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LUIGI PIRANDELLO
La vita, gli studi, il lavoro
NOTIZIE BIOGRAFICHE
Narratore, drammaturgo, poeta, saggista, Luigi Pirandello ha saputo dapprima assimilare e poi rinnovare la tradizione letteraria ottocentesca, affermando sempre più decisamente la sua radicale novità di invenzione e scrittura soprattutto nei romanzi e nelle opere teatrali.
Nato in Contrada del Caos, nella campagna tra Girgenti (dal 1927 ribattezzata Agrigento) e Porto Empedocle, il 28 giugno 1867, studia a Palermo e Roma prima di trasferirsi a Bonn, dove si laurea nel 1891 con una tesi in lingua tedesca sulla fonetica del dialetto girgentino. Tornato a Roma Tanno seguente, viene introdotto dal verista Luigi Capuana, lui pure siciliano, negli ambienti letterari e giornalistici della capitale, dove si stabilisce definitivamente con la moglie Maria Antonietta Portulano, sposata a Girgenti nel 1894.
Dal 1897 insegna all'Istituto Superiore di Magistero e da numerose lezioni private; la nascita di tre figli, le difficoltà economiche causate da un allagamento nella miniera dove aveva investito tutti i suoi averi, e la malattia mentale della moglie lo costringono a un lavoro frenetico: in particolare collabora a lungo con il "Corriere della Sera" e pubblica novelle a pagamento in molte riviste e giornali. In una vita interamente dedicata alla scrittura, al teatro e all'organizzazione teatrale, pochi sono i fatti esterni notevoli che non riguardino l'intensissimo e fortunato ritmo lavorativo: nel 1924 (poco dopo il delitto Matteotti) l'adesione al Partito nazionale fascista; nel 1925 la fondazione di una propria compagnia teatrale (il Teatro d'Arte di Roma, con Massimo Bontempelli, Alfredo Oriani, Giuseppe Prezzolini ecc.), con la quale mette in scena le proprie opere teatrali in Italia e all'estero. D'ora in poi saranno frequenti i viaggi all'estero, anche in America, sulla scia del grande successo
cifrabili, ritmi e luoghi della coscienza più che della realtà. L'abolizione di molti passaggi logici e riferimenti espliciti, la tendenza a entrare subito nel vivo dell'azione senza approcci intermedi, l'andamento colloquiale e frantumato della narrazione, l'ampio uso di monologhi e dialoghi dal forte timbro teatrale sono ulteriori elementi che contribuiscono a rivelare l'ardua novità della prosa narrativa pirandelliana. Autore multiforme e fecondo, Pirandello sperimentò nella
sua lunga e tormentata carriera quasi tutti i generi lettera-ri, passando dalla primitiva consonanza con il verismo alla narrativa e al teatro "umoristici", di dissoluzione della personalità e disgregazione del mondo oggettivo. I temi principali della sua vastissima opera sono appunto la crisi dell'uomo e la sua irrimediabile solitudine; l'insanabile contrasto fra apparenza e realtà; l'indagine continua dell'interiorità sdoppiata e ingannevole; l'illusorietà dei valori politici e religiosi e dell'assetto sociale.
L'esordio narrativo: le novelle
L'esordio pirandelliano è duplice: in versi, con varie raccolte di stampo carducciano e goethiano (alla poesia tornerà ancora con Fuori di chiave nel 1912 e con altri testi pubblicati postumi), e in prosa con le prime novelle, che rimandano alla letteratura rusticana di Verga e di Capuana (Bozzetto siciliano è il sottotitolo della prima novella, pubblicata sulla "Gazzetta del Popolo della Domenica" nel 1884, mentre inizia una collaborazione con il "Corriere della Sera" destinata a durare fino al 1936).
La ricchezza dei temi nelle novelle pirandelliane
Le novelle (oltre duecentocinquanta nella sistemazione definitiva) costituiscono un genere letterario particolarmente frequentato da Pirandello, che vi rimane fedele per oltre cinquantanni: fucina di situazioni, temi e personaggi destinati spesso a rivivere in commedie e romanzi successivi, esse si diversificano tra loro anche per le scelte stilistiche: si passa infatti dai moduli veristici delle prime raccolte allo psicologismo amaro, all'umorismo lucido e disincantato, alla presenza del "mito" e dell'inconscio nelle raccolte degli anni venti e trenta, fino al limite del surrealismo di alcuni testi dell'ultimo periodo. Nel 1922 Pirandello decide di raccoglierle in ventiquattro volumi, ognuno di quindici novelle; scrive nella Premessa: «Raccolgo in un sol corpo tutte le novelle pubblicate finora in parecchi volumi e tant'altre inedite, sotto il titolo Novelle per un anno che può sembrar modesto e, al contrario, è forse troppo ambizioso [...] l'autore delle Novelle per un anno spera che i lettori vorranno usargli venia, se dalla concezione che egli ebbe del mondo e della vita troppa amarezza e scarsa gioja avranno e vedranno in questi tanti piccoli specchi che la riflettono intera». Il progetto rimane interrotto alla morte dell'autore, quando sono stati pubblicati quattordici volumi: il quindicesimo esce postumo nel 1937.
l'evoluzione stilistica nelle novelle La struttura stilistica si modifica gradualmente, di volume in volume, da un verismo assai vicino a quello dei grandi maestri catane-si, verso una sempre più spiccata lucidità raziocinante, fino al monologo interiore delle ultime prove. E sempre più i personaggi tendono a "entrare in scena", facendosi personaggi teatrali, rappresentanti di un microcosmo paradossale, privo di organicità e coerenza. L'ordine delle novelle nei volumi non è mai cronologico né tematico, proprio perché deve riprodurre la casualità e caoticità del reale, lo sperpero insensato dei giorni e degli anni, dei ruoli e dei rapporti umani. I protagonisti sono uomini e donne «senza qualità», antieroi dediti a un'esistenza che si accampa grigia e irrigidita in un susseguirsi di dettagli, di frammenti privi di senso. Anche la loro rivolta è quasi sempre inutile, la loro ricerca di significato impossibile: essi si aggirano in una sorta di labirinto, da cui solo la pazzia o la diversità li può - almeno in parte - liberare.
La possibilità di una narrazione condensata e articolata in forme quasi sofistiche, l'ampio margine concesso alla sperimentazione stilistica di questo genere rispetto ad altri più collaudati, spiegano l'interesse dell'autore per la novella, che costituisce presso il pubblico il biglietto di presentazione più apprezzato, almeno fino all'affermazione del grande teatro degli ajmi venti.
Bisogna anche ricordare che moltissime novelle vennero utilizzate per la costruzione di testi teatrali, specialmente atti unici, fungendo quindi da serbatoio di temi e personaggi che, dopo un'opportuna "decantazione" narrativa, potevano affrontare le scene (cfr. Riferimenti e confronti, p. 141).
