Verga e la narrativa verista

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Verga e la narrativa verista

Giovanni Verga (1840-1922) e la narrativa verista
Perché parliamo di Verga in questo discorso generale sul romanzo della seconda metà dell’Ottocento e in relazione al Naturalismo? La risposta è semplice: perché anche in Italia, sull’onda delle teorie positiviste e delle novità in fatto di romanzo che arrivavano dalla Francia e soprattutto da Parigi (per gli italiani di allora Parigi era l’equivalente della Londra di oggi), si comincia – proprio con Verga e Capuana – a ridefinire in chiave moderna e antiromantica (più precisamente antimanzoniana) la funzione del romanzo e della letteratura in genere in uno scenario culturale e sociale in cui – non smetteremo mai di ribadirlo – il primato è della scienza, non della cultura umanistica tradizionale.
La domanda che ci poniamo a questo punto è la seguente: in che modo Capuana, ma soprattutto Verga fanno propri i canoni della narrativa naturalista formulati e messi in atto da Zola (nel ciclo di romanzi dedicato alla vicenda della famiglia dei Rougon-Macquart) in un contesto sociale ed economico profondamente diverso rispetto a quello della Francia della seconda metà dell’Ottocento?
Cercheremo di rispondere alla domanda analizzando in prima battuta due testi “teorici”: la prefazione alla novella L’amante di Gramigna (1880) e quella ai Malavoglia (1881):

Una precisazione preliminare è d’obbligo: Verga approda alla narrativa verista, - vale a dire a una nuova forma di romanzo ispirata al Naturalismo francese, che in Italia ha la sua figura di riferimento in Luigi Capuana – relativamente tardi, quando ha già alle spalle una serie di romanzi di gusto tardo-romantico e di ambientazione borghese, che, con le loro storie di amori impossibili e tormentati, assecondano i gusti dei lettori di media cultura, senza tuttavia rinunciare- come in Madame Bovary- alla denuncia dell’ipocrisia borghese, di una classe sociale corrotta e interessata solo ai piaceri e determinata dalla logica del profitto (come avviene per es. nel romanzo Eva, che risente peraltro dell’influsso della Scapigliatura).
La prefazione alla novella L’amante di Gramigna
La svolta verista si ha, in maniera pienamente consapevole, con raccolta di novelle Vita dei campi, in cui Verga abbandona la materia borghese e cittadina dei romanzi milanesi per dedicarsi alla rappresentazione della vita dura e amara dei lavoratori della sua terra. Il documento che attesta tale svolta è la prefazione al racconto L’amante di Gramigna (che fa parte della raccolta Vita dei campi), prefazione in cui Verga si rivolge sotto forma di lettera all’amico Salvatore Farina (direttore della “Rivista minima”): per convincerlo della validità della nuova narrativa verista, egli enuncia le novità tematiche e stilistiche della sua poetica. Per il testo si rinvia al manuale.
Let’s recap: i nodi centrali del programma poetico del verismo di Verga desunti dalla lettura della prefazione a L’amante di Gramigna
La prefazione all’amante di Gramigna, assieme all’introduzione ai Malavoglia, è considerata un testo programmatico del verismo verghiamo. Ecco i punti fondamentali della poetica verista


1.Il linguaggio (una lingua antiletteraria)

L’autore afferma di voler riprodurre senza alterarla, la lingua “pittoresca” delle narrazioni popolari con la sua semplicità e il suo colore (te lo ripeterò così come l’ho raccolto pei viottoli dei campi… con le medesime parole semplici e pittoresche…). Il Verismo compie dunque una svolta in primo luogo sul piano stilistico, rifiutando la lingua della tradizione letteraria.

2.Il contenuto

L’autore afferma di presentare un documento umano, testimonianza fedele della realtà (fatto storico). Il lettore viene a trovarsi faccia a faccia con il fatto oggettivo (nudo e schietto), non filtrato dalla mediazione (la lente dello scrittore) e dai suoi commenti.

3.Il metodo di analisi

Lo scrittore verista deve rinunciare ad analisi psicologiche particole raggiate e a colpi di scena. Deve invece
a) studiare i fatti con scrupolo scientifico;
b) ricostruire gli elementi essenziali della storia narrata (il punto di partenza e quello di arrivo);
c) rappresentare lo sviluppo logico e necessario di azioni e passioni;
d) considerare la psiche come un organo del corpo umano; in tal modo ciò che accade nella psicologia dei personaggi lo si deve poter dedurre dal comportamento. Nella poetica verista, la psicologia può essere rappresentata solo dall’esterno ed essere deducibile attraverso gesti e parole, ma non deve essere mai mostrata dall’interno. La descrizione dall’esterno di gesti, comportamenti e parole di personaggi va ora a sostituire lo “sguardo dal di dentro” e la soggettività dell’io narrante che caratterizzavano, per es., il modo di raccontare di un Manzoni. La poetica verista è dunque una poetica antiromantica.

