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Sempre caro mi fu quest’ermo colle |
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e questa siepe che da tanta parte |
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dell’ultimo orizzonte il guardo esclude. |
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Ma sedendo e mirando, interminati |
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spazi di là da quella, e sovrumani |
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silenzi, e profondissima quïete |
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io nel pensier mi fingo; ove per poco |
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il cor non si spaura. E come il vento |
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odo stormir tra queste piante, io quello |
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infinito silenzio a questa voce |
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vo comparando: e mi sovvien l’eterno, |
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e le morte stagioni e la presente |
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e viva, e il suon di lei: Così tra questa |
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immensità s’annega il pensier mio: |
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e il naufragar m’è dolce in questo mare. |
L'Infinito viene scritto fra il 1819 e il 1821 (si pensa tra la primavera e l'autunno del 1819), sicuramente dopo il fallimento della fuga dal "vil borgo natìo", orchestrata nel 1819. Dal settembre di quell'anno Leopardi, che ha poco più di 20 anni, comincia a rinchiudersi in una progressiva solitudine, che va peggiorando anche a causa di un fisico che uno studio forsennato di molti anni ha irreversibilmente rovinato. E' in questo clima che nasce il piccolo idillio, pubblicato per la prima volta nel 1825.
Idillio, in greco, significa "piccolo quadro", "immagine" e nell'antica Grecia rappresentava, in maniera più o meno realistica, piccole scene campestri, spesso di vita pastorale, e aveva come scopo quello di valorizzare il contatto con la natura. Un genere poetico, questo, ripreso nell'Umanesimo e durato sino all'Arcadia settecentesca, ma con risultati poco significativi.
Qui invece, pur partendo sempre da un'esperienza di natura, l'idillio esprime gli stati d'animo più profondi del poeta, e la descrizione della natura è solo occasione per parlare di sé.
L'infinito avrebbe potuto essere stato scritto da un recluso, o meglio da un autoemarginato, poiché qui si ha a che fare con uno sconfitto sia dalle contraddizioni della società (feudalesimo decadente) che dalle proprie paure. Ma è un recluso particolare, che non si rassegna del tutto alla propria condizione, vuole sognare una fuga, come Papillon dal bagno penale della Guyana, non col corpo, perché con questo non vi è riuscito, ma con la mente.
Questo canto è come il sospiro della "creatura oppressa", ma oppressa soprattutto dalla propria incapacità di essere, di vivere una dimensione sociale o comunque di reagire al vuoto, all'insignificanza di un'esistenza di cartapesta, tutta dedicata ai libri, in cui l'aveva condannato il padre, che già nel 1810 gli aveva tolto i privilegi del maggiorascato, imponendogli una carriera ecclesiastica, quasi subodorando che un figlio del genere non avrebbe potuto decidere una propria vita.
E' il lamento di uno sconfitto che cerca di giustificarsi, di dare un senso alla propria inconsistenza, alla propria eccessiva tensione emotiva, che fino a quel momento si è misurata soltanto virtualmente, tra le "sudate carte".
"Sempre caro mi fu quest'ermo colle / e questa siepe, che da tanta parte / dell'ultimo orizzonte il guardo esclude".
Il poeta dice di trovarsi in un luogo preciso, che ama e frequenta abitualmente: un colle solitario, tradizionalmente identificato nel monte Tabor, che domina sulle campagne di Recanati, non molto distante dal palazzo di famiglia. Solo, mentre s'accinge a salire il colle, in uno spazio circoscritto e delimitato da una siepe, il poeta guarda, ma non riesce a vedere parte dell'"ultimo orizzonte" (il "celeste confine" della prima stesura), quello che poi riuscirà a vedere una volta arrivato in cima: proprio questo fa scattare il meccanismo immaginativo.
Non è dunque la possibilità di vedere dall'alto del colle gli ampi spazi, ma l'ostacolo alla vista determinato, durante il tragitto, dalla siepe, l'esperienza del limite, naturale e umano insieme, a suggerire l'idea dell'infinito. Annota infatti Leopardi nello Zibaldone (28 luglio 1820): "L'anima immagina quello che non vede, che quell'albero, quella siepe, quella torre gli nasconde, e va errando in uno spazio immaginario, e si figura cose che non potrebbe, se la sua vista si estendesse da per tutto, perché il reale escluderebbe l'immaginario".
