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GIACOMO LEOPARDI (1798-1837)
Con Giacomo Leopardi ci troviamo di fronte ad un autore moderno; definisco Giacomo Leopardi moderno, anche se è vissuto nel 1800, perché alcuni tratti del suo pensiero e del suo sistema di vita, come vedremo, corrispondono ad atteggiamenti e visioni dell'esistenza estremamente attuali, anche per il nostro tempo che stiamo vivendo.
Innanzitutto Leopardi può essere considerato un maestro del sospetto, in quanto il suo pensiero denuncia e mette in rilievo tutte le contraddizioni della vita; tutti i problemi a cui l'uomo si trova di fronte; tutte le avversità e le angosce di natura esistenziale che le persone sono costrette a sopportare in ogni epoca. Da questo punto di vista Leopardi è sicuramente una mente dotata di grande intelligenza che mette in risalto le contraddizioni e le negatività del pensiero a lui contemporaneo. Tuttavia in lui, come vedremo, vi è anche il tentativo di ritrovare la dignità che l'uomo ha perduto a causa delle proprie debolezze e delle proprie insicurezze sia di natura personale sia di natura ideologica o religiosa, in quanto le sopra strutture della religione e del pensiero filosofico impongono all'uomo determinati comportamenti che ne riducono la dignità e lo confinano in uno stato di annichilimento. Questa visione tragica dell'esistenza si accompagna, nel grande poeta, al rifiuto di quelle che sono le facili consolazioni, come le ideologie e la religione; ma anche al rifiuto di ogni soluzione nichilistica e pessimistica a senso unico.
Per comprendere bene questo concetto si può fare riferimento al famoso testo del Canto notturno di un pastore errante dell'Asia: in questa poesia Leopardi, rivolgendosi alla luna, si interroga sul significato dell'esistenza e si pone alcune domande, di natura tipicamente esistenziale, attraverso le quali ricerca il senso più oscuro e più misterioso dell'esistenza; a queste domande la luna, che il poeta chiama come sua interlocutrice, non dà risposta, il che significa che le domande fondamentali che l'uomo di ogni tempo si è da sempre posto non trovano, secondo Leopardi, una risposta chiara e motivata nel pensiero del singolo e neanche in quelle che sono le idee e le religioni positive.
LA VITA E LE OPERE
Nello studio di Leopardi è importante esaminare, più che in ogni altro autore, la vita e la sua esperienza autobiografica. Questo perché in Leopardi la vita e le opere procedono parallelamente e la stessa vita diviene proiettata nelle opere, le quali risultano una trascrizione, se pure a livello letterario, dell'esperienza che l’io del poeta ha compiuto nella sua esistenza personale. Per questo tutti i critici hanno posto grande attenzione alla vita di Leopardi, che Natalino Sapegno ha intitolato Storia di un’anima.
Sappiamo che l'infanzia di Leopardi, nato a Recanati il 29 giugno 1798, è stata un'infanzia caratterizzata da un sostanziale isolamento culturale e da una solitudine affettiva, soprattutto per la carenza degli affetti e dei sentimenti da parte della figura materna, la marchesa Adelaide degli Antici, la quale era chiusa in una concezione gretta e bigotta ed era caratterizzata anche da un una personalità arcigna e dura nei confronti dei familiari. Per quanto riguarda il padre, il conte Monaldo, possiamo dire che era una persona di concezioni reazionarie, ma anche un uomo colto, amante dello studio e del sapere e, proprio per questo, aveva avviato il giovane figlio all'amore nei confronti dei classici e della cultura in genere. Tuttavia Monaldo non amministrata direttamente il patrimonio della famiglia perché era la moglie Adelaide a rivestire il ruolo guida all'interno della casa e in tutto l'ambiente familiare. Proprio per sfuggire ad una atmosfera cupa e soffocante, Giacomo tra il 1809 e il 1816 si chiude nella ricca biblioteca paterna è qui compie uno studio matto e disperatissimo; sostanzialmente uno studio che sarebbe dovuto servire come momento di riscatto nei confronti dell’avvilimento dell'età presente. Ma questo studio, che il Leopardi chiamerà successivamente erudizione, aveva tutte le caratteristiche di un modello di cultura nozionistico, coltivato senza sistematizzazione e senza una direzione di tipo organizzativo. Ciò nonostante, anche per le notevoli doti intellettuali e personali, all'età di 11-12 anni Giacomo era un ragazzino