4.L’impersonalità

L’autore deve eclissarsi e la sua mano restare invisibile, in modo che l’opera d’arte (il romanzo) sembri essersi fatta da sé e non conservi alcuna traccia del “peccato originale”, vale a dire del processo creativo iniziale. Il tradizionale narratore onnisciente (etero diegetico, cioè esterno rispetto ai fatti narrati ma “padrone” assoluto dell’intreccio e della storia) verrà dunque sostituito da una voce narrante omodiegetica che assume la visione del mondo e il modo di esprimersi dei personaggi (il narratore popolare).

La lupa, un esempio significativo dell’applicazione dei canoni della narrativa verista
Un saggio abbastanza significativo, ma non ancora pienamente riuscito, dell’applicazione dei principi teorici enunciati nella prefazione de L’amante di Gramigna è costituito dalla novella La lupa che hai letto per le vacanze e che fa parte della raccolta Vita dei campi.
Al centro della novella, come accade anche in Therese Raquin, c’è un motivo caro alla letteratura tardo-romantica e in particolar modo al Verga dei romanzi preveristi, ossia una torbida passione amorosa che sfocia in tragedia. Lo scenario non è quello della Parigi dei sobborghi proletari e delle gallerie sfavillanti di negozi eleganti e di luci della seconda metà dell’Ottocento, ma la Sicilia contadina, fatta di piccole comunità di umili braccianti, una realtà economico-sociale arretrata e ancorata al passato e a tradizioni e pregiudizi secolari.
Anche Verga, come Zola, racconta la storia in una prospettiva decisamente antiromantica, sia dal punto di vista tecnico-stilistico che ideologico:
a) dal punto di vista tecnico-stilistico: basta rileggere il ritratto iniziale per capire che la voce narrante non è più quella del narratore onnisciente, bensì quella di un narratore popolare, che condivide gli stessi valori e la stessa mentalità della comunità di cui fa parte, e che, in quanto tale è profondamente diverso anche dall’autore del romanzo che è colto e appartiene al ceto borghese. Che si tratti di un narratore popolare e non del narratore onnisciente che incarna ed esprime la visione superiore dell’autore borghese, lo si capisce da tutta una serie di spie testuali e linguistiche. Ne citiamo alcune:
1) il narratore popolare racconta la storia immaginando di rivolgersi ad alcuni ascoltatori, che condividono il suo stesso (ristretto) orizzonte culturale e geografico, come dimostra l’occorrenza del pronome personale vi in “labbra fresche e rosse che vi mangiavano”, che presuppone la presenza di qualcuno in ascolto; del resto solo ipotizzando la presenza di un narratore popolare si può capire il riferimento all’altare di Sant’Agrippina che viene menzionato senza fornire alcun dettaglio: la voce narrante omodiegetica racconta la storia alla comunità di cui fa parte, per cui non ha bisogno di precisare cos’è l’altare in questione e dove si trova, perché ne presuppone la conoscenza;
2) giustifica il nomignolo dato a gna Pina richiamandosi all’autorità della comunità (al villaggio la chiamavano La lupa) mostrando di credere nella superstizione popolare, poiché condivide – anche se non lo dichiara espressamente – le ragioni del segno della croce con cui le donne “perbene” del villaggio allontanano da sé gli influssi maligni della lupa, ritenuta da tutti una strega, una creatura diabolica; non solo: definisce il prete, padre Angiolino, “un santo, vero servo di Dio”, vittima della seduzione diabolica della Lupa: come si può definire santo un sacerdote che commette un peccato mortale?
3) Ricorre a quello che Verga nella prefazione a L’amante di Gramigna definisce “linguaggio pittoresco”, cioè colorito e costituito soprattutto da proverbi e  modi di dire popolari: “satanasso”, espressione popolare per il diavolo (da Satana), la descrizione dell’andatura della lupa, “sola come una cagnaccia” e poi il fascino perverso che esercita sugli uomini in virtù del quale – a detta delle donne perbene del villaggio – arriva addirittura “spolparli” con gli occhi, cioè a divorarli con lo sguardo;

