Giacomo Leopardi Canti

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Giacomo Leopardi Canti

Canti, di Giacomo Leopardi

Una voce in difesa del singolo individuo
Perché Leopardi è ancora così conosciuto, apprezzato, amato, in un pubblico trasversale che va dagli studiosi fino agli studenti? Perché il suo nome è ancora oggi familiare – almeno il suo nome, ma di solito almeno qualche titolo di poesie, qualche dettaglio biografico, qualche passo o anche una immagine banalizzata della sua vita e della sua personalità – e la sua opera suscita ancora reazioni di solito positive negli adolescenti italiani di inizio millennio, per i quali i classici della letteratura italiana sembrano appartenere a un altro mondo? Perché, in un altro ambiente, la bibliografia specialistica su Leopardi pare attualmente sterminata tanto da cominciare a ricordare (fatta la debita proporzione dei secoli) quella su Dante? Dobbiamo innanzitutto precisare che queste domande, se i dati di fatto da cui nascono sono esatti, forniscono già una prima testimonianza del carattere unico che ha la presenza diversificata ma, appunto, trasversale di Leopardi nella cultura italiana, dall’università alla scuola, dalla poesia all’opinione comune. Questo carattere trasversale si è manifestato, e in fondo quasi da subito dopo la sua morte, nel 1837, in una duplice tendenza: a livello di opinione pubblica, di gusti e poi di scuola dell’Italia unita (quindi, almeno per la scuola, già dagli ultimi decenni dell’Ottocento circa), una popolarità sempre viva; a livello di cultura ‘alta’, specialistica, universitaria, una presenza ineliminabile anche quando è stata contestata, limitata, in parte rifiutata o censurata (il che è successo tra il secondo Ottocento e il primo Novecento, nella cultura filosofica e letteraria). Nella cultura alta tra secondo Ottocento e primo Novecento, in particolare, Leopardi non è stato un padre unanimenente riconosciuto, un’autorità venerabile anche quando viene contestata, come ad es. Manzoni, ma una presenza molto spesso scomoda, e quindi attaccata, censurata e travisata, ma proprio perché non era possibile non fare i conti con essa. Non bisogna infatti dimenticare che il pensiero e quindi anche la poesia leopardiani hanno sofferto per quasi più di un secolo, tra Otto e Novecento, delle reazioni di rifiuto o di travisamento da parte della cultura cattolica e della filosofia italiana, che hanno ridotto Leopardi a un poeta immenso ma solo a tratti – nell’Infinito, in A Silvia, nel Sabato del villaggio etc., insomma nelle poesie che già da allora ottenevano una popolarità straordinaria nella scuola – ma da non prendere in considerazione come pensatore, proprio perché il suo pensiero era indigeribile per quelle culture. Viceversa, dal secondo dopoguerra in poi, da quando critici letterari e filosofi hanno rivalutato insieme tutto Leopardi, poeta e pensatore, e tutto l’arco diversificato della sua opera, Leopardi ha subito una sorte davvero inversa, diventando, soprattutto negli ultimi trent’anni circa, l’autore di tutti, cioè l’autore (com’è stato detto) più ‘appropriabile’, invocato come sostegno, e non più come avversario, da critici e pensatori di orientamenti opposti; e anche questo fenomeno fa della presenza leopardiana nella nostra cultura un caso singolare. Si potrebbe dire, per cercare di definire meglio questa presenza costante ma soggetta a trattamenti antitetici in un secolo e mezzo circa, attraverso Italie ben diverse (da quella liberale ottocentesca, spaccata tra laici e cattolici, a quella liberale di primo Novecento e poi fascista, a quella repubblicana), dimostra che Leopardi, per l’Italia nata dopo di lui, è stato, più che un padre, un suo perpetuo contemporaneo, una presenza sempre attuale, non meno importante dei ‘padri’ (come Manzoni), anzi anch’egli un fondatore (come vedremo), un fondatore della poesia moderna in Italia e di una nuova idea di poesia nei suoi rapporti con il pensiero, ma non quel che si dice un padre fondatore, bensì un autore così moderno da essere sempre contemporaneo di ogni generazione, perché ogni generazione non ha potuto fare a meno di esaltarlo oppure di censurarlo il più possibile, di cercare di dimostrare i suoi limiti: due modi opposti ma identici nel dimostrare che non si può mai fare come se quella presenza non esistesse.
Ovviamente qui è impossibile riflettere sul perché Leopardi sia sempre stato, in modi diversi, un contemporaneo permanente della cultura italiana lungo un secolo e mezzo circa; però anche questa constatazione riporta alla domanda da cui siamo partiti: perché Leopardi è ancora così ‘popolare’, perché evoca ancora tante associazioni memoriali o anche affettive oggi fino tra gli adolescenti che frequentano la scuola? Tra gli autori nati tra fine Settecento e fine Ottocento che si possono definire fondatori della cultura italiana moderna – Foscolo, Manzoni, Verdi, De Sanctis, Croce, Gramsci, per citare a caso – perché la maggior parte di questi nomi sono estranei, e ormai da un po’ di tempo, a uno studente italiano, e quello di Leopardi è rimasto?
A questa seconda una domanda forse è anche più difficile rispondere, ma essa ci pare abbastanza significativa (e tanto più unita a quella precedente: perché Leopardi è stato ineliminabile anche quando è stato avversato dalla cultura alta italiana?) da stimolare un suggerimento, non certo una risposta esaustiva: perché Leopardi è ancora per noi (un ‘noi’ che va dallo specialista di studi letterari alla persona cólta di altro ambito professionale, da chi lo ha studiato solo da giovane a scuola ma non l’ha dimenticato all’adolescente che lo incontra per la prima volta a scuola) una figura che suscita una irresistibile identificazione, per quanto profonda o temporanea possa essere (o anche, in certi casi, una altrettanto forte repulsione, ma questo conferma la forza del legame con essa), una figura che per ciascuno si riempie di contenuti, quindi un volto e non un nome tra i tanti, una voce personale che tocca qualcosa dentro di noi. Ma perché proprio Leopardi è, caso unico tra i fondatori della cultura italiana moderna, un oggetto di identificazione ancora oggi per persone così diverse tra loro? Sarebbe banale, anche se certo non falso, rispondere: perché è l’autore di capolavori supremi come L’infinito, A Silvia, La ginestra, per certi passi della sua prosa, dalle Operette morali allo Zibaldone ma anche delle sue lettere private. Il genio non si discute e non si spiega, ma quel che domanda spiegazioni è il nostro rapporto, diverso di volta in volta, con geni diversi. Una tra le possibili risposte potrebbe cominciare da un carattere distintivo della voce di Leopardi, per così dire, cioè un atteggiamento, un modo di guardare il mondo che attraversa tutta la sua opera e la sua riflessione: più di ogni altro autore moderno italiano (‘più’ anche in senso qualitativo, sul piano dei risultati espressivi), Leopardi ha dato voce al singolo individuo in quel che ogni individuo ha di universale, non ha parlato cioè in nome di se stesso soltanto ma nemmeno di tutta l’umanità in quanto entità collettiva: in lui parla l’individuo ideale, per così dire, in cui ciascuno di noi può riconoscersi. Leopardi ha costruito la sua riflessione e la sua concezione del mondo sulla base dell’esperienza personale e di quello che secondo lui costituisce la natura umana: il desiderio insito, congenito, infinito, inappagabile, della felicità; un desiderio uguale in ciascun individuo, e che non può essere scambiato con nient’altro e con nessun bene futuro o passato o appartenente ad altri individui. In altri termini, ciascuna vita umana si trova a fronteggiare una condizione uguale per tutti, e in ogni vita si mette in scena un dramma eterno: il desiderio della felicità senza limiti contro le leggi di un’esistenza, cosmica ma anche sociale e individuale, contro condizioni di esistenza fisiche e psichiche che sono fatte (sembrano fatte apposta) per impedire l’appagamento di questo desiderio, anzi per condannarci all’infelicità nelle forme più diverse: la caduta delle illusioni e dei sogni della gioventù, la vita matura che si rivela un’alternanza di dolore e di noia, la bellezza del corpo che è tanto seducente quanto fragile, il corpo esposto agli attacchi esterni e interni che mettono a rischio la vita, l’invecchiamento e in genere il decadimento fisico che occupa gran parte della vita, la morte che ci separa da chi amiamo o ci ama con una crudeltà che sarebbe indicibile in un essere umano; e dall’altra parte il piacere dei sogni, dell’immaginazione, dell’amore, la necessità di trovare nutrimento nelle illusioni che diano un senso almeno immateriale, immaginario, alla vita, la necessità quindi di sperare in un futuro migliore anche contro le nostre convinzioni razionali, la necessità di amare anche se razionalmente possiamo dimostrare che l’esperienza dell’amore non ha più consistenza e verità di una sorta di autoinganno volontario che ha poco a che vedere con la realtà... Perché tutto questo? Chi l’ha voluto? A che scopo? Chi può giustificare, o spiegare, o ripagarci di tutto questo? Questi sono alcuni dei temi e delle domande universali su cui Leopardi ha costruito la sua ricerca e la sua opera, ma, è fondamentale ricordarlo, dal punto di vista di ciascuno di noi, di ogni individuo, un punto di vista che vale quanto quello di ogni altro singolo soggetto che conosce la vita per esperienza personale e in base a quella sa e vuole interrogarla e analizzarla. Come uno dei più famosi personaggi leopardiani, il pastore analfabeta del Canto notturno di un pastore errante dell’Asia, l’individuo a cui Leopardi ha dato voce per tutta la sua vita non smette di interrogare l’universo e di dichiarare la sua impossibilità di conoscere le cause e i fini ultimi dell’esistenza del tutto, ma di un’affermazione è sicuro: «Questo io conosco e sento... / ... /... a me la vita è male». Come è stato giustamente notato, è questo l’atteggiamento conoscitivo leopardiano: il diritto di ogni individuo di interrogare il mistero del mondo di esprimere l’infelicità della condizione umana sulla base della propria esperienza, senza rinviare le risposte o il riscatto a nessun destino collettivo dell’umanità, a nessun progresso storico della specie umana, a nessuna fede religiosa che promette di salvare gli uomini dopo questa vita terrena che è la sola che conoscono. Da questo punto di vista, dell’individuo comune o meglio di qualsiasi uomo nella sua singolarità ma allo stesso tempo nella sua natura che lo unisce a tutti gli altri, Leopardi ci parla, quindi, di noi stessi, interroga la vita e il mondo attraverso le domande elementari e fondamentali, e analizza la nostra esistenza attraverso dei temi anch’essi elementari ma universali, domande e temi che sono, si direbbe, quelli fondativi, quelli più profondi in ciascuno di noi perché a noi appaiono come quelli della natura umana di fronte a se stessa e alla vita nel mondo. Insomma, lo sguardo di Leopardi sul mondo è irriducibilmente individualistico nel senso che abbiamo precisato: non vuole essere unico, originale, personale (queste sono le caratteristiche che fanno di Leopardi un genio, ma riguardano appunto i risultati di questo atteggiamento e delle sue conseguenze), ma vuole far valere i diritti di ogni individuo alla propria felicità, e quindi a soffrire e a cercare di spiegare perché tale diritto alla felicità gli viene sistematicamente negato dalla vita reale. In questo porre le domande sul senso della vita e del mondo dal punto di vista dell’individuo, Leopardi è uno dei primi pensatori moderni, e certo pochi sono paragonabili a lui per la potenza dei risultati, tanto più se si pensa che la voce dell’individuo, che parla in Leopardi, è una delle voci più belle della letteratura italiana. Ebbene, forse questa caratteristica così originale e profonda può contribuire a spiegare le ragioni della nostra perdurante e profonda identificazione di singoli individui con Leopardi: egli è vissuto all’inizio dell’Ottocento, quando il mondo occidentale si stava lasciando definitivamente alle spalle le istituzioni socio-politiche e le credenze religiose dell’ancien régime per entrare in un’epoca che, dovendo scegliere un solo aggettivo valido fino ai nostri giorni, possiamo definire l’epoca degli individui, l’epoca in cui anche oggi, nella società e nella cultura di massa, l’esistenza è un problema per ciascun individuo e ciascun individuo deve affrontarlo a partire dal proprio orizzonte personale. Dunque non ci sarebbe da stupirsi se chi, tra Otto e Novecento, ha conosciuto Leopardi, in profondità o superficialmente, non può fare a meno di confrontarsi con lui, per identificarsi con lui o per respingerlo: Leopardi ha infatti il dono di mettere a confronto direttamente il punto di vista e l’esperienza di ciascuno di noi con l’orizzonte universale di noi stessi e della nostra vita, e senza mediazioni, ma facendo appello alle nostre esperienze fondamentali: è per questo che, leggendolo, spesso abbiamo difficoltà a separare la sua voce dalla voce e dalle reazioni emotive e intellettuali che essa suscita in noi stessi.

La vita
1798-1817: da bambino prodigio a geniale scrittore di provincia
Giacomo Leopardi nasce il 29 giugno 1798 a Recanati (un paese ora in provincia di Macerata e allora appartenente allo Stato della Chiesa), primogenito di sei figli del conte Monaldo Leopardi e della marchesa Adelaide Antici; dunque è di famiglia nobile ma proprio in quegli anni finanziariamente dissestata per speculazioni fallite da Monaldo, una condizione che segnerà il suo destino dal punto di vista economico, costringendolo a vivere del proprio lavoro intellettuale non appena vorrà separarsi dalla famiglia e da Recanati. Suo padre sarà altrettanto decisivo anche nella sua formazione intellettuale: Monaldo è infatti un nobile erudito e conservatore di provincia, possiede una biblioteca ricchissima, e non appena vede nel figlio i segni di un ingegno precoce quanto straordinario, lo incoraggia in tutti i modi. Dal 1809, a undici anni, il bambino Giacomo comincia una produzione letteraria in prosa e in poesia, e anche in latino, che trova un primo sbocco in un esame dato in pubblico nel 1812 e condotto dai suoi precettori privati, mentre dal 1812 in poi non avrà più bisogno di precettori e si immergerà ogni giorno nella biblioteca paterna, da cui attingerà materiali per una erudizione superiore alla media che si manifesterà nei suoi scritti giovanili (che vanno dall’attività letteraria alla filosofia, allo studio delle lingue antiche e dei classici latini e greci, ma anche dell’ebraico) e continuerà ad assimilare (come ha già fatto con i suoi precettori) la cultura illuministica del Settecento ma in modo per così dire indiretto, filtrata cioè dalla sua educazione cattolica e rigidamente conservatrice voluta da suo padre: è questo il periodo dei «sette anni di studio matto e disperatissimo» (come scriverà nel 1818) che, come dice lui stesso, gli rovineranno il corpo e lo renderanno di salute malferma. Dal 1816 comincia a farsi conoscere in Italia, pubblicando articoli di filologia e traduzioni poetiche, e orientandosi (come disse poi lui stesso) decisamente verso la letteratura. Ma l’anno più decisivo di questa fase della sua vita è il 1817: dal punto di vista sentimentale (vive il suo primo amore, non corrisposto anzi ignoto all’interessata, una cugina che fu ospite per qualche giorno a palazzo Leopardi); dal punto di vista psicofisico, perché ora comincia a rendersi conto e a soffrire delle conseguenze per il suo corpo degli anni di studio precedenti; e dal punto di vista culturale, perché comincia a nutrire grandi ambizioni letterarie e a sentire tutta l’oppressione dell’ambiente arretrato di provincia di cui ora si sente prigioniero, ambizioni e consapevolezza accresciute dalla sua prima grande amicizia umana e culturale dopo l’ambiente familiare, Pietro Giordani, uno dei più prestigiosi esponenti del classicismo, allora ritenuto il più importante scrittore in prosa contemporaneo; Giordani è così entusiasta della cultura e dei doni straordinari di Leopardi che lo ritiene il candidato migliore al suo ideale di perfetto scrittore italiano. Con la conoscenza di Giordani, in particolare, finisce l’adolescenza culturale di Leopardi e comincia una nuova fase, in cui il giovane erudito di provincia acquisisce la consapevolezza che il suo valore e le sue ambizioni non sono compatibili con le ambizioni di suo padre (che avrebbe voluto indirizzarlo verso la carriera ecclesiastica, secondo una scelta di vita tipica del letterato settecentesco) e con l’arretratezza culturale di Recanati e in genere dello Stato Pontificio. Da queste premesse nasceranno il dolore, i conflitti e le delusioni degli anni successivi, ma anche la sua identità di poeta e pensatore.
1818-1824: il conflitto con l’ambiente familiare e recanatese: nascita di un poeta-filosofo
Il 1818 è l’anno in cui nascono i primi frutti della maturazione culturale di Leopardi: tra i più importanti, la crescita dello Zibaldone, il diario di appunti e pensieri cominciato nel febbraio 1817, la composizione delle sue prime due canzoni, dedicate alla situazione politica dell’Italia contemporanea e ispirate da un patriottismo e da una condanna dell’età della Restaurazione lontanissimi dalle idee politiche di Monaldo e dall’opinione conservatrice, e la conoscenza personale di Giordani (che si ferma a Recanati nel settembre), che rese ancora più intensa quell’amicizia e le ambizioni di uscire da Recanati e separò per sempre i progetti del figlio sulla propria vita da quelli di suo padre (come poi osservò lo stesso Monaldo, che riteneva responsabile Giordani di avere trasmesso al figlio anche idee contrarie alla fede cattolica). Il 1819 è invece l’anno di una crisi definitiva: appena diventato maggiorenne, a luglio Leopardi cerca di fuggire da casa e si procura un passaporto all’insaputa di suo padre che però scopre casualmente questo piano di fuga; da allora in poi si sentirà un recluso a Recanati, e sprofonderà nella solitudine e in uno stato di depressione (malinconia, secondo il termine da lui usato), a volte anche aggravato da problemi fisici (come, proprio in quest’anno, un male agli occhi durato alcuni mesi). È da questo periodo che nasce il Leopardi poeta e pensatore maturo: la prigionia nella solitudine acuisce e fissa l’attitudine introspettiva e in genere autoanalitica che generano, combinate con la sua formidabile cultura, l’orizzonte mentale amplissimo e innovativo dello Zibaldone con le sue teorie sulla civiltà e sulla natura e la sua indagine sui meccanismi psicologici fondamentali dell’essere umano (teorie che sono solo una parte del lavoro di riflessione e scoperta quotidiano testimoniato dallo Zibaldone); la frustrazione e la malinconia di una gioventù avvertita come mai vissuta e  come una vecchiezza precoce, acuirono la sensibilità alla frustrazione e al dolore non solo nella propria vita ma anche intorno a lui, e da queste disposizioni nacquero la deprecazione della condizione umana nella civiltà moderna e l’esplorazione del proprio animo e delle proprie vicende interiori, rispettivamente nelle canzoni e negli idilli (1818-1822), il primo grande nucleo poetico da cui avrà inizio il futuro libro dei Canti. Successivamente questa compresenza di frustrazione e di desiderio di una vita diversa cede il posto a una sorta di rassegnazione sentita come una morte della sensibilità, dell’immaginazione e della disposizione alla poesia. Un evento importante in questo processo è il primo lungo viaggio fuori di casa che la famiglia concede a Leopardi, a Roma, dal settembre 1822 al maggio 1823, ospite presso degli zii materni. Da questo soggiorno romano tornerà con un nulla di fatto per quanto riguarda la ricerca di una sistemazione economica e professionale (malgrado alcuni contatti con importanti studiosi italiani e stranieri residenti a Roma) e una delusione definitiva sul mondo e sulla vita, che infrange molte ambizioni giovanili (su tutte il mito della «gloria», della fama letteraria, che ossessionava il giovane Leopardi, e la fiducia che fuori Recanati ci fosse un mondo dove potersi realizzare),e approfondisce e universalizza la riflessione sulla presenza dell’infelicità nella vita umana. Il Leopardi che torna a Recanati sembra trasformare la malinconia e la disperazione degli anni precedenti (dopo il tentativo fallito di fuga) in una resa rassegnata alla propria condizione e alla verità, ormai acquisita, dell’infelicità necessaria nella vita umana: come scrive in una lettera a Giordani del 6 maggio 1825, egli si sente cambiato, e così sono cambiati i suoi studi, lontani dagli affetti e dalla poesia e orientati verso la verità, odiata fino a pochi anni prima, che rivela la condizione insignificante e infelice dell’uomo nell’universo: «questo arcano [mistero] infelice e terribile della vita nell’universo». L’esplorazione di questa verità costituisce il contenuto delle Operette morali (scritte nel 1824), che sono il risultato creativo di questa fase di rinuncia alle passioni e alle illusioni giovanili e alla poesia. Intanto il nome di Leopardi comincia a circolare anche nell’editoria letteraria: nel 1824 pubblica il suo primo volume di poesie, le Canzoni.
1825-1837. Fuori da Recanati: il conflitto con il proprio tempo.
Fu proprio l’ambiente dell’editoria a fornire a Leopardi il mezzo con cui riuscì a realizzare la svolta più importante, almeno dal punto di vista materiale, della sua vita, cioè andare a vivere fuori da Recanati. L’editore Stella (con cui Leopardi era in contatto fin da giovane) lo invita a Milano, nel luglio 1825, come collaboratore a un’edizione di tutto Cicerone che, benché non realizzata, fu il primo dei progetti editoriali che permisero a Leopardi di mantenersi fuori Recanati. Va notato, a questo proposito, che per un’ironia della storia il giovane conte Leopardi, primogenito di una famiglia della nobiltà di provincia ma finanziariamente in crisi, è costretto a guadagnarsi da vivere con la propria cultura mettendola al servizio del mercato, proprio come il letterato-professionista borghese, la figura emergente dell’Ottocento. Da ora in poi la vita di Leopardi è scandita, innanzitutto materialmente (ma, come si vedrà, anche dal punto di vista culturale e umano), dalle città in cui risiede. Questi anni possono perciò suddividersi ulteriormente in tre periodi:
1) 1825-1829, da Bologna (1825-26, con una breve parentesi a Milano) e a Firenze (1826-1829, con l’inverno e la primavera 1827-28 a Pisa). Sono gli anni in cui Leopardi si mantiene grazie soprattutto ai lavori editoriali per Stella (lavori divulgativi e quindi poco amati, ad es. un commento molto sobrio al Canzoniere di Petrarca nel 1826; ma Stella sarà anche l’editore della prima edizione delle Operette morali, nel 1827). Dal punto di vista culturale, il giovane studioso e poeta, grazie anche all’amicizia di Giordani, frequenta per la prima volta da vicino gli ambienti intellettuali della cultura liberale, in particolare a Firenze, allora una delle città più vivaci e civili, anche per la relativa tolleranza del governo granducale), e tale frequentazione genera un rapporto ambivalente che sarà quello tipico di Leopardi con il proprio tempo, e diventerà, negli ultimi anni, apertamente conflittuale: da una parte una stima reciproca a livello intellettuale e anche personale (in questi anni si aggiungono altre importanti amicizie sincere oltre a quella di Giordani; soprattutto in Toscana Leopardi fu stimato e trattato con molti riguardi dagli ambienti culturali di Firenze e Pisa), ma dall’altra un disaccordo di fondo nella visione del mondo: Leopardi fu fin da allora decisamente indifferente oppure ostile agli interessi economico-sociali e politici e al progressismo riformista (e anche alla componente cattolica) della cultura liberale perché li trovò incompatibili con la sua concezione radicalmente pessimistica e materialistica dell’uomo e della sua esistenza; come scrisse a Giovan Pietro Vieusseux, direttore dell’importante rivista fiorentina L’Antologia, rifiutando un invito a collaborarvi, la sua filosofia si concentra sull’uomo in sé e sui rapporti degli uomini con la natura (cioè le leggi e i meccanismi eterni dell’esistenza umana nei suoi rapporti con la natura umana e le leggi naturali di cui fa parte), e la sua visione della condizione umana, dolorosa e insignificante nell’universo, lo rende estraneo a qualsiasi «filosofia sociale»; in realtà questo non è del tutto vero, perché Leopardi ha anche lasciato molte riflessioni sulla vita in società e sulla società italiana dei suoi tempi, ma non le pubblicò mai durante la sua vita. Infine, questo periodo è fondamentale nella vita spirituale leopardiana perché segna, dopo anni di silenzio quasi totale, la rinascita della poesia, che, per Leopardi, fu l’espressione di una rinascita interiore, non delle illusioni e delle speranze di felicità (ormai la sua concezione pessimistico-materialistica dell’esistenza, affermata nelle Operette morali, era acquisita per sempre), ma della sensibilità al mondo, al proprio animo, ai propri ricordi. Lo scenario e la concausa di questa sorta di miracolo interiore fu Pisa, dove (trascorrendovi l’inverno ’27-’28 per il clima, molto mite e preferibile a quello fiorentino) ritrovò una città piccola un paesaggio che gli ricordò Recanati e un ambiente umano molto accogliente: questo «risorgimento» (rinascita) diede il titolo alla prima poesia scritta a Pisa nell’aprile 1828, a cui segue pochi giorni dopo A Silvia: è l’inizio della seconda grande fase della poesia leopardiana.
2) 1828-1833, ancora soprattutto a Firenze, con due parentesi a Recanati (tra 1828 e 1829) e a Roma (autunno-inverno 1831-32). La cesura tra i due soggiorni fiorentini è determinata da due eventi negativi, uno economico (la fine, nell’inverno 1828, delle retribuzioni da parte dell’editore Stella) e uno familiare (la morte, nel maggio 1828, del fratello Luigi, a ventiquattro anni), che rendono inevitabile, per motivi materiali e sentimentali (le pressioni della famiglia) il ritorno a Recanati, dove Leopardi trascorse, a quanto scriveva agli amici, sei mesi disperati, sprofondato nella solitudine, nella malinconia dei tempi peggiori recanatesi, e nei mali fisici, lanciando appelli disperati ai suoi amici fiorentini per trovargli un impiego qualsiasi che gli permettesse di uscire da quel soggiorno forzato che sente come una sepoltura da vivo; e tuttavia, da quella sepoltura nascono, tra il maggio 1829 e l’aprile 1830, altre poesie che completano la nuova stagione creativa nata a Pisa, una stagione così importante che fornirà, pochi mesi dopo, lo stimolo a rivedere, selezionare e raccogliere le sue poesie edite e inedite in un nuovo libro unico, che saranno i Canti, usciti a Firenze nel 1831. Il modo che trovò per uscire da Recanati era umiliante – accettare un assegno di un anno, a titolo di prestito o di dono se non avesse potuto restituirlo, dai suoi amici fiorentini – ma, disposto a tutto per uscire dal suo «natio borgo selvaggio» (così lo definisce nelle Ricordanze), nell’aprile 1830 riparte per Firenze, e da allora non tornò più a Recanati. A Firenze non si dedica, per motivi di salute, a nuove opere oltre all’impresa, sopra ricordata, di preparare l’edizione dei Canti (da cui sperava anche di ricavare un utile tramite le sottoscrizioni degli acquirenti), e alla composizione di due nuovi dialoghi (che compariranno nella seconda edizione delle Operette morali) nel 1832, anno in cui smette anche di lavorare allo Zibaldone. Ma il secondo soggiorno fiorentino è di nuovo decisivo per il suo presente e il suo futuro, sul piano sentimentale come su quello materiale, perché è a questo periodo che risalgono due incontri decisivi: un’amicizia che divenne un sodalizio con Antonio Ranieri (1806-1888), già conosciuto due anni prima, un liberale napoletano esule tra Italia ed Europa, che dal 1830 (anno in cui si rividero) decide di fare causa comune con Leopardi nella ricerca di una sistemazione e del denaro necessario, il che significava per Leopardi la prospettiva gioiosa di non dover tornare a Recanati e una compagnia amata (fu per seguire Ranieri che Leopardi trascorse un noioso soggiorno a Roma nell’autunno-inverno 1831-32); e un’intensa passione amorosa per la gentildonna Fanny Targioni Tozzetti, conosciuta nel 1830, ispiratrice di una nuova e diversissima stagione poetica che disegna la storia di quest’amore (probabilmente fra 1831 e 1833) dall’inizio entusiastico fino a una delusione terribile, che per Leopardi significò la morte della sensibilità e l’addio definitivo a ogni illusione vitale. L’amore finì in maniera terribile per Leopardi (che si sentì sedotto e poi ignorato, mentre Fanny Targioni-Tozzetti dichiarò anni dopo di non essersi nemmeno accorto dei sentimenti di Leopardi per lei), ma il patto di solidarietà con Ranieri provocò la certezza di non essere solo e di poter vivere fuori da Recanati, grazie anche, dall’estate 1832, a un piccolo assegno mensile che chiese ed ottenne dalla famiglia.
3) 1833-1837, a Napoli. Già dal 1832 il padre di Ranieri aveva chiesto al figlio di tornare a Napoli, in séguito all’amnistia per gli esuli concessa nel 1831, ma Ranieri non fece ritorno in patria prima dell’ottobre 1833, quando vi andò in compagnia di Leopardi, e dove visse sempre con lui e con la sorella Paolina in diversi alloggi. A Napoli Leopardi prepara il progetto editoriale più ambizioso della sua vita, un’edizione completa delle sue opere in sei volumi che comincia ad uscire nel 1835 (con la terza edizione dei Canti), ma è bloccata dalla censura l’anno successivo. Ma Leopardi non è solo in conflitto con il potere reazionario dei suoi tempi, bensì anche, paradossalmente, con gli oppositori liberali, poiché li allontana da entrambi il pessimismo fondato sul materialismo e quindi il rifiuto di ogni prospettiva religiosa e di ogni visione ottimistica del progresso storico-sociale (un rifiuto che si estende anche alle vicende politiche contemporanee, cioè ai moti liberali del 1821 e del 1831, oggetto di satira in un poemetto pubblicato postumo, i Paralipomeni della Batracomiomachia, una rivisitazione satirica del genere antico dell’epica degli animali); non a caso le poesie scritte tra il 1835 e il 1836 si aprono anche ad un attacco ideologico violento, sia serio sia satirico, alla cultura liberale fiorentina e napoletana. È questa insomma la fase in cui l’ostilità di Leopardi con le ideologie del proprio tempo, quelle reazionarie come quelle liberali, è più esplicita ed acuta. Nell’aprile 1836 e fino al febbraio 1837 Ranieri, la sorella e Leopardi si trasferiscono in una villa di campagna tra Torre del Greco e Torre Annunziata, alle pendici del Vesuvio, per sfuggire a un’epidemia di colera: le ultime due poesie della sua vita (che saranno le ultime due poesie dei Canti), La ginestra e Il tramonto della luna, nascono, anche fisicamente, da questo paesaggio, tra il Vesuvio e il golfo di Napoli. A febbraio del 1837 torna a Napoli, ma dopo mesi di mali aggravati dalla residenza in campagna, mali che si protraggono anche in città fino al 14 giugno di quello stesso anno, quando muore assistito da Ranieri e da sua sorella; Ranieri dichiarò poi di aver violato l’obbligo legale, in quel periodo, di seppellire ogni cadavere in una fossa comune a causa dell’epidemia di colera, e di avere fatto trasportare il corpo dell’amico nella chiesetta di San Vitale a Fuorigrotta (nel 1911 le ossa furono poi traslate nella cosiddetta Tomba di Virgilio). Nel 1845 uscì a Firenze, a cura di Ranieri, la prima edizione completa delle opere di Leopardi, preparata in parte dall’autore stesso tra il 1835 e il 1837.