prodigio, in grado di conoscere lingue antiche come il Latino e il Greco e di scrivere testi di natura poetica, didascalica, scientifica ed anche letteraria. Dopo questi sette anni, il poeta si trova tuttavia di fronte ad una condizione di delusione e di fallimento verso il mondo circostante, e questo anche per alcuni insuccessi dal punto di vista sentimentale che lo portano ad accentuare la sua condizione di isolato. È del 1816 la conversione letteraria che egli chiama dalla erudizione al Bello, dove con il termine Bello si intende un tipo di poesia basata esclusivamente sulla immaginazione e sulle illusioni. Ci si riferisce alle Canzoni civili, alcuni testi nei quali viene espressa la differenza che passa tra gli antichi, che vivevano in una condizione privilegiata proprio per le illusioni che provavano, e i moderni, i quali invece sono costretti a misurarsi con una realtà fortemente problematica e penosa. Nel corso di alcuni anni, tuttavia, Leopardi supera queste originarie concezioni ed approda ad un'altra conversione che egli definisce dal Bello al Vero. Con il termine Vero Leopardi intende un tipo di poesia, da lui chiamata filosofica, la quale si basa sulla descrizione della caduta delle illusioni e quindi sulla riflessione amara dell'uomo di fronte alla realtà. Il prodotto di questo momento è costituito da alcuni testi poetici: Alla luna, L'infinito, La sera del dì di festa, chiamati gli idilli, perché descrivono dei quadri interiori, rappresentando l'anima del poeta. Siamo negli anni tra il 1819 e il 1824 e Leopardi cerca anche di fuggire dalla propria casa, ma il tentativo viene intercettato e questo lo porta a un'ulteriore accentuazione del suo stato angoscioso.
Nel 1822, tuttavia, la famiglia gli concede di compiere un viaggio a Roma presso gli zii. Il periodo trascorso a Roma, 1822-23, si rivela molto importante; infatti Leopardi è profondamente deluso da questa città che egli aveva conosciuto in maniera indiretta attraverso lo studio e che immaginava come una città gloriosa, custode del patrimonio dei grandi del “passato”. Invece si trova di fronte una città reazionaria, provinciale, chiusa e bigotta che lo delude profondamente. Tornato a Recanati, Leopardi incupisce sempre più il suo atteggiamento negativo e si convince che non è solo il paese di Recanati a vivere in un condizione di minorità e di arretratezza, ma è tutto il mondo che si trova in una situazione di generale infelicità. Frutto di questo mutamento di pensiero è la decisione, con alcune eccezioni, di interrompere la produzione poetica e di dedicarsi principalmente alla prosa. Infatti il capolavoro di questi anni tra il 1822 e il 1825 sono le Operette morali. Le Operette morali sono una raccolta di 24 testi, scritti in forma dialogata, nei quali l'autore prende coraggiosamente posizione contro l'ottimismo delle ideologie dominanti dell'Ottocento; soprattutto viene preso di mira l'atteggiamento troppo fiducioso sia dei laici sia dei cattolici che Leopardi considera suoi diretti avversari, anche a causa della perdita della fede cristiana che egli aveva abbandonato già dal 1819. Nelle Operette morali domina la critica all'antropocentrismo, in quanto il poeta ritiene che l'uomo si illuda di essere al centro dell'universo, mentre invece è solo una particella di poco conto, della quale la natura può fare l'uso che meglio ritiene. Tuttavia questa concezione negativa dell'uomo e della natura non porta a una posizione di tipo nichilistico e distruttivo; anzi Leopardi sottolinea la necessità di un'azione di tipo pragmatico dell'uomo a difesa della propria dignità intellettuale e della propria moralità, come del resto possiamo evincere dal titolo delle stesse Operette, morali… dal latino mos che significa costume, abito, comportamento. La necessità di un'azione forte e determinata nei confronti della natura porta il poeta a sviluppare un atteggiamento duramente combattivo che, in queste produzioni prime, si avvale dello strumento dell'ironia. Infatti in molte operette morali, come Dialogo di un folletto e di uno gnomo; dialogo della natura e di un islandese, dialogo di Torquato Tasso e del suo genio familiare, l'autore smonta le certezze dell'uomo contemporaneo e propriamente degli uomini di cultura del periodo usando atteggiamenti e dichiarazioni, fortemente ironiche attribuite ai vari interlocutori dei dialoghi.