L'approdo al romanzo
l'esclusa L'approdo al romanzo è sollecitato da Luigi Capuana, che invoglia Pirandello a scrivere, nel ritiro di Monte Cavo, Marta A/ala; iniziato già nel 1893, viene pubblicato però soltanto nel 1901 con un nuovo titolo, L'esclusa, che non solo evidenzia i difficili rapporti della protagonista, Marta Ajala, con il marito e con il padre, ma fecalizza anche un tema-chiave, tipicamente novecentesco, come «l'esclusione», ovvero l'estraneità dei personaggi pirandelliani rispetto alla società in cui vivono, ferocemente descritta nei suoi assurdi pregiudizi e nelle sue rigide chiusuinternazionale come drammaturgo (pur tra i contrasti e le polemiche, che non mancano). Pirandello è in questo periodo il nostro autore più noto all'estero, e lavora con grandi registi come Max Reinhardt in Germania e Brock Pemberton negli Stati Uniti. L'incontro con la giovane attrice Marta Abba, teneramente amata, segna una tappa importante per Pirandello, che la promuove al ruolo di primadonna nella rappresentazione delle sue opere teatrali; il riconoscimento dei suoi grandi meriti giunge nel 1929 con la nomina ad Accademico d'Italia, e nel 1934 con l'assegnazione del Premio Nobel.
Pirandello muore di polmonite il 10 dicembre 1936 a Roma. Le sue ultime volontà chiedono un funerale nudo e spoglio, la cremazione del corpo e la dispersione delle ceneri, o tutt'al più la loro chiusura «in qualche rozza pietra nella campagna di Girgenti».
il SUPERAMENTO DEL NATURALISMO E LA RAPPRESENTAZIONE
DELLA CRISI
pirandello inizia a dedicarsi al romanzo quando sono ancora attivi gli autori veristi, e apparentemente le sue prime opere sembrano inscriversi appunto in questo filone. Ma ben presto è chiaro che la somiglianzà è più esterna che sostanziale, e che dall'interno è già in atto una corrosione delle forme obiettive e realistiche tipiche del verismo, attraverso la moltiplicazione dell'ottica narrativa e la rottura della linearità del racconto. Agli eventi si sovrappone continuamente, complicandone la percezione, la riflessione sulla loro genesi e sul loro svolgimento. E i temi centrali sono probanti dell'antinaturalismo: la continua riflessione sull'identità in crisi, sullo sdoppiamento, sulla follia, sul contrasto realtà/apparenza ecc. Anche l'ordine spaziale e la concatenazione cronologica vengono stravolti e resi talora enigmaticamente inde-
re. È la vicenda paradossale di una donna, Marta Ajala, cacciata di casa perché accusata ingiustamente di tradimento, che dopo varie peripezie viene riaccolta, proprio quando ha effettivamente commesso l'adulterio. In questo romanzo, Pirandello anticipa la riflessione sulla crisi d'identità, che costituirà uno dei filoni tematici della sua produzione successiva, in ambito sia narrativo sia teatrale. L'ottica apparentemente verista con cui è raccontata la vicenda non deve ingannare circa il carattere dell'opera, nella quale (come scrive Pirandello nella lettera dedicatoria a Capuana) «scene drammatiche non difettano [...] quantunque il dramma si svolga più nell'intimo dei personaggi. Il fondo [...] essenzialmente umoristico del romanzo è scrupolosamente nascosto sotto la rappresentazione affatto oggettiva dei casi e delle persone». Insomma, la vicenda che vede vittima Marta Ajala è sì dovuta al nesso causa-effetto, ma scaturisce paradossalmente da un fatto inesistente, il tradimento, che tuttavia finisce per produrre conseguenze reali. Il paradosso della narrazione giustifica il giudizio di Pirandello sul «fondo [...] umoristico del romanzo». Ma sul concetto centrale di «umorismo» di Pirandello torneremo più avanti. Come annota ancora l'autore, è «lasciata ai personaggi la piena illusione ch'essi agiscano volontariamente, mentre una legge odiosa li guida o li trascina, occulta e inesorabile; e fa sì che un'innocente, scacciata dalla società - per esservi riammessa - debba prima passare sotto le forche dell'infamia, commettere cioè davvero quella colpa di cui ingiustamente era stata accusata».
Il TURNO E IL RIBALTAMENTO "UMORISTICO" DEL VERISMO
secondo romanzo, o racconto lungo, è II turno, composto verso il 1895 e pubblicato a Catania nel 1902: «Gajo, se non lieto [...] rappresenta uomini e casi della vita di città [...] in quel lembo di Sicilia, dove anch'io son nato», afferma l'autore ristampandolo nel 1915. Il titolo allude all'attesa cui è costretto il protagonista prima di poter sposare la donna amata, che il padre spinge a un matrimonio di interesse con un ricco ultrasettantenne. Il verismo pirandelliano risulta qui disarticolato o addirittura rovesciato, in quanto i temi tragici dell'amore e del tradimento, della "roba" e dell'onore vengono completamente sfatati, mentre il narratore contempla con sguardo già da "umorista" i progetti falliti del protagonista e il sovrano governo del caso su tutte le vicende umane. Il dominio del dialogo, di impianto già teatrale, a scapito delle parti descrittive, dissolve l'impalcatura del romanzo verista, aprendo la strada al suo superamento.
Il fu Mattia Pascal e L'umorismo
il fu mattia pascal: la forma narrativa disarticolata
La consacrazione letteraria giunge a inizio secolo con il terzo romanzo, II fu Mattia Pascal.
Scritto in uno dei periodi più tormentati della vita di Pirandello (tra pesanti preoccupazioni economiche e l'aggravarsi dei problemi psichici della moglie), il romanzo fu pubblicato a puntate sulla "Nuova Antologia" tra il 16 aprile e il 16 giugno 1904 e immediatamente dopo in volume per la stessa rivista. Fu riedito nel 1910e nel 1918 presso Treves con tagli e puntualizzazioni che giovano a una maggior aderenza alla poetica delT«umorismo»; nel 1921 Bempo-rad lo ripubblicò con l'aggiunta di un'Avvertenza sugli scrupoli della fantasia, che avrebbe dovuto, secondo l'autore, rispondere alle critiche suscitate. Il romanzo narra la vicenda di un uomo che, oppresso da una situazione familiare insostenibile, approfitta di un'inattesa vincita a Montecarlo e del ritrovamento di un suicida erroneamente identificato come Mattia Pascal stesso, per cambiare nome e vita. A Roma egli diventa Adriano Meis, cambia perfino i connotati: ma si accorgerà ben presto dell'impossibilità di esistere al di fuori di ogni norma e legge. Deciso quindi a ritornare a Miragno, il paese natale, inscena un nuovo finto suicidio: ma presentandosi alla moglie e ai compaesani scopre di essere ormai totalmente emarginato e alienato. Per sopravvivere deve adattarsi a essere unicamente 'A fu Mattia Pascal, ritagliandosi un'identità a rovescio, come di un redivivo sopravvissuto a se stesso. Personaggio plurimo e paradossalmente morto resuscitato, il protagonista dichiara esplicitamente l'inconoscibilità del reale, la totale casualità degli eventi, la definitiva caduta del mito della scienza.