b) dal punto di vista ideologico: anche Verga, come Flaubert e soprattutto Zola, concentra la sua attenzione sul reale, sull’oggettività, mettendo in secondo piano o non considerando affatto la dimensione ideale e soggettiva, l’interiorità tanto care al Romanticismo. Pertanto, come dimostra la novella La lupa (ma anche in maniera forse più riuscita altre novelle come Rosso Malpelo), il narratore non si sofferma ad analizzare l’interiorità del personaggio e la dinamica della passione amorosa (come avrebbe fatto un narratore onnisciente: si pensi soltanto allo scavo psicologico che il narratore onnisciente dei Promessi sposi compie sull’animo tormentato di Gertrude nel cap. X del romanzo), ma ritrae entrambe attraverso poche battute, fatte di parole scarne e semplici appartenenti al linguaggio quotidiano popolare (citiamo soltanto, a titolo d’esempio, la descrizione della passione amorosa, del desiderio erotico e carnale, significativamente paragonato a una sete insaziabile: ma proprio quello si dice innamorarsi, sentirsene ardere le carni sotto al fustagno del corpetto, e provare fissandolo negli occhi, la sete che si ha nelle ore calde di giugno) e soprattutto attraverso le azioni del personaggio (l’ossessione amorosa è significativamente rappresentata dal gesto di affastellare covoni su covoni, dall’ostinazione furiosa e insieme vigorosa con cui la donna svolge il suo lavoro con il pensiero fisso del ragazzo di cui è perdutamente innamorata).

La prefazione ai Malavoglia
La prefazione ai Malavoglia – datata 9 gennaio 1881 – svolge anche la funzione di prefazione all’intero “ciclo dei vinti” (un ciclo di romanzi progettato da Verga e rimasto incompiuto) e costituisce al tempo stesso un importante manifesto della sua ormai matura poetica verista, elaborata a partire dalle novelle di Vita dei campi (in particolare, come vedremo, dalla novella Rosso Malpelo). Per il testo, si rinvia al manuale alle pp. 233 ss.

I punti fondamentali della prefazione de I Malavoglia (1881):
a) I Malavoglia e gli altri quattro romanzi del ciclo dei vinti (mai portato a termine) si configurano come uno “studio”, cioè un’indagine scrupolosa, oggettiva e neutra (sincera e impassibile) di come tutti gli uomini, a tutti i livelli sociali, dal venditore di stracci al senatore, dal borghese arricchito all’aristocratico all’intellettuale, sono mossi nel loro agire da “una bramosia dell’ignoto, da un’insoddisfazione interiore e dalla ricerca del benessere, che li induce a una spietata lotta per la vita.
b) Il progresso è visto da due prospettive: da lontano appare grandioso e persino umanitario nel suo risultato finale, poiché l’ambizione egoistica del singolo individuo nel migliorare la propria condizione contribuisce allo sviluppo e al progresso dell’intera umanità (secondo il credo liberista di Adam Smith); visto da vicino, però, mostra tutte le sue contraddizioni, gli orrori e i soprusi che stanno alla base della darwiniana lotta per la vita.
c) Lungi dall’esaltare le magnifiche sorti e progressive dell’umanità che avanza, lo scrittore si riserva di osservare il progresso da vicino, studiandolo nelle sue vittime e nei suoi orrori, mostrando il rovescio negativo della medaglia e rivelandone i costi dolorosi. Egli dichiara di interessarsi ai vinti, alle vittime della fiumana del progresso.
d) Vengono qui ribaditi alcuni principi fondamentali della poetica del Verismo: 1) la narrazione è definita “uno studio”, vale a dire un’operazione intellettuale che implica un metodo rigoroso; 2) esso deve essere sincero (cioè senza aggiunge e senza mistificazioni) e spassionato, senza passione, condotto con distacco scientifico e oggettivo, senza partecipazione emotiva; 3) l’osservatore non ha il diritto di giudicare, ma deve solo fornire dei documenti oggettivi di realtà, in modo impersonale e neutrale; 4) la forma deve essere inerente al soggetto: l’autore non deve mostrare il proprio punto di vista, ma adoperare il linguaggio e assumere la prospettiva dei propri personaggi; 5) il romanzo fa parte di un ciclo – come quello zoliano dei R-M – che intende mostrare il condizionamento della lotta per la vita a ogni gradino della scala sociale; 6) la rappresentazione dei personaggi, mano a mano che si salirà nella gerarchia sociale, sarà più complessa e difficile, per cui è utile partire dai livelli più semplici per risalire a quelli più complicati.