 

La modernità di Leopardi
Questo capitolo non vuole essere un’introduzione alla personalità e all’opera leopardiane, ma semplicemente presentare o accennare ad alcuni elementi che rendono uniche quella personalità e quell’opera sullo sfondo del contesto letterario e culturale italiano del suo tempo, elementi di cui parleremo più diffusamente quando analizzeremo i testi e le opere, ma che è necessario avere presenti fin da ora come chiavi di lettura non solo di quei testi, ma di Leopardi in generale, per apprezzare il meglio possibile la sua originalità e per cominciare a capire per quali ragioni egli si possa definire il fondatore della poesia moderna in Italia.
Un poeta prosatore e filosofo: l’eredità dell’Illuminismo
Basta guardare un’edizione completa delle opere di Leopardi per capire la prima e forse la più importante differenza con i suoi contemporanei, ma che lo fa spiccare anche nel panorama di secoli di letteratura italiana, anche dopo di lui: la pari importanza di prosa e poesia, e più specificamente di poesia e pensiero, di poesia e filosofia, se s’intende filosofia in un significato non specialistico-professionale ma come riflessione sulle domande fondamentali intorno all’uomo, alla sua natura, alla sua esistenza e al suo rapporto con il mondo esterno. L’orizzonte della riflessione leopardiana è infatti vastissimo: la letteratura e le lingue antiche e moderne, la storia e l’antropologia, la psicologia individuale e quella collettiva; in una sintesi, l’esistenza umana nell’ordine dell’universo, la storia e la civiltà (i fenomeni più specifici della presenza umana sulla Terra) rispetto a quel che Leopardi chiama (con un termine fondamentale ereditato dal Settecento) la natura, cioè l’universo, i suoi meccanismi e il sistema di leggi che lo governa, dei quali fanno parte anche l’ambiente terrestre e quindi l’uomo nella sua identità fisica e psicologica e il suo rapporto con l’ambiente e con la propria vita. Quest’ampiezza di orizzonte mentale è in primo luogo il segno del genio leopardiano, e in quanto tale non si spiega e non si può paragonare ad altri esempi, ma dal punto di vista storico-culturale essa illustra anche un segno caratteristico della personalità leopardiana, cioè la sua formazione profondamente settecentesca, illuministica, benché la sua prima educazione sia stata cattolica e non certo aperta all’Illuminismo. Tuttavia dalla rivoluzione culturale settecentesca Leopardi eredita proprio la suddetta prospettiva senza restrizioni dell’indagine sull’uomo e sul mondo, un’indagine che è fondata su competenze tecniche specifiche (nel suo caso, la preparazione filologica, che ne faceva un competente di lingue e letterature classiche superiore alla media del suo tempo, oppure la conoscenza della tradizione letteraria italiana), ma anche sull’utilizzo combinato di competenze diverse e di riflessione personale per elaborare una propria concezione del mondo che ha l’ambizione filosofica di porre, e di rispondere nella misura del possibile, le domande fondamentali sull’uomo e l’universo. Insomma, una prima e fondamentale eredità illuministica in Leopardi è il suo essere non un poeta nel senso tradizionale del termine, ma un pensatore, o meglio un poeta che è allo stesso tempo un pensatore, e quindi anche uno scrittore in prosa. Nella creatività di Leopardi la prosa conta quanto la poesia, e lo dimostra innanzitutto il monumento della sua riflessione in prosa, cioè lo Zibaldone: non si tratta di un’opera destinata alla pubblicazione, ma di un immenso schedario (più di quattromilacinquecento pagine manoscritte), un vastissimo repertorio di appunti e riflessioni che Leopardi stesso intitola Zibaldone di pensieri (zibaldone significa letteralmente ‘miscellanea di appunti, quaderno di appunti e abbozzi’) e che nella sua lunga vita – dal 1817 al 1832 – si trasforma in un’opera unica, che infatti studiosi e lettori ritengono, da circa un secolo, come un testo indispensabile per la conoscenza e il godimento di Leopardi.

L’eredità della cultura settecentesca è visibile anche nel nucleo del pensiero leopardiano intorno a natura e civiltà, cioè nelle due concezioni contrapposte che lo hanno espresso in due fasi distinte, due visioni antitetiche e tuttavia entrambe influenzate da correnti del pensiero settecentesco:
a) il cosiddetto (dalla critica di fine Ottocento) pessimismo storico (dal 1817 al 1823 circa), fondato sull’antitesi tra natura e ragione (cioè razionalità scientifico-tecnologica, tipica della civiltà occidentale moderna), dove la natura è il polo positivo, un’entità rappresentata come una madre benefica, l’entità che ha garantito agli uomini una vita primitiva e semplice e che ha donato loro le illusioni (secondo il termine leopardiano), cioè i valori e le credenze immaginarie ma vitali che danno alla vita un significato che la rende degna, e la ragione rappresenta invece il principio negativo, lo ‘snaturamento’ cioè l’allontanamento dalla natura e dalle condizioni dell’umanità primitiva e antica; il pessimismo storico approda quindi a una critica radicale della civiltà moderna, colpevole di avere corrotto l’umanità allontanandola dalla natura e distruggendo le illusioni e quindi rendendo la vita umana disperata e priva di senso;
b) il cosiddetto pessimismo cosmico (che, dal 1824 in poi, sarà il fondamento del pensiero leopardiano), che rovescia le coordinate della fase precedente: la natura diventa una madre crudele o indifferente perché è il volto del meccanismo universale di conservazione della materia che ignora l’esistenza e i desideri delle creature viventi e le condanna a una vita di dolore in funzione di un ciclo eterno di produzione e distruzione della vita per conservare l’universo; e la ragione umana diventa un valore positivo, uno strumento per conoscere questa verità terribile ma da accettare con coraggio, per attaccare le false rappresentazioni della condizione umana, ma anche per reagire attivamente, cioè per riunire le forze dell’umanità contro l’ostilità della natura.
La concezione della poesia: da un classicismo originale a un romanticismo profondo

Ma la personalità leopardiana non è solo riconducibile al pensiero settecentesco; se si considera infatti il poeta, e tanto i testi quanto le idee cioè la concezione della poesia, si scopre un volto ben diverso di Leopardi, che si può definire profondamente romantico. Ma anche in questo caso, bisogna tener conto dello sviluppo del pensiero leopardiano. Il giovane Leopardi interviene tra il 1816 e il 1818 (anche se i suoi scritti non saranno mai pubblicati) nell’acceso dibattito tra classicisti e romantici del secondo decennio dell’Ottocento, e interviene a difesa dei classicisti ma con ragioni e argomenti così originali che si devono almeno definire un classicismo molto personale (ben diverso dal classicismo erudito e letterariamente conservatore contro cui polemizzava ad es. Manzoni): Leopardi sostiene la superiorità della poesia antica su basi profonde, antropologiche, cioè sul fatto che la poesia antica è secondo lui espressione di un’umanità vicina alla natura, nutrita dalle sue illusioni benefiche e dalla sua percezione del mondo primitiva ma piena d’immaginazione e di meraviglia; dunque, se la poesia è un’imitazione della natura (secondo un principio di base del classicismo che in questa fase Leopardi dà per scontato), solo la poesia antica può essere definita tale, mentre la civiltà moderna, che ha perduto il contatto con la natura ed ha uno sguardo freddo e razionale sul mondo e sull’uomo perché ha perso le illusioni e le immaginazioni con cui concepire la vita e il mondo esterno, non può più produrre poesia autentica, perché non può più concepire poesia d’immaginazione, ma solo fredda imitazione della poesia antica, mentre una poesia moderna cioè fondata sulla civiltà moderna, sulla verità e sulla ragione, è una contraddizione in termini, perché poesia e razionalità sono incompatibili. Da queste premesse teoriche sembrerebbe derivare l’impossibilità della poesia moderna, ma proprio a partire dagli anni della sua riflessione su classici e romantici Leopardi elabora delle riflessioni che non diventeranno mai una teoria per legittimare la poesia moderna, tuttavia le  riservano una possibilità di esistenza (e quindi anche alla sua poesia) come poesia sentimentale e non d’immaginazione, nata cioè dai sentimenti, dalla psicologia e dalla conoscenza della verità e degli uomini tipica della civiltà moderna, una poesia che, in un vero poeta, poteva essere autentica a condizione di essere malinconica: è chiaro che qui Leopardi pensava anche a se stesso, così come doveva pensare a se stesso anche quando scriveva che esiste un’affinità profonda tra poesia e filosofia del passato, e che tale affinità poteva ritornare anche, sebbene raramente, nell’epoca moderna. Queste riflessioni, anche se non diventano mai sistematiche, mostrano un allontanamento dalle coordinate del classicismo, anche del classicismo originale del giovane Leopardi, e, viceversa, un avvicinamento al romanticismo europeo, che Leopardi conosceva poco (mentre era in disaccordo con quel che ne conosceva attraverso i sostenitori italiani del romanticismo, con cui aveva polemizzato tra 1816 e 1818) ma a cui è collegato da una profonda sintonia spirituale. Infine, tra il 1828 e il 1829, anche in séguito alla composizione dei canti pisano-recanatesi, Leopardi, stimolato proprio dalla novità della sua propria poesia, si allontana ulteriormente dal classicismo ritenendo la poesia lirica la sola autentica forma di poesia in quanto sola autentica espressione dell’animo di un individuo che esprime se stesso: la vera poesia quindi non è più imitazione della natura (secondo il principio classicistico) ma creazione individuale, espressione individuale della natura che parla attraverso il poeta, e questa definizione di poesia lirica è valida in tutti i tempi, per cui anche la vera poesia moderna, che è solo lirica, può essere accostata a quella antica. Anche queste riflessioni si possono definire profondamente romantiche perché eliminano il sistema e le gerarchie tradizionali (classicistiche) dei generi letterari e il principio della poesia come imitazione della natura, e al loro posto mettono al centro un’idea per così dire assoluta di poesia, intesa come espressione autentica dell’interiorità individuale che riesce ad esprimere la natura (un privilegio che quindi non è più solo dei poeti antichi). Insomma, Leopardi, il poeta italiano moderno più originale e quindi, come si è detto, il fondatore della nostra poesia moderna non ha mai scritto una teoria compiuta della poesia moderna, anzi è sempre stato segnato dall’ammirazione e dal rimpianto per la poesia antica, e tuttavia, oltre che con la sua creatività poetica, ha indicato anche con la sua riflessione esplicita la possibilità e i caratteri di una poesia allo stesso tempo autentica e moderna.
Verità negativa e vitalità dell’arte
Un altro segno distintivo dell’originalità e della modernità di Leopardi, particolarmente visibile nella sua poesia, deriva dalla suddetta relazione intima tra poesia e filosofia, e si può definire come un’assunzione da parte della poesia di una concezione del mondo pessimistica, di una «filosofia dolorosa, ma vera» (con le parole dello stesso Leopardi). La poesia leopardiana è quindi la prima in Italia (e anche tra le prime in Europa) ad essere una poesia del negativo, almeno dal punto di vista concettuale: essa cioè esprime e conferma una visione del mondo che, per comodità, possiamo definire una verità negativa, quella dell’infelicità a cui è condannata la condizione umana, dapprima per motivi storici (nella prima fase del pensiero leopardiano, il cosiddetto pessimismo storico) e poi per ragioni eterne, che si identificano con il destino umano e le leggi dell’universo. La poesia, quindi, ben lontana dallo svolgere i suoi compiti tradizionali di celebrazione, intrattenimento, insegnamento e divulgazione, o anche, tutt’al più, di consolazione (secondo ad es. il pensiero di Foscolo, per citare un autore vicino a Leopardi), sembra contribuire, insieme con la filosofia cioè l’indagine intellettuale, a dire una verità sconsolata, disperante. La poesia leopardiana non fa solo questo, ma è vero che quasi sempre essa si confronta con la verità negativa della condizione umana necessariamente infelice, con una diversità di atteggiamenti che sono stati di recente così sintetizzati: il rimpianto di una condizione diversa, reale o immaginaria (in particolare il tempo oggetto di questo rimpianto è la gioventù), la ricerca di una fuga temporanea dall’infelicità attraverso il piacere dato dalle illusioni (l’immaginazione, l’amore), e infine l’affermazione esplicita della verità negativa e dolora e il combattimento a viso aperto, per così dire, con questa verità, il coraggio di dichiararla contro le mistificazioni e le esaltazioni infondate del destino e del ruolo della specie umana sulla Terra e nell’universo. Tuttavia, nell’espressione di qualsiasi di questi atteggiamenti, la voce di Leopardi, in prosa o in poesia, possiede un carattere costante anche nel variare dei contenuti, e cioè una vitalità paradossale perché nasce per opposizione al contenuto del discorso, e in generale alla «filosofia dolorosa, ma vera» che è il ‘messaggio’ che la riflessione e la poesia leopardiana vogliono lasciare all’umanità. Qui non è possibile cercare di spiegare questo paradosso, perciò ci limitiamo a ricollegarlo a un altro segno caratteristico dell’arte leopardiana accennato nel primo paragrafo, cioè il suo essere una voce che si leva in nome e a difesa delle domande e dei diritti di ogni individuo in termini di desiderio di felicità, contro un universo fisico-biologico che non tiene conto di tali diritti e condanna l’individuo a un’esistenza di dolore che, dal punto di vista dell’individuo stesso, non ha nessuno scopo e nessun risarcimento. Leopardi non accetta mai questa condizione, pur ribadendola e approfondendola, e anche per questo la sua voce, in poesia o in prosa, esprime questa inutile ma ineliminabile proclamazione di resistenza sia pure verbale, questo rifiuto di accettare o di giustificare una condizione umana considerata crudelmente dolorosa e misteriosa; il paradosso consiste proprio nel fatto che l’individuo, nella poesia e nella prosa di Leopardi, riceve il solo risarcimento possibile alla propria condizione facendone oggetto di discorso, di interrogazione, di lamento, di sfida, a seconda dei casi.
Non si possono peraltro trovare spiegazioni semplicistiche per questa fisionomia tipica dei capolavori leopardiani, cioè la compresenza di contenuti negativi e di uno slancio di vitalità che il lettore riceve insieme con la conoscenza di quei contenuti dolorosi. Tale compresenza che parrebbe una contraddizione in termini, ma che è una delle cause più originali del fascino di Leopardi, è intimamente legata al livello eccezionale dei risultati espressivi, come lo stesso Leopardi sapeva quando, pur non parlando esplicitamente di sé, rifletteva su tale paradosso in un pensiero dello Zibaldone di cui non si può fare a meno di citare almeno l’inizio, cioè l’enunciazione di questo paradosso per cui la grande poesia, anche quando è poesia del negativo, dona a chi è in sintonia con essa un’energia vitale e un amore per la vita che sembra negare con i suoi contenuti; l’arte geniale è sempre una fonte di consolazione e di vita anche quando descrive un universo senza speranza:
«Hanno questo di proprio le opere di genio, che quando anche rappresentino al vivo la nullità delle cose, quando anche dimostrino evidentemente e facciano sentire l’inevitabile infelicità della vita, quando anche esprimano le più terribili disperazioni, tuttavia ad un’anima grande che si trovi anche in uno stato di estremo abbattimento, disinganno, nullità, noia e scoraggimento [sconforto] della vita, o nelle più acerbe e mortifere [mortali] disgrazie [...]: servono sempre di consolazione, raccendono l’entusiasmo, e non trattando né rappresentando altro che la morte, le rendono, almeno momentaneamente, quella vita che aveva perduta [...]» (Zibaldone 259, 4 ottobre 1820).

 

 

Presentazione dell’opera
I Canti furono pubblicati a Firenze nel 1831: nel libro Leopardi ripubblica (eliminando alcuni testi e correggendoli tutti) le sue poesie edite precedentemente in volume negli anni Venti (Canzoni, 1824; Versi, 1826) e aggiunge testi inediti recenti, per un totale di ventiquattro testi. La seconda edizione accresciuta (Napoli, 1835) aggiunse altri testi inediti composti o ultimati dopo il 1831. Ma dopo questa edizione Leopardi lavorò ben presto a una terza edizione accresciuta che però non fece in tempo a vedere pubblicata; l’edizione definitiva dei Canti (quella che si legge attualmente) uscì perciò postuma nel 1845: è composta di quarantuno poesie (delle quali le ultime sette costituiscono un’appendice di testi minori e di “frammenti”, secondo un titolo d’autore).
I testi dal primo al trentaseiesimo si susseguono per lo più in ordine cronologico; la struttura del libro, infatti, è composta quasi sempre di blocchi omogenei per cronologia e forma metrica, e spesso anche per temi. I blocchi principali sono i seguenti:
1) le “canzoni” (nn.1-9, 18), composte tra il 1818 e il 1823, caratterizzate da una metrica allo stesso tempo tradizionalista (nella forma, ormai antiquata nel primo Ottocento) e innovatrice (negli schemi abnormi rispetto alla tradizione), e da un linguaggio difficile, classicistico in modo estremistico; sono quasi tutte testi di argomento ‘pubblico’, dedicati cioè alla rievocazione storica (antica o contemporanea) o a riflessioni generali di filosofia della storia, tranne le ultime, dedicate a temi nello stesso tempo privati (incarnati nella figura di un personaggio storico) e universali. Le canzoni sono perciò l’espressione, in poesia, del pensiero del giovane Leopardi sulla storia dell’umanità e sul suo inesorabile percorso di decadenza da una condizione originaria e felice, perché vicina alla natura e agli ideali e valori che essa ha donato alla specie umana (le illusioni, nella terminologia leopardiana), alla condizione moderna, dominata dalla verità e dalla razionalità scientifiche (che Leopardi riassume nel termine “ragione”) distruttrici delle illusioni, e quindi da una vita intollerabile e priva di senso, che conduce all’individualismo esasperato e alla disperazione.
2) Gli “idilli” (nn.12-16), risalenti al 1819-1821 ma collocati da Leopardi dopo le canzoni perché pubblicati dopo e appartenenti anche a una fase poetica ideale successiva: dalla poesia pubblica, storica e universale delle canzoni, si passa infatti alla poesia privata, intima, degli idilli (il termine è di Leopardi), brevi quadri o scene (è questa l’etimologia di idillio come genere letterario) tratti dall’esperienza personale dell’io e precisamente dalla sua biografia psicologica o sentimentale: si tratta quindi di testi autobiografici e più precisamente autoanalitici (dove l’io analizza se stesso in determinate situazioni); anche la metrica e il linguaggio sono ben diversi da quelli delle canzoni: entrambi molto più melodiosi (grazie all’endecasillabo sciolto, metro di tutti gli idilli) e molto meno complessi e densi grazie a un lessico sempre letterario ma più familiare e a una sintassi e una retorica assai più semplici: il risultato è un linguaggio musicale e suggestivo espressione esemplare, per usare due termini leopardiani, di una poesia del “vago” e dell’“indefinito”.
3) i canti pisano-recanatesi (nn. 20-25), definiti così dalla critica moderna perché composti tra Pisa e Recanati nel periodo 1828-1830: sono tra i testi più famosi di Leopardi, per la rivoluzione metrica (con essi nasce la cosiddetta “canzone libera”, la novità metrica più importante della poesia italiana ottocentesca, precorritrice della metrica libera del primo Novecento) e formale (un linguaggio insieme familiare e letterario, semplice e melodioso nella sintassi eppure anche patetico o sublime), e per la sintesi di poesia lirica (discorso sull’io) e pensiero (discorso universale, valido per l’intera condizione umana); il pensiero è quello del Leopardi maturo, cioè il cosiddetto “pessimismo cosmico”, l’analisi sconsolata di una condizione umana destinata all’infelicità (attraverso la distruzione delle illusioni o la loro mancata realizzazione) dal potere maligno della natura, che (come dice A Silvia) inganna i figli suoi, cioè crea gli uomini dotandoli di un desiderio necessario e un’attesa della felicità che sono però irrealizzabili dalle condizioni psicologiche e fisiche in cui si svolge la vita umana (una breve stagione di illusioni – la gioventù e il vigore del corpo – e poi una lunga decadenza fisica, la scomparsa delle speranze di felicità e il subentrare della disillusione e della noia che rendono intollerabile la vita).
4) I canti fiorentini (nn. 17, 26-28), così definiti perché composti a Firenze tra il 1831 e il 1833; sono pochi testi ma molto omogenei dal punto di vista tematico, poiché sono canti d’amore,  esplicitamente autobiografici (nascono dalla violenta passione di Leopardi per una gentildonna fiorentina, un passione terminata però nella scoperta dell’indifferenza di tale donna per lui), e perciò uniti dalla tematica amorosa e in particolare dalla celebrazione dell’esperienza dell’amore come ultima e più profonda illusione per cui vale la pena di vivere, fino all’ultimo testo, brevissimo (A se stesso) che sancisce la fine di quell’esperienza e l’abbandono definitivo della vitalità interiore e delle illusioni, quindi la rinuncia alla vita così come la intende Leopardi, cioè la vita del cuore, del desiderio e della speranza (sia pure illusoria) della felicità. Anche lo stile è innovativo rispetto ai canti pisano-recanatesi: non più melodioso e fondato su un linguaggio e una sintassi semplici, ma più difficile nel lessico e variabile e nervoso nella sintassi, energico ed eroico (com’è stato definito dalla critica).
5) i canti napoletani (nn. 29-34), composti a Napoli tra il 1834 e il 1836: in una grande varietà di temi e di linguaggio, la costante principale è il carattere pienamente filosofico del discorso poetico, non più autobiografico ma universale, impersonale, espressione di una meditazione generale su alcuni punti e domande fondamentali dell’esistenza umana (la morte, l’amore, la bellezza, la fragilità della vita umana); questo blocco (e il libro propriamente detto) si conclude con La ginestra, la poesia-testamento di Leopardi, la sintesi della novità e della ricchezza formale della sua poesia e del suo pensiero, che ribadisce (in modi però nuovi rispetto a ogni testo precedente) che l’originalità della poesia leopardiana sta nel suo essere una poesia-pensiero, una poesia che è allo stesso tempo filosofia,

Testo 1: il rimpianto dell’antico e il lamento sulla modernità (Alla Primavera, o delle favole antiche)
Composta nel gennaio 1822, e pubblicata nei Canti a partire dalla prima edizione (1831), Alla Primavera, o delle favole antiche è dedicata alla rievocazione dei miti classici (favole, dal latino fabulae) inserita in una cornice stagionale (il ritorno della primavera e della vita) al presente; tale rievocazione è un rimpianto di una condizione di armonia uomo-natura espressa dalla religione antica e dai suoi miti, e adesso, nel presente della modernità, perduta per sempre.

 

Perché i celesti danni
ristori il sole, e perché l’aure inferme
Zefiro avvivi, onde fugata e sparta
delle nubi la grave ombra s’avvalla;
credano il petto inerme                                                                                          5         
gli augelli al vento, e la diurna luce
novo d’amor desìo, nova speranza
ne’ penetrati boschi e fra le sciolte
pruine, induca alle commosse belve;
forse alle stanche e nel dolor sepolte                                                         10
umane menti riede
la bella età, cui la sciagura e l’altra
face del vero consunse
innanzi tempo? Ottenebrati e spenti
di febo i raggi al misero non sono                                                15
in sempiterno? Ed anco,
primavera odorata, inspiri e tenti
questo gelido cor, questo ch’amara
nel fior degli anni suoi vecchiezza impara?

Vivi tu, vivi, o santa                                                                                              20
natura? vivi e il dissueto orecchio             
della materna voce il suono accoglie?
Già di candide ninfe i rivi albergo,
placido albergo e specchio
furo i liquidi fonti. Arcane danze                                                              25
d’immortal piede i ruinosi gioghi
scossero e l’ardue selve (oggi romito
nido de’ venti): e il pastorel ch’all’ombre
meridiane incerte ed al fiorito
margo adducea de’ fiumi                                                                        30
le sitibonde agnelle, arguto carme
sonar d’agresti Pani
udì lungo le ripe; e tremar l’onda
vide, e stupì, ché non palese al guardo
la faretrata Diva                                                                                                    35
scendea ne’ caldi flutti, e dall’immonda
polve tergea della sanguigna caccia
il niveo lato e le verginee braccia.

Vissero i fiori e l’erbe,
vissero i boschi un dì. Conscie le molli                                         40
aure, le nubi e la titania lampa
fur dell’umana gente, allor che ignuda
te per le piagge e i colli,
ciprigna luce , alla deserta notte
con gli occhi intenti il viator seguendo,                                         45
te compagna alla via, te de’ mortali
pensosa immaginò. Che se gl’impuri
cittadini consorzi e le fatali
ire fuggendo e l’onte,                                                        
gl’ignudi tronchi al petto altri nell’ime                                          50
selve remoto accolse,
viva fiamma agitar l’esangui vene,
spirar le selve, e palpitar segreta
nel doloroso amplesso                                                       
Dafne o la mesta Filli , o di Climene                                                       55
Pianger credè la sconsolata prole
Quel che sommerse in Eridano il sole .

Nè dell’umano affanno,
rigide balze, i luttuosi accenti                    
voi negletti ferìr mentre le vostre                                                              60
paurose latebre Eco solinga,
non vano error de’ venti,
ma di ninfa abitò misero spirto,
cui grave amor, cui duro fato escluse
dalle tenere membra. Ella per grotte,                                                        65
per nudi scogli e desolati alberghi,
le non ignote ambasce e l’alte e rotte
nostre querele al curvo
etra insegnava. E te d’umani eventi
disse la fama esperto,                                                                                            70
musico augel che tra chiomato bosco
or vieni il rinascente anno cantando,
e lamentar nell’alto
ozio de’ campi, all’aer muto e fosco,
antichi danni e scellerato scorno,                                                               75
e d’ira e di pietà pallido il giorno .

Ma non cognato al nostro
il gener tuo; quelle tue varie note
dolor non forma, e te di colpa ignudo
men caro assai la bruna valle asconde.                                          80
Ahi ahi, poscia che vote
son le stanze d’Olimpo , e cieco il tuono
per l’atre nubi e le montagne errando,
gl’iniqui petti e gl’innocenti a paro
in freddo orror dissolve; e poi ch’estrano                                      85
il suol nativo, e di sua prole ignaro
le meste anime educa;
tu le cure infelici e i fati indegni
tu de’ mortali ascolta,
vaga natura, e la favilla antica                                                                   90
rendi allo spirto mio; se tu pur vivi,
e se de’ nostri affanni
cosa veruna in ciel, se nell’aprica
terra s’alberga o nell’equoreo seno,
pietosa no, ma spettatrice almeno.                                                 95

Nonostante il sole rimedi ai danni provocati dal cielo invernale, e nonostante il vento primaverile ridia la vita all’aria malsana, per cui, messa in fuga e dispersa, l’ombra opprimente delle nuvole discende a valle; (nonostante) gli uccelli affidino il petto debole al vento, e la luce del giorno infonda una speranza nuova e un nuovo desiderio di amore agli animali stimolati (alla vita e all’amore) in mezzo ai boschi attraversati (dalla luce del giorno) e tra le nevi sciolte; forse agli animi umani, stanchi della vita e schiacciati dal dolore, torna l’età felice (la gioventù), che la sofferenza e la luce tenebrosa (cioè la conoscenza) della verità distrussero prematuramente? I raggi del sole non sono ancora oscurati e spenti per sempre per l’infelice? Ed ancora, primavera odorosa, ridai vita e stimoli questo cuore di ghiaccio, questo cuore che in piena gioventù ha conosciuto la vecchiaia?

Tu sei viva, adorata natura? Sei viva, e il (mio) orecchio non più abituato riceve la tua voce come di una madre? Un tempo i fiumi furono una dimora di ninfe dalla pelle candida, le limpide fonti furono una dimora tranquilla e uno specchio. Danze misteriose compiute da piedi di creature divine fecero risuonare le pareti ripide e le foreste inaccessibili (che oggi sono un luogo solitario pieno di venti); e il pastorello, che conduceva le agnelle assetate alle ombre instabili del mezzogiorno e alle rive fiorite dei fiumi, ascoltò lungo le rive (del fiume) suonare una melodia acuta di divinità dei campi; e vide l’onda tremolare, e si riempì di stupore, perché la dea con la faretra, invisibile allo sguardo, scendeva tra le onde calde, e lavava i suoi fianchi candidi come neve e le braccia di vergine dalla polvere sporca residuo della caccia sanguinosa (perché aveva sparso il sangue delle bestie).

Un tempo i fiori e le piante, i boschi furono creature viventi. I venti vaganti, le nuvole e il sole furono consapevoli del genere umano, nel tempo in cui il viaggiatore seguendo te, limpida luna, con gli occhi attenti nella notte silenziosa, ti credeva compagna di viaggio e preoccupata degli uomini. E se qualcuno, fuggendo dalle relazioni corrotte e dagli odii e dalle umiliazioni mortali della società cittadina, isolatosi nella profondità delle foreste strinse al petto i tronchi pungenti, credette che un calore vitale facesse muovere le vene degli alberi prive di sangue, che le foglie respirassero, e nell’abbraccio pieno di dolore credette che Dafne o la triste Fillide respirassero chiuse dentro quell’albero, o credette che le figlie in lutto di Climene piangessero colui che il Sole fece precipitare nel Po (Fetonte).

  E le voci lamentose degli esseri umani non colpirono senza essere ascoltate neanche voi (cioè: i lamenti umani furono ascoltati anche da voi), rupi scoscese dei monti, finché la solitaria Eco - non un effetto ingannevole del vento ma lo spirito di una ninfa infelice - abitò le vostre spaventose caverne, (una ninfa) che un amore doloroso, un destino crudele cacciò via dal suo corpo delicato. Lei, errando per grotte, per pareti rocciose e luoghi deserti, ripeteva alla volta celeste i lamenti umani profondi e affannosi, che anche lei conosceva. E la credenza collettiva ti dichiarò un conoscitore delle vicende umane, uccello melodioso (l’usignolo) che adesso in mezzo al bosco pieno di foglie vieni a cantare la stagione che rinasce, e credette che tu, in mezzo alla pace profonda dei campi, in mezzo al cielo silenzioso e oscuro, ti lamentassi di antiche sventure e di una vendetta infame, e di quel giorno in cui il sole impallidì per la rabbia e la compassione.

   Ma la tua razza non è dello stesso sangue della nostra; non è il dolore a creare le tue ricche melodie, e la valle oscura ti nasconde, ora che sei innocente, molto meno caro (a noi uomini). Ahi ahi, dopo che l’Olimpo è vuoto (cioè: dopo che è scomparsa la religione pagana), e il tuono, vagando a caso tra le nubi fosche e le montagne, paralizza di gelido orrore l’animo degli innocenti e dei colpevoli allo stesso modo; e dopo che la terra da cui nascono gli uomini, estranea a loro e inconsapevole dell’esistenza dei suoi figli, fa crescere gli animi che vivono nel dolore; tu, bella natura, ascolta gli affanni sventurati e i destini immeritati degli uomini, e restituisci al mio spirito il calore vitale di un tempo, se almeno tu sei viva, e se nel cielo o nella terra soleggiata o nel fondo del mare vive una creatura che sia non dico pietosa, ma almeno testimone del nostro dolore.