I diciotto capitoli con brevi titoli (raccontati in prima persona dal protagonista) possono scandirsi in tre blocchi narrativi: i capitoli 1-5, dove prevale la descrizione comico-satirica della "prima vita" di Mattia Pascal; i capitoli 6-16, quelli della "prima morte", dell'evasione fantastica di Mattia, che si trasforma in Adriano Meis; i capitoli 17-18, dove avviene la "reincarnazione" del fu Mattia Pascal. Con questo romanzo Pirandello chiude definitivamente i conti con naturalismo e verismo. Infatti anche se in apparenza non si nota una grande differenza di tecniche di scrittura rispetto ai maestri veristi, accade tuttavia in Pirandello che i loro schemi siano utilizzati con un'ironia tagliente, che viene a ribaltarne la valenza; e alla fine risulta chiaramente l'impossibilità di analizzare e riprodurre la realtà in maniera oggettiva, e quindi la totale disintegrazione del protagonista.
L'identità perduta di Mattia Pascal
Mattia Pascal, l'uomo senz'ombra, l'«inetto a tutto», «attore di una tragedia che più buffa non si sarebbe potuta immaginare» (come si legge nel quinto capitolo), narra la propria vita dal momento successivo alla sua perdita di identità. Non più persona, ma "personaggio", egli scopre l'impossibilità della libertà assoluta e il fallimento inevitabile della sua velleitaria rivolta contro la società. Eroe sdoppiato (anzi, triplicato), Mattia scrive un'autobiografia
doppiamente evanescente, molteplice e sfuggente: partito dalla coscienza della propria identità («Una delle poche cose, anzi forse la sola che sapevo di certo era questa: che mi chiamavo Mattia Pascal»), egli approda infine alla cancellazione del nome, cioè di ogni sua conoscenza. La novità principale del romanzo risiede soprattutto nella rivoluzione strutturale operata attraverso lo smontaggio della dimensione cronologica (fino ad allora fondamentalmente rispettata nei romanzi), che porta a un cortocircuito fra il tempo "oggettivo" della storia e quello "soggettivo" del personaggio, per il quale il passato è solo memoria frammentaria (o addirittura falsa, come nel caso di Adriano Meis, che è semplicemente «un uomo inventato»). E il presente stesso sfugge, in quanto non può essere vissuto pienamente da un uomo privo di identità personale; anche il futuro è quindi privo di sbocchi. Prevale invece nel romanzo un tempo circolare, per cui la vicenda torna infine all'inizio, sottolineando l'identità vuota di Mattia Pascal e di Adriano Meis.
Una problematica centrale per capire a fondo la produzione pirandelliana è la poetica delT«umorismo», che l'autore elabora compiutamente un po' più avanti, tra il 1906 e il 1908, ma che conviene qui anticipare.
l'umorismo: la definizione del «sentimento del contrario» Scritto fra il 1906 e il 1908 per il concorso a ordinario di stilistica, il saggio sull'Umorismo fu pubblicato in parte su varie riviste nel 1907 e nel 1908, e globalmente in quell'anno a Lanciano dall'editore Carabba, con un'ironica dedica «Alla buon'anima di Mattia Pascal - bibliotecario». Fu poi riedito nel 1920 a Firenze da Battistelli, con ulteriori correzioni e aggiunte, soprattutto in risposta alla stroncatura crociana del 1907.
Vi si possono distinguere due parti, una più "scientifica" in sei capitoli, che analizza il concetto di umorismo nei secoli; un'altra più mossa e personale, in sei paragrafi, intitolata Essenza, caratteri e materia dell'umorismo, che tende prevalentemente a giustificare e chiarire la poetica pirandelliana. Vi si afferma che la nuova arte "umoristica" deve scaturire dalla percezione dell'insanabile contrasto fra la realtà e le affettuose illusioni di cui gli uomini l'ammantano, nel «sentimento del contrario» che fa percepire tutta l'assurdità delle vicende umane.
In polemica con Benedetto Croce, Pirandello ribadisce il ruolo insostituibile della riflessione nel concepimento e nell'esecuzione dell'opera d'arte; immaginazione, riflessione e sentimento sono per lui i canoni imprescindibili per la rappresentazione di un mondo caotico e dilacerato, che solo nell'atto creativo trova una - sia pur parziale - motivazione. E come il mondo è secondo Pirandello alienato e contraddittorio, così l'uomo pirandelliano risulta disgregato, fallimentare, incomprensibile: «La presunta unità del nostro io - scrive Pirandello in un saggio pure del 1908, Arte e Scienza - non è altro in fondo che un aggregamento temporaneo scindibile e modificabile di vari stati di coscienza più o meno chiari».
La rottura con la tradizione
II saggio rompe in maniera netta con la tradizione e propone un radicale anticlassicismo: un'arte nella quale «le immagini [...], anziché associate per similazione o per contiguità, si presentano in contrasto»; un'arte quindi programmaticamente scomposta e disarmonica che fa stridere i contrasti anziché sanarli. Lo scrittore "umorista" che Pirandello presenta (e nel quale identifica anzitutto se stesso) disgrega la realtà, ne sovrappone una opposta che nega la prima: il mondo rappresentato si rivela allora in tutta la sua assurdità e incongruenza, come sistema di anomalie e contraddizioni. Ma nell'arte "umoristica", al semplice avvertimento del contrario, cioè alla percezione di un'anomalia che suscita il riso, si sostituisce il sentimento del contrario, che provoca simultaneamente riso e pianto, odio e pietà, sentimenti ambigui e ambivalenti (si veda l'episodio della «vecchia signora»). Leggiamo a chiarimento quanto scrive Pirandello in una lettera a Ugo Ojetti del febbraio 1909: «Se tu puoi ridere d'un contrario, o sdegnartene, o fingere di lodarlo con grazia mordace: vuoi dire che tu non solo lo senti, fino a piangerne, questo contrario che ti fa ridere: e, mancandoti il sentimento di esso, ne farai una rappresentazione comica,
Il saggio si chiude sulla citazione dei due archetipi dell'arte umoristica (che saranno presenti peraltro anche in Uno, nessuno e centomila): lo Sterne del Tristram Shandy, «che è tutto quanto un viluppo di variazioni e digressioni», e il Chamisso della Meravigliosa storia di Peter Schlemihl, l'uomo che vende al diavolo la propria ombra e finisce emarginato e reietto dalla società.