Sullo stesso sentiero il poeta veniva a rimirare la luna: "E tu pendevi allor su quella selva / Siccome or fai, che tutta la rischiari".
Al poeta è caro ciò che gli impedisce di vedere la realtà, ciò che gli permette di fantasticare su questa, come sempre ha fatto, poiché la riconoscenza del merito involontario a questo simbolo naturale e insieme spirituale della vita non è da oggi, ma da sempre (1).
Il poeta non sta guardando il colle come lo guardava nel passato, con un senso di nostalgia per i sogni che faceva da bambino o da adolescente, ma lo guarda con gli occhi del presente, dietro la grata della sua prigione domestica e paesana, di figlio di un conte decaduto, il cui declino, morale e materiale, pare inarrestabile.
Se il poeta fosse davanti a uno psicanalista e raccontasse questo sogno o questa esperienza ch'egli considera di "vita", e se si partisse dal principio che nessuno è in grado di giudicare se stesso, dovremmo azzardare l'ipotesi che il poeta stia mentendo.
Nessuna persona normale considererebbe come "cara" una cosa che simboleggia ciò che impedisce di vivere, ciò che permette solo di fantasticare. E' evidente che qui si vuole usare il colle (e la siepe che lo sovrasta o meglio lo fiancheggia) come pretesto per giustificare il proprio aristocratico distacco, ancorché intellettualmente sofferto, dalla realtà.
Non dobbiamo sentirci autorizzati a guardare con occhio benevolo una data situazione solo perché viene descritta con un lirismo di levatura mondiale. Il colle e soprattutto la siepe svolgono una funzione oppiacea, autoconsolatoria, benché in forma eminentemente intellettuale.
Il segreto dell'infinito sta tutto in questo incipit, dove con straordinaria efficacia poetica il negativo viene fatto apparire positivamente, quasi che il Leopardi non fosse un emulo del buddista Schopenhauer ma del dialettico Hegel.
E infatti questo idillio non può essere stato suggerito da un'ispirazione improvvisa, da una percezione istintiva della natura. Qui ogni parola è non solo incredibilmente pesata, con la maestria di un finissimo filologo, ma è anche frutto di una faticosa trasposizione poetica di elementi filosofici che fanno capo a una concezione di vita sufficientemente delineata nei suoi fondamenti.
E' da escludere, in tal senso, che la siepe possa essere "sempre" stata nella vita del giovane (bambino, adolescente) Leopardi un'occasione per sognare in maniera così spiritualizzata, così metafisica. Il colle poteva essergli caro per le passeggiate salutari all'aperto, ma la siepe gli è divenuta "cara" dopo un percorso esistenziale tutt'altro che gratificante.
In tal senso vien spontaneo porsi una domanda di fronte all'avverbio di tempo "sempre" affiancato da un remoto "fu" in luogo del presente "è", come sarebbe parso più naturale.
La critica è unanime nel sostenere che un passato remoto svolge qui una funzione particolarmente suggestiva, in quanto evocativa, più pregnante di qualsiasi indicativo. "Fu" è un passato, seppur apparentemente in contrasto con "sempre", che svolge la funzione di un presente iterativo: si racconta in una sola volta quanto è accaduto mille volte. Già da qui si può cogliere l'idea di infinito.
Tuttavia, se vogliamo accettare l'ipotesi di un iter travagliato all'origine dell'idillio, allora forse si sarebbe potuta azzardare un'interpretazione più rischiosa, che vede p.es. nel "fu" una sorta di porta girevole che da un lato chiude e dall'altro apre. Cioè il colle "fu" perché simbolo di una vita passata che, nonostante tutte le frustrazioni, ha permesso di fantasticare, ma anche perché è segno di un passato che, come tale, al di là di tutti i tentativi autogiustificatori, si vorrebbe veder superato da un presente diverso, eventualmente più reale e meno virtuale.
Non dobbiamo dimenticarci che qui il protagonista è un ventenne consapevole delle proprie capacità letterarie, per le quali sapeva bene che non avrebbe potuto trovare in un paese di provincia delle soddisfazioni come intellettuale, senza considerare ch'egli ormai considerava concluso il tempo di sopportare gli angusti limiti di aristocrazia decaduta in cui volevano costringerlo i suoi.
