, annega in una vasca, il Ragazzo si uccide, non potendo vivere in quella perversa atmosfera d’odio.
Terminata la rappresentazione, che è stata, in realtà, l’unico modo di vivere a loro concesso, sempre uguale e immutabile come un destino, i personaggi se ne vanno, mentre gli attori fuggono terrorizzati per la morte dei due ragazzi, dopo avere tentato, precedentemente, invano di rappresentare la loro parte, e il Capocomico riconosce la propria incapacità di realizzare il dramma.

La novità dell’opera consiste nell’impossibilità di mettere in scena un dramma, poiché ognuno è condizionato dalle proprie opinioni e dai propri sentimenti e perciò incapace, essendo relative le visioni individuali, di comprendere appieno quelle degli altri.
Questa opera è uno dei capolavori del teatro pirandelliano, anche dal punto di vista tecnico-strutturale, per il rifiuto della scena convenzionale e per l’eliminazione dello spazio teatrale, come spazio distinto da quello della realtà.
Da quanto espresso i personaggi pirandelliani non conoscono l’illusione e il loro autore li nutre più di angosce che di speranze. Essi si muovono in un universo problematico, che ammette la negazione, ma non impedisce loro la rivolta contro se stessi prima, che contro gli altri, perché non solo la realtà esterna all’uomo è contraddittoria e meschina, ma anche quella interna psichica e intellettiva.
Nasce così la teoria tipica della vita, come flusso continuo, inarrestabile, contraddittorio, relativo, che ripropone il drammatico contrasto tra vita e forma. La realtà è molteplicità di cui riusciamo a cogliere solo singole forme che pretendiamo di fissare. Tutto questo lo sanno bene i personaggi “in cerca d’autore” di Pirandello, i quali si sentono vivere ma non possono veder realizzata la loro condizione. Non bisogna pensare che il complesso delle idee, proprie dello scrittore, sia il frutto di una pura e personale elaborazione intellettuale; ma elementi molto complessi e storicamente individuabili hanno favorito la sua grande e unica personalità: vicende di vita privata e familiare, le condizioni civili della nazione, la tragica esperienza della follia della moglie, la considerazione e la sofferenza della crisi della società italiana prima, durante e dopo la guerra.
Infatti l’atteggiamento di Pirandello nei riguardi della vita, dell’uomo e del mondo può essere definito relativismo applicato alla conoscenza della verità, poiché non è possibile conoscere  la verità  per il semplice motivo che ne esiste una sola; quelle che si conoscono sono “tante verità”, tante quante sono gli individui che la cercano. La conseguenza del relativismo filosofico è il relativismo psicologico che è legato al cambiamento dei nostri stati d’animo a seconda degli ambienti e delle situazioni in cui ci troviamo. E così la continua diversità e il mutare degli stati d’animo favoriscono nell’individuo la frantumazione dell’Io nella speranza di ritrovare la propria identità.

A questa concezione della vita se ne collega una dell’arte, che Pirandello cerca di definire teoricamente in uno suo saggio “L’Umorismo” del 1908.  “Umorismo” per lui è il sentimento del contrario, cioè la compresenza del poeta e del critico nello stesso uomo. In un primo momento afferma Pirandello, di fronte a tanti casi della vita noi proviamo “l’avvertimento del contrario”, cioè la comicità. In effetti quando avvertiamo il contrasto tra l’essere e l’apparire, tra sostanza e forma, ridiamo.
Ma se siamo capaci di passare dall’avvertimento al sentimento del contrario, cioè se siamo capaci di vedere nello stesso tempo la maschera e il volto, l’esterno e l’interno dell’uomo, non ridiamo più. Tutto questo avviene, chiaramente, attraverso la riflessione. Ecco perché lo scrittore prova pietà per i suoi personaggi, vittime dell’assurdità della vita e prova per loro una dolorosa fraternità.
Il passo che meglio esprime ciò che Pirandello intende per umorismo e comicità è il seguente:
 



“Vedo una vecchia signora, coi capelli ritinti, tutti unti di non si sa quale orribile manteca [pasta grassa usata come cosmetico], e poi tutta goffamente imbellettata [truccata con cipria e rossetto] e parata d’abiti giovanili. Mi metto a ridere. Avverto che quella vecchia signora è il contrario di ciò che una vecchia rispettabile signora dovrebbe essere. Posso così, a prima giunta e superficialmente, arrestarmi a questa impressione comica. Il comico è appunto un avvertimento del contrario. Ma se ora interviene in me la riflessione, e mi suggerisce che quella vecchia signora non prova forse nessun piacere a pararsi così  come un pappagallo, ma che forse ne soffre e pietosamente s’inganna che, parata così, nascondendo cioè le rughe e la canizie [i capelli bianchi], riesca a trattenere a sé l’amore del marito molto più giovane di lei, ecco che io non posso più riderne come prima,perché appunto la riflessione, lavorando in me, mi ha fatto andar oltre a quel primo avvertimento, o piuttosto, più addentro: da quel primo avvertimento del contrario mi ha fatto passare a questo sentimento del contrario. Ed è tutta qui la differenza fra il comico e l’umoristico.”
 