Alla luce di questo snodo fondamentale si capisce meglio il senso profondo del Fu Mattia Pascal, che anche dal punto di vista stilistico risponde alla poetica dell'«umori-smo», in quanto rifiuta la mediazione del narratore esterno e onnisciente, sostituendolo con un narratore dubbioso e autoironico, che frantuma costantemente la realtà autobiografica fino a renderla irriconoscibile. Ne scaturisce una narrazione straniata, una struttura a più piani intrecciati, dove si combinano il "viaggio in avanti" della peregrinazione, fuga ed evasione, con il "viaggio a ritroso" della ricerca di sé, dell'avventura esperienziale del protagonista.
La stagione di Pirandello romanziere continua con I vecchi e i giovani, scritto fra il 1906 e il 1908, apparso prima a puntate tra gennaio e novembre 1909 sulla "Rassegna contemporanea" (ove rimase però interrotto), pubblicato poi integralmente, con modifiche, nel 1913 da Treves e in edizione definitiva e rielaborata solo nel 1931 da Mondadori. Come afferma Pirandello stesso, è «il romanzo della Sicilia dopo il 1870, amarissimo e popoloso romanzo, ov'è racchiuso il dramma della mia generazione». Riprendendo la violenta polemica dei Viceré derobertiani (1894), Pi-randello denuncia il fallimento delle speranze risorgimentali, delle illusioni di riscatto nutrite, specialmente in Sicilia, dopo l'Unità. Ponendo sullo sfondo della vicenda la ribellione contadina e operaia dei Fasci siciliani e lo scandalo della Banca Romana, egli evidenzia il declino dell'idea risorgimentale di Stato e la delusione delle masse nei confronti del movimento socialista. La repressione dei Fasci segna la vittoria della nuova borghesia imprenditoriale, priva di ideali patriottici, cinicamente estranea a ogni ricerca di giustizia: il proletariato è dunque irreparabilmente sconfitto e il ceto vittorioso non si regge sugli antichi valori di civiltà, ma sulla ricerca del profitto e sullo sfruttamento.
Romanzo storico, I vecchi e i giovani sviluppa pure un'attenta analisi sociologica della crisi, e rileva come il corso della storia, opponendosi alle vicende individuali (a essa inconciliabili), manifesti tutta la sua assurdità e caoticità.
Il dramma intcriore dei personaggi
Spesso considerato un'opera minore, quando non addirittura un passo falso nella produzione narrativa pirandellia-
Suo marito e Si gira.
UNA SATIRA DELLA FAMA LETTERARIA
randelliano è pubblicato nel 1911 con il titolo Suo marito, e postumo nel 1941 come Gustino Roncella nato Boggiòlo. Presenta il personaggio di Silvia Roncella, artista che tenta di affermarsi nella Roma salottiera e mondana d'inizio secolo, aiutata da un marito che ne cura l'immagine pubblica; la figura della protagonista si vuole ricalcata su quella della ro-manziera sarda Grazia Deledda, che viveva a Roma e frequentava l'autore. Il romanzo è in un certo senso bifronte: da un lato vi è ridicolizzato l'ingenuo impegno "manageriale" di Boggiòlo, dall'altro viene seguito accuratamente il caso umano e artìstico della donna, divisa nei ruoli inconciliabili di scrittrice e moglie/madre.
Ambientato nella Roma dei pettegolezzi e degli scandali, del perbenismo e della corruzione (aspetto che la capitale aveva già assunto nel Fu Mattia Pascal e nella seconda parte de I vecchi e i giovani], il romanzo è una condanna della nuova figura dell'agente letterario e del ruolo della nascente industria culturale.na, il romanzo si inquadra invece molto bene nella ricerca esistenziale e artistica dell'autore. Dal dramma storico rappresentato nei Vecchi e i giovani deriva anche il dramma intcriore e privato dei personaggi che, cogliendo attraverso gli eventi della vita pubblica la degradazione dei valori del mondo moderno, arrivano a percepire il non senso della vita stessa e lo svanire sia dell'identità individuale sia di una visione unitaria del mondo. Ambientato tra la Sicilia e Roma, nel periodo che va dal settembre 1892 al gennaio 1894, il romanzo presenta due gruppi antitetici di personaggi: da una parte i "vecchi", cioè i garibaldini Stefano Auriti e Mauro Mortara, i fratelli borbonici Ippolito e Cosimo Laurentano, e la loro sorella Caterina, vedova di Stefano Auriti; dall'altra parte i "giovani" Lando Laurentano (figlio di Ippolito), Aurelio Costa, Daniella Salvo (figlia di un ricchissimo proprietario di solfare) e uno sparuto gruppetto di audaci sognatori socialisti (tra cui Roberto Auriti, figlio di Stefano), che sperano di riscattare con la loro ideologia la «oltracotante oppressione dei vecchi». Nella prima parte del romanzo, che si svolge a Girgenti, si assiste alla lotta tra questi due gruppi; nella seconda parte, sullo sfondo prevalente di una Roma degradata e corrotta (antitetica alla Roma "bizantina" cantata da D'Annunzio), si consuma la tragedia: muore Aurelio Costa, nel vano tentativo di sedare la rivolta nelle solfare del Salvo; viene arrestato Roberto Auriti; il vecchio garibaldino Mauro Mortara viene ucciso dai soldati accorsi nell'occasione, che non si accorgono della sua volontà di collaborare. E con lui muore la speranza di un riscatto della Sicilia e di una possibilità autentica e reale di progresso.
con Si gira... un'accusa alla civiltà delle macchine
Polemico verso la nuova cultura del divismo cinematografico e verso la civiltà delle macchine è anche Si gira..., il romanzo scritto nel 1914, pubblicato nel 1915 su "Nuova Antologia" e nel 1916 in volume (poi in parte riscritto con il nuovo titolo di Quaderni di Serafino Gubbio operatore nel 1925) in occasione della nuova edizione presso Bem-porad.
Il testo propone le vicende di Serafino Gubbio, operatore di macchina nella Casa cinematografica Kosmograph, dove vengono prodotti film banali, ma di sicuro "ritorno" economico. Attento osservatore delle novità che il nuovo mezzo espressivo impone, Serafino con apparente indifferenza osserva le vicende di attori e attrici sul set di un film in cui deve essere uccisa realmente una tigre. Ma quando l'attore spara invece alla prima attrice, restando sbranato dalla tigre, Serafino perde la parola per il trauma subito; e resterà per sempre soltanto «una mano che gira la manovella», interrompendo definitivamente la scrittura.