Leggiamo insieme. Un congedo dal neoclassicismo e un lamento sulla modernità.
Schema metrico e data?
Data di composizione: gennaio 1822 (pubblicata nei Canti a partire dalla prima edizione, 1831); schema metrico: cinque strofe di endecasillabi e settenari con schema aBCDbEFGHGiKIMNoMPP.
Alla Primavera, o delle favole antiche (dove le “favole” sono i miti classici, in latino fabulae) è innanzitutto un esempio tipico del linguaggio delle canzoni leopardiane (cioè del primo blocco omogeneo di testi che compare nel libro dei Canti e che, prima di questo libro, costituì un libro a parte, le Canzoni, pubblicato nel 1824): un linguaggio classicistico si direbbe in modo estremistico, e non solo per il tema (la mitologia classica) ma ancor più per la complessità e la difficoltà del lessico e della sintassi (pieni di parole e costruzioni latineggianti), per la complessità anche dello schema metrico (tutt’altro che tradizionale, dato che prevede ben 11 versi non rimati su 19, cioè la maggioranza). Da una parte, quindi, questa canzone prosegue la lezione stilistica del neoclassicismo italiano tra fine Settecento e primo Ottocento (da Parini e Foscolo), ma dall’altra essa supera quei modelli in difficoltà e in innovazioni tecniche (lo schema metrico): il classicismo leopardiano delle canzoni è un classicismo sperimentale ma anche (com’è stato definito) bifronte, orientato sia verso la tradizione che verso l’innovazione. Ma in questa lettura privilegeremo due elementi tematico-ideologici del testo: la sua posizione rispetto al neoclassicismo europeo ed italiano, e la sua importanza come documento del pensiero del primo Leopardi. A tale scopo, data la suddetta difficoltà linguistica, riassumiamo lo svolgimento tematico in poche parole, strofa per strofa: 1) il ritorno della primavera (quindi la rinascita della vita nella natura) non riporta la vita della sensibilità e la primavera della vita umana (la gioventù) negli uomini moderni che (come l’io che qui parla) hanno conosciuto l’esperienza della sciagura e del dolore; 2) nell’antichità, invece, la natura era intimamente unita alla vita umana perché il paesaggio naturale era abitato dalle divinità della mitologia (esempi delle ninfe e delle divinità dei boschi e dei campi); 3) come testimoniano i miti antichi, non solo la natura era consapevole e compartecipe della vita umana (esempio della luna, divinità che aiutava gli uomini), ma essa era anche animata, cioè non vi era soluzione di continuità tra la vita umana e quella naturale, dato che persino le piante potevano essere creature umane trasformate (esempi di tali miti di metamorfosi: Dafne, Filli, le Eliadi); 4) riconferma della tesi precedente tramite altri miti di metamorfosi che riguardano altri regni naturali (Eco e Filomela-usignolo); 5) nell’epoca moderna, invece, la natura è diventata muta per gli uomini, perché insieme con la religione antica è scomparsa anche la credenza in una natura animata e compartecipe della vita umana; malgrado questo, l’io chiede alla natura di ascoltare ancora il lamento degli uomini infelici e di restituirgli il calore vitale della sua sensibilità.
Il “pessimismo storico”: l’uomo tra natura e ragione; antichi e moderni: la storia come involuzione
Cominciando dal secondo argomento (il pensiero del primo Leopardi come si può cogliere in questa canzone), la struttura tematica del testo, che è a cornice (la prima e l’ultima strofe, al presente, dedicate all’io e alla condizione infelice degli uomini moderni; le altre strofe, al passato remoto, dedicate alla condizione felice dell’umanità antica e dei suoi miti), esprime una delle antitesi fondamentali del pensiero leopardiano, e in particolare del cosiddetto primo Leopardi (all’incirca tra il 1818 e il 1824), una fase che è stata definita (dalla critica di fine Ottocento) del “pessimismo storico”: l’opposizione tra antichi e moderni, in cui l’elemento positivo è costituito dalla civiltà antica (fino all’antichità classica) e quello negativo dalla modernità (e in particolare dalla modernità più vicina a Leopardi, quella nata con il Settecento, il progresso scientifico-tecnologico e l’Illuminismo). Quest’antitesi è a sua volta una conseguenza di un’altra opposizione, quella tra natura e ragione: la natura, nel primo Leopardi, è l’entità creatrice dell’uomo e del mondo intorno all’uomo, una sorta di madre buona che ha creato la vita e quindi anche l’uomo, inserendolo nel migliore ordine possibile per la sua conformazione psico-fisica; la ragione è invece una facoltà specificamente umana che nel corso della storia dell’umanità ha accresciuto in misura straordinaria la sua forza e la sua potenza fino a sopraffare la condizione “naturale” dell’umanità (sia nel senso di primitiva, originaria, sia nel senso di voluta dalla natura) e a provocare un’infelicità progressiva nella vita umana. Le tesi fondamentali del “pessimismo storico” leopardiano possono quindi così sintetizzarsi: la natura è la madre benefica del genere umano, in quanto fonte e artefice delle condizioni originarie della sua vita (le migliori possibili) e di illusioni, cioè fonte dell’immaginazione e dei suoi piaceri, nonché dei valori individuali e collettivi che cementavano le comunità antiche; la ragione, distruttrice delle condizioni di vita originarie cioè delle illusioni e della vicinanza tra uomo e natura, ha creato un’altra umanità, lontana dalla natura e quindi degenerata, priva di illusioni e quindi in preda alla verità della scienza e della filosofia moderne, di conseguenza egoista e disperata; la storia, quindi, è involuzione, decadenza, nella misura in cui è un allontanamento progressivo dalla natura e dalle sue illusioni fonte di piacere e sostanza della vita umana, e sprofondamento nell’esistenza fredda e priva di valore di una civiltà moderna dominata dalla ragione, e quindi dal calcolo e dall’egoismo, senza il conforto di illusioni o di ideali collettivi. Tutta questa teoria non è qui esplicitata ma è presupposta e quindi indispensabile per capire il testo; quel che è esplicito è che l’io, non solo in quanto portatore di sofferenze personali (come si dice nella prima strofa) ma anche come rappresentante dell’umanità moderna e quindi unito ad essa da un destino di infelicità collettiva (come si dice nell’ultima strofa), vive una vita intollerabile perché è morto nella sua sensibilità, invecchiato già da giovane. Inoltre, quest’io tormentato da sventure sia individuali che storiche (collettive) può trovare conforto solo nella «santa / natura», ed è a lei che si rivolge, come a una divinità buona e materna, per chiederle quel che la storia-involuzione dell’umanità ha negato, cioè il recupero della sensibilità, di una vitalità interiore animata dal senso di una continuità tra uomo e natura: era questa appunto la condizione dell’umanità antica.
Il mito antico e la scienza moderna: dall’armonia all’estraneità tra uomo e natura
Tale condizione umana nell’antichità, che è il tema a cui è dedicata la maggior parte del testo, è ricostruita attraverso la rievocazione di alcuni miti classici che esemplificano una tesi di fondo: il mito antico è espressione di una percezione della vita umana completamente diversa da quella moderna, perchè nasce da un senso di continuità tra uomo e natura, una continuità che si manifesta in vari modi (dei quali i singoli miti sono esempi). Così, l’uomo antico non si sentiva solo in un mondo estraneo, ma circondato da una natura piena di dèi, una natura quindi percorsa da una vita divina che a sua volta era in contatto con quella dell’uomo (ad es. la luna proteggeva i viaggiatori); inoltre, il mito antico attuava anche una proiezione della vita umana sul mondo esterno, cioè sul paesaggio naturale, che quindi non era solo vivente di vita divina, ma anche di vita umana trasformata (i miti di metamorfosi in cui un uomo o una donna sono trasformati in un albero o in un animale, o addirittura in un fenomeno fisico come l’eco). Il risultato di questi diversi modi di rendere animata, vivente la natura intorno all’uomo è uno solo: l’armonia tra uomo e natura, la percezione della vita umana come una parte di una vita universale, in continuità con altri regni del mondo vivente sulla Terra e anche con gli dèi. A questa percezione e a questa immagine del mondo si contrappone (nell’ultima strofa soprattutto, e in rapidi accenni nelle precedenti) la percezione moderna del mondo, che è quella scientifica: essa è caratterizzata dalla visione ‘oggettiva’, cioè fisico-matematica, disumanizzata, del mondo esterno, interpretato come sistema di leggi e di fenomeni fisici esistenti indipendentemente dall’uomo e soprattutto senza alcun rapporto consapevole con la sua vita (le foreste sono solo abitate dai venti, l’eco è un fenomeno fisico, la luna e gli uccelli non sanno niente della vita umana). Tale rappresentazione è la conseguenza della visione razionalistica, cioè scientifica, del mondo, una visione che secondo Leopardi è un risultato della frattura tra uomo e mondo provocata dalla civiltà cioè dal dominio della ragione: tale frattura, nata dallo sguardo distaccato e scientifico della razionalità, e quindi dall’indagine che cerca la verità oggettiva delle cose e non la loro spiegazione mitica, cioè umanizzata, ha reso la natura estranea all’uomo, e ha fatto dell’ambiente umano un deserto dove l’uomo soffre di una infelicità e di una solitudine assolute, perché prive di creature che ne abbiano pietà o almeno ne siano a conoscenza.
La concezione della storia e della stessa condizione umana del primo Leopardi (come emerge anche in questa canzone) è la prima e certo una delle più radicali critiche della modernità, paradossalmente nata in un autore coltissimo e figlio della cultura dell’illuminismo settecentesco: gli ideali illuministici della razionalità come motore della storia umana e del progresso come sviluppo progressivo e positivo della civiltà umana vengono rovesciati in una celebrazione e in un rimpianto di una visione antitetica del mondo, una visione aberrante e falsa se considerata dal punto di vista della razionalità e del sapere moderni, cioè dal punto di vista della scienza figlia della ragione, ma, secondo Leopardi, umana e naturale (cioè voluta dalla natura per il bene della specie umana); mentre invece è proprio la visione scientifica del mondo (quella che vuole essere la ‘vera’ visione del mondo, perché oggettiva) ad essere il risultato di una condizione umana alienata e disperata, che rende intollerabile la vita dell’umanità moderna.
Un addio al neoclassicismo: classicismo tematico-formale e modernità di pensiero; la frattura irreparabile antichi-moderni e la nascita di un io unico
Queste caratteristiche fanno di Alla Primavera un testo duplice dal punto di vista ideologico, e in un certo senso paradossale: da una parte, Leopardi rievoca e celebra con nostalgia struggente una condizione storica perduta, quella dell’umanità antica e dei prodotti di tale condizione, cioè i miti classici, e quindi il testo, per il suo argomento e per tale impostazione celebrativa, è pienamente riconducibile al neoclassicismo europeo di fine Settecento-primo Ottocento (che è stata anche parte della formazione letteraria di Leopardi, ad es. attraverso Foscolo); ma dall’altra parte l’antichità felice è dichiarata irrimediabilmente perduta, perché tale perdita è il risultato inevitabile di uno sviluppo storico che Leopardi (contro l’illuminismo settecentesco, come si è detto) considera non un progresso ma un’involuzione, una perdita dell’umanità autentica, un allontanamento dalla natura: questa condanna della modernità e della razionalità e del progresso scientifico è ben lontana dalla cultura neoclassica, che ambiva invece a una sintesi di civiltà moderna e modelli e ideali classici, e dunque colloca, da questo punto di vista, questa canzone al di fuori, o meglio al di là del neoclassicismo. Il bilancio di Alla Primavera dal punto di vista del pensiero, infatti, è la constatazione desolata di una frattura storica senza rimedio, quella tra l’antichità classica e la civiltà moderna infelice perché alienata, snaturata dal trionfo della razionalità e dalla scomparsa della percezione del mondo e dell’immaginazione originarie, ‘naturali’ nella specie umana. La visione del mondo neoclassica è perciò definitivamente abbandonata, malgrado la celebrazione dell’antichità classica, celebrazione che in Leopardi diventa un rimpianto doloroso ma senza soluzione: Leopardi è il primo poeta italiano (e uno dei primi poeti occidentali) a fondare la sua poesia e la sua teoria della poesia sulla consapevolezza dolorosa di appartenere al mondo moderno, un mondo separato per sempre (e per suo danno) da ogni ideale di bellezza e di civiltà antiche. Quel che rimane dalla constatazione della suddetta frattura antichi-moderni e dell’allontanamento per sempre della specie umana dalla natura-madre buona, è un soggetto senza difesa contro l’intollerabilità della vita, reso disperato (in quanto uomo moderno) dalla conoscenza funesta della verità, un uomo condannato alla condizione paradossale di essere un giovane-vecchio, una sensibilità invecchiata precocemente. Dietro il discorso universale, cioè di riflessione generale sulla storia dell’umanità, emerge qui, nella prima e nell’ultima strofa (anche se non è una presenza maggioritaria) un io individuale, l’io del poeta in quanto uomo moderno tra gli altri, ma anche in quanto io, cioè individuo, soggetto considerato in se stesso, dotato di una propria esperienza sventurata, e che perciò parla a tu per tu con la natura in nome di se stesso, invocando da lei il ritorno della vita del cuore, di una sensibilità vitale perché animata dalle illusioni degli uomini antichi e della gioventù. Insomma, come poi si vedrà meglio da altre poesie decisamente ‘private’ di questi anni (gli idilli) e dalle poesie degli anni a venire, la poesia leopardiana nella sua prima fase elabora una riflessione generale sulla storia umana, si confronta con la cultura e la storia del suo tempo (la rappresentazione desolata della storia e della civiltà contemporanee, l’addio al neoclassicismo e a ogni ideale di sintesi di antichità e modernità), e ne trae un bilancio sconsolato: da tale bilancio nasce una nuova poesia, che è poi la lirica moderna, cioè una poesia incentrata su un io che è insieme un figlio del suo tempo (la modernità infelice) e un io unico, dotato di caratteri originali, diverso dalla media. La prima fase della poesia leopardiana (canzoni e idilli) percorre questo cammino che porta dalla poesia-discorso sulla storia e sulla civiltà alla poesia-discorso e analisi di un io moderno.

Testo 2: l’autoanalisi dell’io e la scoperta dell’infinito mentale (L’infinito)
Composto nel 1819 ma pubblicato nei Canti (fin dalla prima edizione, 1831) nel blocco degli “idilli” collocato dopo le canzoni, L’infinito è, per la sua originalità e perfezione, uno dei vertici della poesia leopardiana e un testo che si può considerare all’inizio della poesia moderna in Italia: qui la poesia lirica diventa non solo narrazione e analisi di un’esperienza individuale, ma anche un mezzo di esplorazione psicologica delle leggi dell’immaginazione umana; il discorso poetico ne esce quindi potenziato in modo incomparabile rispetto alla tradizione, poiché la poesia (il racconto di un’esperienza personale) diventa un’alleata, una voce e una traduzione unica del pensiero (l’esplorazione dell’animo umano).

Sempre caro mi fu quest’ermo colle ,
e questa siepe, che da tanta parte
dell’ultimo orizzonte il guardo esclude.
Ma sedendo e mirando, interminati
spazi di là da quella, e sovrumani                                                     5
silenzi, e profondissima quiete
io nel pensier mi fingo; ove per poco
il cor non si spaura. E come il vento
odo stormir tra queste piante, io quello
infinito silenzio a questa voce                                                           10
vo comparando: e mi sovvien l’eterno,
e le morte stagioni, e la presente
e viva, e il suon di lei. Così tra questa
immensità s’annega il pensier mio:
e il naufragar m’è dolce in questo mare.                          15

Mi è sempre stato caro questo colle solitario, e anche questa siepe, che sottrae alla vista (letteralm. “esclude lo sguardo da”) una gran parte del limite del paesaggio formato dall’orizzonte. Ma soffermandomi qui e guardando davanti a me, mi costruisco nel pensiero degli spazi illimitati oltre quella (la siepe), e dei silenzi sconosciuti all’uomo, e una pace immensa, una dimensione dove per poco il cuore non viene colto dallo spavento. E non appena ascolto il vento che stormisce tra queste piante, paragono quell’infinito silenzio (creato nella mia immaginazione) con questa voce (lo stormire del vento): e mi viene in mente l’eternità, e le epoche passate, e quella presente e attuale, e i suoni del tempo presente. In questo modo, il mio pensiero sprofonda sempre più tra queste due dimensioni infinite della mia interiorità (l’immensità spaziale e quella temporale): e perdermi in questa sorta di mare immenso dentro di me è un’esperienza che mi dà piacere.

Schema metrico: endecasillabi sciolti.
Leggiamo insieme: il primo capolavoro della lirica moderna
L’infinito è stato sempre ritenuto forse la più perfetta poesia di Leopardi, oltretutto di un Leopardi ventenne. Poiché è molto difficile, se non impossibile, tradurre in altri termini la perfezione di un’opera d’arte, qui cercheremo di indicare alcuni degli elementi originali che fanno di questa poesia un testo profondamente leopardiano e, anche per questo, un capolavoro tra i primi, anche in ordine cronologico, della poesia lirica moderna europea.
La novità del tema: l’autoanalisi dell’io in forma narrativa
In primo luogo si tratta di una poesia lirica nel senso più profondo del termine, cioè una poesia soggettiva, una poesia-autoanalisi che ha per protagonista assoluto l’io del poeta, che esplora l’interiorità di questo io, e che quindi ha per oggetto l’esperienza profonda di un individuo; il contesto esterno all’io (la biografia e le sue circostanze o episodi) sono nettamente subordinate a tale scopo e sono in funzione di tale autoanalisi dell’io. In questo caso, le circostanze esterne sono il punto di partenza di un percorso autoanalitico che si può chiaramente scandire in quattro tappe: 1) vv. 1-3: presentazione del paesaggio nella sua peculiarità (un paesaggio che chiude parzialmente l’orizzonte), ma anche, fin da subito, in funzione dell’io («Sempre caro mi fu...»), dunque una presentazione insieme soggettiva e oggettiva; 2) vv. 4-8: superamento delle limitazioni fisiche di quel paesaggio e creazione da parte dell’io (e proprio grazie a quelle limitazioni) di un paesaggio interiore, caratterizzato dalla sua dimensione infinita, e immersione in un infinito spaziale interiore vissuta come un’esplorazione in un mondo ignoto, un’avventura interiore che mette anche i brividi; 3) vv. 8-13: nuovo stimolo del paesaggio esterno (lo stormire del vento) e conseguente seconda creazione di un’altra dimensione interiore anch’essa infinita, ma questa volta di natura temporale, in cui l’io percorre, dentro di sé, un viaggio tra l’eternità e il tempo, fino a tornare alla situazione presente; 4) vv. 13-15: approdo di questo percorso, cioè sprofondamento dell’io nelle proprie fantasticherie e nel mondo creato dalla sua immaginazione, sprofondamento che riceve il suggello finale di un’esperienza di piacere: e così l’esperienza compiuta dall’io è partita dalla piacevolezza del paesaggio esterno, enunciata al primo verso, per arrivare al piacere della creazione e dell’immersione nel suo paesaggio interiore.
Mai prima d’ora, nella letteratura italiana (ma non solo), il discorso poetico aveva puntato con tanta acutezza e profondità il proprio sguardo sull’io stesso che lo produce, e aveva cercato di ricostruire un’esperienza interiore ‘in diretta’, cogliendola nel suo stesso svolgersi. Perciò questo capolavoro della poesia lirica (in quanto poesia introspettiva, autoanalitica) è costruito, benché questo possa sembrare paradossale, su un’impostazione narrativa: ma questa volta la narrazione non deve ricostruire fatti esterni misurabili in un tempo oggettivo, oppure ricordati dalla memoria di un io, bensì ha il compito di differenziare e scandire gli eventi soggettivi di una nuova dimensione, il funzionamento dell’interiorità dell’io. Insomma la lirica, in Leopardi, può avvalersi anche di strumenti narrativi perché deve esplorare un nuovo mondo nella poesia, il mondo interiore dell’io del poeta: tale autoanalisi viene svolta in forma dinamica, cioè come racconto di un’esperienza individuale.
E tuttavia tale esperienza è, sì, soggettiva (scoperta attraverso l’autoanalisi di un soggetto), ma non è casuale o unica: questo racconto non è infatti il racconto di un evento eccezionale svoltosi in circostanze imprevedibili, ma di un’esperienza interiore che si ripete in determinate coordinate spaziali (un paesaggio amato) e in presenza di determinati stimoli fisici (l’orizzonte  precluso da quel paesaggio, lo stormire del vento tra le piante); dunque è un’esperienza spiegabile a partire dall’ambiente e dalle circostanze in cui essa si svolge. Ed è per questo che il tempo verbale unico del testo, il presente, va inteso come un presente iterativo, cioè che racconta eventi che si ripetono, come del resto suggerisce già l’avverbio di tempo «sempre» con cui comincia il testo: così come il poeta torna spesso davanti a quel paesaggio fisico, la sua esperienza interiore dell’infinito si riproduce ogni volta che si verificano le circostanze che la stimolano.
Poesia e pensiero: un testo di “scienza dell’animo umano”
Questa natura duplice dell’esperienza narrata nel testo, soggettiva ma allo stesso tempo iterativa, ripetibile e ricostruibile secondo il meccanismo con cui essa si ripete, è la conseguenza di una della cause principali dell’originalità dell’Infinito: la sintesi di esperienza soggettiva (dunque di poesia lirica in senso stretto) con una dimensione opposta, oggettiva, universale, possiamo dire senz’altro scientifica. Lo si capisce già dal titolo che non ha niente di soggettivo, cioè che riguardi l’io, ma è del tutto ‘oggettivo’, enuncia cioè l’oggetto della conoscenza che il testo scoprirà e analizzerà attraverso un’esperienza individuale, cioè la dimensione dell’infinito. Ora, tale oggetto è un oggetto mentale, cioè una costruzione, un prodotto del pensiero dell’io («io nel pensier mi fingo»), ma la sua esistenza è indiscutibile perché obbedisce a meccanismi e leggi generali della psicologia umana: appunto tali meccanismi e leggi psicologiche sono uno dei temi più esplorati dal Leopardi pensatore, che fin dalle prime pagine dello Zibaldone si occupa di quel che egli stesso definisce la «scienza dell’animo umano» (Zib., 53), cioè della ricerca dei principi generali che spieghino manifestazioni psicologiche diverse tra loro. Ebbene, L’infinito è da questo punto di vista anche un testo si potrebbe dire quasi didattico di «scienza dell’animo umano», cioè la ricostruzione dell’esperienza dell’infinito spazio-temporale come creazione dell’immaginazione umana stimolata dalle limitazioni dell’esperienza reale. Più precisamente, tale esperienza costituisce un’applicazione del nucleo fondamentale della riflessione psicologica leopardiana elaborato nello Zibaldone proprio un anno dopo l’Infinito, nel 1820, sotto il titolo di «teoria del piacere». Di queste lunghe riflessioni (Zib., 165-184, luglio 1820) qui possiamo ricordare solo quanto è in relazione con l’Infinito: la tesi fondamentale è che l’uomo è caratterizzato da un desiderio innato del piacere (nel quale consiste la felicità), un desiderio senza limiti ma proprio per questo irrealizzabile nell’esperienza reale, che è sempre limitata (nel tempo, nello spazio, nella durata e nell’intensità di ogni piacere particolare). Questo scompenso perpetuo tra desiderio ed esperienza reale viene compensato dall’immaginazione, cioè dalla facoltà umana che ha la capacità di costruire mondi inesistenti nella realtà e quindi anche di concepire da sola, o di suggerire in un’esperienza reale, oggetti mentali o reali che suscitino un’esperienza priva di limiti, e dunque rispondente al desiderio infinito di piacere; quanto più quest’esperienza apparirà come vaga, non circoscrivibile, indefinita, tanto più essa procurerà piacere. Da questa tesi nascono due corollari importanti per capire l’Infinito: 1) la tendenza, anch’essa innata nell’uomo, a cercare l’infinito (che non esiste nella realtà, ma solo nel desiderio umano) nell’indefinito (che esiste nella realtà), cioè a trovare fonti di piacere in sensazioni visive e uditive, esperienze ed oggetti che appaiono (benché non lo siano) infiniti, nel senso di indefiniti, privi di limiti percepibili; tale tendenza ha per causa e obiettivo la ricerca del piacere; 2) il piacere che proviene anche da paesaggi, suoni e in genere percezioni limitate, perché fanno da stimolo per i meccanismi dell’immaginazione, la quale compensa le limitazioni fisiche, percettive, con la creazione di dimensioni immaginarie: come spiega Leopardi, «il desiderio dell’infinito» è anche la causa del fascino di quella che egli definisce «la veduta ristretta e confinata in certi modi», «perché allora in luogo della vista, lavora l’immaginazione e il fantastico sottentra al reale. L’anima s’immagina quello che non vede, che quell’albero, che quella siepe, che quella torre gli nasconde, e va errando in uno spazio immaginario, e si figura cose che non potrebbe, se la sua vista si estendesse da per tutto, perché il reale escluderebbe l’immaginario» (Zib., 171). Come si vede, questa è un’esposizione teorica, generale, di quel che nell’Infinito è un’illustrazione in termini concreti, narrativi e soggettivi; ma nella cronologia reale, è L’infinito che ha costituito un punto di partenza per le riflessioni teoriche, dato che queste pagine citate risalgono al 1820 e che lo stesso Leopardi tratta in séguito il suo testo poetico anche come un’esemplificazione delle sue teorie, quando scrive «Circa le sensazioni che piacciono pel solo indefinito puoi vedere il mio idillio sull’Infinito ...» (Zib. 1431, 1 agosto 1821). Dunque nell’opera di Leopardi la poesia e la prosa, l’analisi e il racconto della propria esperienza e la riflessione generale sulla psicologia umana sono due espressioni di una medesima attività conoscitiva e creativa, che si esprime di volta in volta nella poesia o nel pensiero; e un caso particolarmente flagrante di tale compresenza di poesia e pensiero in Leopardi è proprio L’infinito, un capolavoro poetico che precede la riflessione in prosa perché scopre e fissa delle intuizioni che la prosa svilupperà e sistematizzerà più tardi.
Le novità letterarie: genere, linguaggio, metrica
Queste novità relative al tema e alla stessa impostazione e anche funzione del discorso poetico si esprimono anche nelle forme vere e proprie, dal genere letterario alla costruzione metrica. Secondo la terminologia del tempo (usata anche da Leopardi) L’infinito è un idillio, ma questo termine è superato dalla realtà del testo: l’idillio infatti (letteralmente ‘quadretto’, da un termine greco) è un genere poetico antico (della letteratura greca) e poi settecentesco, caratterizzato dall’ambientazione pastorale, campestre, come suo elemento costante, arricchito (nell’idillio settecentesco) da una dimensione più soggettivo-sentimentale, cioè dalla presenza di un io che esprime le sue effusioni sentimentali su uno sfondo arcadico, cioè pastorale, secondo un gusto tipico di tutto il Settecento. L’idillio nelle mani di Leopardi si trasforma invece in tutt’altra cosa, ed è lo stesso Leopardi a definirne la novità in un progetto di idilli risalente al 1828 ma che si attaglia perfettamente agli idilli da lui effettivamente scritti tra il 1819 e il 1821: «Idilli esprimenti situazioni, affezioni [affetti], avventure storiche del mio animo»; l’idillio leopardiano diventa uno scandaglio poetico-conoscitivo, un mezzo di autoanalisi e autorappresentazione del soggetto poetico. L’infinito è appunto una “avventura storica” dell’interiorità, l’analisi e la narrazione di un processo interiore che (come si è visto) è allo stesso tempo l’esperienza di un io concreto e l’illustrazione di leggi e meccanismi della psiche umana.
Il superamento del genere tradizionale dell’idillio e la creazione di un genere che perciò non aveva un termine adeguato ai tempi di Leopardi (e che per noi, suoi posteri, è la lirica moderna) è visibile nello stesso svolgersi del testo e nel suo linguaggio. L’infinito comincia infatti con lo scenario e la lingua con i quali potrebbe cominciare un idillio settecentesco (ma anche un testo di Petrarca): una descrizione paesaggistica filtrata dall’io, un io che dichiara il proprio piacere di trovarsi in un tipico locus amoenus (un “paesaggio piacevole”) campestre e isolato, di tradizione letteraria. Ma a partire dal v. 4, non a caso aperto dalla congiunzione avversativa ma,  l’idillio antico e settecentesco viene abbandonato: lo scenario si modifica profondamente diventando un paesaggio interiore, e il linguaggio abbandona anch’esso i paesaggi stilizzati campestri (l’ermo colle, la siepe) per diventare un linguaggio psicologico, che definisce una realtà tutta interiore e si direbbe scoperta ora per la prima volta e perciò descritta in termini sublimi (interminati spazi, sovrumani silenzi, profondissima quiete); ma anche per diventare un linguaggio concettuale, caratterizzato da sostantivi astratti (infinito nel titolo pensier, mi fingo, eterno, stagione nel senso di ‘tempo’, immensità, le metafore di naufragare e mare per indicare realtà interiori astratte): insomma, da una scena e da un linguaggio inizialmente tradizionalmente paesaggistici e concreti si passa ben presto a un linguaggio denso e concettuale, del tutto sconosciuto all’idillio tradizionale e alla poesia settecentesca in genere. E tuttavia questo linguaggio, ben lontano dall’essere ‘impoetico’ perché spesso (come si è visto) astratto e concettuale, è al contrario una sintesi di eleganza e familiarità (nessun termine basso ma nemmeno forme troppo desuete, una sintassi non certo prosastica ma neppure complicata: due differenze che distinguono il linguaggio degli idilli da quello delle canzoni) e un’espressione esemplare di quel linguaggio “vago” e “indefinito” (per usare i termini di Leopardi: qui si pensi a parole come infinito, ermo, tanta, ultimo, interminati, sovrumani, profondissima etc., che evocano idee e immagini non definibili con precisione) che è poetico proprio per tali qualità, e che produce piacere nel lettore di poesia proprio come in genere l’indefinito produce piacere nell’esperienza reale.
Anche il livello formale caratteristico della poesia, cioè la metrica, suggerisce osservazioni analoghe. Leopardi usa l’endecasillabo sciolto, non solo perché affermatosi nel Settecento anche come metro della poesia lirica (e quindi anche del genere dell’idillio), ma anche perché era il metro più ‘libero’ (libero da schemi strofici fissi e da rime) rispetto a quelli consacrati dalla tradizione antica (sonetto e canzone), e quindi il più aderente a un discorso non prefissato e non inquadrabile in strutture stabilite e ripetitive come le strofe: qui il metro dell’endecasillabo sciolto sembra nascere e svilupparsi in un solo unico blocco, come è profondamente compatta e unitaria l’esperienza e la scoperta che il discorso analizza e racconta. Ma l’originalità di Leopardi è visibile anche nel trattamento di questo metro diffuso ai suoi tempi: gli endecasillabi sciolti sono infatti ricchi e si direbbe potenziati da diversi procedimenti insieme fonici e metrici: enjambements composti da aggettivo-sostantivo dove spesso gli aggettivi o i sostantivi hanno un significato indefinito (ad es. interminati /spazi o questa / immensità); termini polisillabici che rinforzano anche fonicamente il loro significato indefinito (interminati, sovrumani, profondissima, immensità); frequenza di timbri vocalici aperti e quindi ‘chiari’ (le numerose parole accentate sulla a a volte anche accostate: interminati / spazi, naufragar... mare): questi e altri procedimenti sono stati definiti (da Luigi Blasucci) “segnali dell’infinito”, cioè procedimenti linguistici e metrici in grado di “attivare” anche materialmente (cioè con le risorse materiali del linguaggio: suoni, ritmo, disposizione delle parole nel verso e tra i versi) l’idea che percorre tutto il testo, cioè l’esperienza dell’infinito mentale, la creazione di un’infinità spazio-temporale esistente solo nell’immaginazione ma che il linguaggio poetico riesce a evocare non solo con il significato delle parole o delle immagini, ma a concretizzare, creandone una sorta di equivalente linguistico. Che tutto questo non sia casuale, è confermato dal fatto che, proprio a partire dall’Infinito, quando nei canti successivi ricomparirà il tema dell’infinito nelle sua varie manifestazioni, esso sarà espresso tramite i procedimenti ‘infinitivi’ inaugurati proprio da quest’idillio.
La nuova forza conoscitiva della poesia: Leopardi romantico
La compresenza delle caratteristiche originali suddette – il genere lirico come autoanalisi profonda ma anche come espressione di una ricerca generale, la sintesi di poesia e pensiero, l’abbandono e il rinnovamento dei generi e delle forme metriche tradizionali – fanno dell’Infinito un capolavoro esemplare di una nuova idea e di una nuova realtà della poesia: è per questo che la critica recente ha usato, per definire la poesia leopardiana, formule come “pensiero poetante” (per sottolineare l’unità di poesia e filosofia), e ha sottolineato la forza conoscitiva di questa poesia, la sua capacità di creare pensiero, di esprimere e verificare una teoria o una concezione del mondo, cioè di svolgere funzioni che il sistema letterario tradizionale attribuisce alla prosa; ma il miracolo è che la poesia leopardiana, nonostante tale sua potenza conoscitiva, non sia affatto una poesia ‘didattica’, bensì, al contrario, una poesia esemplarmente lirica, cioè centrata su un soggetto che è l’io del poeta, una poesia così nuova, anche in quanto lirica, da essere non più un discorso dell’io su se stesso ma un’esplorazione che si svolge contemporaneamente al testo, un discorso che non riproduce ma costruisce un’esperienza mentre si svolge, e così dà al lettore l’impressione di partecipare all’esperienza del poeta come se questa si svolgesse o si rievocasse davanti ai suoi occhi. L’idea e la prassi di questa poesia definiscono, per noi venuti dopo Leopardi, la lirica moderna occidentale, di cui proprio Leopardi è uno dei padri. Per questo motivo Leopardi non è da accostare ai suoi contemporanei in Italia, ma a poeti che conosceva parzialmente o non conosceva affatto, cioè i grandi romantici (soprattutto inglesi e tedeschi) che, proprio nei primi decenni dell’Ottocento, stavano potenziando e rinnovando la forza conoscitiva e i mezzi espressivi della poesia lirica. Tale collocazione storico-letteraria, per noi evidente, non lo era affatto per il giovane Leopardi, che, come si è visto, non si riconosceva affatto nel romanticismo così come lo conosceva dal dibattito italiano del primo Ottocento pur distaccandosi anche dal classicismo puramente imitativo e decorativo, e che, proprio per questa distanza da entrambi gli schieramenti, riteneva che una poesia moderna fosse una contraddizione in termini, perché da una modernità impoetica non poteva nascere una poesia autentica cioè paragonabile a quella antica. E tuttavia la visione più ampia di noi posteri, sia nella geografia che nella storia letterarie, è più corretta, perché permette di apprezzare al giusto una realtà poetica superiore anche alla stessa coscienza letteraria di Leopardi quando scriveva L’infinito, e quindi di collocarlo tra i grandi romantici europei, se per poesia romantica si intende quella che ha fondato la lirica moderna rinnovando o creando forme e linguaggio e arricchendo il discorso poetico di una nuova capacità di esplorazione psicologica dell’individuo ma anche di conoscenza filosofica.