Naturalismo e Verismo a confronto
Mettiamo ora a confronto i “manifesti teorici” del Naturalismo e del Verismo e proviamo a ricavare, dai documenti che abbiamo letto, quali sono i punti di contatto e le differenze tra le due correnti letterarie, in particolare per quel che riguarda la concezione e la funzione del romanzo:
Aspetti in comune:
a)Lo scrupolo scientifico, a cui il lavoro dello scrittore risulta improntato (ne L’amante di Gramigna, Verga parla di “scienza del cuore” e definisce i Malavoglia uno studio spassionato e sincero, richiamandosi alla figura dello scrittore scienziato di Zola );
b) la narrazione oggettiva e impersonale e la rinuncia alla lente dello scrittore: nel romanzo non ci deve essere traccia del peccato originale, cioè della mano dell’autore che l’ha creato, ma l’opera “sembrerà essersi fatta da sé”; chi osserva e documenta la realtà non ha il diritto di giudicarla o di commentarla – come accadeva invece nei romanzi del primo Ottocento – con il narratore onnisciente; deve limitarsi a produrre un documento oggettivo, “uno studio spassionato e sincero” , cioè impersonale e neutrale (antiromanticismo);
c) la convinzione che tutta la realtà (anche la psiche umana) è retta da un meccanismo deterministico tra la causa materiale dei fatti e l’effetto psicologico conseguente (il comportamento umano è assimilato dal Positivismo a quello di ogni altro animale, e viene fatto dipendere da fattori materiali come l’egoismo individuale e la spinta a soddisfare alcuni bisogni concreti, per es. di tipo economico o sessuale, oltre da fattori ereditari, cioè dalla trasmissione di padre in figlio di certi tratti ereditari. Nell’ottica del cosiddetto “darwinismo sociale”, anche per Verga, le azioni dell’essere umano sono sempre determinate dall’ambiente in cui vive, dalle leggi economiche e da quello che oggi chiameremmo “il patrimonio genetico”);
c) anche in Verga (e nei veristi in genere) è ben radicata l’idea che la scienza debba fungere da modello per l’arte, come risulta evidente peraltro dall’adozione della terminologia scientifica (processo, metodo, sviluppo, verità, studio) comprese alcune parole chiave relative alla creazione artistica (scrupolo scientifico, documento umano).
Le differenze
La differenza sostanziale sta nella concezione del progresso e nella funzione sociale attribuita alla letteratura:
a) a differenza di Zola, Verga analizza le trasformazioni prodotte dal progresso, dalla “bramosia dell’ignoto”, da una prospettiva ravvicinata: mentre dal punto di vista universale, più ampio, dello scienziato e del filosofo, la conquista del progresso è un evento grandioso e persino “umanitario” (che contribuisce al bene di tutti), visto da vicino, essa appare in tutta la sua tragicità, mostra tutte le sue contraddizioni, rivelando gli orrori e i soprusi che stanno alla base della darwiniana lotta per la vita: i deboli restano travolti dalla “fiumana del progresso” e “i vincitori di oggi” saranno i vinti di domani;
b) ne consegue che, sempre a differenza di Zola, Verga non rivendica a sé e al romanzo l’utilità sociale di contribuire al progresso  e al miglioramento delle condizioni dell’umanità: egli non si sente l’operaio del progresso, semmai si riserva, in quanto artista (capace, più dell’uomo comune o del politico, di intercettare il cambiamento e di rappresentarlo), di osservarlo da vicino, studiandolo, non da una prospettiva trionfalistica, bensì dal punto di vista delle sue vittime. Compito della letteratura, secondo Verga, è mostrare il rovescio negativo del progresso, rivelarne i costi dolorosi, senza la pretesa, del tutto illusoria, di migliorare la società.

 

 

Fonte: http://www.liceomedi-senigallia.it/Members/prcesposto/a-s-2015-2016/5bli/letteratura-dalla-seconda-meta-dellottocento-alla-seconda-meta-del-novecento/1-dalla-seconda-meta-dellottocento-ai-primi-del-novecento/primo-tema-generale-la-crisi-dellintellettuale-nella-seconda-meta-dellottocento/primo-tema-generale-la-crisi-dellintellettuale-nella-seconda-meta-dellottocento/3-unita-tematica-3/2-i-canoni-del-verismo-g-verga

Sito web da visitare: http://www.liceomedi-senigallia.it/

Autore del testo: non indicato nel documento di origine

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