Sappiamo ch'egli compie la sua prima gita da solo nel 1818, a Macerata, in compagnia di Giordani, e che nel 1822 ebbe dalla famiglia il permesso di recarsi a Roma, dove la città lo deluse al punto che preferì tornare a Recanati, dimostrando, in questo, di non saper reagire all'ambiente retrivo della sua famiglia.
Vedremo comunque che nell'idillio il nuovo presente che il poeta trova non ha nulla di reale, ovvero che la contraddizione della realtà viene mistificata da una rappresentazione fantastica dell'irrealtà.
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Di tutto il canto forse l'unica vera stonatura, logica non poetica, è l'uso avversativo della congiunzione "ma":
"Ma sedendo e mirando, interminati / spazi di là da quella, e sovrumani / silenzi, e profondissima quiete / io nel pensier mi fingo; ove per poco / il cor non si spaura (...)"(2).
Si noti intanto come il poeta abbia usato il pronome femminile singolare "quella", che evidentemente si riferisce alla siepe, proprio perché dei due oggetti di natura, è la siepe e non il colle che il poeta deve maggiormente sublimare: infatti è questa che più lo induce a fare della propria sofferenza una condizione di vita inevitabile. La siepe rappresenta una sorta di muro in una prigione di lusso, che era il palazzo in cui il poeta viveva, anche se il percorso attorno ad essa lo porta in cima al colle ove può guardare l'ampio panorama.
L'avversativo "ma" sarebbe poco spiegabile nel contesto, se ci si fermasse alla positività dell'incipit: visto che il colle e la siepe gli sono "cari" sarebbe stato sufficiente darne subito dopo la spiegazione, quindi in luogo del "ma" avrebbe dovuto esserci un "perché" o semplicemente un "ché".
Mettendo quel "ma" in maniera così netta si ha l'impressione che tra la prima terzina e il resto manchi qualcosa, quella che potremmo definire la contestualizzazione dell'azione. Cioè pur esistendo le coordinate di spazio e tempo ("sempre" e "colle"), l'azione trova la propria motivazione solo al quarto versetto, sicché l'incipit pare sia stato messo meccanicamente, solo allo scopo di motivare quello che sta per accadere, che non è poetico ma filosofico, anche se trattato in maniera poetica. ( 3 )
Il "colle", la "siepe" sono come dei "pre-testi", poiché quanto si sta per dire appare, rispetto alla motivazione iniziale (l'impedimento della vista), come inverosimile o quanto meno esagerato, una sorta di artificiosa ricostruzione emotiva di un qualcosa che avrebbe potuto essere scritto nello Zibaldone. C'è troppa filosofia romantica, idealistica in questo canto perché possa davvero essere un "canto".
E' dunque probabile che il "ma" sia stato messo solo per dare un suono migliore ai due gerundi, perché in questo idillio, ove domina l'endecasillabo sciolto, non c'è un verso che non ambisca a porsi in maniera musicale.
La critica tuttavia è più indulgente: il "ma" è pienamente giustificato in quanto serve per marcare, come un inciso, il passaggio da ciò che la siepe impedisce alla vista degli occhi a ciò che permette alla vista del cuore.
"Sedendo" e "mirando" sono due verbi ambigui: il primo non può semplicemente voler dire che il poeta si metteva "seduto" di fronte alla siepe e lì cominciava a "mirare": sarebbe stato troppo banale. Che importa al lettore se il poeta si trovava seduto o in piedi o sdraiato al cospetto della siepe?
In latino "sedeo" ha molte sfumature: arriva persino a definizioni come "vivere ritirato", "restare fisso o impresso", "star tranquillo o inoperoso", che sicuramente meglio si addicono a un idillio complesso come questo. "Sedendo" per noi vuol dire che mentre si sta fissi, immobili, come una sorta di stilita cristiano o buddista, si sta anche osservando e ascoltando qualcosa, si sta "sentendo" con gli occhi e col cuore; quindi "sedendo" può sì indicare una condizione fisica del momento (la staticità di chi non fa nulla), ma indica anche, proprio perché accompagnato da un gerundio più psichico, più spirituale ("mirando") un vero e proprio stato d'animo, una percezione che non è semplicemente sensoriale, ma metafisica: il poeta sentiva e ammirava, anzi, percepiva e contemplava "spazi", "silenzi" e "quiete", come se tutti i sensi agissero all'unisono, i sensi di un filosofo che vuol mettere in versi le proprie concezioni di vita.