Negli anni successivi che vanno dal 1825 al 1828 Leopardi trascorre la vita in varie città italiane, come Milano, Bologna, Firenze. Sono anni molto difficili, nei quali egli cerca una sistemazione anche di tipo economico, dato che la famiglia rifiuta di sostenerlo; tuttavia diventa sempre difficile per lui, anche a causa delle precarie condizioni di salute, di trovare una occupazione stabile come letterato o come curatore di antologie e opere di cultura. Nel 1828, dopo un breve soggiorno nella città di Pisa, Leopardi fa ritorno a Recanati e trascorrere lì 16 mesi che egli definisce di notte orribile, a causa della malattia fisica e dell'ostilità di alcuni membri della sua famiglia nei suoi confronti. Tuttavia in questa fase egli compone alcune poesie definite dalla critica come il vertice della sua poesia: A Silvia, Canto notturno di un pastore errante dell'Asia, La quiete dopo la tempesta, Il sabato del villaggio, Le ricordanze.
Nel 1830 Leopardi decide di lasciare definitivamente Recanati e di vivere da solo, anche grazie all'aiuto di alcuni amici. Nella prima parte tra il 1830 e il 1833 vive a Firenze, dove fa conoscenza con l’esule Antonio Ranieri, che diverrà anche suo compagno. In questo periodo maturano i sentimenti amorosi del poeta nei confronti della nobildonna Fanny Targioni Tozzetti, alla quale Leopardi dedica un gruppo di poesie conosciute come il Ciclo di Aspasia, nelle quali emerge una concezione più determinata e combattiva dell'esistenza, unita ad un linguaggio fortemente espressivo e a tratti anche crudo. La delusione per questo amore non ricambiato porta il poeta ad un’ulteriore riflessione amara nei confronti della realtà. Nel 1833, insieme ad Antonio Ranieri, Leopardi si reca a Napoli dove trascorrere l'ultima parte della sua esistenza. In questo periodo compone un testo di notevole importanza, paragonabile per portata culturale filosofica ai Sepolcri di Ugo Foscolo: La ginestra, un testo nel quale Leopardi delinea le sue posizioni fortemente critiche nei confronti delle ideologie dominanti dell’Ottocento, il romanticismo, l'ottimismo spiritualista, il cattolicesimo; a queste egli contrappone un razionalismo laico di matrice illuminista che sfocia nella proposta di una social catena cioè di una rinnovata solidarietà tra gli uomini come comuni sofferenti. L'aggravarsi delle condizioni di salute del poeta, portano alla rapida conclusione della breve, ma spiritualmente intensa vita di Giacomo Leopardi che muore a Napoli il 15 giugno 1837. Tra le opere importanti di Leopardi è doveroso menzionare lo Zibaldone che costituisce una sorta di diario intellettuale di 4526 pagine, nel quale il poeta raccoglie, in modo non molto sistematico, il suo pensiero nella sua poetica. Essendo stato scritto negli anni che vanno dal 1817 al 1832 abbraccia tutte le fasi evolutive del suo pensiero. Inoltre può essere considerato una specie di officina, nella quale l’autore scrive le proprie idee filosofiche, morali e letterarie, le quali vengono poi tradotte in opere poetiche o in scritti letterari in prosa.
Il sistema di pensiero leopardiano E LA QUESTIONE DEL PESSIMISMO
Alla base del sistema di pensiero leopardiano vi è sostanzialmente una concezione illuministica e materialistica. Leopardi, infatti, aderisce al razionalismo illuminista che contrappone sia al Romanticismo sia alle varie concezioni spiritualiste. All'interno dell'Illuminismo egli preferisce la posizione sensista, che si basa sulla preminenza dell'esperienza sensoriale come dato unico e irrinunciabile della conoscenza umana e animale. Questo presupposto è fondamentale per comprendere tutta l'impalcatura del pensiero leopardiano che, altrimenti, rischia di essere fraintesa magari con connotazioni di tipo romantico o, ancora peggio, con supposte concezioni religiose o pseudo religiose. La critica di vario indirizzo ha sempre distinto nel Leopardi alcune fasi evolutive caratterizzate dal cosiddetto pessimismo. Il termine pessimismo, peraltro, non è mai stato adoperato da Leopardi né nelle opere in prosa né in quelle in poesia. Per comodità didattica, comunque, possiamo accogliere la denominazione pessimismo, pur ribadendo che la concezione leopardiana, a nostro giudizio personale, appare più come una risposta determinata e fortemente coerente allo stato di bisogno di felicità dell'uomo e quindi non ci sembra una rassegnazione incline al pessimismo. La critica ha comunque distinto sempre due momenti del pessimismo.