Una dura critica alla società industriale
Si gira... è un'opera di straordinaria attualità che, smitizzando il falso progresso della società industriale, ne dimostra in pieno l'alienazione, la frenesia, la falsità, stigmatizzando «la vita ingoiata dalle macchine [...] questa vita, che non è più vita». E per descrivere con allucinata lucidità questa non-vi-ta, questa esistenza fagocitata dalla civiltà, Pirandello attua una registrazione della realtà impassibile e monocorde: quella del diario scritto da Serafino Gubbio quasi per vendicarsi del mondo delle macchine che lo ha annullato, ridotto a «silenzio di cosa». Romanzo-diario e romanzo-saggio a un tempo, Si gira... contiene in sé anche il motivo del passaggio definitivo di Pirandello al teatro: proprio per approdare da una riproduzione morta di immagini, qual è per lui il cinema, alla riproduzione d'immagini vive, di personaggi reali, quale può offrire il teatro. La guerra sopraggiunge a segnare profondamente la crisi ideologica in cui Pirandello già si dibatteva: il tramonto del vecchio mondo risorgimentale, che aveva fallito il rinnovamento propostosi, è accompagnato dal sorgere di un nuovo mondo altrettanto alienante, quello delle macchine, delle megalopoli, del totalitari-
smo.
Liberatosi definitivamente dell'impianto naturalistico, Pi-randello approda con questo romanzo alla struttura diari-stica e monologante che sarà anche di Uno, nessuno e cen-tomila. In particolare qui è presente un soliloquio teso e polemico, che con ostinazione ribadisce la visione pessimistica e fatalista di Pirandello, il quale lancia un ulteriore atto di accusa e di protesta contro la civiltà contemporanea. Il protagonista-narratore instaura un serrato e aggressivo dialogo con il lettore, che a ogni costo vuoi convincere della propria tesi, quella dell'inevitabile alienazione dell'uomo moderno nella civiltà delle macchine. E chiara in ciò la netta opposizione alle contemporanee teorie futuri-ste, tese a celebrare la macchina, il mondo industriale, la guerra tecnologica.
Uno, nessuno e contomila
LA DESTRUTTURAZIONE DEL PERSONAGGIO E DELLA NARRAZIONE
Sviluppo di Stefano dogli, uno e due, una novella del 1909, l'ultimo romanzo di Pirandello è in gestazione già dal 1910 (come rivela una lettera a Bontempelli), ma la sua stesura si prolunga per quasi undici anni, fino alla stampa nel 1925-26 con il titolo definitivo di Uno, nessuno e centomila. In questa lunghissima permanenza sullo scrittoio pirandelliano, il brogliaccio diviene fonte ricchissima di materiali che vengono man mano riutilizzati per novelle, articoli e drammi. La vicenda è imperniata sulle disavventure di Vitangelo Moscarda, detto dalla moglie Cenge, che scopre, grazie a una casuale battuta, di avere un naso diverso da come se l'era immaginato. Nasce da tale banalissima constatazione una lunga indagine che il protagonista attua per scoprire la propria immagine negli amici e conoscenti: e deve rendersi conto che ognuno lo valuta e lo considera in maniera differente da ogni altro, che lo si vede in "centomila" forme diverse, "nessuna" delle quali, a suo parere, vera. Per sfatare quelli che egli ritiene puri pregiudizi, Vitangelo comincia allora a compiere stravaganze, a ribaltare le decisioni appena prese, fino a essere ritenuto pazzo. E dopo essere stato assolto in un processo intentatogli, decide di allontanarsi dalla società, ritirandosi in un ospizio di mendicità che lui stesso aveva fatto costruire, soddisfatto di questo epilogo che "non conclude", pronto a rinascere «nuovo e senza ricordi: vivo e intero [...] in ogni cosa fuori», come afferma nella conclusione del romanzo.
La rivolta di Vitangelo Moscarda
L'alienazione di Moscarda consiste dunque nell'impossibilità di calarsi in ruoli che egli stesso non conosce, in "maschere" che rifiuta. Cosicché egli giungerà a ricusare ogni confronto con la propria immagine, prolungando nella follia il suo esilio dalla società. Solo distruggendo il proprio passato e l'immagine di sé presente negli altri, infatti, Moscarda può recuperare la «via della salute», fuori dagli schemi e dagli obblighi che la società normalmente impone a tutti. Quel che Mattia Pascal aveva tentato timidamente, non senza titubanza, è realizzato in pieno da Vitangelo Moscarda nella sua consapevole rivolta. Il romanzo «più amaro di tutti, profondamente umoristico, di scomposizione della vita» (così l'autore in una lettera autobiografica) mette in scena il personaggio più carico di autoconsapevolezza dell'intero mondo pirandelliano: Vitangelo Moscarda, che rifiuta ogni certezza precostituita, ogni «forma» che la società voglia imporgli, fino ad assumere i connotati dell'inetto, desideroso solo di tornare «alla freschezza di impressioni, alla duttilità dell'infanzia». Pirandello sembra godere nel decostruire pezzo per pezzo il personaggio, con amara e feroce ironia, fino a renderlo ombra di se stesso; lo si può accostare a Tristram Shandy - il protagonista dell'omonimo romanzo (1760) di Laurence Sterne -, un personaggio raziocinante e anarchico che si svincola definitivamente dalle pastoie della società per ritrovare se stesso. La scansione richiama quella in nove libri attuata da Sterne nel Sentimental Journey (Viaggio sentimentale), anch'esso diviso in capitoletti frantumati con sottotitoli umoristici: si ricordi che tale autore è particolarmente caro a Pirandello, che in varie opere ne riprende la forte carica straniante. In un'intervista del 1922 Pirandello dichiarava a proposito di questo testo: «E il romanzo della scomposizione della personalità. Esso giunge alle conclusioni più estreme, alle conseguenze più lontane. Spero che apparirà in esso più chiaro di quel che non sia apparso finora, il lato positivo del mio pensiero {...]. La realtà, io dico, siamo noi che ce la creiamo: ed è indispensabile che sia così. Ma guai a fermarsi in una sola realtà: in essa si finisce per soffocare, per atrofizzarsi, per morire. Bisogna invece variarla, mutarla, continuamente, continuamente mutare».