 


In conclusione, non c’è una spiegazione valida per comprendere il male di vivere dei personaggi pirandelliani anche se lo scrittore attribuisce la responsabilità di tutte le catene che imprigionano l’uomo alla storia e al caso. Tale processo si manifesta in particolare nel romanzo “I vecchi e i giovani”, dove l’autore affronta il problema della società italiana in una dimensione storica. Infatti esso è incentrato sull’amara delusione post-risorgimentale, sul conflitto tra la vecchia generazione e la nuova, sul fallimento degli ideali di libertà e di rinnovamento.  
In nessun altro autore, più che in Pirandello, si può cogliere meglio il passaggio dal razionalismo all’irrazionalismo, in quell’attimo improvviso di creazioni capaci di rendere istante in cui il subconscio diventa conscio, in cui l’ignoto diventa noto.

 

UN GRAND’UOMO CHIUDE GLI OCCHI

 

    “ [….] 
Tornato di là, fra la gente sempre più fitta e curiosa, il figlio mi mostrò mezzo foglio d’una carta da lettere che conteneva le sue ultime volontà. La scrittura, per chi la conosceva, era di qualche anno prima, la carta appassita e risecchita. Conteneva quelle volontà senza consolazione, senza rapporti, senza rimedio, di andarsene sul carro dei poveri, di non essere accompagnato da nessuno, di essere disperso al vento con le sue ceneri, o di riposare in quella sua casetta del Caso, o del Caos come egli diceva, presso Agrigento. Se ne andava solo come era sempre stato. Arrivò il rappresentante del Governo e lesse sbalordito quel mezzo foglio in cui la scrittura era sicura come forse era stata sicura soltanto nei suoi manoscritti giovanili, sicura, perentoria, compiuta. Che ne fosse sconcertato il sacerdote si capiva. Costui si dibatteva nella sua perplessità: solo Dio poteva avere misericordia dell’uomo che disponeva di essere bruciato e disperso.
Ma chi era fuori di sé e per tutt’altre ragioni, era il rappresentante del Governo. Lesse e rilesse quel foglio, se lo copiò, e si domandava come avrebbe fatto a presentarlo al suo Capo. Un grande uomo, un uomo celebre che va via a quel modo, chiudendosi la porta alle spalle, senza un saluto, senza un pensiero, senza un omaggio, chiedendo di essere coperto appena di un lenzuolo ma con nessuna uniforme, andare via senza commemorazioni, senza feste. Il rappresentante del Governo era una brava persona, ma doveva rispondere al suo Capo di non poter raggiungere un uomo nella morte. Di fronte alla confusione di quel funzionario, c’era da misurare una condizione umana, e veniva fatto di invidiare colui che se ne era andato a quel modo, rifiutando quegli onori per cui gli artisti vanitosi si compiacciono di contemplarsi perfino nel nulla, e sfidando le vendette che si potevano fare sulla sua memoria. E fu istruttivo, in quelle ventiquattr’ore, sapere che sul tavolo del più potente si battevano indignati i pugni, che ufficialmente era negato allo scomparso un discorso maggiore di quello consentito a un fatto di cronaca; autore appena perdonato di un racconto allusivo col titolo “C’è qualcuno che ride”, egli annunziava ora il nulla a tutta la gloria e a tutta la potenza, era lui che rideva. Quell’uomo, nel punto supremo del suo destino terreno, affermava di essere libero e solo. Affermò di poter essere libero finalmente nella morte. Fu una cosa che, tutti sentirono, anche se non se ne spiegarono il valore profondo di riparazione a ogni possibile errore o debolezza.
Il giorno seguente, la nebbia infradiciava gli ultimi fiori secchi di quel giardinetto dietro a quel cancello di via Antonio Bosio. Un povero cavallo attaccato al carro dei poveri era fermo sulla strada bagnata, tutto puntato in avanti per non sdrucciolare. Veniva fatto di scorgere ogni cosa come il caro maestro l’avrebbe guardata. La bara di abete tinto di fresco con una mano di terra bruna fu collocata sul carro, e i pochi amici rimasero fermi davanti al cancello a vederla partire sola verso gli alberi brumosi in fondo al viale. Uno accanto a me si mise a lacrimare confusamente come un bambino. Aveva i capelli grigi. Il carro scomparve all’angolo, con la sua rozza che lo tirava di traverso. Tornammo per la città coi suoi rumori attutiti dalla nebbia e pareva di udirla in uno stato di stordimento. Nell’autobus, un individuo sedette davanti a noi. Non si accorgeva di avere sulla spalla destra una striscia di terra bruna, da cui lo riconoscemmo per uno dei portatori. Lo guardammo scendere, perdersi tra la folla di un quartiere popolare, dopo il primo guadagno della sua giornata.”

 

Corrado Alvaro
(dal “Corriere della sera” del 22-12-1946)

 

Fonte: http://tesinepronte.perdomani.net/materiali/tesine/tesinecomplete/pirandello.doc

Sito web da visitare: http://tesinepronte.perdomani.net

Autore del testo: Ponyedyelnik Anna

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