In principio si parla di pessimismo storico, riferendosi agli anni giovanili fino al ritorno dal viaggio a Roma (1816-1823). In questa fase Leopardi ritiene che l'epoca moderna sia da considerarsi come l'età della perdita delle illusioni, in quanto l'uomo, abbandonando le favole e le invenzioni elaborate dalla Natura, ha preferito guardare la realtà con la Ragione; ma questo lo ha reso infelice. L'infelicità pertanto è un dato storico, è causata dall'allontanamento dell’uomo dalla Natura e da un errato cammino della civiltà, che ha preferito distruggere il velo che la Natura aveva benevolmente costruito per proteggere gli umani. È chiaro che in questa ottica si ha una netta contrapposizione tra gli antichi e i moderni; i primi vivevano felici per le proprie illusioni; i secondi, invece, hanno distrutto le illusioni e sono costretti ad acquisire coscienza del vero che li rende infelici e deboli.
A questa prima fase del pessimismo ne succede un'altra che inizia dal ritorno da Roma e percorre la rimanente parte dell'esistenza del poeta (1823-1830). Si tratta del cosiddetto pessimismo cosmico, cioè di un atteggiamento pessimistico che coinvolge tutto il mondo, tutta l'esistenza sia umana sia animale sia vegetale. L'infelicità diventa quindi un dato costitutivo della vita e non più un dato storico. La concezione della Natura muta perché il poeta, in questa fase, considerata la Natura matrigna e crudele, accusandola di avere ingannato l'uomo tramite le illusioni; per contro diventa positiva la Ragione che acquista un ruolo conoscitivo, facendo aprire la mente all'uomo e ponendolo di fronte al vero, cioè alla realtà senza più immaginazioni ed illusioni.
Se però consideriamo gli anni successivi al definitivo abbandono di Recanati, cioè gli anni del periodo fiorentino e napoletano (1830-1837), possiamo notare come Leopardi non si fermi al pessimismo cosmico ma arrivi a progettare un nuovo modello di civiltà, basato su un sentimento di solidarietà sociale che, secondo lui, è in grado di ricostruire un'autentica moralità e di unire gli uomini contro la Natura definita comune nemica. Questa concezione, che è ben esplicitata nella Ginestra, ha riscontrato l'approvazione e l’interesse da parte di alcuni critici di orientamento marxista, come Binni e Luperini, i quali hanno parlato di pessimismo eroico. La critica attuale, come per esempio quella dello psicanalista Gioanola, è meno incline ad accettare questa concezione e propende di più per un Leopardi testimone della sofferenza e della moralità dell'uomo e del poeta; da questo punto di vista la <<ginestra>> rappresenterebbe la funzione ultima della poesia.
La poetica
La poetica di Giacomo Leopardi è una diretta conseguenza del suo sistema di pensiero e si basa fondamentalmente su una teoria che il poeta spiega molto bene nello Zibaldone, che, abbiamo visto, è una sorta di diario intellettuale, un'officina preziosa nella quale Leopardi sistema le proprie idee, scrivendole in successione cronologica per poi tradurle in atto poetico nei Canti e nelle opere in prosa. Questa teoria è chiamata dallo stesso Leopardi Teoria del Piacere e consiste in questo:
l'uomo, nella vita, sperimenta un desiderio infinito nei confronti del piacere, cioè della ricerca della felicità. Essendo questo piacere infinito, esso è per definizione irrealizzabile e pertanto l'uomo non può fare altro che illudersi di provare piacere. In effetti il piacere è sempre qualche cosa di passato o di futuro e non è mai vissuto nel presente, se non come temporanea illusione che può capitare soprattutto alla cessazione di una condizione dolorosa. Per evitare che l'uomo si chiuda in una condizione di sostanziale depressione e di sicuro annullamento, la Natura produce le illusioni che portano l'uomo a desiderare il raggiungimento della felicità e lo spingono ad agire di conseguenza.