Testo 3: la parabola delle illusioni e del destino (A Silvia)
Composta a Pisa nel 19-20 aprile 1828, A Silvia è il primo capolavoro del ritorno di Leopardi alla poesia a Pisa ed è anche il primo esempio della rivoluzione formale della poesia leopardiana (la cosiddetta canzone libera); il testo presenta la nuova voce della poesia leopardiana anche dal punto di vista tematico: la poesia ‘privata’, autobiografica, s’intreccia con un discorso universale sulla «sorte delle umane genti», così come la parabola di Silvia si confonde con la caduta delle illusioni e della speranza non solo dell’io, ma di ogni uomo.


Zefiro: nome greco del vento di primavera.

Febo: il sole (dall’aggettivo greco “lucente” tipico del dio del sole Apollo).

ninfe: divinità minori della mitologia greca, che popolavano i monti, i boschi e le acque.

Pani: qui “divinità dei campi” (dal nome Pan, il dio greco delle foreste e delle greggi).

La faretrata Diva: Artemide o Diana, dea greca della caccia (e perciò rappresentata con arco e faretra).

La titania lampa: il sole (nella mitologia greca figlio del titano Iperione).

Ciprigna luce: la luce di Venere, che nella religione antica era anche adorata nella luna (ciprigna: “di Cipro), un luogo del culto di Venere).

Dafne: ninfa amata dal dio Apollo, mentre fuggiva da lui fu trasformata in alloro.

Filli: Fillide, figlia del re di Troia Licurgo, per amore si impiccò e fu trasformata in mandorlo.

di Climene... il sole: le Eliadi, figlie di Climene e di Apollo, che, piangendo senza sosta la morte del loro fratello Fetonte (precipitato nel Po da Apollo perché stava provocando una catastrofe guidando il carro del sole) furono trasformate in pioppi.

Eco: ninfa innamorata di Narciso ma da lui respinta, si consumò dal dolore fino a che di lei restò solo la voce.

Musico augel... giorno: secondo la versione romana del mito, l’usignolo è l’uccello in cui fu trasformata Filomela, principessa greca violentata da Tereo, marito di sua sorella, e a cui fu tagliata la lingua dallo stesso Tereo; per l’orrore di quel delitto (e di altri che seguirono) il sole si oscurò.

Olimpo: il monte più alto della Grecia, sede degli dei nella religione greca.

ermo colle: il cosiddetto monte Tabor, vicino al palazzo dei Leopardi a Recanati.

ove: letteralmente: ‘nei quali spazi, silenzi e quiete...’.

                          A Silvia

Silvia, rimembri ancora
quel tempo della tua vita mortale,
quando beltà splendea
negli occhi tuoi ridenti e fuggitivi,
e tu, lieta e pensosa, il limitare                   5
di gioventù salivi?

Sonavan le quiete
stanze, e le vie dintorno,
al tuo perpetuo canto,
allor che all'opre femminili intenta              10
sedevi, assai contenta
di quel vago avvenir che in mente avevi.
Era il maggio odoroso: e tu solevi
così menare il giorno.                             

Io gli studi leggiadri                                  15
talor lasciando e le sudate carte,
ove il tempo mio primo
e di me si spendea la miglior parte,
d'in su i veroni del paterno ostello             20
porgea gli orecchi al suon della tua voce,
ed alla man veloce
che percorrea la faticosa tela.
Mirava il ciel sereno,
le vie dorate e gli orti,                               25
e quinci il mar da lungi, e quindi il monte.
Lingua mortal non dice
quel ch'io sentiva in seno.

Che pensieri soavi,
che speranze, che cori, o Silvia mia!          30
Quale allor ci apparia
la vita umana e il fato!
Quando sovviemmi di cotanta speme,
un affetto mi preme
acerbo e sconsolato,                                 35
e tornami a doler di mia sventura.
O natura, o natura,
perché non rendi poi
quel che prometti allor? perché di tanto
inganni i figli tuoi?                                   40
Tu pria che l'erbe inaridisse il verno,
da chiuso morbo combattuta e vinta,
perivi, o tenerella. E non vedevi
il fior degli anni tuoi;
non ti molceva il core                              45
la dolce lode or delle negre chiome,
or degli sguardi innamorati e schivi;
né teco le compagne ai dì festivi
ragionavan d'amore.

Anche peria fra poco                              50
la speranza mia dolce: agli anni miei
anche negaro i fati
la giovanezza. Ahi come,
come passata sei,
cara compagna dell'età mia nova,            55
mia lacrimata speme!
Questo è quel mondo? questi
i diletti, l'amor, l'opre, gli eventi
onde cotanto ragionammo insieme?
Questa la sorte dell'umane genti?            60
All'apparir del vero
tu, misera, cadesti: e con la mano
la fredda morte ed una tomba ignuda
mostravi di lontano.

 

Silvia, ricordi ancora quell’epoca della tua vita terrena, quando la bellezza splendeva nei tuoi occhi ridenti e schivi, e quanto tu, piena di gioia di vivere e anche di pensieri sul tuo futuro, stavi per varcare la soglia della gioventù?

Le stanze silenziose e le vie tutt’intorno echeggiavano del tuo canto ininterrotto, quando, occupata ai lavori femminili, stavi seduta, accontentandoti di quel futuro incerto che concepivi col pensiero. Era il mese di maggio profumato, e tu avevi l’abitudine di trascorrere così le giornate.

 

Io, in certi momenti distraendomi dai cari studi e dalle carte su cui mi affaticavo, sui quali si consumava la mia gioventù e il tempo più bello della mia vita, dai balconi del palazzo di mio padre ascoltavo il suono della tua voce, e la mano veloce che tesseva la tela sul telaio faticoso. Contemplavo il cielo sereno, le strade indorate dal sole e i giardini, e da una parte il mare in lontananza, e dall’altra parte le montagne. Nessuna lingua umana può esprimere quello che sentivo dentro di me.

 

Che pensieri dolci, che speranze, che sentimenti, Silvia mia! Quanto ci apparivano belli allora la vita umana e il destino! Quando mi ricordo di una speranza così grande, mi opprime un dolore straziante e disperato, e torno a dolermi della mia sciagura. O natura, natura, perché più tardi non dai quel che hai promesso allora? Perché inganni tanto i tuoi figli? Tu (Silvia), piccola e fragile, prima che l’inverno seccasse l’erba (in autunno), morivi, combattuta e sconfitta da un male segreto; e non vedevi fiorire la tua gioventù, non ti intenerivano il cuore le lodi amate ora dei tuoi capelli neri ora dei tuoi sguardi che innamoravano ed erano timidi, e nei giorni di festa le tue compagne non parlavano d’amore insieme a te.

 

 

 

Poco tempo dopo moriva anche la mia cara speranza: il destino tolse la gioventù anche alla mia vita. Ahi, come sei passata, compagna amata della mia giovane età, mia rimpianta speranza! Questo è il mondo che sognavo? Queste le gioie, l’amore, le azioni e i fatti di cui parlammo tanto tra di noi? È questo il destino degli uomini? Quando si rivelò la verità tu, infelice, crollasti, e con la tua mano indicavi in lontananza la morte spietata e una tomba deserta.

 

Leggiamo insieme: una poesia autobiografica e universale
Schema metrico: “canzone libera” di endecasillabi e settenari composta da sei movimenti (a rigore non sono strofe) differenti per lunghezza e distribuzione dei versi; non esiste uno schema fisso di rime, ma i versi rimati si alternano a quelli non rimati.
La rivoluzione formale: metrica e contenuto
A Silvia segna una svolta nella poesia di Leopardi: posta quasi all’inizio del periodo pisano-recanatese, (periodo che interrompe anni di quasi totale silenzio poetico, dal 1824 al 1828), essa è unanimemente considerata il primo capolavoro di questa nuova stagione poetica e una delle vette della poesia italiana, perché è innanzitutto una voce nuova nel percorso poetico di Leopardi. Tale suo carattere è evidente a prima vista, cioè nello schema metrico, che realizza la rivoluzione formale più famosa della poesia leopardiana, cioè la cosiddetta canzone libera, una forma metrica che discende dal metro più illustre della poesia italiana, la canzone tradizionale, (per la divisione in parti e per l’uso di endecasillabi e settenari) ma d’altra parte introduce in essa una libertà (nelle dimensioni, nell’alternanza dei versi e nell’uso delle rime insieme a versi non rimati) sconosciuta alla tradizione. Il discorso poetico è quindi, allo stesso tempo, libero, si presenta a prima vista come un mezzo duttile e flessibile, adeguato ad esprimere il suo contenuto senza costrizioni esterne; ma d’altra parte non è affatto un discorso caotico, anzi segue una logica costruttiva diversa da quella tradizionale (cioè dallo schema metrico prefissato e sempre uguale) ma non meno coerente, perché essa fa tutt’uno con il tema e con il suo sviluppo nel corso del testo.
Perciò la rivoluzione metrica leopardiana non riguarda solo la forma, ma è una rivoluzione costruttiva, che modifica i rapporti tra lo schema metrico e il contenuto; d’ora in poi, ogni volta che Leopardi usa la canzone libera (cioè sempre tranne in una sola occasione), userà uno schema metrico di volta in volta diverso in rapporto con l’articolazione del contenuto, e quindi osservare lo schema metrico significa anche osservare il tema e la costruzione del discorso nel suo insieme. Nel caso di A Silvia, l’articolazione in movimenti (si può usare anche il termine di strofe, ma ricordando che è una definizione di comodo, dato che nella metrica tradizionale le strofe devono essere uguali tra loro) articola il tema in modo tutt’altro che casuale: 1) primo breve movimento: invocazione a Silvia, invocazione che è anche una sorta di evocazione dal mondo dei morti (si capisce subito che Silvia è morta: nella realtà biografica, questo nome di ascendenza letteraria allude a Teresa Fattorini, una ragazza della servitù di casa Leopardi morta di tisi a ventuno anni nel 1818), e che delinea un primo ritratto di questo personaggio protagonista del testo, il ritratto di una ragazza che si affaccia alla sua gioventù piena di bellezza e di attese verso il suo futuro; 2) secondo movimento: il discorso è al passato (il passato della «vita mortale» di Silvia) e rievoca le giornate felici di Silvia (una per tutte, perché erano tutte uguali), vissute nell’attesa di quel futuro incerto e delizioso; 3) terzo movimento: da quel medesimo passato vengono rievocate le giornate del giovane Leopardi (anche qui una per tutte), vicino a Silvia sia fisicamente sia nell’animo, poiché anch’egli, suo coetaneo, nutre gli stessi sogni incerti quanto gioiosi di ogni giovane per il suo avvenire; dunque i due sono uniti da un parallelismo profondo, perché, in quanto coetanei, sono fratelli nello spirito, hanno il medesimo atteggiamento nei confronti della loro vita; 4) quarto movimento: tale parallelismo spirituale viene ribadito proprio poco prima di essere spezzato (anche se non viene ancora detto per quale causa), e questo movimento quasi al centro del testo esprime un’antitesi che cambia il tono del discorso: il passato felice è stato sostituito da un presente di dolore, perché quelle speranze, quei sogni per il futuro, sono morti per l’io, e ora viene introdotto anche un terzo personaggio, la natura, la legge della vita umana responsabile di tale dolore, perché quelle speranze sono un inganno, la gioventù fa promesse che la vita non mantiene; 5) quinto movimento: il discorso torna su Silvia ed esplicita la rottura del parallelismo biografico con l’io: Silvia è morta ancora prima di aver toccato la sua piena gioventù, e non ha nemmeno fatto in tempo a godere della sua bellezza; dunque lei è stata una vittima esemplare dell’inganno atroce che la vita infligge agli esseri umani; 6) sesto movimento: il discorso torna sull’io e rivela un’analogia, tra la vita dell’io e quella assai più breve di Silvia, che è più profonda di quella biografica, e che ristabilisce così un parallelismo tra i due personaggi: come Silvia è morta prematuramente, anche l’io è morto giovane almeno per quanto riguarda il suo animo, perché la sua morte spirituale, cioè la morte delle sue speranze nella vita, è avvenuta poco dopo la morte fisica di Silvia; perciò la conclusione svolge un vero e proprio compianto funebre dell’io nei confronti di quella speranza, ma quella speranza, personificata, assume anche i tratti di Silvia, e così le due figure si confondono (non logicamente, ma, appunto, nella loro rappresentazione) e confermano, con il loro parallelismo, anche quello dell’io e di Silvia, che si confermano due destini gemelli, perché esemplari del destino di tutti, della «sorte dell’umane genti».
Una nuova poesia: la sintesi di discorso privato e discorso universale
Attraverso i due procedimenti fondamentali citati, il parallelismo e l’antitesi, A Silvia svolge un discorso complesso e, come si diceva, nuovo nella poesia leopardiana. Tale novità riguarda la portata, per così dire, del discorso poetico, l’ampiezza del suo sguardo: qui il titolo lascia pensare a una sola protagonista, Silvia, della quale viene rievocata la vita; ma tale rievocazione viene compiuta dall’io che, così facendo, rievoca anche la propria vita giovanile, e poi ricostruisce tutta la sua biografia spirituale, anche dopo la morte di Silvia, e dunque sono due le rievocazioni biografiche che si svolgono, per analogia o per differenza, nel testo; inoltre, queste due vite, cioè il modo in cui si sono svolte e il loro senso, non si capiscono se non in rapporto a un orizzonte molto più ampio di cui fanno parte, cioè il destino che la «natura», il complesso delle cause e delle leggi dell’esistenza umana, riserva ad ogni uomo, e cioè il percorso che comincia con le speranze e i sogni giovanili nel futuro, e deve finire con la delusione e il dolore per la morte di queste speranze, dunque una morte spirituale, che in certi casi è anche anticipata dalla morte fisica, come nel caso di Silvia: l’inganno, come lo chiama Leopardi, cioè la contraddizione incomprensibile e maligna (dal punto di vista dell’uomo) tra le leggi naturali della vita umana e il desiderio di felicità anch’esso naturale in ogni uomo, un desiderio che la vita, per legge, non potrà appagare.
In A Silvia, quindi, Leopardi intreccia in un solo discorso temi e punti di vista separati nel corso della sua attività precedente, sia in poesia sia in prosa. La sua nuova poesia, inaugurata proprio dalla stagione pisano-recanatese, sembra tornare al passato ma non è solo un ritorno al passato: Recanati e la gioventù dell’io, e anche la gioventù di suoi coetanei come Silvia, protagoniste dei giovanili idilli, qui tornano come oggetto del discorso della memoria, rivissuti e ricollocati in un cammino esistenziale che ora è quello della maturità; dunque, il passato e il presente, la memoria e la riflessione condotta al presente, sono inestricabilmente legati, perché il passato è non solo rievocato in sé, nella sua bellezza struggente, ma tale bellezza struggente nasce proprio per contrasto con il presente, cioè dal punto di vista dal quale viene rievocato. Un altro nesso inestricabile è quello di temi legati all’io (la poesia autobiografica tipica anche questa degli idilli), cioè di rievocazione e riflessione sul proprio destino, e di temi legati alla condizione umana, che, al centro del testo (nel movimento in cui l’io si rivolge alla natura, in maniera sorprendente perché tale invocazione non era prevista dal discorso che l’ha preceduta), illumina cioè spiega i destini individuali dell’io e di Silvia. Ma l’analisi della condizione umana che qui è presupposta (e non espressa in dettaglio) non risale alla poesia del giovane Leopardi, bensì al 1824, cioè alle Operette morali, e in particolare al Dialogo della Natura e di un Islandese: dunque la poesia leopardiana ora acquisisce anche i risultati conoscitivi ottenuti in altra sede, quella della prosa a suo modo filosofica delle Operette morali. Questa acquisizione ha anche un effetto su temi già presenti nella poesia leopardiana, cioè li trasforma: l’io stesso ad es. non è più l’io degli idilli così come A Silvia non è affatto un ‘grande idillio’ (secondo la definizione ancora corrente, ma poco adeguata, di ‘grandi idilli’ per i canti pisano-recanatesi): questa poesia non è affatto la rievocazione di «avventure storiche» dell’animo dell’io (con la definizione d’autore citata per gli idilli nel caso dell’Infinito), e l’io che parla non è tanto un individuo con le sue caratteristiche, appunto, personali, ma un esempio, come Silvia, di un destino collettivo, e quindi può permettersi di parlare a nome di tutta l’umanità, di chiedere conto alla natura del destino ingiusto degli uomini. A Silvia e i canti pisano-recanatesi inaugurano quindi una stagione nuova della poesia leopardiana, che assume un’identità più complessa che negli anni precedenti: una sintesi di discorso privato (il fondamento autobiografico), che unisce presente e passato, e di discorso universale, cioè di riflessione sulla condizione umana.
Una nuova poesia: la compresenza di illusione e verità negativa
Dalla sintesi suddetta nasce un’altra caratteristica specifica di A Silvia e in genere dei canti pisano-recanatesi, cioè la compresenza di due atteggiamenti e quasi di due voci che in precedenza erano di solito separati: la rievocazione celebrativa e gioiosa dell’illusione, cioè del solo piacere che l’uomo possa sperimentare (nella gioventù, che è per natura l’età delle illusioni) da una parte, e dall’altra la consapevolezza della verità negativa che distrugge tali illusioni, la coscienza dell’incompatibilità tra il desiderio di felicità congenito nell’essere umano e le leggi dell’esistenza e dell’universo che non prevedono l’appagamento di tale desiderio ma solo la frustrazione e il dolore. È un paradosso che un medesimo discorso possa contenere questi due atteggiamenti e questi due sguardi antitetici sul mondo, ma tale paradosso è proprio uno dei motivi di fascino e di unicità della poesia leopardiana matura, a partire proprio dai canti pisano-recanatesi: la celebrazione delle illusioni giovanili e di quel mondo beato è anche un rimpianto, ma ciò non toglie nulla alla bellezza struggente della sua evocazione; viceversa, la consapevolezza disillusa che la vita è un inganno crudele della natura ai danni degli uomini, non può più essere messa fuori campo ma non cancella il ricordo dei sogni giovanili e la celebrazione dell’illusione della felicità. E così la compresenza e la reciproca influenza di abbandono alla bellezza delle illusioni e consapevolezza della verità negativa fanno di A Silvia un compianto funebre (non solo sulla ragazza morta, ma anche sulle speranze dell’io e degli uomini) e allo stesso tempo una rievocazione incantata di un passato felice, e la figura che incarna esemplarmente questa compresenza paradossale è proprio Silvia: all’inizio è una bellezza indescrivibile come i suoi occhi pieni di gioia ma anche timidi, «ridenti e fuggitivi»; alla fine si confonde con la speranza dell’io morta anch’essa troppo presto, e che prima di morire lascia il posto all’immagine della morte. Ma come Silvia è tutto questo, anche la poesia a lei dedicata è allo stesso tempo un canto della vita e un lamento funebre, un inno alla gioia e un lamento privo di speranza; essa insomma possiede il segreto dei risultati più alti della poesia leopardiana, la capacità di cantare la bellezza fuggitiva delle illusioni e di dire la verità disperante attraverso una sola voce, che riassume la complessità e la contraddizione profonda della condizione umana.

 

Testo 4: il mistero doloroso dell’esistenza (Canto notturno di un pastore errante dell’Asia)
Composto a Recanati tra l’ottobre 1829 e l’aprile 1830, il Canto notturno di un pastore errante dell’Asia svolge, quasi ricapitolandole, le riflessioni e le interrogazioni tipicamente leopardiane intorno al mistero dell’esistenza umana, al dolore indissociabile da essa e al mistero dell’esistenza dell’universo; ma, a differenza che in altri testi in prosa o in poesia (tra cui anche altri canti pisano-recanatesi) questa riflessione compare qui in forme molto più sfumate, interrogative o dubitative, in coerenza con l’identità del personaggio, un nomade, un ‘primitivo’ estraneo alla civiltà moderna, che però è capace di porre all’universo (qui personificato dalla luna) le domande eterne dell’uomo secondo Leopardi, ed è capace anche di intuire alcune dolorose risposte.

               CANTO NOTTURNO
DI UN PASTORE ERRANTE DELL'ASIA

Che fai tu, luna, in ciel? dimmi, che fai,
silenziosa luna?
sorgi la sera, e vai,
contemplando i deserti; indi ti posi.
Ancor non sei tu paga                                        5
di riandare i sempiterni calli?
Ancor non prendi a schivo, ancor sei vaga
di mirar queste valli?
Somiglia alla tua vita
la vita del pastore.                                            10
sorge in sul primo albore;
move la greggia oltre pel campo, e vede
greggi, fontane ed erbe;
poi stanco si riposa in su la sera:
altro mai non ispera.                                        15
Dimmi, o luna: a che vale
al pastor la sua vita,
la vostra vita a voi? dimmi: ove tende
questo vagar mio breve,
il tuo corso immortale?                                   20

Vecchierel bianco, infermo,
mezzo vestito e scalzo,
con gravissimo fascio in su le spalle,
per montagna e per valle,
per sassi acuti, ed alta rena, e fratte,               25
al vento, alla tempesta, e quando avvampa
l'ora, e quando poi gela,
corre via, corre, anela,
varca torrenti e stagni,
cade, risorge, e più e più s'affretta,                 30
senza posa o ristoro,
lacero, sanguinoso; infin ch'arriva
colà dove la via
e dove il tanto affaticar fu volto:
abisso orrido, immenso,                                 35
ov'ei precipitando, il tutto obblia.
Vergine luna, tale
è la vita mortale.

Nasce l'uomo a fatica,
ed è rischio di morte il nascimento.               40
Prova pena e tormento
per prima cosa; e in sul principio stesso
la madre e il genitore
il prende a consolar dell'esser nato.
Poi che crescendo viene,                               45
l'uno e l'altro il sostiene, e via pur sempre
con atti e con parole
studiasi fargli core,
e consolarlo dell'umano stato:
altro ufficio più grato                                    50
non si fa da parenti alla lor prole.
Ma perché dare al sole,
perché reggere in vita
chi poi di quella consolar convenga?
Se la vita è sventura                                      55
perché da noi si dura?
Intatta luna, tale
è lo stato mortale.
Ma tu mortal non sei,
e forse del mio dir poco ti cale.                     60

Pur tu, solinga, eterna peregrina,
che sì pensosa sei, tu forse intendi,
questo viver terreno,
il patir nostro, il sospirar, che sia;
che sia questo morir, questo supremo           65
scolorar del sembiante,
e perir dalla terra, e venir meno
ad ogni usata, amante compagnia.
E tu certo comprendi
il perché delle cose, e vedi il frutto                70
del mattin, della sera,
del tacito, infinito andar del tempo.
Tu sai, tu certo, a qual suo dolce amore
rida la primavera,
a chi giovi l'ardore, e che procacci               75
il verno co' suoi ghiacci.
Mille cose sai tu, mille discopri,
che son celate al semplice pastore.
Spesso quand'io ti miro
star così muta in sul deserto piano,              80
che, in suo giro lontano, al ciel confina;
ovver con la mia greggia
seguirmi viaggiando a mano a mano;
e quando miro in cielo arder le stelle;
dico fra me pensando:                                 85
a che tante facelle?
Che fa l'aria infinita, e quel profondo
infinito seren? che vuol dir questa
solitudine immensa? ed io che sono?
Così meco ragiono: e della stanza               90
smisurata e superba,
e dell'innumerabile famiglia;
poi di tanto adoprar, di tanti moti
d'ogni celeste, ogni terrena cosa,
girando senza posa,                                     95
per tornar sempre là donde son mosse;
uso alcuno, alcun frutto
indovinar non so. Ma tu per certo,
giovinetta immortal, conosci il tutto.
Questo io conosco e sento,                         100
che degli eterni giri,
che dell'esser mio frale,
qualche bene o contento
avrà fors'altri; a me la vita è male.

O greggia mia che posi, oh te beata,            105
che la miseria tua, credo, non sai!
Quanta invidia ti porto!
Non sol perché d'affanno
quasi libera vai;
ch'ogni stento, ogni danno,                         110
ogni estremo timor subito scordi;
ma più perché giammai tedio non provi.
Quando tu siedi all'ombra, sovra l'erbe,
tu se' queta e contenta;
e gran parte dell'anno                                 115
senza noia consumi in quello stato.
Ed io pur seggo sovra l'erbe, all'ombra,
e un fastidio m'ingombra
la mente, ed uno spron quasi mi punge
sì che, sedendo, più che mai son lunge      120
da trovar pace o loco.
E pur nulla non bramo,
e non ho fino a qui cagion di pianto.
Quel che tu goda o quanto,
non so già dir; ma fortunata sei.                125
Ed io godo ancor poco,
o greggia mia, né di ciò sol mi lagno.
Se tu parlar sapessi, io chiederei:
dimmi: perché giacendo
a bell'agio, ozioso,                                   130
s’appaga ogni animale;
me, s'io giaccio in riposo, il tedio assale?

Forse s'avess'io l'ale
da volar su le nubi,
e noverar le stelle ad una ad una,              135
o come il tuono errar di giogo in giogo,
più felice sarei, dolce mia greggia,
più felice sarei, candida luna.
O forse erra dal vero,
mirando all'altrui sorte, il mio pensiero:    140
forse in qual forma, in quale
stato che sia, dentro covile o cuna,
è funesto a chi nasce il dì natale.

 

 

Che fai (perché sei lì, qual è il tuo scopo), luna, nel cielo? Dimmi, che fai, silenziosa luna. Ti levi alla sera e percorri il cielo, guardando dall’alto i deserti; poi scompari (quando tramonti). Non sei ancora sazia di percorrere sempre i sentieri eterni del cielo? Ancora non ti viene a noia, sei ancora desiderosa di contemplare queste valli? La vita del pastore è simile alla tua: si alza alle prime luci dell’alba, conduce il gregge avanti per i campi, e vede greggi, fonti e campi; poi, stanco, si riposa la sera: non spera mai altro. Dimmi, luna, che valore ha la vita per il pastore, che valore ha la vostra vita per voi corpi celesti? Dimmi, verso quale fine si muovono questo mio breve vagabondaggio senza meta (la mia vita), e la tua orbita fissa senza fine?

 

 

Un povero vecchio canuto, malato, mezzo vestito e scalzo, con un carico pesantissimo sulle spalle, attraverso montagne e valli, attraverso sassi acuminati e sabbie profonde, e terreni impervi, esposto al vento, alla tempesta, sia quando la stagione è torrida sia quando è gelida, corre sempre, corre, corre senza fiato, supera torrenti e stagni, cade, si rialza, e va sempre più veloce senza sosta o sollievo, con i vestiti stracciati, insanguinato, finché arriva là dove furono destinati la sua strada e la sua pena così grande: un abisso orribile, immenso, dove, precipitando, egli dimentica tutto. Vergine luna, così è la vita mortale.

 

 

L’essere umano nasce con dolore, e la sua nascita costituisce per lui un rischio di morte. Prima di tutto prova pena e dolore straziante, e proprio all’inizio della sua vita la madre e il padre cominciano a consolarlo per il fatto che è nato. Dopo che comincia a crescere, l’uno e l’altro genitore lo aiutano, e continuamente, con atti e con parole, si sforzano di fargli coraggio e di consolarlo della condizione umana: i genitori non svolgono nei confronti dei figli un compito più gradito (ai figli) di questo. Ma perché dare alla luce, perché conservare in vita dei figli che poi è necessario consolare perché sono vivi? Se la vita è una sciagura, perché la sopportiamo? Luna intangibile dal dolore umano, così è la condizione umana. Ma tu non sei mortale, e forse poco ti importa delle mie parole.

 

 

 

Eppure tu, solitaria, eterna viaggiatrice, che sei così pensosa, tu forse comprendi il senso di questa vita sulla terra, tu comprendi che senso abbia la nostra sofferenza, il nostro pianto; che senso abbia questa nostra morte, questo estremo scolorire del nostro volto e lo scomparire dalla terra, e il mancare ad ogni persona che ci era cara e ci voleva bene. E tu di certo comprendi il motivo delle cose che esistono, e conosci lo scopo del mattino, della sera, del passare silenzioso e infinito del tempo. Tu certamente sai a quale suo caro innamorato sorrida la primavera, a chi rechi vantaggio il calore estivo, e quale scopo voglia ottenere l’inverno con il suo gelo. Tu sai tante cose, scopri tante cose che sono nascoste al pastore ignorante. Spesso, quando ti contemplo mentre stai così silenziosa sulla pianura deserta che all’orizzonte confina con il cielo, oppure mentre, viaggiando, segui me insieme con il mio gregge; e quando fisso le stelle che splendono nel cielo, dico riflettendo tra me: a quale scopo tanti lumi? Che senso ha il cielo infinito, e quell’azzurro profondo ed infinito? Che significano questi immensi spazi solitari? E io cosa sono? Così parlo con me stesso, e dell’universo smisurato e imponente di bellezza, e dell’incalcolabile numero degli esseri viventi, poi di tanto agire, di tanti movimenti di ogni corpo celeste e di ogni creatura terrena, che girano senza sosta per ritornare sempre al loro punto di partenza, non so indovinare nessuna funzione, nessun vantaggio. Ma tu di certo, fanciulla immortale, conosci tutta la verità. Io conosco e mi rendo conto solo di questo: che dei moti celesti perpetui, della mia fragile esistenza, qualcuno altro forse avrà qualche vantaggio o soddisfazione: per me la vita è un male.