In questi due gerundi c'è tutto il significato del canto, poiché essi esprimono un duplice movimento esistenziale: statico e dinamico, fisico e psichico, la prigione del corpo e la fuga della mente, la realtà insopportabile e i voli della fantasia.
E tuttavia non vogliamo forzare troppo il testo. Se il poeta ha voluto semplicemente specificare che mentre sognava ad occhi aperti era seduto, foss'anche solo per indicare la semplicità dell'azione, l'assoluta povertà degli strumenti usati, nulla da eccepire. Anzi, ci piace immaginare che un giovanotto composto, educato, tutto compìto, anche quando si trova in aperta campagna, improvvisamente osservi con un volto trasfigurato, come Mosé sul Sinai o Cristo sul Tabor, la propria oasi di felicità.
Ciò che il poeta sogna non è di entrare nella vita sociale (almeno qui non viene detto questo), ma di uscire dall'angusta vita familiare, che lo tiene come prigioniero, nonché dai limiti di una vita paesana ch'egli non ha mai capito e con cui non s'è mai confrontato veramente, se non come un intellettuale che osserva dall'alto del suo palazzo la vita che si svolge in piazza, nei campi o negli edifici di fronte (come nel caso della poesia dedicata a Silvia). Qui Leopardi Immagina di poter entrare in un mondo del tutto irreale, paragonabile a quello che può desiderare un mistico rapito dall'estasi o un drogato affetto da allucinazioni.
E' evidente che la sproporzione tra la condizione psico-fisica umana e le potenzialità della natura, anzi dell'universo, essendo enormi, impaurisce, come può impaurire il trapasso da uno stato di coscienza a uno di incoscienza. E' come se il poeta si accingesse a fare un viaggio in una dimensione spazio-temporale del tutto diversa da quella abituale e che, a tale scopo, fosse costretto a una sorta di mutazione genetica. Per desiderare esperienze del genere non è raro vedere persone disposte a tutto, anche ad immolarsi.
Nell'attuale era tecnologica forse l'esperienza che più induce a fantasticare, offrendo l'illusione di una personale onnipotenza, è quella mediatica, specie quella televisiva, ma ora anche quella della rete internet. Il distacco di questi mezzi dalla vita reale permette incredibili "finzioni", che il poeta di Recanati poteva vivere solo con la forza del suo pensiero, che qui usa come una sorta di macchina del tempo che noi oggi vediamo nei film di fantascienza.
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"(...) E come il vento / odo stormir tra queste piante, io quello / infinito silenzio a questa voce / vo comparando: e mi sovvien l'eterno, / e le morte stagioni, e la presente / e viva, e il suon di lei. (...)"
E' difficile incontrare in tutta la storia della poesia italiana e forse non solo italiana dei versi più belli di questi. Qui non c'è solo lirismo, musicalità, percezione esatta di un fenomeno naturale, cui, con straordinaria fantasia, si possono fare associazioni di elevato contenuto metafisico. Ma c'è anche, ed è ben visibile là dove le congiunzioni vengono volutamente ripetute, una carica emotiva, anzi, erotica, che risulta tipica di tutte quelle esperienze estatiche di cui sopra si è detto.
In un crescendo continuo, come se il poeta stesse rivivendo in una visione onirica o filmica tutte le fasi della sua vita, s'impone l'esaltazione del tempo presente sul passato. Il poeta vuole sentirsi contemporaneo al proprio presente e non vorrebbe che fosse un tempo deciso da altri a dominare la sua vita.
E' tuttavia un presente in cui prevale l'idea di silenzio, in cui l'unico suono che si può ascoltare è quello del vento che stormisce tra le piante, e che qui viene appunto considerato come simbolo del silenzio, del nulla o comunque di uno scorrere del tempo che alla fine porta solo alle percezioni individuali del poeta.
Di tutti gli assoluti racchiusi in questo canto, al poeta piace mettere in evidenza l'infinito silenzio, perché è questo che gli offre maggiore consolazione alle imposizioni familiari, sicuramente molto retrive, di assumere ruoli non sentiti.