LA RITARDATA ATTIVITÀ TEATRALE E IL CONTRASTO FRA TESTO SCRITTO E REALIZZAZIONE SCENICA
Iniziata già a ime
Ottocento, l'attività teatrale occupa in maniera sempre più esaustiva Pirandello a partire dal 1916, dandogli fama in Italia e ancor più sulla scena europea e mondiale. Se la scelta decisiva per tale forma ritarda fino al secondo decennio del Novecento, ciò è dovuto principalmente alla diffidenza verso il mondo degli attori e addirittura al dubbio che il teatro possa avere pieno titolo di forma d'arte. In due articoli pubblicati nel decennio che precede la grande fioritura della sua opera drammaturgica (Inazione parlata, 1899 e Illustratori, attori e traduttori, 1907), Pi-randello aveva infatti teorizzato una diminuzione, addirittura un "tradimento" dell'arte, nel passaggio dal testo teatrale scritto (e prima ancora pensato e "vissuto" dall'autore) alla sua realizzazione concreta sul palcoscenico, dove esso deve fare i conti con la realtà materiale degli attori, dei costumi, della scenografia, della regia teatrale. E dopo esser tornato al teatro anche per fini economici, Pi-randello ribadirà nuovamente la sua condanna con i Sei personaggi in cerca d'autore (1921), attuazione in scena delle sue considerazioni negative sul mondo del teatro. Negli stessi anni afferma: «L'attore deve fare e fa per forza il contrario di ciò che ha fatto il poeta. Rende, cioè, più reale e tuttavia men vero il personaggio creato dal poeta; gli toglie tanto, cioè, di quella verità ideale, superiore, quanto più gli da di quella realtà materiale, comune; e lo fa men vero anche perché lo traduce nella materialità fitti-zia e convenzionale d'un palcoscenico» (L. Pirandello, Teatro e letteratura).
I primi drammi legati al mondo siciliano
Al primo dramma, L epilogo (poi La morsa), seguono via via numerosi testi; ma la scelta definitiva si ha solo nel 1916, quando Pirandello avvia la collaborazione con il commediografo Nino Martoglio e l'attore Angelo Musco, entrambi siciliani. Su loro sollecitazione compone vari drammi umoristici, per lo più tratti da novelle, nella doppia veste italiana e siciliana: Pensaci, Giacomino! (1916), Liolà (1917), II berretto a sonagli (1917), La giara (1917), La patente (1917); e traduce o riduce opere già composte in lingua come Lumìe di Sicilia (1916), La morsa (1917), Tutto per bene (Ccu i nguanti gialli, 1921), U Ciclopu (da Euripide, 1919), Glaucu (da E.L. Morselli). Pur nella consapevolezza dei limiti che l'uso del dialetto comporta (se ne veda un quadro lucidissimo nell'articolo sul Teatro siciliano del 1909), la scelta pirandelliana si giustifica anzitutto come ricerca di una «vivezza» o «natività opportuna che è condizione prima e imprescindibile dell'arte», e che il dialetto può appunto esprimere meglio della lingua; e in secondo luogo come manifestazione e realizzazione di un mondo che urge nello scrittore e preme per venire alla luce, «un povero mondo di bisogni primi, di primi affetti, intimi, originarii, nudi e nude cose, di semplicità elementare, in preda a una necessità fatale» (come si esprime a proposito di Verga nella celebrazione del 1920).
D dramma "umoristico" e il "giuoco delle parti"
Ma questo mondo primigenio e assolutamente semplice comincia quasi subito a complicarsi e a essere contestato in virtù di una visione "umoristica" del reale, quale Pi-randello aveva già teorizzato nel saggio del 1908 e in parte trasferito in novelle e romanzi; il mondo verghiano della "roba", della tradizione, dei ruoli fissi e immutabili, viene capovolto: protagonisti divengono i personaggi "stonati", "fuori di chiave", con la forza del loro ragionamento paradossale, della loro riflessione deformante, con la loro carica provocatoria verso il mondo borghese benpensante.
Dal dramma naturalistico si passa perciò al dramma "umoristico", soprattutto con Se non così (1915), il "mistero profano" All'uscita (edito nel 1916, rappresentato per la prima volta nel 1922), II piacere dell'onestà (1917), Ma non è una cosa seria (1917) e con la "parabola" polemica Così è (se vi pare) (1917). In quest'ultima opera un'intera città si coalizza contro due personaggi colpevoli unicamente di essere "diversi", attuando nei loro confronti un'inchiesta spietata e ossessiva, che infine scopre solo l'inconoscibilità del reale e l'impossibilità per ciascuno di uscire dalla parte che recita di fronte al mondo. Data la sua importanza, cfr. L'Opera, p. 134. Punto d'arrivo di questa fase della produzione teatrale di Pirandello è appunto il "giuoco delle parti": poiché ognuno nella società è inquadrato in una forma immutabile, da cui inutilmente tenta di liberarsi, l'unica possibilità è quella di delegittimare tali ruoli sociali attraverso F«umori-smo», di capovolgerli, di mimetizzarsi in essi. Solamente in questo modo risulta possibile affermare la propria fluida e mutevole realtà ulteriore; e quando la società crede di poterla frenare e imprigionare, al personaggio pirandelliano resta ancora una via di fuga: quella della pazzia, segno di libertà e di assoluto individualismo. Questi meccanismi sono particolarmente evidenti all'interno della famiglia, dove i ruoli parentali e filiali si intersecano, si capovolgono, si sfaldano, in una continua trasgres-sione che diviene la regola di un mondo in crisi. Spesso anzi l'ambiente prescelto da Pirandello è quello chiuso e carico di tabù della Sicilia, di cui viene evidenziato il legalismo ossessivo e puramente esteriore. Oltre a II giuoco delle parti (1918), sviluppano questi temi Linnesto (1919), Luomo, la bestia e la virtù (1919), Come prima, meglio di prima (1920) e La signora Morii, una e due (1920).
Dal teatro "umoristico" al "teatro nel teatro"
II passo successivo è quello in cui viene messa in scena non più la vita, ma il teatro stesso: è il passaggio al meta-teatro, al "teatro nel teatro". Tale formula è esplicitamente adottata nella trilogia comprendente Sei personaggi in cerca d'autore (1921), Ciascuno a suo modo (1924) e Questa sera si recita a soggetto (1930): più che dell'inclusione di una scena in un'altra, si tratta qui di un'invasione quasi incontrollabile, di una violenta intrusione da parte di ciò che era estraneo alla scena. Il personaggio allora, per presentarsi al pubblico, rifiuta sia la mediazione dell'autore, sia quella degli attori, incrinando con ciò stesso la "compattezza" del palcoscenico, della finzione teatrale; dichiara perciò la morte (o quantomeno l'eclissi) del testo, a vantaggio di un semplice canovaccio che decide di gestire in maniera del tutto autonoma rispetto al "creatore" dell'opera d'arte, allo scrittore. Si tratta però di una finzione, in quanto tali commedie sono ancor più "programmate" delle altre. A questi due conflitti (quello tra il mondo reale dei personaggi e il mondo fittizio del palcoscenico, e quello fra personaggi e autore) si sovrappone il conflitto (non esplicitato) fra il testo così come l'ha immaginato l'autore e la sua realizzazione concreta nella messa in scena, conflitto già rilevato da Pirandello nei saggi sul teatro fin dai tardi anni novanta.