 

 

 

O mio gregge che ti riposi, felice te che, immagino, non conosci la tua condizione miserabile! Quanto ti invidio! Non solo perché vivi quasi libero dal dolore, perché dimentichi immediatamente ogni fatica, ogni danno, ogni paura per quanto grande, ma ancor più perché non conosci la noia. Quando ti riposi all’ombra, sull’erba, sei tranquillo e appagato, e trascorri gran parte dell’anno senza noia vivendo così. Anche io mi fermo a riposare sull’erba, all’ombra, ma un senso di angoscia mi opprime la mente e una irrequietezza mi tormenta, così che, anche quando sono fermo, sono più che mai lontano dal trovare pace o riposo. E tuttavia non desidero nulla, e fino ad ora non ho motivo di lamentarmi. Io non so dire cosa tu goda e in che misura, ma sei fortunata. Anche io godo poco, o mio gregge, e non mi lamento solo di questo. Se tu potessi parlare, chiederei: dimmi, perché stando immobile a suo piacere, inattivo, ogni animale è soddisfatto, mentre io, se sto fermo nell’inattività, sono assalito dalla noia di vivere?

 

 

 

Forse se io avessi le ali così da poter volare sopra le nuvole e contare le stelle una per una, o vagare come il tuono da una cima all’altra delle montagne, sarei più felice, mio caro gregge, sarei più felice, candida luna. O forse il mio pensiero, considerando la condizione di altre creature, si allontana dalla verità: forse in qualsiasi specie fisica, in qualsiasi condizione, dentro una tana o in una cullo, il giorno della nascita è un giorno di lutto per chi nasce.

Leggiamo insieme:
Schema metrico: “canzone libera” composta da sei movimenti (di solito lunghi rispetto alla media dei canti pisano-recanatesi) di endecasillabi e settenari liberamente disposti; particolarmente fitte le rime e le assonanze, e costante la chiusura di ogni movimento con la rima fissa in –ale.
La ricreazione di un canto ‘primitivo’
Il Canto notturno presenta alcuni caratteri che lo rendono originale tra i canti pisano-recanatesi e che costituiscono la sua identità specifica: 1) è un monologo affidato a un personaggio diverso dall’io dell’autore (è un caso raro nella poesia leopardiana); 2) la sua ambientazione è remota dall’autore come dai lettori; 3) in esso manca quindi ogni riferimento autobiografico esplicito. Tale originalità si spiega con le circostanze che suggerirono a Leopardi l’ispirazione per questa poesia, e cioè la lettura, su una rivista francese, della recensione di un diario di viaggi (un genere che interessava molto Leopardi) del viaggiatore ottocentesco russo Aleksandr Meyendorff; da questa recensione Leopardi trascrisse sullo Zibaldone (4399-4400, 3 ottobre 1828) una notizia sui Kirghisi, una nazione nomade dell’Asia centrale, che fornirà lo spunto per la nascita del personaggio del «pastore errante»: «Molti di loro [dei Kirghisi] ... passano la notte seduti su una pietra a contemplare la luna, e a improvvisare delle parole alquanto tristi su delle melodie che lo sono altrettanto» (traduz. nostra). Perciò il protagonista, il personaggio che dice io, è un soggetto lontano dal mondo della letteratura cólta e del suo pubblico, un pastore nomade dell’Asia, appartenente a una popolazione ‘primitiva’ rispetto alla civiltà occidentale; l’identità tutta peculiare del Canto notturno nella poesia leopardiana nasce proprio da questo suo carattere generale: esso è una sorta di imitazione, di immedesimazione da parte di un poeta cólto, di un canto anonimo, primitivo.
Una nuova idea di poesia: la superiorità della lirica come canto soggettivo
La suggestione esercitata su Leopardi dalla notizia intorno ai Kirghisi riceve la sua forza non dalla circostanza occasionale di quella lettura, ma dal fatto che essa rinforza la riflessione leopardiana sulla poesia proprio durante gli anni 1828-1829, gli anni dei canti pisano-recanatesi. Secondo tale riflessione (consegnata come sempre alle pagine dello Zibaldone), la lirica è il genere poetico più antico e insieme il più alto (rispetto alla poesia epica e a quella teatrale); la lirica è l’essenza della poesia perché esprime nella forma più soggettiva il mondo interiore di un uomo, e non a caso e un genere perpetuo e diffuso ovunque ci sia l’uomo, un genere che accomuna anche l’età moderna alle civiltà antiche. Quest’idea profondamente romantica (in sintonia cioè con il romanticismo europeo forse anche più di quanto Leopardi sapesse) della poesia autentica come poesia lirica, cioè soggettiva, comporta una conseguenza importante: se la poesia autentica è la lirica, cioè l’espressione della soggettività e non della cultura o di una tradizione letteraria raffinata, allora scompare la distanza tra un cantore anonimo e primitivo e un poeta cólto moderno; le differenze di civiltà, culturale e letteraria, sono cioè superate da un’analogia più profonda e atemporale, la poesia come voce dell’interiorità, cioè la poesia come lirica, che accomuna voci tra loro lontanissime nel tempo. Fondandosi su tale idea della poesia estranea al classicismo e, come si è detto, definibile del tutto romantica, Leopardi può ricreare un’altra voce che si confonda con la propria, perché le unisce l’espressione della propria soggettività e (come vedremo) l’espressione di temi universali.
Da questo tentativo di ricreazione di un canto ‘primitivo’ e insieme universale deriva l’originalità linguistica e formale del Canto notturno: la lunghezza del testo e dei suoi movimenti (che corrisponde a una lunga improvvisazione); lo svolgimento logico che non è ‘razionale’, cioè non è serrato, ragionativo, non procede come un’argomentazione, ma è ripetitivo-accumulativo, vuole cioè rendere il carattere ‘primitivo’ e improvvisato del canto; infine, la semplicità e la musicalità del linguaggio, evidente quest’ultima nella ricchezza di rime e nel ritorno della rima conclusiva in –ale, che funzione come un ritornello. Tali procedimenti hanno per effetto la ricreazione, come è stato detto, di una melodia elementare, di una musicalità ‘povera’ in apparenza quanto suggestiva, così come è suggestivo già il titolo, pieno di parole ‘poetiche’ secondo Leopardi (perché appunto suggestive, evocative), come canto e notturno.
La coincidenza di saggezza primitiva e verità negativa moderna
Ma la coincidenza di antico (cioè primitivo) e moderno è pienamente realizzata perché è possibile non solo sul piano formale, ma anche su quello del contenuto. Leopardi infatti presta alle «parole alquanto tristi» del pastore (secondo la notizia da lui letta sui pastori kirghisi) una tematica tipicamente sua, cioè la condizione umana e il senso dell’esistenza non solo dell’uomo nell’universo, ma di tutto l’universo. È il tema che nell’opera leopardiana ha già trovato espressione nelle Operette morali e in particolare nel Dialogo della Natura e di un Islandese, e la sua trattazione conduce alle conclusioni a cui quel dialogo era approdato: la vita umana è un mistero doloroso se considerata in se stessa (come si dice nei movimenti dal secondo al quinto), e non ha nessuna spiegazione se messa in confronto con l’universo, anzi l’esistenza stessa dell’universo non trova spiegazione, almeno per l’uomo (movimenti primo, terzo e sesto); anzi è possibile, come conclude il testo, che il dolore incomprensibile sia la caratteristica che accomuni ogni forma di vita nell’universo. Il pastore errante leopardiano è quindi, come l’Islandese, un portavoce di Leopardi in quanto è un rappresentante dell’umanità, poiché l’uomo non può fare a meno di lamentare il dolore della propria condizione («a me la vita è male») e di chiedere conto alla natura, cioè all’universo (in questo caso alla luna, rappresentante del mondo superiore alla terra e personificata in una divinità, proprio come fanno le mitologie antiche e primitive in genere).
Il bilancio delle domande e delle affermazioni del pastore è quello del cosiddetto pessimismo cosmico (la cui prima espressione chiara è proprio il citato Dialogo della Natura e di un Islandese): le leggi dell’universo ignorano il dolore e i desideri delle creature viventi, la cui esistenza si consuma tra dolore e noia, senza nessuno scopo comprensibile all’individuo. Tale bilancio terribile è il frutto della filosofia moderna, eppure viene ora affidato a un ‘primitivo’, a un membro di una popolazione senza scrittura, lontana dalla civiltà moderna. Questo per Leopardi non è affatto in contraddizione con le caratteristiche ‘primitive’ del pastore errante, perché negli anni dal 1823 circa, con l’emergere del cosiddetto pessimismo cosmico nel pensiero leopardiano, è cambiata anche la concezione degli antichi, degli ignoranti, dei ‘primitivi’, dei bambini, insomma di tutti coloro che sono lontani dalla civiltà e dalla razionalità moderne: Leopardi non sottolinea più la loro condizione privilegiata rispetto ai moderni perché più vicini alla natura, ma, ora che la sua concezione della natura si è rovesciata, mette in rilievo che la loro stessa ignoranza li rende alieni dalle presunzioni e dalle mistificazioni della civiltà moderna intorno alla condizione dell’uomo e alla sua posizione nell’universo. Di conseguenza, secondo queste convinzioni, Leopardi ritiene che la sua verità, che è una verità negativa perché distruttrice, demistificatrice delle illusioni e delle consolazioni che la civiltà ha elaborato per mascherare la situazione dolorosa dell’esistenza umana, una situazione di cui la coscienza di un ‘primitivo’ può invece avere una consapevolezza più lucida. E così che, di fronte al mistero dell’universo e della vita umana come anche di fronte all’esperienza che la vita è dolore e noia, l’ignoranza e le conclusioni di un pensatore moderno come Leopardi sono le medesime di un pastore analfabeta che vive in condizioni materiali e mentali simili a quelle delle più antiche civiltà.
Il dubbio davanti al mistero della vita e dell’universo
Ma i temi filosofici suddetti vengono qui trattati in un modo originale, che dipende dall’identità culturale del personaggio protagonista. Il pastore errante, a differenza ovviamente di Leopardi e anche di un suo predecessore all’interno dell’opera leopardiana cioè l’Islandese delle Operette morali, ha un’identità culturale molto più ‘primitiva’, come si è detto: non è un pensatore, un uomo cólto  come Leopardi, ma non è nemmeno un esploratore come l’Islandese e non ha nemmeno avuto il privilegio, come lui, di parlare direttamente con la Natura; egli interroga la luna, che non può rispondergli, non ha alcun retroterra filosofico e perciò non può enunciare, affermare (come fanno Leopardi o l’Islandese), ma deve soprattutto porre domande senza risposta. Certo, anche lui ha delle certezze, quelle che gli derivano dalla sua esperienza personale che gli dice che la sua vita è un male, ma non può saperne di più, ed è per questo che il suo canto è composto soprattutto di domande e di dubbi, tanto è vero che anche l’ultima, terribile conclusione stessa è scandita dai forse. Quest’atteggiamento soprattutto interrogativo-dubitativo, assai più che affermativo, è del tutto coerente con la ricostruzione leopardiana della percezione del mondo del pastore errante, e produce anche l’originalità e il fascino di questo canto, in cui la formulazione di verità terribili (che il lettore leopardiano conosce già enunciate in forme ben più crude e affermative) viene sfumata e come attenuata, almeno nel suo effetto, da quest’atteggiamento di dubbio e di interrogazione senza sosta; il lettore, qui, non è posto di fronte a un’indagine e alle sue conclusioni, ma a una meditazione sul mistero, ed è quindi immerso, insieme con il pastore, nel mistero infinito che fonda l’esistenza di ogni creatura, in una scena resa ancora più suggestiva dalla sua ambientazione temporale e spaziale, perché lo spazio che circonda il pastore (il deserto, il cielo stellato) sembra un’espressione concreta del mistero infinito su cui egli si interroga. Non bisogna dimenticare tuttavia che queste domande e questi forse sono un effetto della logica poetica di questo canto: essi cioè sono tali per il pastore ma non per Leopardi; molte di quelle domande e di quei dubbi sono infatti già state enunciate come conclusioni o certezze da personaggi portavoce di Leopardi, come l’Islandese, o anche dallo stesso Leopardi nei canti pisano-recanatesi, ad es. A Silvia e La quiete dopo la tempesta, nei quali la concezione del cosiddetto pessimismo cosmico, secondo la quale la natura è di volta in volta persecutoria, crudele o indifferente nei confronti dell’esistenza umana, è esplicita.

 

 

Testo 5: il piacere illusorio (La quiete dopo la tempesta)

LA QUIETE DOPO LA TEMPESTA

Passata è la tempesta:
odo augelli far festa, e la gallina,
tornata in su la via,
che ripete il suo verso. Ecco il sereno
rompe là da ponente, alla montagna;                 5
sgombrasi la campagna,
e chiaro nella valle il fiume appare.
Ogni cor si rallegra, in ogni lato
risorge il romorio
torna il lavoro usato.                                        10
L'artigiano a mirar l'umido cielo,
con l'opra in man, cantando,
fassi in su l'uscio; a prova
vien fuor la femminetta a còr dell'acqua
della novella piova;                                          15
e l'erbaiuol rinnova
di sentiero in sentiero
il grido giornaliero.
Ecco il Sol che ritorna, ecco sorride
per li poggi e le ville. Apre i balconi,              20
apre terrazzi e logge la famiglia:
e, dalla via corrente, odi lontano
tintinnio di sonagli; il carro stride
del passeggier che il suo cammin ripiglia.

   Si rallegra ogni core.                                   25
Sì dolce, sì gradita
quand'è, com'or, la vita?
quando con tanto amore
l'uomo a' suoi studi intende?
o torna all'opre? o cosa nova imprende?        30
Quando de' mali suoi men si ricorda?
Piacer figlio d'affanno;
gioia vana, ch'è frutto
del passato timore, onde si scosse               
e paventò la morte                                        35
chi la vita abborria;
onde in lungo tormento,
fredde, tacite, smorte,
sudàr le genti e palpitàr, vedendo
mossi alle nostre offese                               40
folgori, nembi e vento.

   O natura cortese,
son questi i doni tuoi,
questi i diletti sono
che tu porgi ai mortali. Uscir di pena            45
è diletto fra noi.
Pene tu spargi a larga mano; il duolo
spontaneo sorge e di piacer, quel tanto
che per mostro e miracolo talvolta
nasce d'affanno, è gran guadagno. Umana   50
prole cara agli eterni! assai felice
se respirar ti lice
d'alcun dolor: beata
se te d’ogni dolor morte risana.

 

La tempesta è finita; sento gli uccelli cantare festeggiando (il ritorno del sereno), e la gallina, tornata sulla strada, che ripete il suo verso. Ecco il cielo sereno irrompe là da occidente, dalla parte della montagna; la campagna si libera dalle nuvole, e nella valle il fiume appare luminoso. Ciascuno si rallegra in cuore, ovunque tornano a farsi sentire i rumori consueti, riprendono i lavori abituali. L’artigiano si sporge sulla porta della sua bottega cantando, con il suo lavoro in mano, per guardare il cielo; le donne escono fuori a gara a raccogliere acqua della pioggia recente, e il venditore di erbe ricomincia a lanciare, da un sentiero all’altro, il suo richiamo quotidiano. Ecco il sole che rispunta, ecco che risplende per le colline e i casolari. I domestici aprono le finestre, aprono balconi e loggiati, e si sente provenire dalla strada maestra un lontano rumore di sonagli: è il cigolio del carro del viaggiatore che riprende il suo cammino.

 

Ciascuno si rallegra in cuore. Quando la vita è così bella, così cara come in questi momenti? Quando, come in questi momenti, l’uomo si dedica alle sue occupazioni con tanto amore, o torna al lavoro interrotto, o ne comincia un altro? Quando, come adesso, si ricorda di meno dei suoi mali? Il piacere nasce dal dolore: una gioia inconsistente, che deriva da un timore precedente, a causa del quale ebbe paura di morire chi odiava la vita, a causa del quale gli uomini, terrorizzati, silenziosi, pallidi, sudarono freddo e tremarono, vedendo fulmini, nuvole e vento scatenati contro di noi per farci del male.

 

 

Natura generosa, questi sono i tuoi doni, questi sono i piaceri che tu offri agli uomini. Smettere di soffrire per noi è un piacere. Tu semini con abbondanza i tormenti; il dolore nasce da solo, e quel poco di piacere che a volte, per un prodigio miracoloso, nasce dal dolore, per noi è un grande guadagno. Genere umano gradito agli dèi! Abbastanza felice quando ti è permesso trovare un po’ di tregua da qualche dolore, beato quando la morte di guarisce da ogni dolore.

Leggiamo insieme: dal quadretto paesano alla verità filosofica
Schema metrico: “canzone libera” composta di tre “strofe” o movimenti di endecasillabi e settenari non rimati e o rimati liberamente.
Un “apologo-idilio”: quadretto individuale e significato universale
La quiete dopo la tempesta possiede degli elementi tematici e formali tipici dei canti pisano-recanatesi (l’ambientazione appunto recanatese, la “canzone libera”, un linguaggio raffinato ma anche pieno di oggetti e di termini familiari), ma anche dei caratteri specifici che l’accomunano al Sabato del villaggio, tanto che entrambi i testi sono stati definiti degli apologhi-idilli, cioè dei testi di poesia descrittiva paesana e campestre (caratteri tipici del genere antico e settecentesco dell’idillio – letteralmente ‘quadretto’ – e anche dei giovanili idilli leopardiani) che però raccontano anche una vicenda esemplare, da cui bisogna trarre una morale valida per tutti, come in una favola, sono cioè anche degli apologhi. Questi due caratteri ben diversi – l’impostazione descrittiva e l’impostazione filosofica del discorso poetico – sono intrecciati attraverso lo svolgimento del tema cioè la struttura metrica del testo, che, come sempre nella “canzone libera”, obbedisce alle esigenze di volta in volta variabili del tema;  perciò bisogna considerare da vicino la costruzione del testo.
Schema metrico e articolazione del tema: descrizione, commento, riflessione universale
Come succede anche nel successivo Sabato del villaggio, la Quiete descrive (come indica il titolo) un momento consueto della vita di una comunità che, come si capisce nel testo, è quella di un borgo di campagna, ed è divisa in movimenti (o “strofe”, ma solo in senso metaforico) diversi tra loro per contenuto e linguaggio, ma tutti collegati tra loro in un discorso unitario, come se fossero tre parti o momenti di una sola argomentazione: 1) una parte descrittiva, il ‘quadro’ vero e proprio, che illustra in tutte le sue parti la scena annunciata dal titolo, dall’alto (il cielo che torna sereno, il paesaggio di nuovo illuminato) al basso e ai dettagli minuti (la vivacità e la gioia che tornano negli uomini, ciascuno dei quali si affretta a riprendere con piacere il suo lavoro, il borgo che si rianima in piena sintonia con la serenità della natura che sembra festeggiare anch’essa il ritorno del sereno), dalla natura agli uomini; 2) un commento, un’interpretazione dal punto di vista psicologico della scena descritta, che sottolinea la reazione umana al pericolo passato (la gioia, l’amore della vita che tornano sempre accresciuti dopo un pericolo scampato) e la interpreta traendone una legge della psicologia umana: «piacer figlio d’affanno», cioè il piacere non esiste in se stesso, ma è solo una tregua temporanea dal dolore e dalla paura, e perciò l’amore per la vita è un’espressione della paura della morte; 3) una riflessione finale che, ormai svincolata dal punto di partenza (il quadro del villaggio dopo la tempesta), vuole avere una validità universale: una riflessione ironica (in forma di lode alla natura da intendersi alla rovescia) sulla condizione fragile e crudele della vita umana nell’universo, poiché il solo piacere che ci è concesso è quello che nasce dalla cessazione temporanea del dolore, e l’unica cessazione definitiva dal dolore ci verrà dalla morte.
Come si vede, il tema si articola seguendo una progressione crescente di ampiezza, dall’inizio (la descrizione del villaggio e della natura circostante dopo una tempesta) alla fine (una riflessione sulla fragilità della condizione umana in termini di piacere effimero, dolore, morte): la distanza tra l’inizio e la conclusione è evidente, poiché il movimento iniziale, descrittivo, e quello finale, riflessivo, non hanno niente di esplicito in comune, sia dal punto di vista tematico sia dal punto di vista del linguaggio (pieno di dettagli concreti e di piccole scene, di termini umili e familiari nel primo movimento; molto più letterario, prevalentemente astratto e concettuale nell’ultimo, dal tono molto più sostenuto a causa delle invocazioni alla natura e alla specie umana). Tale distanza è per così dire compensata dalla parte centrale, che è collegata alla precedente e alla successiva perché contiene elementi di entrambe, cioè, di séguito, il riferimento alla scena appena descritta (evidente fin dal verso iniziale: «Si rallegra ogni core», che riprende «Ogni cor si rallegra» al v. 8) che ora viene commentata, e l’approfondimento di tale commento in senso universalizzante, cioè alla ricerca di una legge, quella appunto qui enunciata del «piacer figlio d’affanno», una legge che a sua volta produce una riflessione, quella del movimento conclusivo, che non ha più bisogno di alcun riferimento esplicito al quadro iniziale; il movimento centrale dunque ha una funzione di raccordo tra l’avvio descrittivo e la conclusione ‘filosofica’, fatta di considerazioni universali.
Oltre i generi tradizionali: una poesia conoscitiva
L’osservazione della struttura insieme metrica e tematica del testo dimostra che il movimento iniziale e quello finale sono complessivamente uniti in un percorso che conosce una svolta brusca proprio al centro del testo (ai vv. 31-32, che fanno parte del movimento centrale, di raccordo), quando il commento sulla scena paesana e campestre è improvvisamente seguito dalla considerazione generale «piacer figlio d’affanno», ma che proprio grazie a tale svolta vuole collegare in modo inatteso per il lettore due parti in antitesi tra loro: uno spettacolo gioioso descritto con partecipazione quasi commossa, e delle considerazioni cupe (sia pure in forma ironica, solo apparentemente leggera) sulla crudeltà del destino umano; un inizio che sembrava condurre da tutt’altra parte, a una poesia descrittiva, e un finale che sembra provenire da un’altra poesia, tanto è diverso dall’inizio. E tuttavia, l’originalità della Quiete consiste proprio nel suo carattere unitario realizzato sintetizzando parti così diverse tra loro, perché Leopardi ha stabilito tra queste parti un nuovo collegamento: la descrizione delle scene di vita del borgo e della natura circostante ha un valore autonomo, ma si può anche leggere come un fenomeno che ha un valore esemplare, l’esemplificazione consueta e quasi quotidiana di una legge profonda della vita dell’uomo (l’inconsistenza del piacere, la sua vera natura di tregua momentanea dal dolore), e dunque è la via che può condurre a una riflessione universale sul destino umano, riflessione che, a sua volta, non è gratuita ma appare la conclusione consequenziale dell’osservazione di un episodio della vita della natura e dell’uomo.
Perciò La quiete dopo la tempesta realizza, come fanno i canti pisano-recanatesi, una sintesi a più livelli: sintesi di descrizione e di riflessione, come si è visto, ma anche di temi umili e quotidiani e di orizzonte amplissimo di pensiero, e quindi anche una sintesi di generi letterari ben diversi tra loro nel sistema letterario tradizionale. Attraverso tali sintesi Leopardi realizza un superamento o una dissoluzione (com’è stata definita) dei generi letterari che ha ereditato, riutilizzando in modo nuovo elementi ben noti alla poesia precedente ma in essa tenuti distinti, come la poesia descrittiva campestre e l’intenzione filosofica del discorso poetico. Di fronte a poesie come questa, invece, non si può più parlare di lirica soggettiva, di poesia ‘oggettiva’ (descrittiva), di poesia umile o di poesia di stile alto: qui Leopardi ha realizzato (come, in vari modi, nei canti pisano-recanatesi) una fusione di discorso soggettivo (poesia lirica, nel sistema tradizionale) e di discorso oggettivo (poesia ‘impersonale’, descrittiva o ‘filosofica’) che è soltanto sua, e che fa della sua poesia una poesia che si può definire conoscitiva, che cioè è indissolubilmente un discorso poetico e una ricerca della verità, una poesia che non può essere più definita o apprezzata attraverso la griglia dei generi letterari tradizionali e dell’altrettanto tradizionale opposizione (dominante nella tradizione italiana) tra ragionamento e discorso in versi; la poesia leopardiana nei suoi vertici, invece, non rinuncia né alla bellezza né al ragionamento o all’enunciazione astratta, vuole cogliere, come fa qui, la meraviglia dello spettacolo di un mondo rasserenato, ma anche le verità universali e terribili che sono nascoste dietro questo spettacolo meraviglioso, per chi lo sa decifrare,

 

Testo n. 6: l’attesa del piacere (Il sabato del villaggio)
Composto a Recanati nel settembre 1829, fu collocato da Leopardi come ultimo testo nella prima edizione (1831) dei Canti. Come nella Quiete dopo la tempesta, anche questa poesia è un quadro di vita del borgo che viene interpretato e commentato in termini universali, come esemplificazione di una verità che riguarda tutti noi.

                                    XXV

IL SABATO DEL VILLAGGIO

   La donzelletta vien dalla campagna,
in sul calar del sole,
col suo fascio dell'erba; e reca in mano
un mazzolin di rose e di viole,
onde, siccome suole,
ornare ella si appresta
dimani, al dì di festa, il petto e il crine.
Siede con le vicine
su la scala a filar la vecchierella,
incontro là dove si perde il giorno;
e novellando vien del suo buon tempo,
quando ai dì della festa ella si ornava,
ed ancor sana e snella
solea danzar la sera intra di quei
ch'ebbe compagni dell'età più bella.
Già tutta l'aria imbruna,
torna azzurro il sereno, e tornan l'ombre
giù da' colli e da' tetti,
al biancheggiar della recente luna.
Or la squilla dà segno
della festa che viene;
ed a quel suon diresti
che il cor si riconforta.
I fanciulli gridando
su la piazzuola in frotta,
e qua e là saltando,
fanno un lieto romore:
e intanto riede alla sua parca mensa,
fischiando, il zappatore,
e seco pensa al dì del suo riposo.

   Poi quando intorno è spenta ogni altra face,
e tutto l'altro tace,
odi il martel picchiare, odi la sega
del legnaiuol, che veglia
nella chiusa bottega alla lucerna,
e s'affretta, e s'adopra
di fornir l'opra anzi il chiarir dell'alba.

   Questo di sette è il più gradito giorno,
pien di speme e di gioia:
diman tristezza e noia
recheran l'ore, ed al travaglio usato
ciascuno in suo pensier farà ritorno.

   Garzoncello scherzoso,
cotesta età fiorita
è come un giorno d'allegrezza pieno,
giorno chiaro, sereno,
che precorre alla festa di tua vita.
Godi, fanciullo mio; stato soave,
stagion lieta è cotesta.
Altro dirti non vo'; ma la tua festa
ch'anco tardi a venir non ti sia grave.

 

 

La giovane contadina torna dalla campagna verso il tramonto, col suo fascio di foraggio (per gli animali), e porta in mano un mazzetto di rose e di viole con cui, come è solita fare, si prepara ad abbellire il petto e i capelli per l’indomani, giorno di festa. La vecchietta siede con le sue vicine sui gradini davanti casa a filare, e viene raccontando del suo tempo felice, quando si abbelliva nei giorni di festa, ed era solita danzare, ancora in salute e agile, in compagnia di coloro che furono suoi coetanei nell’età più bella della vita. Ormai tutta l’aria si oscura, il cielo sereno torna di colore azzurro, e le ombre, formate dalla luce bianca della luna appena sorta, tornano a scendere dai colli e dai tetti. Ora la campana segnala la festa che verrà, e si direbbe che ascoltando quel suono l’animo si rassereni. I bambini gridando tutti insieme sulla piazzetta e saltando di qua e di là fanno una confusione gioiosa, e intanto il contadino torna fischiando alla sua povera cena, e tra se stesso pensa al giorno seguente in cui si riposerà.

 

 

 

 

Poi, quando tutt’intorno ogni altro lume è spento e tutto tace, si sente il martello che picchia, si sente la sega del falegname, che rimane sveglio nella bottega chiusa al lume della lucerna, e fa in fretta e si impegna per finire il suo lavoro prima dell’alba.

 

Questo (il sabato) è il giorno più amato della settimana, pieno di speranza e di gioia: le ore del giorno di domani porteranno tristezza e dolore, e ciascuno, col pensiero, tornerà alle sue fatiche quotidiane.

Ragazzino pieno di allegria, questa età che è la primavera della vita è simile a un giorno pieno di contentezza; un giorno luminoso, sereno, che precede la festa della tua vita. Goditi, ragazzo mio, questa condizione beata, questo è un tempo di gioia. Non voglio dirti altro: ma non ti pesi il fatto che la tua festa tardi a venire (non aspettare che la tua festa arrivi).

 

 

Testo n. 7:  (La ginestra)
Composta a Napoli nel 1836, La ginestra non è probabilmente l’ultimo dei Canti dal punto di vista cronologico, ma è stata scelta da Leopardi come testo conclusivo del libro (prima dell’appendice finale) per l’edizione definitiva che uscì solo nel 1845. Tale scelta si spiega con le caratteristiche uniche di questa poesia: le dimensioni eccezionali e il suo carattere di sintesi delle risorse, degli stili e dei temi della poesia e del pensiero leopardiano, che ne fanno un testamento poetico e filosofico che si rivolge idealmente a tutti gli uomini.

               LA GINESTRA,
O IL FIORE DEL DESERTO

E gli uomini vollero piuttosto le tenebre che la luce.
Giovanni, III, 19

   Qui su l'arida schiena
del formidabil monte
sterminator Vesevo,
la qual null'altro allegra arbor né fiore,
tuoi cespi solitari intorno spargi,
odorata ginestra,
contenta dei deserti. Anco ti vidi
de' tuoi steli abbellir l'erme contrade
che cingon la cittade
la qual fu donna de' mortali un tempo,
e del perduto impero
par che col grave e taciturno aspetto
faccian fede e ricordo al passeggero.
Or ti riveggo in questo suol, di tristi
lochi e dal mondo abbandonati amante,
e d'afflitte fortune ognor compagna.
Questi campi cosparsi
di ceneri infeconde, e ricoperti
dell'impietrata lava,
che sotto i passi al peregrin risona;
dove s'annida e si contorce al sole
la serpe, e dove al noto
cavernoso covil torna il coniglio;
fur liete ville e colti,
e biondeggiàr di spiche, e risonaro
di muggito d'armenti;
fur giardini e palagi,
agli ozi de' potenti
gradito ospizio; e fur città famose
che coi torrenti suoi l'altero monte
dall'ignea bocca fulminando oppresse
con gli abitanti insieme. Or tutto intorno
una ruina involve,
dove tu siedi, o fior gentile, e quasi
i danni altrui commiserando, al cielo
di dolcissimo odor mandi un profumo,
che il deserto consola. A queste piagge
venga colui che d'esaltar con lode
il nostro stato ha in uso, e vegga quanto
è il gener nostro in cura
all'amante natura. E la possanza
qui con giusta misura
anco estimar potrà dell'uman seme,
cui la dura nutrice, ov'ei men teme,
con lieve moto in un momento annulla
in parte, e può con moti
poco men lievi ancor subitamente
annichilare in tutto.
Dipinte in queste rive
son dell'umana gente
le magnifiche sorti e progressive.