Ciò vien fatto con grande maestria e accortezza, poiché L'infinito, ritenuta la lirica più riuscita, è privo di quell'amarezza, se non risentimento, nei confronti dell'ambiente di Recanati (paese e palazzo), quindi del proprio passato, che molto spesso si riscontra nella vasta produzione letteraria del poeta.
Qui anzi è proprio la particolare valorizzazione del "limite terreno", ambientale, avvertito non in maniera assoluta ma relativa (perché propositiva), che rende grande questa lirica, incredibilmente moderna e sicuramente anticipatrice di molti temi romantici, seppure proprio nel periodo della stesura dell'idillio, nel suo Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica, egli insista nel ribadire un legame sistemico con "gli antichi", specie con la loro ingenuità o "prepotente inclinazione al primitivo", che rendeva i loro sentimenti un tutt'uno coi fenomeni di natura, mentre - come noto - i romantici, nella loro aspirazione a un deciso superamento della mitologia classica in direzione di una maggiore storicizzazione dei sentimenti, rischiavano di porre una barriera insuperabile tra passato e presente.
"Il poeta deve illudere, e illudendo imitar la natura, e imitando la natura dilettare" - scriveva in quel Discorso. Leopardi insomma era un romantico malgré soi, che avrebbe potuto diventare "poeta nazionale", al pari del Manzoni, se solo avesse superato non solo l'ideologia sanfedista e legittimista del padre (cosa che in realtà riuscì a fare), ma anche quella posizione di intellettuale aristocratico, individualista, che si portò dietro tutta la vita, per quanto - a onor del vero - proprio la filosofia del Leopardi, e non certo quella del Manzoni, fruisca di ampi riconoscimenti internazionali.
La critica ha voluto vedere nello scorrere delle "morti stagioni" l'intero percorso della storia, di cui il poeta aveva consapevolezza in virtù dei suoi studi "matti e disperatissimi". In effetti, può apparire molto suggestiva l'idea che il poeta volesse sentirsi parte di una storia appresa solo sui libri. Ma questo non contraddice l'idea che quelle stagioni fossero in realtà le fasi della sua crescita personale.
Come non la contraddice l'ipotesi che quelle stagioni siano proprio le stagioni meteorologiche che ruotano come un mulino a vento dalle origini del pianeta e in mezzo alle quali il singolo ha soltanto una propria stagione da spendere, una stagione che, filosoficamente, non va a interferire nell'eterno ciclo, ma anzi se ne sente parte costitutiva.
* * *
"(...) Così tra questa / immensità s'annega il pensier mio: / e il naufragar m'è dolce in questo mare". (4)
Il flashback che il poeta ha vissuto, in maniera olistica, in quanto la somma delle singole stagioni è sicuramente inferiore alla percezione della loro totalità, rispecchia una concezione di infinito strumentale all'autovalorizzazione del singolo, che può sentirsi parte dell'universo, della storia dell'uomo solo nella misura in cui riesce a immaginarla.
La concezione della storia che ha qui il Leopardi è sottomessa a quella della natura, esattamente come quella del genere umano è sottomessa a quella del singolo. L'Infinito, in contraddizione col suo stesso contenuto, vuole essere autoreferenziale, cioè il suo significato riposa in quello che il poeta stesso gli vuole attribuire.
La sensazione dell'infinito, o meglio dell'indefinito, è data non tanto dalla storia quanto dalla natura; è questa che interpreta la storia ed in questa interpretazione il poeta è soddisfatto di sé solo in quanto si sente partecipe di un movimento della natura, di cui la storia è solo un aspetto apparente, virtuale. Non dobbiamo dimenticare che questa poesia è stata scritta a vent'anni, nella fase in cui la rassegnazione non aveva ancora soppiantato con decisione la poetica delle illusioni.
L'Infinito può sembrare la descrizione di un parto, la fuoriuscita da un tunnel, in cui in un primo momento ci si "spaura" ma poi si gode nella propria iperbolica fantasia, in cui le possibilità stesse di fantasticare sono infinite.
Il percorso infinito che qui compie la natura, e il singolo in essa, è quello che parte da un essere indeterminato, anzi inadeguato alla realtà, e che arriva a un nulla metafisico, in cui la possibilità è fine a se stessa, cioè dal desiderio esistenziale della diversità si passa all'immaginazione di viverla solo nel pensiero.