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«romanzo da fare» intitolato Sei personaggi in cerca d'autore costituiscono il primo abbozzo di quella che diventerà l'opera teatrale forse più nota di Pirandello; a questo ipotizzato romanzo si riferiscono gli accenni al figlio Stefano in una lettera del 1917. Derivato in parte dalle novelle Personaggi, La tragedia di un personaggio e Colloqui con i personaggi, il testo si trasforma definitivamente in una «commedia da fare» nel 1921. Rappresentato per la prima volta al teatro Valle di Roma nel maggio 1921, sotto la direzione di M. Niccodemi, è un clamoroso fiasco; ma nella replica di settembre al teatro Manzoni di Milano viene subito riconosciuto come un capolavoro e ben presto messo in scena in tutta Europa.
Il testo ebbe varie ristampe (1921 e 1925) e confluì nel 1933 nel primo volume della terza raccolta di Maschere nude, insieme con Ciascuno a suo modo (1924) e Questa sera si recita a soggetto (1928). È estremamente significativo che questa trilogia apra l'opera teatrale, e che essa sola abbia una breve Premessa che spiega il motivo del raggruppamento, dove tra l'altro si legge: «Tutti e tre uniti, quantunque diversissimi formano una trilogia del teatro nel teatro, non solo perché hanno espressamente azione sul palcoscenico e nella sala, in un palco o nei corridoi o nel ridotto d'un teatro, ma anche perché di tutto il complesso degli elementi di un teatro, personaggi e attori, autore e direttore - capocomico o regista, critici, drammatici e spettatori alieni e disinteressati, rappresentano ogni possibile conflitto».
Eccezionale è anche la Prefazione, lunga e articolata (già pubblicata in rivista nel 1925), dove Pirandello rivela le relazioni tra personaggi, attori e autore: «Ciascun d'essi [i personaggi], per difendersi dalle accuse dell'altro, esprime come sua viva passione e suo tormento quelli che per tanti anni sono stati i travagli del mio spirito: l'inganno dellacomprensione reciproca fondato irrimediabilmente sulla vuota astrazione delle parole; la molteplice personalità d'ognuno secondo tutte le possibilità d'essere che si trovano in ciascuno di noi; e infine il tragico conflitto immanente tra la vita che di continuo si muove e cambia e la forma che la fissa, immutabile».
I "personaggi"
La vicenda dei Sei personaggi in cerca d'autore ruota sull'apparizione dei "personaggi" (il Padre, la Madre, il Figlio, la Figliastra, il Ragazzo e la Bambina) che mettono in scena il proprio dramma a scapito degli attori e contro la volontà dello stesso autore.
Al centro sta l'apparizione di madama Pace tra il Padre, la Figliastra e la Madre: «momento eterno» (come lo definisce Pirandello) nel quale l'opera d'arte cerca di sfuggire alla sua consunzione e «vive sempre, in quanto è forma». L'arte quindi è in grado di creare il personaggio anche solo evocandone il nome.
In Ciascuno a suo modo tale eternità della forma artistica è continuamente messa in crisi dall'irrompere della realtà esterna al teatro, che di fatto impedisce la rappresentazione. In Questa sera si recita a soggetto lo scontro si svolge principalmente tra l'autore (assente e contestato) e il regista, che vuoi far prevalere la creazione scenica sul testo, fino a proclamare l'inconoscibilità di quest'ultimo: «Per giudicare il testo, bisognerebbe conoscerlo; e a teatro non si può, attraverso un'interpretazione che, fatta da certi attori, sarà una e, fatta da cert'altri, sarà per forza un'altra». Si capovolge allora il rapporto: non ci sono più, come nei Sei personaggi, dei personaggi che vogliono vivere sulla scena prescindendo dagli attori, ma degli attori che si immedesimano a tal punto nell'opera di creazione artistica da divenire personaggi.
A conclusione della trilogia Pirandello non assegna il primato a nessuna delle parti in causa, ma riscopre che autore, attori e regista sono tutti necessari a «dar vita all'opera d'arte che tutti li comprende e senza la quale ciascuno per se stesso, sera per sera, non avrebbe ragion d'essere».
enrico /FÉ la pazzia Apparentj,bile questi tre dram-mi è pure l'Enrico IV (1922), quasi un'apologià dell'attore, in quanto il protagonista, impazzito per una caduta da cavallo, riesce in ogni modo a impersonare l'imperatore: sia inconsapevolmente, quando è pazzo, sia con piena consapevolezza, una volta rinsavito. Anzi, egli assume via via tutte le funzioni teatrali, risultando oltre che attore, creatore del canovaccio, scenografo e regista (nel muovere a suo piacimento la recitazione di chi lo incontra). Anche qui dunque siamo in presenza del "teatro nel teatro", di una finzione che si propone come realtà anche se tutti sono coscienti del contrario; la pazzia è infatti omologa del teatro in quanto crea una realtà diversa, permettendo la crescita di un mondo alternativo, altrettanto reale di quello "vero".
Il teatro dei miti
L'ultima fase della produzione teatrale pirandelliana, dal 1927 in poi, vede da un lato la ripresa di temi già sperimentati (ciò è tipico di un'opera che non vede un vero sviluppo diacronico di temi e motivi, ma la loro costante rivisitazione), soprattutto nei testi destinati alla recitazione di Marta Abba (Diana e la Tuda, lamica delle mogli, Come tu mi vuoi, Trovarsi, Quando si è qualcuno}-, dall'altro lato la novità di una "trilogia del mito" che tende sempre più decisamente allo sperimentalismo.
Le tre opere teatrali che la compongono, ovvero La nuova colonia (1928), Lazzaro (1929) e I giganti della montagna (iniziata nel 1930 e rimasta incompiuta), propongono in effetti un teatro "a tesi", centrato sulla ricerca di nuovi miti positivi, da contrapporre all'arida meccanicità del mondo tecnologico che avanza.
La nuova colonia, definita da Pirandello «mito sociale», presenta un gruppo di reietti della società che si rifugiano su un'isola deserta per dar vita a una società che vorrebbero diversa, fondata su valori nuovi; il tentativo fallisce, per il rigurgito di passioni, violenze e intrighi, e l'isola sprofonda con il suo carico d'umanità; però dal naufragio si salva la prostituta La Spera con il figlio, a simboleggiare il prevalere dei rapporti umani sui rapporti economici e sociali.
Lazzaro narra le diverse reazioni di fronte alla "resurrezione" di Diego Spina, che un medico riesce a far tornare in vita con una nuova sperimentazione clinica: mentre il protagonista perde la fede, avendo sperimentato il nulla dopo la sua (provvisoria) morte, il figlio di lui conferma la propria fede vacillante. Il contrasto tra spiritualismo e positivismo viene qui messo in scena nello scontro tra padre e figlio: e Pirandello sembra proporre un mito religioso alternativo sia al fìdeismo cieco che all'ateismo razionalistico.