   Qui mira e qui ti specchia,
secol superbo e sciocco,
che il calle insino allora
dal risorto pensier segnato innanti
abbandonasti, e volti addietro i passi,
del ritornar ti vanti,
e procedere il chiami.
Al tuo pargoleggiar gl'ingegni tutti,
di cui lor sorte rea padre ti fece,
vanno adulando, ancora
ch'a ludibrio talora
t'abbian fra sé. Non io
con tal vergogna scenderò sotterra;
ma il disprezzo piuttosto che si serra
di te nel petto mio,
mostrato avrò quanto si possa aperto:
ben ch'io sappia che obblio
preme chi troppo all'età propria increbbe.
Di questo mal, che teco
mi fia comune, assai finor mi rido.
Libertà vai sognando, e servo a un tempo
vuoi di novo il pensiero,
sol per cui risorgemmo
della barbarie in parte, e per cui solo
si cresce in civiltà, che sola in meglio
guida i pubblici fati.
Così ti spiacque il vero
dell'aspra sorte e del depresso loco
che natura ci diè. Per questo il tergo
vigliaccamente rivolgesti al lume
che il fe' palese: e, fuggitivo, appelli
vil chi lui segue, e solo
magnanimo colui
che sé schernendo o gli altri, astuto o folle,
fin sopra gli astri il mortal grado estolle.

   Uom di povero stato e membra inferme
che sia dell'alma generoso ed alto,
non chiama sé né stima
ricco d'or né gagliardo,
e di splendida vita o di valente
persona infra la gente
non fa risibil mostra;
ma sé di forza e di tesor mendico
lascia parer senza vergogna, e noma
parlando, apertamente, e di sue cose
fa stima al vero uguale.
Magnanimo animale
non credo io già, ma stolto,
quel che nato a perir, nutrito in pene,
dice, a goder son fatto,
e di fetido orgoglio
empie le carte, eccelsi fati e nove
felicità, quali il ciel tutto ignora,
non pur quest'orbe, promettendo in terra
a popoli che un'onda
di mar commosso, un fiato
d'aura maligna, un sotterraneo crollo
distrugge sì, che avanza
a gran pena di lor la rimembranza.
Nobil natura è quella
che a sollevar s'ardisce
gli occhi mortali incontra
al comun fato, e che con franca lingua,
nulla al ver detraendo,
confessa il mal che ci fu dato in sorte,
e il basso stato e frale;
quella che grande e forte
mostra sé nel soffrir, né gli odii e l'ire
fraterne, ancor più gravi
d'ogni altro danno, accresce
alle miserie sue, l'uomo incolpando
del suo dolor, ma dà la colpa a quella
che veramente è rea, che de' mortali
madre è di parto e di voler matrigna.
Costei chiama inimica; e incontro a questa
congiunta esser pensando,
siccome è il vero, ed ordinata in pria
l'umana compagnia,
tutti fra sé confederati estima
gli uomini, e tutti abbraccia
con vero amor, porgendo
valida e pronta ed aspettando aita
negli alterni perigli e nelle angosce
della guerra comune. Ed alle offese
dell'uomo armar la destra, e laccio porre
al vicino ed inciampo,
stolto crede così qual fora in campo
cinto d'oste contraria, in sul più vivo
incalzar degli assalti,
gl'inimici obbliando, acerbe gare
imprender con gli amici,
e sparger fuga e fulminar col brando
infra i propri guerrieri.
Così fatti pensieri
quando fien, come fur, palesi al volgo,
e quell'orror che primo
contra l'empia natura
strinse i mortali in social catena,
fia ricondotto in parte
da verace saper, l'onesto e il retto
conversar cittadino,
e giustizia e pietade, altra radice
avranno allor che non superbe fole,
ove fondata probità del volgo
così star suole in piede
quale star può quel ch'ha in error la sede.

   Sovente in queste rive,
che, desolate, a bruno
veste il flutto indurato, e par che ondeggi,
seggo la notte; e su la mesta landa
in purissimo azzurro
veggo dall'alto fiammeggiar le stelle,
cui di lontan fa specchio
il mare, e tutto di scintille in giro
Per lo vòto seren brillare il mondo.
E poi che gli occhi a quelle luci appunto,
ch'a lor sembrano un punto,
e sono immense, in guisa
che un punto a petto a lor son terra e mare
veracemente; a cui
l'uomo non pur, ma questo
globo ove l'uomo è nulla,
sconosciuto è del tutto; e quando miro
quegli ancor più senz'alcun fin remoti
nodi quasi di stelle,
ch'a noi paion qual nebbia, a cui non l'uomo
e non la terra sol, ma tutte in uno,
del numero infinite e della mole,
con l'aureo sole insiem, le nostre stelle
o sono ignote, o così paion come
essi alla terra, un punto
di luce nebulosa; al pensier mio
che sembri allora, o prole
dell'uomo? E rimembrando
il tuo stato quaggiù, di cui fa segno
il suol ch'io premo; e poi dall'altra parte,
che te signora e fine
credi tu data al Tutto, e quante volte
favoleggiar ti piacque, in questo oscuro
granel di sabbia, il qual di terra ha nome,
per tua cagion, dell'universe cose
scender gli autori, e conversar sovente
co' tuoi piacevolmente, e che i derisi
sogni rinnovellando, ai saggi insulta
fin la presente età, che in conoscenza
ed in civil costume
sembra tutte avanzar; qual moto allora,
mortal prole infelice, o qual pensiero
verso te finalmente il cor m'assale?
Non so se il riso o la pietà prevale.

   Come d'arbor cadendo un picciol pomo,
cui là nel tardo autunno
maturità senz'altra forza atterra,
d'un popol di formiche i dolci alberghi,
cavati in molle gleba
con gran lavoro, e l'opre
e le ricchezze che adunate a prova
con lungo affaticar l'assidua gente
avea provvidamente al tempo estivo,
schiaccia, diserta e copre
in un punto; così d'alto piombando,
dall'utero tonante
scagliata al ciel profondo,
di ceneri e di pomici e di sassi
notte e ruina, infusa
di bollenti ruscelli
o pel montano fianco
furiosa tra l'erba
di liquefatti massi
e di metalli e d'infocata arena
scendendo immensa piena,
le cittadi che il mar là su l'estremo
lido aspergea, confuse
e infranse e ricoperse
in pochi istanti: onde su quelle or pasce
la capra, e città nove
sorgon dall'altra banda, a cui sgabello
son le sepolte, e le prostrate mura
l'arduo monte al suo piè quasi calpesta.
Non ha natura al seme
dell'uom più stima o cura
che alla formica: e se più rara in quello
che nell'altra è la strage,
non avvien ciò d'altronde
fuor che l'uom sue prosapie ha men feconde.

   Ben mille ed ottocento
anni varcàr poi che spariro, oppressi
dall'ignea forza, i popolati seggi,
e il villanello intento
ai vigneti, che a stento in questi campi
nutre la morta zolla e incenerita,
ancor leva lo sguardo
sospettoso alla vetta
fatal, che nulla mai fatta più mite
ancor siede tremenda, ancor minaccia
a lui strage ed ai figli ed agli averi
lor poverelli. E spesso
il meschino in sul tetto
dell'ostel villereccio, alla vagante
aura giacendo tutta notte insonne,
e balzando più volte, esplora il corso
del temuto bollor, che si riversa
dall'inesausto grembo
su l'arenoso dorso, a cui riluce
di Capri la marina
e di Napoli il porto e Mergellina.
E se appressar lo vede, o se nel cupo
del domestico pozzo ode mai l'acqua
fervendo gorgogliar, desta i figliuoli,
desta la moglie in fretta, e via, con quanto
di lor cose rapir posson, fuggendo,
vede lontan l'usato
suo nido, e il picciol campo,
che gli fu dalla fame unico schermo,
preda al flutto rovente,
che crepitando giunge, e inesorato
durabilmente sovra quei si spiega.
Torna al celeste raggio
Dopo l'antica obblivion l'estinta
Pompei, come sepolto
scheletro, cui di terra
avarizia o pietà rende all'aperto;
e dal deserto foro
diritto infra le file
dei mozzi colonnati il peregrino
lunge contempla il bipartito giogo
e la cresta fumante,
che alla sparsa ruina ancor minaccia.
E nell'orror della secreta notte
per li vacui teatri,
per li templi deformi e per le rotte
case, ove i parti il pipistrello asconde,
come sinistra face
che per vòti palagi atra s'aggiri,
corre il baglior della funerea lava,
che di lontan per l'ombre
rosseggia e i lochi intorno intorno tinge.
Così, dell'uomo ignara e dell'etadi
ch'ei chiama antiche, e del seguir che fanno
dopo gli avi i nepoti,
sta natura ognor verde, anzi procede
per sì lungo cammino
che sembra star. Caggiono i regni intanto,
passan genti e linguaggi: ella nol vede:
e l'uom d'eternità s'arroga il vanto.

   E tu, lenta ginestra,
che di selve odorate
queste campagne dispogliate adorni,
anche tu presto alla crudel possanza
soccomberai del sotterraneo foco,
che ritornando al loco
già noto, stenderà l'avaro lembo
su tue molli foreste. E piegherai
sotto il fascio mortal non renitente
il tuo capo innocente:
ma non piegato insino allora indarno
codardamente supplicando innanzi
al futuro oppressor; ma non eretto
con forsennato orgoglio inver le stelle,
né sul deserto, dove
e la sede e i natali
non per voler ma per fortuna avesti;
ma più saggia, ma tanto
meno inferma dell'uom, quanto le frali
tue stirpi non credesti
o dal fato o da te fatte immortali.

 

 

 

Qui sul fianco deserto del monte pauroso, il Vesuvio distruttore, (un fianco) che non è allietato dall’aspetto di nessun albero o fiore, spargi i tuoi cespugli solitari tutt’intorno, profumata ginestra, che ti accontenti di vivere sui terreni deserti. Ti vidi anche abbellire con i tuoi steli le campagne solitarie che circondano la città che un tempo fu signora degli uomini, e che sembrano, con il loro aspetto solenne e silenzioso, testimoniare e rammentare al viaggiatore l’impero perduto. Ora ti rivedo in questo terreno, amante di luoghi desolati e abbandonati dagli uomini, e sempre compagna di destini sventurati. Questi campi cosparsi di sterile cenere vulcanica, e ricoperti di lava pietrificata che risuona sotto i passi del viaggiatore, dove la serpe si rifugia e si contorce al sole, e dove il coniglio torna alla tana consueta scavata in quella lava, furono villaggi pieni di vita e terreni coltivati, ed ebbero il colore giallo oro delle spighe, e risuonarono del muggito dei buoi; furono giardini e residenze di lusso, sede gradita per il riposo dei potenti; e furono città famose, che il monte superbo, vomitando fiamme dal suo cratere infuocato coi suoi torrenti di lava, schiacciò insieme coi loro abitanti. Ora una sola rovina avvolge tutti questi luoghi qui intorno, dove tu ti trovi, o fiore nobile, e come se mostrassi pietà dei mali altrui, emani verso il cielo l’effluvio di un odore dolcissimo, che consola il deserto. In questi luoghi venga chi ha l’abitudine di celebrare la condizione umana, e venga a vedere quanto il genere umano sta a cuore alla natura che ci ama. E potrà anche stimare fedelmente la potenza della specie umana, che la madre crudele distrugge in parte, quando meno egli ne ha paura, con un movimento leggero in un istante, e può annientare del tutto con movimenti appena meno leggeri. In questi luoghi desolati è illustrata la sorte grandiosa e in contino progresso del genere umano.

 

 

 

Guardati e specchiati qui (nelle pendici aride del Vesuvio), secolo superbo e stupido, che hai abbandonato la strada tracciata fino a qual momento dal pensiero rinato (cioè il cammino del pensiero razionalistico e scientifico dal Rinascimento fino all’Illuminismo), e tornato indietro ti vanti del tuo indietreggiare e lo chiami un andare avanti. Tutte le menti di cui il loro crudele destino ti ha fatto padre non smettono di adulare la tua sciocchezza infantile, benché in cuore loro talvolta ti disprezzino. Non certo io morirò con questa vergogna, ma piuttosto esprimerò nel modo più esplicito che saprò il disprezzo di te che è chiuso nel mio cuore, sebbene io sappia che il silenzio ricopre quelli che sono dispiaciuti troppo alla loro epoca. Mi faccio beffe di questo danno (la dimenticanza dei posteri), che condividerò con te. Vai sognando la libertà del pensiero, e allo stesso tempo vuoi rendere di nuovo schiavo il pensiero, grazie a cui soltanto ci risollevammo in parte dall’antica barbarie (il medioevo), e per il quale soltanto noi uomini avanziamo nella civiltà, che è l’unica a condurre al miglioramento il destino dei popoli. Perciò hai rifiutato la verità riguardo il destino crudele e la condizione infima che la natura ha assegnato a noi uomini. Perciò volgesti le spalle vigliaccamente alla luce (la ragione umana) che la rese visibile; e tu che scappi (dalla ragione e dalla verità), chiami vigliacco chi la segue, e chiami uno spirito eccelso solo colui che innalza sopra le stelle la condizione degli uomini, perché è pazzo o perché è astuto (e si fa beffe degli altri).

Un uomo di bassa condizione sociale e dal corpo malato, ma che sia coraggioso e nobile d’animo, non si definisce né si ritiene ricco e forte, e, in mezzo agli altri, non esibisce in modo ridicolo una vita piena di lussi o un corpo pieno di salute, ma si mostra senza vergogna e si definisce francamente privo di forze e di ricchezze, e giudica la sua situazione in conformità a quello che essa è realmente. Io certo non ritengo una creatura nobile colui che, nato per morire, cresciuto nel dolore, afferma “sono stato creato per essere felice”, e riempie i suoi scritti di orgoglio disgustoso, promettendo su questa Terra un destino superiore e forme ignote di felicità (cose ignorate dall’universo intero, non solo da questo pianeta) a popoli che un maremoto, un soffio di aria malsana (che diffonde epidemie) o un crollo sotterraneo (un terremoto) distruggono al punto che di loro resta a malapena il ricordo. Un animo nobile è quello che ha il coraggio di alzare gli occhi umani contro il destino di tutti, e che con parole sincere, senza togliere nulla alla verità, dichiara apertamente il male che fu assegnato a noi uomini come destino, e la nostra condizione infima e fragile; (è un animo nobile) colui che si dimostra coraggiosa e forte nelle sofferenze, e non aggiunge ai suoi mali l’odio e la rabbia contro i suoi fratelli (gli altri uomini) - ancora più dolorosi di ogni altro male – dando la colpa ad altri uomini del proprio dolore, ma accusa colei che è davvero colpevole, che è madre naturale degli uomini, ma, nel suo animo, una matrigna (la natura). È questa che (un animo nobile) definisce nemica, e pensando che la società umana si sia originariamente unita e organizzata (come è la verità) contro di lei, ritiene gli uomini tutti alleati tra di loro, ed è disposto ad aiutare tutti con un amore sincero, offrendo ed aspettando un aiuto efficace e immediato nell’alternanza di pericoli e sofferenze della guerra comune (la guerra degli uomini contro la natura). E ritiene tanto stupido armare la mano per fare del male ad altri uomini e tendere trappole e ostacoli ai suoi vicini, quanto sarebbe stupido, in un campo di battaglia circondato dal nemico, nell’infuriare della battaglia, dimenticando i nemici, scatenare combattimenti sanguinosi con i propri alleati e mettere in fuga e portare distruzione con la spada in mezzo ai propri guerrieri. Quando tali pensieri saranno, come furono, noti a tutti gli uomini, e quando quell’orrore, che fu la prima causa a congiungere gli uomini nel patto dell’alleanza contro la natura spietata, sarà parzialmente rinnovato dalla conoscenza della verità, allora le relazioni sociali oneste e corrette, e la giustizia e la pietà avranno fondamenti ben diversi e migliori di favole piene di superbia, dove (fondata sulle quali favole) l’onestà di un popolo sta in piedi come può stare in piedi tutto ciò che si fonda sull’errore.

 

 

 

 

Spesso su queste pendici, che l’onda di lava pietrificata, dopo averle devastate, riveste di uno strato nero e sembra incresparsi (come il mare), mi fermo di notte; e su questo desolato terreno arido, nell’azzurro limpidissimo del cielo, vedo risplendere le stelle dall’alto, che il mare riflette in lontananza, e vedo tutt’intorno l’universo risplendere di luci sparse in mezzo allo spazio vuoto. E dopo che fisso gli occhi verso le stelle, che ai miei occhi sembrano un punto, mentre sono immense, tanto che in realtà la terra e il mare sono un punto rispetto ad esse; alle quali non solo l’uomo, ma questo pianeta, dove l’uomo non è nulla, è completamente sconosciuto; e quando osservo quelle specie di nodi di stelle, infinitamente più lontani, che a noi sembrano una nebbia, e alle quali non solo l’uomo e la Terra, ma tutte quante le stelle, infinite per numero e grandezza, insieme con il sole splendente o sono sconosciute, oppure appaiono come quei nodi di stelle a noi, cioè un punto di luce fioca: allora che cosa sembri al mio pensiero, specie umana? E quando ricordo la tua condizione sulla Terra, della quale è una testimonianza il suolo che calpesto; e poi (ricordando) d’altra parte che tu ritieni di essere stata assegnata come padrona e scopo ultimo dell’universo, e (ricordando) quante volte ti compiacesti di fantasticare che i creatori dell’universo siano discesi in questo oscuro granello di sabbia che si chiama Terra, e spesso abbiano piacevolmente conversato con gli uomini, e che persino l’età contemporanea, rinnovando delle menzogne già derise in passato, disprezza i saggi, quest’età che sembra superare tutte le altre in conoscenza e in civiltà; a questo punto quale sentimento, misera specie umana, o quale pensiero nei tuoi confronti si impadronisce di me? Non so se vince la derisione o la pietà.

 

 

 

Come un piccolo frutto (che nell’autunno avanzato la maturità getta a terra senza altre cause) cadendo da un albero schiaccia, devasta e seppellisce in un istante le care abitazioni di un popolo di formiche, scavate con gran fatica nel terreno molle, insieme con le costruzioni e le ricchezze che quel popolo laborioso aveva radunate, in modo previdente, durante l’estate, con uno sforzo comune, e con un lungo affaticarsi; allo stesso modo, precipitando dall’alto, lanciata dalle viscere tonanti del vulcano verso gli strati più alti del cielo, una tenebra distruttrice fatta di ceneri, di pomici e di pietre mescolata con ruscelli di lava, oppure un’immensa piena di massi liquefatti, di metalli e di sabbia infuocata, che scenda con una forza rovinosa lungo il fianco del monte in mezzo alla vegetazione, confuse in ammasso di rovine, distrusse e seppellì  in pochi istanti le città sulla costa bagnate dal mare; per cui su quelle (sul terreno che le seppellisce) ora pascolano le capre, e città nuove sorgono dall’altra parte, che poggiano sulle città antiche come su delle fondamenta; e la montagna implacabile quasi calpesta ai suoi piedi le mura rase al suolo (delle antiche città). La natura non ha più attenzione e più stima verso la specie umana di quanta non ne abbia per le formiche: e se le stragi sono più rare nella specie umana che tra le formiche, questo accade per la sola ragione che le generazioni umane sono meno numerose.

 

 

Ben milleottocento anni passarono da quando scomparvero, schiacciati dalla forza dell’eruzione, le città popolose, e il contadino, che coltiva i vigneti che il terreno arido e incenerito fa crescere con gran fatica, alza ancora lo sguardo timoroso verso la vetta mortale che, non diventata per niente più tranquilla, è ancora lì immobile e spaventosa, minaccia ancora strage a lui, ai suoi figli e ai loro poveri averi. E spesso il disgraziato, sul tetto della sua casa rustica, coricato all’aria aperta e insonne per tutta la notte, e balzando in piedi più volte, osserva il percorso seguito dal pericoloso fiume di lava, che si rovescia dal ventre inesauribile del vulcano sul suo fianco sabbioso, alla cui luce (della colata lavica) si illuminano la marina di Capri e il porto di Napoli e Mergellina. E se lo vede (il flutto di lava) avvicinarsi, o se per caso sente l’acqua gorgogliare nel fondo del pozzo di casa, sveglia i suoi figli, sveglia di fretta la moglie, e scappando via con quel che dei loro averi possono strappare alla lava, vede in lontananza la sua casa da sempre, e il campicello che fu per lui l’unico riparo contro la fame, diventare preda della colata incandescente che arriva stridendo, e spietato si distende per sempre su di essi. Torna alla luce, dopo un oblio di secoli, la città distrutta di Pompei, come uno scheletro seppellito che l’avidità o la pietà riportano da sottoterra all’aria aperta, e il viaggiatore, guardando dal foro deserto, osserva in lontananza, ritto tra le file di colonne mozzate, la cima bipartita del vulcano e il cratere fumante, che minaccia ancora le rovine sparse. E nelle tenebre della notte solitaria, per i teatri vuoti, per i templi mutilati e per le case in rovina, dove il pipistrello nasconde i suoi piccoli, si riflette il bagliore della lava mortale, come una fiaccola spaventosa che si aggiri lugubre per palazzi vuoti, (la lava) che da lontano attraverso le ombre manda bagliori rossastri e colora i luoghi circostanti. Così la natura, ignara dell’uomo e delle epoche che l’uomo chiama antiche, e dell’avvicendarsi degli avi e dei discendenti, rimane sempre immobile, o meglio procede attraverso un cammino così lungo che sembra immobile. Intanto crollano i regni, scompaiono popoli e lingue: lei non se ne accorge, mentre l’uomo si vanta assurdamente di essere eterno.

 

 

 

 

 

E tu, pieghevole ginestra, che abbellisci questi campi deserti con i cespugli profumati, anche tu sarai presto sconfitta dalla forza crudele della lava sotterranea, la quale, tornando sul luogo già percorso, distenderà il suo strato distruttore sui tuoi fragili cespugli. E piegherai, senza opporti, il tuo capo innocente sotto il peso distruttore: ma non dopo averlo piegato invano fino ad allora, in un gesto vigliacco di supplica davanti al tuo assassino che sta per arrivare; ma non dioi averlo innalzato verso le stelle con orgoglio folle, e non dopo averlo innalzato sul deserto, dove sei vissuta e dove sei nata non per tua volontà  ma per caso; bensì più saggia, tanto meno folle dell’uomo perché non hai creduto che la tua fragile specie sia stata resa immortale dal destino o da te.

 

E... luce: la citazione dal Vangelo di Giovanni si riferisce alla venuta di Cristo nel mondo, rifiutata dagli uomini che alla sua luce (la verità) hanno preferito le tenebre dell’ignoranza e del peccato; ma qui Leopardi le presta un senso che si ricava dalla lettura del testo che segue: gli uomini hanno preferito le tenebre della menzogna e della superbia assurda (l’esaltazione della condizione umana e del suo presunto progresso) alla luce della verità negativa, quella che qui Leopardi annuncia sapendo che non sarà ascoltato.

la... un tempo: Roma

città famose: Ercolano e Pompei, distrutte  per sempre dall’eruzione del Vesuvio del 79 d. C.

Le... progressive: citazione (come segnalato dal corsivo) dalla dedica degli Inni sacri (1832) di Terenzio Mamiani, cugino di Leopardi ed esponente di una concezione religiosa (cattolica) della società e della storia.

città nove: i paesi vesuviani nati sulle rovine di Ercolano e Pompei e nelle loro vicinanze.

Mergellina: quartiere di Napoli sul mare.

foro: la piazza principale nelle antiche città greche e romane.