La concezione di infinito (potenziale) che ha Leopardi è quella in cui un singolo ama soltanto perdersi, naufragare, non come Ulisse, sempre alla ricerca di qualcosa, ma come un astronauta che naviga nello spazio, il cui cordone ombelicale è stato reciso solo dal pensiero.
Forse è proprio questa concezione che spiega il motivo per cui Leopardi sia ancora oggi il classico italiano più studiato al mondo.
(1) Forzando l'interpretazione del testo si potrebbe dire, visto che Leopardi usa il verbo "escludere" al singolare, che non sia tanto il colle a essergli "caro", quanto la sua siepe. Resterebbe però da spiegare l'affetto nei confronti del colle, che rischierebbe di restare non detto o implicito. Il colle sarebbe amato non perché, escludendo la visione della realtà farebbe sognare (poiché in realtà era proprio una grande visione della realtà ch'esso permetteva), ma semplicemente perché è un simbolo geografico della familiarità di un ambiente: quello di Recanati.
Dalla vetta del monte l’occhio umano domina un panorama vastissimo che si estende dall'Adriatico agli Appennini. E infatti scrive Leopardi nelle Ricordanze (vv. 19-21):
"[…] E che pensieri immensi, che dolci sogni mi spirò la vista
di quel lontano mar, quei monti azzurri”
Leopardi insomma vorrebbe far credere al lettore che la siepe gli era cara da "sempre", cioè sin da quando era bambino, perché sin da allora gli permetteva di fantasticare.
In realtà lui stesso dice nello Zibaldone (pagine del 1820) che da bambino amava semplicemente guardare il cielo "attraverso una finestra, una porta, una casa passatoia" (cioè attraverso l'andito o corridoio fra due case).
Nell'idillio enfatizza una sua caratteristica psicologica, quella di sentirsi impedito nell'azione, e lo fa in una maniera così poetica che il lettore non può fare altro che riconoscervi. A tutti piace fantasticare, specie se questo è l'unico modo con cui si riesce a evadere da una situazione alienante.
Dunque in realtà non era la siepe a farlo sognare ma lo stesso colle, solo che la siepe è servita come pretesto per andare oltre la visione della natura, per trasfigurare questa, e la visione che permetteva, in maniera spirituale.
(2) Si noti che nel testo originario non si parla di "interminati spazi" ma di "interminato spazio".
(3) “Nella carriera poetica il mio spirito ha percorso lo stesso stadio che lo spirito umano in generale. Da principio il mio forte era la fantasia, e i miei versi erano pieni d’immagini, e delle mie letture poetiche io cercava sempre di profittare riguardo alla immaginazione. Io era bensì sensibilissimo anche agli affetti, ma esprimerli in poesia non sapeva. Non aveva ancora meditato intorno alle cose, e della filosofia non avea che un barlume, e questo in grande, e con quella solita illusione che noi ci facciamo, cioè che nel mondo e nella vita ci debba esser sempre un’eccezione a favor nostro. Sono sempre stato sventurato, ma le mie sventure d’allora erano piene di vita, e mi disperavano perché mi pareva (non veramente alla ragione, ma ad una saldissima immaginazione) che m’impedissero la felicità, della quale gli altri credea che godessero. In somma il mio stato era allora in tutto e per tutto come quello degli antichi.(…) La mutazione totale in me, e il passaggio dallo stato antico al moderno, seguì si può dire dentro un anno,(…) cominciai ad abbandonar la speranza, a riflettere profondamente sopra le cose (…) a divenir filosofo di professione (di poeta ch’io era), a sentire l’infelicità certa del mondo, in luogo di conoscerla, e questo anche per uno stato di languore corporale, che tanto più mi allontanava dagli antichi e mi avvicinava ai moderni[…] Ed io infatti non divenni sentimentale, se non quando perduta la fantasia divenni insensibile alla natura e tutto dedito alla ragione e al vero, in somma filosofo.” (Zibaldone, 143)
(4) Si noti che nella versione definitiva non c'è la parola "immensità" ma "infinità".
Fonte: http://www.calamandrei2013.altervista.org/LEOPARDI_infinito.doc
Sito web da visitare: http://www.calamandrei2013.altervista.org
Autore del testo: non indicato nel documento di origine
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