7 giganti della montagna, vero testamento spirituale di Pi-randello, affronta invece il ruolo dell'arte nella cultura contemporanea, sempre più restia ai valori spirituali. La vicenda della contessa Use, attrice che mette in scena costantemente e unicamente l'opera di uno scrittore che si è ucciso per amor suo, e che muore nel finale dilaniata dai rozzi spettatori della sua ultima recita, esprime appunto le difficoltà della poesia in un mondo sempre più attento alla tecnologia e alla praticità. Intorno alla protagonista ruotano persone molto particolari: la sua scalcinata compagnia teatrale, il mago Cotrone con le sue strane creature, capaci di far "vivere" i sogni e le aspirazioni umane più profonde, i Giganti (che non appaiono mai sulla scena), prototipo forse di un'umanità sempre più bestiale e materialista, i loro servi grossolani e stupidi, ma anche spiriti, angeli, marionette viventi, apparizioni, presenze inquietanti; il tutto ambientato in una misteriosa villa sulla montagna.
Solo l'ultima opera, rimasta peraltro priva di una conclusione, non lascia vedere con chiarezza la vittoria del mito, anche se le ultime parole di Pirandello morente, riferitedal figlio Stefano, possono far balenare una risposta: «C'è, mi disse sorridendo, un olivo saraceno, grande, in mezzo alla scena: con cui ho risolto tutto». E il ritorno alla terra natale, là dove Pirandello era caduto «una notte di giugno [...] come una lucciola sotto un gran pino solitario in una campagna di olivi saraceni affacciata agli orli d'un altipiano d'argille azzurre sul mare africano» (come narra in tono fiabesco nella sua autobiografia fantastica). È la poesia che riafferma il suo potere oltre ogni rifiuto degli uomini, oltre le incomprensioni e i tradimenti della vita umana, sempre pronta a trasferirsi nella «realtà meravigliosa in cui viviamo, alienati da tutto, fino agli eccessi della demenza» (L. Pirandello, I giganti della montagna).
TUTTO IL TEATRO DI PlRANDELLO: MASCHERE NUDE Dal
1918 Pirandello aveva cominciato a raccogliere tutti i testi teatrali presso l'editore Treves sotto il titolo di Maschere nude-, la seconda edizione in trentun volumi (1920-35) uscì prima presso Bemporad e fu completata da Mondadori, che pubblicò anche la terza e definitiva in dieci volumi (1933-38). Il significato del titolo è chiarito dallo stesso Pi-randello nell'Avvertenza aggiunta al Fu Mattia Pascal nel 1921: «Credo che non mi resti che di congratularmi con la mia fantasia se, con tutti i suoi scrupoli, ha fatto apparir come difetti reali, quelli ch'eran voluti da lei: difetti di quella fittizia costituzione che i personaggi stessi han messo su di sé e della loro vita, o che altri ha messo su per loro: i difetti insomma della maschera finché non si scopre nuda». Si tratta ancora una volta di togliere al personaggio la maschera sotto la quale egli solitamente tenta di nascondersi, per presentare al lettore la «nuda verità», l'essenza vitale dell'uomo, spesso fuori della norma e inserito in vicende portate al limite del paradosso.
L'influenza e il superamento del teatro ottocentesco
Tecnicamente Pirandello si rifa dapprima al teatro ottocentesco (sia dialettale sia borghese), per poi scardinarlo dall'interno e ribaltarne la valenza. Così anche i personaggi si trasformano: dagli esuberanti popolani delle prime commedie dialettali si passa ai ridicoli borghesi dei drammi "familiari", attenti più alla forma che alla realtà dei fatti; poi da queste marionette stereotipate (che si rivelano talora personaggi "umoristici" di spicco, nella loro grottesca disarticolazione) agli immortali personaggi di tragica grandezza che osano sollevare la maschera per affermare la propria identità più intima e sofferente; infine Pirandello approda ai personaggi "mitici", simbolo delle grandi passioni e convinzioni dell'uomo contemporaneo, capaci di attualizzare, pur nella propria realtà inconsistente, i valori della vita e dell'arte. Il primo sintomo di questa trasformazione è l'uso di amplissime didascalie che descrivono con minuzia quasi maniacale la scena con i suoi arredi, i personaggi con tutti i loro tic, le modalità della dizione e della mimica, i movimenti in scena, perfino i rumori di fondo e il colore delle luci. Ciò gli serve anche per "indirizzare" la messa in scena, stante la nota sfiducia verso la "traduzione" scenica
del testo, che il capocomico e gli attori potevano effettuare. Nel teatro pirandelliano è realizzata in pieno la rappresentazione della vita che già le novelle e i romanzi avevano proposto: vi si ritrova infatti la spietata analisi delle incongruenze e contraddizioni del mondo, la decisa conferma dell'impossibilità per l'uomo di strapparsi di dosso la maschera che gli altri gli impongono, la conseguente scelta della follia, o quanto meno della "stranezza", come ribellione al condizionamento sociale. Si può parlare quindi, per la drammaturgia pirandelliana come per la sua opera narrativa, del trionfo dell'"umorismo" che scardina i falsi valori del mondo borghese, proponendo al centro di ogni opera un personaggio isolato e predominante che si incarica di smascherare tabù, regole e codici ormai privi di validità, di riaffermare insomma la superiorità dell'individuo sulla società stessa.
La lingua pirandelliana:
una mediazione tra dialetto e lingua scritta
II dibattito sulla lingua è costantemente presente nell'opera pirandelliana, fin dalla tesi di laurea sulla fonologia del dialetto girgentino, e si specifica in alcuni saggi significativi come Prosa moderna (1890), Per la solita questione della lingua (1890), Teatro siciliano (1909), Teatro e letteratura (1918) e nel famoso discorso per l'ottantesimo compleanno di Verga, tenuto a Catania nel 1920. La scelta fra dialetto e lingua letteraria, nonché fra lingua scritta e lingua parlata, si presenta a Pirandello come un problema di ardua definizione («dove trovarla, dove si parla questa benedetta lingua italiana? Si parla o si vuoi parlare nelle scuole e si trova nei libri»); la sua stessa alternanza fra dialetto e lingua testimonia indubbiamente la volontà di non rinunciare a ciò che è vivo nei vari dialetti, ma nello stesso tempo l'esigenza di ottenere un pubblico più vasto di quello unicamente dialettofono. Ben presto la soluzione è trovata nell'appropriazione di una lingua nuova di mediazione fra dialetto e italiano scritto: una koinè dal lessico composito, ora raffinato e letterario, ora ricco di elementi dialettali e gergali, ora specialistico e tecnico; dalla sintassi agile e spumeggiante, assai vicina al parlato; dalla netta prevalenza del dialogo di stampo teatrale, che tende perfino a riprodurre la gestua-lità dei parlanti.
Fonte: http://wpr.altervista.org/pirandello.doc
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