Leggiamo insieme: il testamento poetico-filosofico di Leopardi
Schema metrico: “canzone libera” di sette movimenti o “strofe” di endecasillabi e settenari liberamente rimati alternati a versi non rimati, ma incomparabile con ogni altra canzone libera leopardiana per le dimensioni di tutto il testo e dei suoi movimenti.
L’originalità e la modernità della Ginestra
La ginestra è un caso unico non solo nella poesia leopardiana, ma nella poesia italiana, un testo che non si può misurare con i criteri dei generi letterari antichi e moderni: grazie ai suoi 317 versi ha le dimensioni di un poemetto, e per tali dimensioni e la complessità della struttura e del linguaggio si può paragonare ai Sepolcri di Foscolo (il testo letterario italiano moderno più complesso e difficile prima di questo), ma Leopardi (a differenza di Foscolo) non la pubblica a parte ma la inserisce in un libro di poesie tutte molto più brevi di questa; oltretutto il metro del poemetto, tra Settecento e Ottocento, sono gli endecasillabi sciolti, mentre La ginestra è in endecasillabi e settenari, come una immensa “canzone libera”, dunque l’accostamento tra la forma metrica (che già è in sé un’innovazione di Leopardi nella metrica italiana) e la lunghezza senza precedenti del testo è una rivoluzione ulteriore.
Questo carattere rivoluzionario già nelle dimensioni e nella forma spiega perché nell’edizione definitiva dei Canti (che Leopardi non vide mai) La ginestra è collocata come testo finale del nucleo del libro (prima cioè di testi minori riuniti in un’appendice finale): questo componimento, indefinibile nei termini delle forme poetiche tradizionali, è infatti una meditazione che ha la grandiosità e la complessità di una sintesi e di un testamento filosofico, la sintesi della concezione leopardiana della natura e della civiltà, dell’esistenza umana nei suoi rapporti con l’universo; ma La ginestra è allo stesso tempo anche un testamento poetico, perché, nella sua unicità, costituisce anche una sintesi delle risorse e delle innovazioni, degli stili, dei toni e dei generi in cui si è espressa la poesia leopardiana.
La struttura e l’articolazione dei temi
La ricchezza e la complessità formali del testo sono l’altra faccia di una ricchezza di temi e di uno svolgimento del discorso che non obbedisce a uno schema semplice o prevedibile, ma sembra nascere strada facendo, dal percorso della riflessione stessa. In realtà esiste un centro tematico, una base sulla quale si fonda tutta la riflessione per quanto ricca di mutamenti di temi e di prospettiva: la collocazione spaziale e lo scenario in cui la meditazione viene collocata, uno scenario composto dalle pendici aride del Vesuvio, e dalle fragili quanto belle ginestre che le abbelliscono; in questo scenario si trova l’io da solo a meditare. Questa situazione può far pensare, di nuovo, ai Sepolcri foscoliani: anche qui, come nel poemetto di Foscolo, un discorso di grande ampiezza e ricchezza di temi viene tenuto insieme da un io che si ferma a riflettere in un luogo ben determinato. Ma la struttura tematica della Ginestra è più unitaria, più compatta, e proprio perché (a differenza che nei Sepolcri) le coordinate spazio-temporali (l’io che medita in un dato momento e in un dato luogo) aprono e chiudono il testo e lo attraversano nei suoi passaggi intermedi: perciò l’articolazione del discorso nella Ginestra può definirsi un percorso lunghissimo, ma sempre saldamente collegato alla sua origine che è anche il suo traguardo, cioè l’arido scenario vesuviano e le pianticelle di ginestra. È infatti questo scenario che costituisce la cornice, spaziale ma anche tematica, di tale lunghissima meditazione, poiché il testo si apre con la presentazione dei luoghi e con l’invocazione alla ginestra, e si chiude, simmetricamente e circolarmente, con il ritorno a quei luoghi e con l’invocazione finale alla ginestra. Tra questi due estremi si svolge il percorso della meditazione, che si può sintetizzare in questi termini:
1) primo movimento: la presentazione dello scenario vulcanico (su cui fioriscono solo le ginestre) richiama la rievocazione del passato (la fertilità di quei luoghi che un giorno furono popolati) e dell’eruzione vulcanica che li ha distrutti e resi un deserto; di conseguenza, l’eruzione vulcanica diventa l’espressione esemplare della potenza devastatrice della natura e della posizione del tutto marginale della specie umana nel sistema della natura stessa;
2) secondo movimento: la polemica cominciata nella parte finale del movimento precedente qui occupa tutto il discorso e diventa un’invettiva ideologica contro l’età contemporanea, colpevole, secondo Leopardi, di presunzione e di stupidità intellettuali («secol superbo e sciocco»), di essere regredito nel pensiero rispetto all’Illuminismo, tornando a una concezione provvidenzialistica dell’esistenza e della storia umane secondo la quale l’uomo ha una posizione privilegiata nell’universo e la sua civiltà è una evoluzione inarrestabile verso la perfezione;
3) terzo movimento: dalla polemica contro il proprio tempo il discorso si allarga a una riflessione generale sul rapporto tra l’uomo e la verità e sui compiti dell’umanità, riflessione che contrappone un esempio negativo e uno positivo: a) la negazione della verità, cioè della condizione fragile e dolorosa dell’uomo, e la mistificazione, cioè il fingere o il voler far credere che la condizione umana sia diversa dalla realtà; b) l’accettazione coraggiosa della verità negativa da parte degli uomini dotati di «nobil natura», e la reazione costruttiva che ne nasce, cioè la consapevolezza che gli uomini debbano allearsi contro la natura, che è l’origine dei loro mali, e che una società più giusta e pacifica possa nascere solo da questa consapevolezza messa in atto, in modo che alle varie forme di odio che dilaniano l’umanità si sostituisca una compassione e una solidarietà reciproca, effetto dell’alleanza dell’intera umanità contro la sua sola vera nemica, la natura che è «madre di parto e di voler matrigna», che cioè ci ha generati ma per farci vivere in una condizione esposta alla sofferenza e agli attacchi provenienti dall’ambiente esterno, che nelle loro varie forme annientano in brevissimo tempo migliaia di uomini;
4) quarto movimento: il discorso ritorna al punto di partenza (le pendici del Vesuvio) ma si sposta nel tempo, ed evoca una contemplazione notturna dell’universo visto dalla terra, una contemplazione che è un altro modo per raggiungere la verità, cioè l’insignificanza della specie umana nel cosmo; il risultato di tale contemplazione è quindi un ritorno alla polemica, cioè alla considerazione della superbia senza fondamento e alla pretesa umana di essere una specie privilegiata e destinata a chi sa quali realizzazioni e felicità, ma ora la polemica ha assunto un atteggiamento superiore, oscillando tra il riso e la pietà;
5) quinto movimento: rimanendo sullo scenario vesuviano ma tornando al suo passato (cioè all’eruzione del Vesuvio del 79 d. C.), la riflessione vuole arrivare a una definizione del posto della specie umana nell’economia e nell’ordine universale attraverso una lunga similitudine tra un frutto che, cadendo casualmente dall’albero, schiaccia e devasta un formicaio e il Vesuvio che in pochi istanti ha distrutto alcune città antiche e ne ha massacrato gli abitanti; eventi come questo dimostrano che la specie umana, nel sistema delle leggi di natura, ha la stessa importanza delle formiche;
6) sesto movimento: in continuità con il movimento precedente, l’oggetto del discorso rimane l’eruzione che distrusse Pompei ed Ercolano, ma ora il punto di vista torna al presente, cioè al Vesuvio che è ancora una minaccia permanente per la popolazione locale e ai resti di quelle città antiche dissepolti di recente; anche queste sono testimonianze di una legge di natura, e cioè la distanza immensa tra i tempi brevi della civiltà umana e i tempi della natura, che sembrano immobili agli uomini solo perché sembrano lunghissimi, mentre, al contrario, è la civiltà umana (malgrado la superbia dell’uomo che crede eterna la sua specie) che è effimera e fragilissima;
7) settimo movimento: il discorso torna al suo punto di partenza (l’invocazione alla ginestra, la contemplazione del suolo arido vesuviano), ma per proiettarsi al futuro (la prossima eruzione che distruggerà anche i cespugli di ginestra) e ribadire il suo ritratto positivo in antitesi alla superbia e alla stoltezza umana: la ginestra si comporterà nei confronti della natura che la distruggerà come dovrebbe fare ogni uomo, cioè accettare il suo destino e la sua condizione fragile allo stesso tempo con coraggio e con umiltà.
Come si vede, la struttura complessa eppure unitaria del testo è assicurata da una sorta di unità di luogo, un luogo che non è scelto a caso per le riflessioni che da esso nascono: le pendici aride del Vesuvio, con gli scavi vicini dell’antica Pompei e le testimonianze sempre visibili delle eruzioni che vi si sono succedute, sono una dimostrazione concreta della potenza distruttrice della natura nei confronti della specie umana e anche della posizione per nulla privilegiata che l’uomo ha nei confronti della natura; perciò è da questo spettacolo che la riflessione parte per sviluppare i temi fondamentali del testo: la polemica contro ogni concezione che assegna alla specie umana e alla sua storia un ruolo privilegiato nel pianeta o addirittura nell’universo e sostiene il perfezionamento progressivo dell’umanità; il rapporto tra l’uomo e la natura, cioè la condizione umana fragile e dolorosa a causa di un ordine universale che ci ha generati per il dolore e di una natura sempre potenzialmente nemica dell’uomo sulla terra; il rapporto tra l’uomo e la verità, cioè l’antitesi tra la mistificazione, la superbia, la presunzione da una parte, e dall’altra  l’accettazione umile e costruttiva di una verità dolorosa ma che spinge l’uomo a un’azione costruttiva e davvero umanitaria, e quindi il dovere della solidarietà tra tutti gli uomini per aiutarsi a fronteggiare l’unico nemico comune, la natura; il rapporto tra specie umana (con le sue pretese antopocentriche) e universo, dove l’uomo non è niente; il rapporto tra natura e civiltà, che è una distanza incolmabile e quasi un’estraneità tra i ritmi di sviluppo naturali (lunghissimi e lentissimi) e i ritmi della storia, pieni di fatti e di forme di civiltà, ma tutti effimeri e inesistenti se paragonati a quelli naturali.
Il ‘messaggio’ della Ginestra: ‘progressismo’ e pessimismo
La ginestra non è solo una meditazione personale, non è solo una ricapitolazione e una sintesi dei temi fondamentali del pensiero leopardiano, ma si rivolge anche ad un pubblico indeterminato con uno scopo di convincimento e di esortazione; questa componente per così dire pratica, esortativa, fa di questa poesia un testamento spirituale e una sorta di vangelo laico (non a caso esso è preceduto da una citazione del Vangelo di Giovanni): anche Leopardi vuole dare agli uomini un ‘annuncio’, non lieto (il significato etimologico di vangelo è ‘annuncio lieto’), ma un messaggio di verità dolorosa eppure positiva se accettata con coraggio e con umiltà. Tale messaggio si compone di due elementi fondamentali che, considerati in sé, possono considerarsi contraddittori, ed infatti esso ha suscitato letture opposte:
a) un elemento che è stato definito progressista e che prima non era mai comparso con tale forza nell’opera leopardiana: l’atteggiamento combattivo, di resistenza attiva e di lotta contro la natura nemica e matrigna, e l’appello alla solidarietà dell’umanità intera in questa lotta, poiché solo dall’alleanza di tutti gli uomini contro la loro condizione dolorosa e la causa di tale condizione, potrà nascere una società fondata sulla verità e sull’amore dell’uomo verso gli altri uomini; come si vede, è un messaggio di portata in un certo senso evangelica, perché è una proposta o un’utopia per un’umanità pacificata dalla conoscenza della verità, ma quest’utopia si fonda non sulla religione, bensì su una visione materialistica e pessimistica della condizione umana, sul cosiddetto pessimismo cosmico, che qui però diventa la base per un atteggiamento eroico, combattivo, contro l’infelicità a cui la natura ha condannato la specie umana;
b) un elemento invece decisamente pessimistico, che consiste nella considerazione dei rapporti tra civiltà e natura, tra la storia umana e l’ambiente naturale con le sue leggi e i suoi ritmi indifferenti oppure ostili alla sopravvivenza dell’uomo. Osservata da questo punto di vista, la storia umana è un fenomeno tra gli altri dell’ambiente naturale, un fenomeno né più duraturo né più resistente della vita di altre specie animali, ed è perpetuamente minacciata dalla potenza distruttrice dell’ambiente naturale. Il ‘messaggio’ che nasce da questa considerazione è insomma una applicazione del ‘pessimismo cosmico’ alla concezione della civiltà e della storia umane, una visione sconsolata della storia umana, i cui tentativi di sfidare il tempo e l’ambiente sono vanificati dalla potenza incomparabile della natura. Dalla sottolineatura dell’uno o dell’altro di queste due componenti sono nate, come si diceva, letture antitetiche della Ginestra: parte della critica ha sottolineato la novità di un Leopardi ‘progressista’, il Leopardi della «social catena», che indica la possibilità di un’umanità pacificata e rigenerata nella lotta comune contro la natura (i mali fisici e i pericoli dell’ambiente), mentre altri critici hanno insistito su un Leopardi pessimista radicale sulle sorti della civiltà (troppo debole rispetto alla potenza della natura ostile) e critico impietoso di ogni visione del mondo che pretenda per l’umanità e la sua presenza sulla Terra un ruolo e un destino privilegiati.
Questi due punti di vista antitetici sulla presenza, sulle possibilità e sul destino dell’uomo sulla Terra, sono compresenti nel testo, e bisogna perciò riconoscere che per Leopardi non sono contraddittori. È vero peraltro che il ‘messaggio’ della Ginestra si incarna in due figure distinte, simili ma non del tutto sovrapponibili: l’ideale dell’uomo di «nobil natura» celebrato nel terzo movimento, un ideale eroico innanzitutto nel pensiero (perché accetta e anzi dichiara apertamente la condizione misera della specie umana e non cerca di ingannare se stesso e gli altri) ma anche nell’azione (perché da tale consapevolezza nasce un atteggiamento costruttivo, di lotta contro le cause di tale miseria e di solidarietà verso tutti gli uomini); e la figura della ginestra, che diventa anch’essa una personificazione di un ideale umano, quello dell’umiltà e del riconoscimento della propria impotenza contro il proprio destino (deciso da altre forze) e contro la superiorità della natura e delle sue catastrofi. Entrambe le figure hanno in comune la consapevolezza e l’accettazione della verità negativa, il rifiuto di ogni pretesa ingannatrice sulla propria condizione, ed anche la solidarietà, la compassione per le creature viventi vittime della catastrofi e in genere dell’ordine naturale; ma da tali premesse nascono sviluppi diversi, conseguenza anche della diversità di partenza delle due figure (l’uomo ha un margine di reazione e di attività ovviamente negati alla fragile ginestra). Quindi il messaggio della Ginestra non è affatto un programma preciso o una serie di istruzioni; esso ha due fondamenti, il pessimismo materialistico-cosmico che ritiene la specie umana (e in genere le specie viventi) condannate all’infelicità e al dolore da un ordine universale che le ignora o fa loro del male, e l’accettazione di tale verità, e questa è per così dire la sua parte negativa, quella che deride ogni concezione ottimistica della storia umana e ogni esaltazione della civiltà; ma da questa critica può nascere anche una parte costruttiva, l’aspirazione a un’umanità tenuta stretta (come alle sue origini) dalla «social catena» del timore e della lotta contro la natura, e la fiducia in un «pensiero» libero (cioè libero da ogni concezione falsa e illusoria del destino umano) e fondato sulla verità, un pensiero che può condurre allo sviluppo della «civiltà». Insomma, la consapevolezza della fragilità dell’uomo, della sua nullità di fronte alla natura a lui ostile, convive con la speranza di una condizione migliore dell’umanità, libera dai conflitti tra uomini e unita nell’alleanza contro la natura, e con l’appello all’urgenza di riconoscere queste verità e di metterle in atto; se da un lato il Leopardi della Ginestra riduce a nulla la civiltà e la storia, osservandole dal punto di vista del cosmo e della natura, dall’altro lato egli affida ad ogni uomo, ma anche all’umanità intera, uno scopo per la sua vita, accettare la verità dolorosa sulla nullità della propria specie e del proprio destino eppure reagire, resistere, combattere per rendere questo destino più tollerabile.
La rivoluzione poetica della Ginestra: la sintesi di poesia e prosa
La complessità e la molteplicità di temi e di punti di vista appena osservata corrisponde a un altro carattere rivoluzionario della Ginestra: la ricchezza di toni, di registri, anche di linguaggi e generi poetici, intrecciati tra loro fino ad essere inscindibili: la poesia descrittiva in diverse forme anche ereditate dalla poesia preromantica settecentesca (la secchezza della descrizione iniziale dell’arido suolo vesuviano, e in particolare la descrizione della catastrofe dell’eruzione nel quinto movimento, e il quadro davvero preromantico, cupo e tenebroso, delle rovine di Pompei di notte nel sesto movimento), la polemica in versi e quindi una poesia lontanissima dalla lirica e più vicina alla satira (terzo e quarto movimento), la contemplazione lirica, vertiginosa o commossa, rispettivamente dell’universo (quarto movimento) o della ginestra (primo ed ultimo movimento). Se la poesia leopardiana è rivoluzionaria perché supera le distinzioni tra i generi tradizionali ed arricchisce la lirica di profondità nuove, La ginestra è il culmine di questa rivoluzione, perché non è classificabile in nessun genere che essa eredita dalla tradizione, e perché espande la poesia lirica a un discorso personale ma anche universale, descrittivo, satirico ma anche filosofico, ‘oggettivo’ (teso ad indagare e a rivelare la verità) quanto soggettivo. Questa fusione di generi poetici ben diversi è anche il risultato di una sintesi di poesia e pensiero che è anch’essa una caratteristica originale di Leopardi poeta, e che trova anch’essa il suo risultato più complesso nella Ginestra. Per queste ragioni questo componimento abnorme secondo i criteri della tradizione, né poemetto né poesia lirica ma allo stesso tempo lirica, discorso filosofico e discorso satirico, è il testo leopardiano più moderno: esso realizza una sintesi di poesia e prosa, sia nei contenuti (i tipi di discorso ‘oggettivi’, cioè la polemica e la riflessione filosofica, sono fusi con il discorso lirico) sia nella forma (il linguaggio poetico e la struttura metrica riescono a esprimere tutti i suddetti tipi di discorso), dunque espande le possibilità espressive della poesia a un grado massimo non solo rispetto alla letteratura italiana moderna (nata nel Settecento) ma anche a tutto l’Ottocento; per questo La ginestra, un caso unico inimitabile di per sé, è un suggerimento perpetuo a tutta la poesia anche novecentesca, per l’atteggiamento rivoluzionario nei confronti della tradizione letteraria e per la responsabilità grandiosa che essa attribuisce al linguaggio e alle risorse formali della poesia, quella cioè di riunire funzioni che tradizionalmente venivano distinte tra poesia e prosa; l’ultimo capolavoro della poesia leopardiana diventa così un esempio di poesia per così dire totale, una poesia capace di dire tutti i contenuti personali e universali, di essere espressione di una soggettività e messaggio rivolto a tutti gli uomini.

Il punto sull’opera: un libro di poesia moderno
I Canti leopardiani possiedono dei caratteri che ne fanno, rispetto alle raccolte poetiche precedenti e contemporanee (e anche rispetto a libri successivi), un libro che per noi è moderno anche indipendentemente dai contenuti e dalle caratteristiche dei suoi testi. I Canti sono perciò, nella letteratura italiana (e anche grazie al loro valore), il primo libro di poesia moderno perché sono il libro unico di un autore (non una fra diverse raccolte di poesia), un libro che cresce (nelle sue varie edizioni) con la vita dell’autore e quindi rappresenta la sintesi delle sue esperienze esistenziali e poetiche, ed inoltre perché, proprio in quanto libro di una vita, superano le distinzioni dei generi poetici tradizionali in un concetto molto più ampio, anzi onnicomprensivo, di poesia, dato che per Leopardi la poesia è inscindibilmente legata alla riflessione filosofica.
L’originalità del titolo e la dissoluzione dei generi poetici
La novità della poesia leopardiana è esplicita fin dal titolo Canti, che è un termine nuovo nella letteratura italiana per designare un libro di poesie. Questo titolo, che risale alla prima edizione (Firenze 1831) è influenzato dalle ultime poesie (per allora) composte tra Pisa e Recanati, tra cui il Canto notturno di un pastore errante dell’Asia, e, più a monte, è un effetto della recente riflessione leopardiana (tra 1826 e 1829) sul primato cronologico e qualitativo del genere lirico nella poesia. Leopardi infatti identifica la poesia lirica con la poesia autentica perché è quella originaria, la prima espressione soggettiva dell’uomo, un’espressione che accomuna le civiltà più remote con l’età contemporanea: la poesia lirica è il genere che accomuna civiltà cólte e civiltà primitive, è «proprio d’ogni uomo, anche incolto, che cerca di ricrearsi o di consolarsi col canto» (Zibaldone 4234, 15 dicembre 1826); dunque il canto è una delle espressioni originarie e fondamentali dell’attività poetica – cioè alla poesia lirica – di ogni popolazione e di ogni individuo quando vuole esprimere se stesso per procurarsi piacere o consolazione. Tuttavia questa parola assume un significato nuovo quando Leopardi la pone come titolo di un libro di poesie, perché in tale sede essa perde il significato di ‘testo poetico accompagnato dalla musica’ (che è quello del citato Canto notturno) e diventa, da una componente associata alla poesia lirica (come nel passo citato dello Zibaldone), una parola che designa la poesia lirica (che, come si è visto, secondo il Leopardi di fine anni ’20 era la sola forma di poesia anche della sua età), togliendo l’associazione esplicita con la musica ma lasciandola come una sfumatura metaforica: in questo modo canti significa, per Leopardi, qualcosa come ‘poesie autentiche in quanto poesie liriche, espressioni sincera dell’interiorità di un uomo, così come in ogni epoca gli uomini hanno espresso la propria interiorità con la poesia lirica accompagnata dal canto’. Il termine ha così diversi vantaggi per Leopardi: la suggestività del significato (perché evoca insieme l’idea della poesia e della musica, e dell’origine comune di entrambi dalla poesia lirica antica e anche primitiva), ma anche la novità del termine stesso, che evita ogni definizione specifica o tradizionale di poesia (tipica di titoli dei libri di poesie come ad es., tra i più recenti, le Odi di Parini o gli Inni sacri di Manzoni), e segnala così una delle più profonde novità della sostanza, cioè dei testi, di tale libro: il superamento dei generi poetici tradizionali in un’idea complessiva di poesia autentica in quanto poesia lirica. Intitolando il suo libro poetico Canti, Leopardi realizza così un’ipotesi o un proposito giovanile documentato nelle prime pagine dello Zibaldone (tra 1817 e 1818), cioè una poesia originale perché liberata da ogni etichetta specifica di genere, una «poesia senza nome», cioè poesia autentica indipendentemente da ogni definizione più precisa di genere (formale o contenutistico). Il libro dei Canti segnala dunque fin dal titolo l’originalità della poesia leopardiana così come al suo autore era chiara dopo la stagione fondamentale dei canti pisano-recanatesi: una poesia lirica in quanto espressione autentica e integrale di un uomo, al tempo stesso unica (perché personale) e universale, perché è da sempre l’espressione più profonda degli uomini.
Il libro di una vita: molteplicità e unità
La prima edizione del libro esce con una lettera di dedica «Agli amici suoi di Toscana» (cioè agli amici che avevano confortato e reso possibile anche materialmente il soggiorno di Leopardi a Firenze), una dedica piena di dolore per l’autoritratto di un uomo privo di speranze e oppresso dai mali fisici, «un tronco che sente e che pena», ma anche una dedica che collega esplicitamente l’esistenza dolorosa dell’autore e questo libro, nel quale, scrive Leopardi, «io cercava, come si cerca spesso colla poesia, di consacrare il mio dolore». Di conseguenza, i Canti non nascono come un libro fra i molti per Leopardi, ma come il libro della sua vita, il ritratto di una vita dolorosa che allo stesso tempo si esprime ma si sublima, si trasfigura, supera il tempo oltre le circostanze biografiche da cui è nato (l’espressione usata da Leopardi,  «consacrare il mio dolore», ci sembra riassumere questi significati), dunque sono l’espressione di un nesso vitale tra esistenza e poesia, anzi realizzano l’unico riscatto possibile di un’esistenza segnata dal dolore e dalla perdita delle speranze, la sua espressione poetica. Come si vede, si tratta di molto più di un libro inteso come raccolta di alcuni testi ordinata secondo un dato criterio: è la sintesi e l’espressione (in forma di bellezza, cioè di poesia, che trasforma anche il dolore da cui questa poesia è nata) di una biografia individuale; anche nelle edizioni successive, quando Leopardi deciderà di eliminare questa lettera dedicatoria, i Canti resteranno il libro della sua vita, perché si accresceranno periodicamente nella misura in cui altri anni di vita ed altre esperienze faranno nascere nuove poesie; in altri termini, i Canti sono un progetto unico e duraturo (a differenza dei primi libri di poesia pubblicati da Leopardi), il libro che raccoglie il bilancio esistenziale e poetico della vita dell’autore e proprio per questo motivo viene arricchito e aggiornato fino all’ultimo, fino a coincidere con la vita intera di chi l’ha scritto.
Questo carattere di libro unico, cioè di libro di una vita, spiega la fisionomia apparentemente contraddittoria dei Canti, nello stesso tempo molteplice e unitaria. Il libro come tale infatti non nasce tutto in una volta, non è stato pensato all’origine come un libro unico e unitario, secondo l’esempio più illustre di questo tipo, cioè il Canzoniere di Petrarca: i Canti del 1831 riuniscono le due raccolte precedentemente pubblicate da Leopardi (le Canzoni, nel 1824, e i Versi, nel 1826), eliminandone diversi testi, e vi aggiungono le poesie inedite composte a Pisa e a Recanati; da allora Leopardi non pubblicherà più poesie in sedi separate, ma le aggiungerà alla seconda edizione del libro (Napoli, 1835) e poi a quella definitiva che uscirà postuma nel 1845. I Canti, quindi, raggruppano gruppi di poesie nate in tempi diversi e legate a temi, generi e poetiche differenti, e di qui proviene la loro componente di molteplicità. Leopardi non vuole mascherare tale molteplicità, anzi quasi sempre la rispetta ordinando i testi secondo due criteri: l’omogeneità metrica e tematica dei testi e la cronologia di composizione: il risultato è che i testi si susseguono per blocchi omogenei (le canzoni, gli idilli, le poesie pisano-recanatesi, le poesie composte a Firenze, le poesie composte a Napoli) in una progressione solitamente cronologica (subordinata però alla successione per blocchi metrico-tematici): da questo punto di vista, il lettore può seguire, nell’ordinamento dei testi nel libro, lo sviluppo della poesia leopardiana nei suoi temi e nel suo linguaggio; i Canti sono quindi la storia della poesia leopardiana concretizzata in un libro.
Una «storia di un’anima»
Questa storia è all’insegna della varietà, della molteplicità formale e tematica: si è visto, attraverso i testi presentati, quale differenza di linguaggio ad es. tra canzoni come Alla Primavera e non solo un idillio quasi contemporaneo come L’infinito, ma anche con A Silvia, oppure quale differenza di dimensioni, temi e linguaggio separi A Silvia e in genere i canti pisano-recanatesi dalla Ginestra. E tuttavia questa storia molteplice è percorsa da un filo unitario, che è l’io poetico: dato che l’ordine cronologico è solitamente rispettato, l’ordinamento del libro delinea anche un percorso biografico-esistenziale unitario perché, se la poesia nasce dalle sollecitazioni e dalle svolte dell’esperienza e quindi dalla biografia esterna e dallo sviluppo spirituale del suo autore, i Canti documentano l’evoluzione della visione del mondo dell’autore, le sue esperienze decisive, i temi fondamentali della sua vita e del suo pensiero.
Questa storia spirituale, di cui qui ricordiamo solo i capitoli principali, comincia con una poesia di ambientazione contemporanea e di argomento collettivo, e cioè con le canzoni (1818-1823), dove l’io del poeta parla a nome di un noi che sta per gli uomini moderni, colpevoli di essersi allontanati dalla natura e dalla condizione di vita degli antichi e di avere sviluppato la civiltà sotto il segno della ragione, col risultato di ritrovarsi schiacciati dalla caduta di illusioni e di valori vitali e dalla disperazione e dalla noia, che riempiono ora la loro vita. Le canzoni sono perciò una critica radicale della storia umana e allo stesso tempo un lamento sulla modernità, e un rimpianto dell’umanità antica che guardava il mondo e la vita attraverso l’immaginazione e le illusioni, che sono il dono fatto agli uomini da una Natura concepita come madre benefica e generosa; la filosofia della storia da cui nascono queste idee è il cosiddetto pessimismo storico, sviluppato da Leopardi tra il 1817 e il 1821 circa. Il pessimismo storico rimane sullo sfondo anche degli idilli, contemporanei alle canzoni (1819-1821) ma successivi nell’ordinamento del libro: alla poesia pubblica segue la poesia privata, più esplicitamente autobiografica, poiché gli idilli rappresentano vicende particolarmente significative di un soggetto infelice non solo in quanto uomo moderno ma anche in quanto vittima di sciagure individuali (l’esclusione dall’amore e lo spreco della gioventù). Ma il carattere autobiografico degli idilli è arricchito di una validità conoscitiva ben più ampia, poiché rappresentando le proprie vicende interiori e la propria psicologia Leopardi studia anche (come nell’Infinito) i meccanismi dell’immaginazione, e i piaceri (sia pure illusori, mentali) che anche un uomo moderno può ricavare da tale facoltà: sullo sfondo c’è la «teoria del piacere», elaborata contemporaneamente nello Zibaldone e negli idilli. Il grande blocco successivo è quello dei canti pisano-recanatesi (1828-1830), che si situa dopo la svolta dal “pessimismo storico” al “pessimismo cosmico”, una svolta compiutasi sostanzialmente nel 1824 nelle Operette morali, che capovolge le coordinate del pensiero leopardiano: la Natura diventa, da madre generosa e dispensatrice di illusioni, una nemica spietata della specie umana e delle creature viventi, perché le genera per inserirle in un ciclo universale di produzione e distruzione della materia che non tiene conto delle esigenze di felicità delle singole creature, anzi le condanna a una vita dominata dal dolore e dalla frustrazione dei desideri. I canti pisano-recanatesi sintetizzano il passato (l’autobiografia, l’infanzia e la gioventù a Recanati) e questa svolta del pensiero, sintetizzando quindi la rievocazione delle illusioni e delle promesse di felicità della gioventù con la constatazione dolorosa e il lamento sulla condizione di tutti gli uomini: in essi parla un io che è l’io autobiografico dell’autore (come ad es. in A Silvia), ma che può parlare anche a nome di tutti gli uomini, perché è accomunato a loro dalla condanna all’infelicità e al dolore da parte della Natura, e quindi può delegare la sua voce a un personaggio (come nel Canto notturno di un pastore errante) oppure farla diventare una voce impersonale, espressione di una saggezza valida per tutti gli uomini (come nella Quiete dopo la tempesta e nel Sabato del villaggio). Un’altra svolta è segnata dai successivi canti fiorentini (1831-1834, ma la cronologia dei testi non è sicura), unificati da un io e da un tema di nuovo fortemente autobiografici, perché nati dall’amore non ricambiato per la gentildonna fiorentina Fanny Targioni Tozzetti: essi delineano una vera e propria storia nella storia complessiva dell’io, dalla nascita dell’amore – un’esperienza che viene celebrata in tono entusiastico come l’ultima illusione per cui vale la pena di vivere pur nella consapevolezza del destino doloroso di ogni uomo – alla delusione finale, alla rinuncia definitiva a ogni illusione e alla vita stessa della sensibilità, fino a un bilancio complessivo su questa vicenda (in Aspasia, scritta a Napoli nel 1834 ma collegato ai canti fiorentini per il tema), che mette a nudo l’inganno psicologico su cui si fonda l’esperienza dell’amore, che si rivela così anch’essa una frustrazione, un inganno della realtà incapace di soddisfare i desideri e i sogni dell’individuo. I canti fiorentini chiudono definitivamente il filone autobiografico-sentimentale all’interno del libro. L’ultimo blocco compatto di poesie, i cosiddetti canti napoletani (1834-1836; anche in questo caso la cronologia esatta dei testi è sconosciuta), affronta infatti temi di riflessione universali, affermazioni e interrogazioni sul mistero doloroso dell’esistenza all’interno delle coordinate di pensiero del “pessimismo cosmico” (la morte e lo strazio che essa provoca separando chi si ama, la bellezza umana così seducente e allo stesso tempo così fragile perché legata al corpo, la crudeltà o l’indifferenza dell’ordine e delle leggi dell’universo nei confronti dell’uomo), fino al bilancio supremo di queste riflessioni, La ginestra, che però introduce un elemento nuovo rispetto agli altri canti napoletani, cioè l’appello, potenzialmente rivolto all’intera umanità, all’alleanza degli uomini contro la natura, a una sorta di risposta dell’uomo alla condizione di dolore a cui è stato condannato senza sua colpa dal sistema delle leggi della vita e dell’universo. In questi ultimi canti, anche nei casi in cui l’io ricompare come io autobiografico (come ad es. nella Ginestra), non è più analizzato o rappresentato dal punto di vista delle vicende interiori, psicologiche o sentimentali, ma solo da quello delle idee, cioè come portatore di una concezione del mondo che rifiuta gli inganni e le illusioni intellettuali, di una «filosofia dolorosa, ma vera» (secondo le parole dell’ultima delle Operette morali, il Dialogo di Tristano e di un amico) che egli oppone polemicamente a ogni tentativo di mistificazione o di celebrazione della specie umana e del suo ruolo nel mondo.
I Canti insomma sono anche un ritratto in movimento del suo autore, proprio perché sono il libro unico, il bilancio della sua storia esistenziale e poetica, ed è tale storia personale, di volta in volta psicologica e ideologica (relativa cioè tanto al livello delle esperienze sentimentali quanto a quello dello sviluppo delle idee) che costituisce l’elemento unitario sottostante alla varietà di risultati, di temi e di stili. Come è stato notato dalla critica, i Canti realizzano a modo loro un progetto narrativo che Leopardi coltivò fin da giovane senza mai realizzarlo, un romanzo che fosse la biografia spirituale molto più che esteriore, cioè l’autobiografia mascherata dello stesso Leopardi. Uno dei titoli immaginati per questo progetto narrativo era «storia di un anima»: i Canti, pur non essendo un romanzo e quindi non possedendo una trama progressiva ed unitaria, sono però la storia dell’anima di Leopardi, la sua autobiografia soprattutto spirituale concretizzata in poesia, perciò leggerli di séguito è come leggere la biografia che Leopardi ha voluto lasciare di se stesso, cioè la storia, più che degli avvenimenti esteriori della sua vita (anche se nel libro non mancano neanche quelli), del suo pensiero e del suo spirito.
La rivoluzione dei Canti: innovazioni formali, poesia e pensiero
Un altro elemento essenziale dell’originalità dei Canti, e quindi della loro lezione per la poesia italiana moderna, è costituito dallo sperimentalismo formale, cioè linguistico e metrico, e dalla funzione nuova che Leopardi assegna alla poesia, una funzione che è stata definita, dalla critica recente, conoscitiva, perché non solo la poesia leopardiana nasce in rapporto stretto con la riflessione, ma è essa stessa uno strumento di riflessione e di conoscenza. Accennando più in dettaglio a questi due grandi aspetti, possiamo riassumere in questi termini la lezione più profonda che la poesia leopardiana ha lasciato in eredità alla poesia fino ai nostri giorni:
a) per quanto riguarda le innovazioni linguistiche e formali, Leopardi ha sempre dimostrato un atteggiamento innovativo nei confronti della tradizione, ed in questo è un poeta profondamente romantico. Tale atteggiamento sperimentale è evidente fin dalle canzoni, che riutilizzano la forma metrica più tradizionale e solenne della poesia italiana (la canzone petrarchesca) ma per modificarla attraverso degli schemi inediti e di volta in volta diversi, fino ad arrivare a una sorta di distruzione o di dissoluzione dall’interno di questa forma. Il passo successivo, e il più influente per la poesia italiana, è la creazione della cosiddetta canzone libera (da A Silvia fino alla Ginestra), che ancora una volta parte dagli elementi di base della tradizione (la divisione del testo in parti distinte, gli endecasillabi e i settenari, le rime), ma per riutilizzarle senza i vincoli costruttivi che tale tradizione imponeva, e in modi di volta in volta diversi, con il risultato che ogni testo sarà un testo nuovo dal punto di vista della struttura e della metrica, perché struttura e metrica non sono più uno stampo predefinito in cui versare il contenuto, ma nascono in accordo con il contenuto. Dunque la rivoluzione della poesia leopardiana è originale anche come rivoluzione, perché non si realizza eliminando o ignorando la tradizione secolare della poesia italiana, ma rielaborandone gli elementi fondamentali in forme nuove, uniche di volta in volta e sempre personali, perché la metrica leopardiana nel suo risultato più alto, la canzone libera, è una metrica sempre personale, che si realizza in testi unici in relazione alle esigenze espressive del poeta. Leopardi quindi, figlio di una rigorosa educazione classicistica e profondo conoscitore della tradizione poetica italiana (come dimostrano le canzoni e la loro difficoltà linguistica e metrica), con l’invenzione della canzone libera compie il gesto più tipicamente romantico mai compiuto da un poeta del nostro Ottocento: creare una forma nuova per la poesia, una forma originale, variabile e individuale come sono unici il mondo interiore e la personalità espressiva di ogni poeta.
Un’altra grande lezione di individualità e di originalità espressive è costituita dal linguaggio poetico: poiché, come si è detto, i Canti sono caratterizzati dalla molteplicità di esperienze poetiche, di generi profondamente rivisitati o reinventati, di temi e di stili, la poesia leopardiana parla attraverso voci diverse e anche antitetiche tra loro, acquisendo così al linguaggio poetico italiano un’ampiezza espressiva fino ad allora sconosciuta in un solo libro di poesie: si pensi, ad es., alla lingua elegante ma anche familiare e miracolosamente vicina alla prosa dei canti pisano-recanatesi (per descrivere o rievocare i paesaggi familiari di Recanati o quelli  immensi del Canto notturno di un pastore errante, o per esprimere riflessioni e domande universali ma in una formulazione semplice, elementare), oppure alla lingua della Ginestra, complessa, sintatticamente intricata, lessicalmente aspra, che sfida la prosa nella sua ambizione di argomentare e di deridere, di passare dal tono enunciativo a quello polemico-satirico, e tuttavia capace anche di passare in pochi versi a un registro lirico, commosso o contemplativo.
b) Per quanto riguarda l’identità intellettuale, per così dire, della poesia leopardiana e la sua stessa identità in quanto poesia, la migliore critica recente ha sottolineato un elemento che invece la critica del primo Novecento aveva svalutato, e cioè proprio la consistenza intellettuale della poesia dei Canti. Non solo, infatti, la poesia leopardiana è, per il suo autore, legata intimamente alla prosa di riflessione dello Zibaldone (i rinvii che si istituiscono tra Canti e Zibaldone sono numerosissimi), ma è essa stessa, autonomamente, uno strumento di conoscenza. Con Leopardi, insomma, la poesia assume un’ambizione nuova, e, considerata col senno di poi, tipicamente moderna: non più soltanto abbellire, esprimere in forma ornata concetti altrui (come ad es. la poesia didascalica settecentesca di divulgazione scientifica), celebrare o criticare uomini e avvenimenti (come la poesia satirica), oppure esplorare e analizzare l’animo e i sentimenti dell’autore (come la poesia lirica), ma esprimere esplicitamente, senza rinunciare peraltro a quelle possibilità, una visione del mondo; in questo senso, la poesia leopardiana è una poesia ‘pensante’ (o, come è stato detto, un ‘pensiero poetante’), cioè ha per suo oggetto non solo il mondo esterno e il mondo interiore del poeta, ma anche le idee del poeta stesso (e quelle altrui, quando si tratta ad es. di polemizzare con esse). L’orientamento filosofico congenito alla poesia leopardiana, la sua inclinazione di volta in volta interrogativa o affermativa nei confronti delle questioni di fondo secondo Leopardi (la condizione umana e il suo rapporto con l’universo, le leggi dell’universo stesso considerate in sé e in rapporto alla vita umana e in genere delle creature viventi) crea un’identità nuova per la poesia in generale, un’identità insieme lirica (soggettiva) e filosofica (oggettiva) che non ha eguali nell’Italia dell’Ottocento, ma è, ancora una volta, un fenomeno tipicamente romantico, perché il romanticismo europeo ha fatto della poesia lirica anche una forma di interrogazione e conoscenza non solo intorno all’interiorità umana, ma al destino dell’uomo in generale e all’universo.

Operette morali, di Giacomo Leopardi

 

Presentazione dell’opera
Le Operette morali sono una raccolta di brevi prose prevalentemente in forma di dialoghi tra due personaggi. Il libro fu composto nel 1824 e fu pubblicato a Milano nel 1827: questa prima edizione contiene venti testi. La seconda edizione uscì a Firenze nel 1834, ed aggiunse due dialoghi molto importanti (il Dialogo di un venditore d’almanacchi e di un passeggere e il Dialogo di Tristano e di un amico) collocandoli in posizione conclusiva. Nel 1835 Leopardi, in un progetto complessivo di pubblicazione di tutte le sue opere per l’editore napoletano Starita, cura una terza edizione riveduta e accresciuta (di altri tre dialoghi  composti tra il 1825 e il 1827), ma questa viene bloccata dalla censura. L’edizione definitiva delle Operette morali (composta di ventiquattro dialoghi; uno è stato eliminato da Leopardi nell’edizione 1835) uscirà, come nel caso dei Canti, nel 1845 a Firenze per l’editore Le Monnier, e sarà curata dall’amico Antonio Ranieri.
Il titolo Operette morali proviene dalla letteratura filosofica e significa “testi brevi di filosofia morale”, cioè testi filosofici ma non tecnici, che non trattano cioè di filosofia teoretica (la filosofia ‘professionale’, accademica, e i suoi ambiti più specialistici e difficili), ma di riflessioni sull’uomo, sui suoi costumi e sui suoi valori morali. In realtà Leopardi sceglie questo titolo volutamente generico per un libro che, dietro l’apparente frammentazione (ciascun testo è autonomo, non ha rapporti espliciti con tutti gli altri), è per il suo autore un bilancio filosofico completo, che esprima cioè la concezione dell’universo e della condizione umana (cioè il rapporto, in termini leopardiani, tra la Natura e l’uomo), l’indagine sui fondamenti dell’esistenza dell’universo (per quanto è possibile alla ragione umana) e l’analisi dei caratteri fondamentali dell’esistenza umana.
Tale intento filosofico, e quindi serio, viene però espresso in maniera indiretta e spesso dissimulato dalla forma letteraria dell’opera, cioè quasi sempre dal genere del dialogo, anch’esso (come il titolo) proveniente dalla letteratura antica (i dialoghi filosofici di Platone, del IV sec. a. C., e i dialoghi mitologico-satirici di Luciano di Samòsata, scrittore del II sec. d. C.), ma anche, su questi esempi, dal dialogo filosofico o satirico europeo tra Rinascimento e Settecento. Come indica già la varietà di questi modelli letterari, il dialogo nelle Operette morali è un genere molto duttile e vario, aperto alla satira come alla discussione filosofica e al tono serio (e in certi casi anche cupo). Ma l’intenzione complessiva di Leopardi era trovare un compromesso tra un contenuto serio, filosofico, e una forma letteraria più ‘leggera’, che discutesse cioè temi filosofici attraverso strumenti tipici della letteratura d’invenzione (dialoghi di ambientazione e di  personaggi immaginari, ricerche di stile sia in direzione del tono comico-satirico che in direzione di un tono più serio): come egli stesso definì il libro in una lettera al suo editore Stella (6 dicembre 1826), si tratta di una «cosa filosofica, benché scritta con leggerezza apparente».

Testo 1: una satira della presunzione antropocentrica (Dialogo di un Folletto e di uno Gnomo)

Composto nel 2-6 marzo 1824 e collocato in sesta posizione nell’opera, il testo è (come quasi tutte le Operette morali) un dialogo tra due personaggi immaginari e qui dichiaratamente fantastici che, da un punto di vista lontano nel tempo (il dialogo si svolge dopo l’estinzione della specie umana) e dalla loro natura diversa dall’umanità, svolgono una critica dell’umanità, e in particolare della sua presunzione di credersi una specie privilegiata sulla Terra e anche nell’universo.

DIALOGO DLeggiamo insieme: un dialogo quotidiano per una ricerca filosofica
Leggerezza strutturale e profondità concettuale
Il Dialogo di un venditore d’almanacchi e di un passeggere è un caso unico nelle Operette morali, sia per le dimensioni (è il testo più breve dell’opera) che per la cornice letteraria, che non è per niente ‘inverosimile’ a vario titolo (surreale, mitologica, fiabesca), ma del tutto quotidiana; essa infatti consiste nella la scena di una conversazione qualunque che potrebbe accadere a ciascuno di noi. In generale, potremmo dire che il carattere specifico di questo dialogo è la sintesi di leggerezza  — leggerezza nella dimensione e nelle forme letterarie, ma anche nel linguaggio e nel tono —  e di profondità nel tema: mai come in questo caso Leopardi è riuscito a collegare tanto intimamente la riflessione filosofica (l’analisi della condizione umana) all’esperienza comune, e a far scaturire la riflessione su temi universali dall’esperienza quotidiana stessa, in un modo apparentemente casuale così come è casuale l’avvio del dialogo, che nasce da una banale conversazione, quasi da una piccola scena di commedia (lo scambio di opinioni tra un venditore e un acquirente).
La cornice e i personaggi: apparenze quotidiane e dialogo filosofico
La cornice (scenografia e personaggi) è, come si diceva, la meno letteraria dell’opera, poiché essa è pienamente realistica e quotidiana, come lo sono anche i personaggi, due figure allo stesso tempo del tutto verosimili ed anonime impegnate in un rituale tipico all’avvicinarsi dell’anno nuovo, cioè l’acquisto di un almanacco (oggi di un calendario). Quindi in questo dialogo non c’è alcun distacco tra il piano dell’esperienza del lettore e la ‘messa in scena’ del testo, la quale appunto non ha niente della messa in scena, ma pone davanti al lettore una scena che potrebbe vivere lui stesso; anche il dialogo nasce infatti all’interno dell’azione banale del suddetto rito, cioè l’acquisto di un almanacco dell’anno venturo: i due personaggi si scambiano le loro opinioni (ed è questa la scena non prevedibile) entro la cornice prevedibile del rapporto economico, tra i due estremi del grido di richiamo del venditore («Almanacchi, almanacchi nuovi...») e dell’acquisto da parte del passante che si è fermato. Tra questi estremi si svolge però un dialogo che non era richiesto dal rito dell’acquisto dell’almanacco, un dialogo che a sua volta nasce da una conversazione anch’essa ovvia, all’insegna dei luoghi comuni («Credete che sarà felice quest’anno nuovo?» «Oh illustrissimo sì, certo.») ma si sviluppa in modo non prevedibile e proprio a partire da questi luoghi comuni. Come si vede, la riflessione filosofica si salda all’esperienza e al linguaggio quotidiano, nasce da un fermarsi a pensare, da un’analisi del linguaggio e dei contenuti dei luoghi comuni. Questo procedimento, che occupa quasi tutto il testo, provoca anche un mutamento dei ruoli dei personaggi: il passante diventa un  maestro di dialogo socratico, cioè, come Socrate, interroga il suo interlocutore per guidarlo a trovare con le sue forze la verità (alla quale, in questo caso, egli è già arrivato), e il venditore assume senza volerlo il ruolo del discepolo, che ignora dove il maestro voglia condurlo e risponde di solito con poche parole, di assenso o di ignoranza, alle stimolazioni del maestro. E così dalla domanda insignificante, che rientra anch’essa in una conversazione di rito («Credete che sarà felice quest’anno nuovo?»), nasce un’interrogazione che cerca il senso profondo di quella domanda («Ma come qual altro? Non vi piacerebb’egli che l’anno nuovo fosse come qualcuno di questi anni ultimi?») fino a svelarlo, appunto, cioè fino a scoprire che nessuno di noi vorrebbe rivivere un anno uguale a qualsiasi di quelli che ha vissuto; e fino a scoprire il non detto, la consapevolezza profonda che ci spinge a formulare i banali augurî per l’anno nuovo innanzitutto a noi stessi: la consapevolezza che non vogliamo più vivere come abbiamo vissuto fino ad ora, il desiderio di una vita diversa. « Ma questo», come conclude il passante, «è segno che il caso, fino a tutto quest’anno, ha trattato tutti male.»: dal desiderio implicito degli uomini (espresso in modo superficiale attraverso i riti periodici dell’anno nuovo) il discorso arriva quindi a dedurre una verità sulla condizione umana, una verità sul rapporto di ciascun individuo (e quindi di tutti gli uomini) con la propria vita. Di conseguenza, mano a mano che il tema si approfondisce e diventa una riflessione universale, anche il linguaggio, che è del tutto prosastico e quotidiano per un testo scritto nel primo Ottocento, si distacca dalla circostanza occasionale e diventa più concettuale, per arrivare a definizioni che vogliono avere validità appunto universale («Quella vita ch’è una cosa bella, non è la vita che si conosce, ma quella che non si conosce; non la vita passata, ma la futura.»).
Il tema: l’ignoranza del futuro e l’illusione della speranza
La definizione appena citata sintetizza il tema filosofico del dialogo: la frustrazione profonda che ciascuno sente verso la propria vita si manifesta nel desiderio di una vita diversa, un desiderio che si proietta sempre nel futuro e che si rinnova sempre perché il futuro ci è ignoto e perciò possiamo riempirlo con la speranza che l’anno prossimo, a differenza dei precedenti, sarà quello in cui saremo felici. Si tratta di un tema che (come succede spesso nelle Operette morali) Leopardi ha già trattato nello Zibaldone, precisamente cinque anni prima (1827), in un pensiero che presenta, in poche righe, il medesimo schema che poi sarà sviluppato nel dialogo (la domanda che Leopardi pone ad altri, e anche a se stesso, se si voglia tornare a vivere, ma a quali condizioni) e ne trae le conclusioni concettuali: se tutti vogliamo sì tornare a vivere, ma solo a patto di vivere un’altra vita e non la medesima che abbiamo vissuto, «vuol dire che nella vita che abbiamo sperimentata e che conosciamo con certezza, tutti abbiam provato più male che bene; e che se noi ci contentiamo ed anche [inoltre] ci contentiamo di vivere ancora, cioè non è che per l’ignoranza del futuro, e per una illusione della speranza, senza la quale illusione e ignoranza non vorremmo più vivere, come noi non vorremmo rivivere nel modo che siamo vissuti» (Zibaldone 4283-4, 1 luglio 1827). Quindi la condizione umana viene analizzata non dal punto di vista dei rapporti tra il desiderio naturale di felicità e la sua incompatibilità con le leggi dell’universo (come nel Dialogo della Natura e di un Islandese), ma nel rapporto tra ciascuno e la propria percezione della vita, un rapporto che per tutti è uguale e che produce i medesimi risultati: il desiderio di vivere una vita diversa è un’espressione del desiderio naturale della felicità che inseguiamo nel sogno di avere un’altra vita possibile purché sia diversa dalla nostra; ma tale sogno, che ci accompagna per tutta la vita, è possibile perché sostenuto dall’«ignoranza del futuro» e dalla «illusione della speranza».
La conclusione e la struttura circolare del dialogo
Va però notato che nel dialogo tra il venditore e il passante la riflessione non è esplicita come nel passo citato dello Zibaldone: il passante vuole far capire al suo interlocutore che «il caso, fino a tutto quest’anno, ha trattato tutti male», cioè che la nostra vita non prevede l’appagamento del nostro desiderio di felicità, e sottolinea anche che, di conseguenza, la sola vita bella è nel futuro, perché non la conosciamo (che è un altro modo di ribadire quanto appena detto); e tuttavia egli non arriva alla conclusione ultima, cioè non dichiara esplicitamente che il desiderio di felicità non può che essere un’illusione, la sola illusione, peraltro, che ci permette di continuare a vivere aspettando il futuro. Questa sarebbe una conclusione assertiva, forte, e anche disperata. Invece il passante, proprio dopo essere arrivato a un discorso che vuole avere validità universale attraverso le definizioni sopra citate («Quella vita ch’è una cosa bella, non è la vita che si conosce...»), cambia bruscamente registro abbandonando il tema filosofico e le affermazioni generali per tornare al tema e ai modi della conversazione iniziale: «Coll’anno nuovo, il caso incomincerà a trattar bene voi e me e tutti gli altri, e si principierà la vita felice. Non è vero?». Questa domanda è una domanda retorica, che cioè, mentre viene formulata, chiede già una risposta positiva. Ma allora essa sembra negare le conclusioni esplicite ed implicite a cui è arrivato il ragionamento precedente, ed in un certo senso è così: quelle conclusioni vengono negate non sul piano intellettuale (sono state raggiunte, e rimangono valide), ma restano sullo sfondo, perché ora il discorso è tornato al piano dell’esperienza quotidiana di ciascuno e quindi all’illusione di cui tutti ci nutriamo, cioè che, non si sa come o perché, l’anno prossimo cambierà tutto per noi. Ma quelle conclusioni vengono anche verificate in un altro modo, perché la risposta del venditore («Speriamo») conferma quanto è stato dimostrato, cioè che l’uomo non può rinunciare all’illusione della speranza per continuare a vivere; e il venditore, con la sua reazione, concorda pienamente: compra l’almanacco più costoso come per condividere l’illusione della speranza, cioè l’attesa della felicità futura.
La conclusione del dialogo, quindi, si allontana dal ragionamento filosofico che è al centro del dialogo stesso e che è partito dall’esperienza quotidiana (la conversazione sull’anno nuovo), per tornare alla vita, non per negare quelle conclusioni ma proprio per ribadirle sul piano della vita, ma non in modo esplicito: non a caso la risposta citata del venditore contiene proprio la parola chiave che non viene mai pronunciata esplicitamente, speranza, ma che è sottintesa (come si è visto nel passo dello Zibaldone) al ragionamento e alle tesi di questo dialogo; ma il venditore non riflette sulla speranza come illusione, bensì, con una frase che sembra così consunta nella sua banalità ma qui, dopo quanto si è detto, può essere apprezzata nella sua profondità, afferma con un atto di vitalità l’esigenza insopprimibile dell’illusione cioè della speranza: «speriamo».
Un altro carattere della conclusione è che essa conferisce al dialogo un andamento circolare: la fine si ricongiunge all’inizio, come se il dialogo filosofico tra venditore e passante fosse stato una parentesi in una vita quotidiana che per entrambi si ripete sempre uguale; ed in effetti tale conclusione smorzata, per così dire, non affermativa sul piano filosofico ma sul piano prativo, della vita quotidiana, è anche un modo per aggiungere, per il lettore, un’altra riflessione implicita che dimostra le tesi suddette: la vita umana continua anche dopo uno sguardo nelle basi illusorie e disperanti (se vengono portate alla luce) sulle quali essa si fonda; la vita continua proprio perché, come il dialogo filosofico ha appena dimostrato, essa è fatta di ignoranza del futuro e di illusione della speranza, e questo accomuna tutti, il passante-filosofo che ha capito e ha raggiunto la verità come il venditore-uomo della strada che forse non ha capito e di certo non terrà conto di quella ‘lezione’, e non può far altro, sinceramente anche se privo della coscienza filosofica e disincantata del passante, che sperare. Dunque la stessa trama del dialogo, per quanto esile, è fatta per dimostrare, sul piano dei fatti, quando il ragionamento ha dimostrato con le parole.

Il punto sull’opera: una «cosa filosofica, benché scritta con leggerezza apparente»
Dalle «prosette satiriche» alle Operette morali
Un primo stadio di quelle che saranno le Operette morali (anche se il risultato finale sarà ben diverso) è costituito dalle «prosette satiriche» (secondo la definizione leopardiana) che Leopardi progetta e in parte scrive tra il 1819 e il 1821, allo scopo di dare un saggio di letteratura italiana comica e satirica moderna. I caratteri principali di queste prosette sono: dal punto di vista strutturale e linguistico, il carattere dialogico prevalente, i personaggi fantastici (tratti dalla mitologia o da altri mondi esterni a quello umano, ad es. il regno animale), e il linguaggio comico corposo, ricco di immagini colloquiali e popolari: questi caratteri derivano soprattutto dall’esempio dello scrittore greco Luciano di Samosata (II sec. d. C.), il più grande autore satirico dell’antichità; dal punto di vista tematico e ideologico, l’intenzione satirica, cioè polemica, soprattutto contro la civiltà moderna, colpevole di aver condotto l’umanità alla corruzione morale e alla disperazione allontanandola dalla natura e dalle sue illusioni e portandola sotto il dominio della verità e della razionalità scientifica (la «ragione»): sono insomma i capisaldi del cosiddetto pessimismo storico, etichetta in cui la critica riassume il pensiero del giovane Leopardi tra il 1818 e il 1822 all’incirca. Di questo primo progetto resterà nelle Operette morali soprattutto l’eredità di Luciano, nella scelta del dialogo e nell’intreccio di procedimenti comici ed intenzione satirica.
Rispetto a questo primo tentativo di prosa comico-satirica, le novità delle Operette morali, cioè il progetto concepito e realizzato tra 1823 e 1824 (anno in cui sono composti i venti testi che formeranno la prima edizione) e diventato un libro nel 1827 (ma questo discorso vale anche per le altre sette aggiunte nelle due edizioni successive) si possono così riassumere:
1) l’origine biografica e psicologica, cioè da una parte la disillusione nei confronti della vita e della possibilità di godere una felicità reale, e quindi la depressione e la disperazione (stato d’animo nato dalla delusione cocente del viaggio a Roma nel 1822-1823), e, dall’altra, la rinuncia volontaria alle illusioni e alle immaginazioni (e quindi rinuncia anche alla poesia) per ricercare e indagare la verità negativa della condizione umana; dunque, una sorta di ricerca disperata e paradossalmente euforica della verità pur sapendo che essa distrugge le illusioni che rendono la vita tollerabile, una sorta di piacere della scoperta della verità negativa;
2) il carattere unitario: le Operette morali, dietro il titolo generico e la molteplicità di testi non collegati esplicitamente tra loro, quindi dietro l’apparenza di una raccolta di scritti brevi, sono concepite come un libro unitario, con un capitolo iniziale e uno finale, in cui l’autore si rivela palesemente dietro la maschera di un personaggio fittizio (nell’edizione definitiva tale compito spetta al Dialogo di Tristano e di un amico), e con i dialoghi che costituiscono ciascuno uno sguardo, un approfondimento specifico sul tema fondamentale;
3) l’ampiezza tematica e ideologica: le Operette non sono più l’espressione di una critica della civiltà e della razionalità moderne (benché sia un tema ancora presente, ma ora secondario), ma un’analisi della condizione umana considerata in assoluto, cioè la natura umana studiata nei suoi fondamenti psico-fisiologici (il desiderio infinito di felicità, secondo la «teoria del piacere» nata nel 1820) e nei suoi rapporti con l’esperienza (l’impossibilità di ottenere una felicità adeguata al desiderio naturale) e in genere con le leggi della vita e dell’universo: quindi, un’analisi dell’esistenza umana e del senso dell’esistenza umana nell’universo dal punto di vista dell’uomo;
4) infine, la varietà formale: è un livello in cui la molteplicità è evidente, al di là della netta prevalenza del dialogo (anche se non mancano eccezioni), nello stile e nel tono (che non è più solo comico-satirico ma arriva al serio e al tragico), nel linguaggio (anch’esso multiforme, colloquiale o raffinatamente familiare, ma anche denso e solenne), e nei materiali e nelle allusioni letterarie e culturali (che vanno dalla mitologia antica all’epoca moderna).
Di questi elementi approfondiremo ora gli ultimi due, il pensiero e l’identità letteraria, riferendoci ai testi qui scelti.
Dalla critica dell’esistenza umana alla denuncia del male universale
Le Operette morali costituiscono il fondamento del pensiero leopardiano maturo e, in quanto opera pubblicata (mentre lo Zibaldone era per il suo autore un immenso schedario di appunti), sono anche il manifesto e il programma filosofico con cui Leopardi si presenta al suo tempo. Se si dovesse definire in una formula di comodo questo pensiero, si può dire che esso costituisce una critica radicale dell’esistenza umana e poi dell’esistenza universale, una critica sia nel senso di ‘analisi’ che nel senso di ‘giudizio’: il centro di questa critica è un verità negativa (l’infelicità e il dolore necessari e naturali della vita) che a Leopardi si svela sempre più chiaramente nella misura in cui viene superato il cosiddetto pessimismo storico, cioè la critica della civiltà moderna e la concezione positiva della natura madre benefica del genere umano; questa tematica non è del tutto scomparsa nelle Operette – la si ritrova ad es. nel Dialogo di un Folletto e di uno Gnomo, dove l’allontanamento dalla natura, cioè la civiltà, è responsabile dell’autodistruzione della specie umana – ma è ora diventata secondaria. La ricerca leopardiana approfondisce ora la «teoria del piacere» nata nel 1820 e la porta a conseguenze che all’inizio il suo autore non aveva previsto. Tale approfondimento avviene attraverso l’analisi non più storica ma per così dire assoluta dell’esistenza umana, cioè della natura umana considerata in sé e in ogni individuo (indipendentemente dalla storia dell’umanità): al centro di quest’analisi (i cui risultati sono espressi nel Dialogo di Malambruno e di Farfarello) c’è la scoperta di una contraddizione insanabile e incomprensibile proprio perché naturale, cioè lo scarto tra il desiderio infinito di felicità cioè di piacere psicofisico (un desiderio innato nell’essere umano e in ogni creatura vivente), e l’esperienza reale, cioè l’attuazione concreta dell’esistenza e le leggi naturali del mondo circostante, che rendono irrealizzabile quell’esigenza e quindi condannano la vita alla frustrazione e all’infelicità. Quest’analisi conferma che l’uomo, nel piano della natura, non ha alcuna posizione privilegiata e quindi permette la demistificazione delle pretese antropocentriche (un tema già presente nel Leopardi del ‘pessimismo storico’), e conduce alla scoperta paradossale che l’infelicità in senso stretto, cioè l’impossibilità di appagare il desiderio fondamentale di felicità, è un carattere essenziale della vita umana e che, in base al calcolo dello scarto tra felicità desiderata e privazione reale della felicità, non vivere è sempre preferibile a vivere. Ma questa ricerca conduce a un traguardo ulteriore, che sconvolge la prima concezione leopardiana della natura e del rapporto tra l’esistenza dei viventi e le leggi stesse della vita e dell’universo: è il cosiddetto pessimismo cosmico, che emerge nel Dialogo della Natura e di un Islandese. Si tratta di un pessimismo integralmente materialistico, che cioè analizza l’esistenza umana non più si basi psicologiche e in rapporto allo scarto tra desiderio di felicità e impossibilità della vita reale a soddisfarlo, ma su basi materiali, cioè fisico-biologiche, quindi innanzitutto sul corpo, e in rapporto al funzionamento dell’intero universo. Considerata entro queste coordinate fisico-biologiche, la vita umana e in genere la vita diventa la contraddizione più dolorosa dell’universo, sia perché essa è essenzialmente dolore (il corpo vivente è il bersaglio degli attacchi interni ed esterni del sistema fisico e biologico che comprende tanto gli esseri viventi quanto l’ambiente), sia perché essa non è un fine ma un mezzo, cioè l’esistenza dolorosa (fino alla consunzione e alla morte) di ogni essere vivente è subordinata a una legge eterna di produzione e distruzione che a sua volta è lo scopo, se così si può dire, dell’universo, cioè la conservazione della materia. La «natura» diventa ora per Leopardi questa legge universale che mantiene il cosmo nell’esistenza, ma sacrificando eternamente ogni creatura vivente, ignorando non solo le sue esigenze necessarie di felicità ma anche tutte le forme del dolore a cui essa è sottoposta dalla nascita alla morte, e dunque diventa la responsabile, la «nemica scoperta» dell’uomo e di ogni specie vivente. Il fatto che questo sia un punto di vista umano, e che tale definizione sia relativa alla percezione della vita da parte di una creatura vivente ma non coincida con il punto di vista della natura stessa, per così dire (come chiarisce sempre il Dialogo della Natura e di un Islandese), accresce il mistero dell’esistenza come male necessario, come male previsto dall’ordine delle cose; quindi la domanda posta dall’Islandese quasi al centro delle Operette – qual è il senso ultimo, se ce n’è uno, dell’esistenza come male? – costituirà da ora in poi lo sfondo su cui si muoverà e a cui farà sempre riferimento la riflessione di Leopardi.
L’originalità letteraria: una ricerca filosofica messa in scena
L’originalità letteraria di quest’opera si nasconde dietro un titolo generico come Operette morali, che dà informazioni circa il contenuto (filosofia non tecnica, come è stato detto, cioè filosofia esposta in forma divulgativa e non trattatistica), ma che è una sorta di titolo-contenitore rispetto alla forma (perché si limita a preannunciare dei testi brevi); tale originalità si può sintetizzare in una ricerca filosofica ‘messa in scena’, cioè trasformata in invenzione letteraria e precisamente (quasi sempre) teatrale, cioè dialogica, e affidata a situazioni e personaggi non realistici. Tale trasformazione letteraria viene effettuata tramite una varietà di soluzioni (non mancano forme narrative) tra cui prevale il dialogo, che viene peraltro sottoposto da Leopardi a un trattamento originale. Il dialogo è uno strumento tradizionale dell’esposizione filosofica, sia di quella più tecnica (come in Platone) sia di quella divulgativa (ad es. nella letteratura settecentesca, in particolare quella francese), ma quando è abbinato alla filosofia, soprattutto nell’antichità, esso costituisce una cornice realistica; nelle Operette invece la serietà e spesso la tragicità degli argomenti viene espressa attraverso dialoghi di ambientazione e personaggi mitologici, fantastici, surreali ma quasi mai integralmente realistici (un’eccezione che conferma la regola è il Dialogo di un venditore d’almanacchi e di un passeggere). D’altra parte esisteva, prima delle Operette, anche una tradizione di dialoghi non realistici (il maestro è il già citato Luciano, che fa dialogare ad es. gli dèi della religione greca, proprio come Leopardi farà dialogare esseri della mitologia greca o di altre mitologie), ma essa era una tradizione comico-satirica, dove cioè l’elemento fantastico era utilizzato in coerenza con un registro comico e un’intenzione polemica, ma solitamente diretti verso temi meno impegnativi e meno generali di quelli filosofici. Le Operette morali compiono dunque una sintesi e un intreccio di filoni diversi della tradizione letteraria e filosofica, creando di volta in volta delle relazioni diverse tra il tema (che è sempre serio) e le forme in cui esso viene trattato, forme che così diventano anche parte del tema stesso: l’invenzione letteraria cioè non è appiccicata dall’esterno e non è una cornice del discorso, ma un’espressione del discorso, che permette ad es. di condurre una critica dell’antropocentrismo attraverso l’invenzione di punti di vista estranei all’uomo (il folletto e lo gnomo, la natura), oppure di far scaturire l’analisi profonda della condizione umana dal livello apparentemente più banale e consueto della vita quotidiana (come nel Dialogo del venditore d’almanacchi e di un passeggere). Si tratta di una varietà di soluzioni (documentata anche dalla breve scelta di testi qui presentati) che rende impossibile definire il tono o il linguaggio o i caratteri letterari in genere delle Operette morali attraverso una formula buona a tutti gli usi; ma tale varietà esprime un carattere originale di fondo, cioè la sintesi di indagine intorno alla verità e di risorse della finzione (una finzione esplicita) per esprimerla.
Metafisica e leggerezza: un’alternativa alla poesia
La migliore definizione dell’originalità delle Operette morali viene da Leopardi stesso, che in una lettera del 6 dicembre 1826 all’editore Stella (editore della prima edizione dell’opera) definisce il libro una «un libro di argomento profondo e tutto filosofico e metafisico  [...] un’opera che vorrebbe esser giudicata dall’insieme, e dal complesso sistematico, come accade di ogni cosa filosofica, benché scritta con leggerezza apparente». È una definizione che rivela la natura paradossale e quasi la doppia anima del libro: l’essere una sintesi di molteplicità e unità (un libro fatto di tanti dialoghi diversi ma in realtà un libro filosoficamente unitario), ma anche una sintesi di serietà (i contenuti filosofici) e leggerezza (le risorse letterarie, spesso comiche, ma sempre esplicitamente letterarie, con effetto di allusione, e quindi anche di gioco, a volte di scherzo o di caricatura). Ma il paradosso più profondo, probabilmente, risiede nel fatto che le Operette esprimono una verità negativa (la verità leopardiana, almeno quella trovata attraverso l’indagine razionale, può essere solo negativa, cioè distruttrice, perché Leopardi riteneva, citando il filosofo francese seicentesco Pierre Bayle, che in filosofia la ragione possa soltanto distruggere, non edificare) attraverso la leggerezza, cioè il gioco dell’invenzione letteraria, spesso attraverso il comico, comunque quasi sempre attraverso un’ambientazione e dei personaggi parzialmente o integralmente fantastici.
Come interpretare questo paradosso? Probabilmente il gioco della letteratura, cioè l’invenzione mitologica e in genere fantastica, deve formare innanzitutto, per il lettore, un contrasto piacevole con la serietà e spesso la tragicità dei contenuti, e forse, per lo stesso Leopardi, tale gioco ha una funzione compensatoria rispetto all’indagine filosofica, serve cioè a risarcire, in un certo senso, la disperata e disperante ricerca di verità terribili attraverso un contenitore – il dialogo e i personaggi fantastici – che porti quel gioco e quelle illusioni che ogni indagine razionale distrugge (ad es. la mitologia, ormai assurda nella civiltà moderna, ritorna nei protagonisti di molti dialoghi, oppure si può fingere letterariamente che la Natura in persona parli e illustri all’uomo la legge che governa l’universo). Ma forse la sintesi paradossale di metafisica e leggerezza, di serietà filosofica e di finzione letteraria comica o giocosa, proviene dall’origine e dalla natura delle Operette morali per Leopardi negli anni in cui ha composto la maggior parte del libro, cioè tra 1823 e 1827. La prosa delle Operette, per il Leopardi di quegli anni, è la sua unica espressione pubblica possibile (la creazione poetica si interrompe con il 1823 e lo Zibaldone, come si è detto, è una forma di scrittura privata), e perciò sembra sostituire la poesia, che era stata fino ad allora la voce più consueta e a cui egli aveva affidato fino ad allora le sue più alte ambizioni. La prosa delle Operette morali nasce insomma quando Leopardi crede di aver abbandonato definitivamente la poesia e le origini della creazione poetica — cioè le illusioni e la speranza, la sensibilità e la vitalità dell’animo — e così tale prosa diventa alternativa e non complementare alla poesia, dunque assume su di sé anche caratteri propri della poesia, cioè l’invenzione fantastica, il gioco dell’immaginazione e la relazione costante con la tradizione letteraria, il parlare attraverso allusioni e parole che rinviano ad altra letteratura. Quindi le Operette morali nascono, da una parte, da una rinuncia alla bellezza e alla vita dell’animo, cioè alla creazione poetica, da una resa alla verità negativa e terribile, che uccide la poesia, ma dall’altra realizzano un tentativo di conciliare l’indagine e l’enunciazione di quella verità terribile attraverso le risorse del mondo della poesia, non attraverso le forme più specifiche della poesia stessa ma attraverso i procedimenti e le creazioni dell’invenzione letteraria.

 

Fonte: http://www.liceo-carducci.it/templates/downloads/derosa/LEOPARDI3aO.rtf

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