A livello poetico tutto ciò si traduce nella Poetica del vago e dell’indefinito: essa consiste nel tentativo di riprodurre, tramite la poesia, una condizione simile allo stato originario dell'uomo, che viveva con le illusioni. Questa condizione, attraverso lo strumento poetico, può essere ripristinata quando operano determinati termini, cioè parole ed espressioni vaghe ed indeterminate, che rendono la sensazione tipica dell'illusione; accanto a questo vi è poi il mezzo della lontananza che è capace di sfumare suoni, visioni, immagini, rendendole poetiche ed illusorie. Il poeta adopera anche la tecnica del ricordo, perché il ricordo, secondo lui, è in grado di sfumare un'esperienza e di renderla più bella, più grande, più fantastica, proprio grazie alla indeterminatezza che abbiamo quando la nostra mente cerca di far riaffiorare esperienze lontane che non possiamo ricostruire con la necessaria precisione. In varie poesie di Leopardi, come per esempio L'infinito, Le Ricordanze, A Silvia, troviamo l'applicazione di questa poetica che viene unita all'altra tecnica che è quella della poesia filosofica, cioè la poesia che denuncia le mistificazioni della Natura, le falsità, le illusioni, gli inganni e si propone di comunicare il vero agli uomini.
I CANTI
I Canti di Leopardi sono 41 testi pubblicati dal poeta in diverse edizioni; abbiamo una prima edizione del 1831 con 23 poesie, una seconda edizione del 1835 in cui l’autore aggiunge diversi testi a quelli della precedente, arrivando a 39 poesie, e l'ultima edizione postuma, curata da Antonio Ranieri del 1845 che comprende appunto 41 poesie. Se osserviamo la disposizione dei testi all'interno della raccolta notiamo subito che non abbiamo un criterio strettamente cronologico, anche se alcune poesie sono effettivamente in ordine di composizione e datazione, ma questo non risulta essere l'unico criterio compilativo. Alcune poesie, infatti, sono collocate secondo il proprio genere metrico, come ad esempio le canzoni; mentre altri testi sembrano essere accostati in base alla comune tematica, come gli Idilli del 1819-21. Ora, per comprendere tutto ciò, occorre rifarsi all'originario pensiero di Leopardi, cioè a quella che, molto probabilmente, costituiva la sua intenzione circa l'elaborazione e la struttura ultima di questa importante opera. Sappiamo che nel 1824 Leopardi aveva pubblicato un primo gruppo di nove poesie dal titolo Canzoni che comprendono quelle che saranno poi nell'edizione del 1831 le canzoni civili; nel 1826, tuttavia, Leopardi aveva pubblicato anche altri testi di natura idillica con il titolo di Versi. Tutto questo ci fa comprendere come nella mente del poeta vi fosse una doppia concezione, cioè Leopardi da un lato aveva in mente una produzione legata alla tematica politica civile e sociale, cioè quella delle canzoni; mentre da un altro lato tendeva ad esser viva una produzione più legata agli affetti individuali e alla rappresentazione del proprio io, cioè la produzione idillica. Nel 1831 e nelle successive edizioni Leopardi si trova ad unificare queste due tematiche, operando una sorta di compromesso che lo porta a inserire tutti i testi in un'unica raccolta. Per comodità didattica e per un migliore approccio allo studio dei Canti ci sembra conveniente procedere secondo l'ordine cronologico, raggruppando i testi base alla data di composizione; tuttavia nella tabella allegata forniremo lo schema deciso dal poeta
Prima fase La prima fase comprende testi che vanno dal 1818 al 1822 e sono quelli che, come abbiamo già visto, vengono definiti poesie del pessimismo storico. Abbiamo tra queste gli Idilli, che comprendono poesie di straordinaria bellezza, come Alla luna, L'infinito, La sera del dì di festa. In queste poesie domina in carattere soggettivo ed esistenziale; il poeta traccia la sua personale condizione interiore e rappresenta la sua sofferta solitudine. Di fronte a questo stato di cose quello che egli sembra protestare è la ricerca di una sorta di riscatto del cuore che viene elaborata attraverso la poetica dell'immaginazione, quella che, come si è visto, permette di ricostruire l'atmosfera di illusione, ancora tipica degli antichi. Accanto agli idilli spiccano le Canzoni civili, tra le quali sono note All'Italia, Sopra il monumento di Dante, Ad Angelo Mai, Nelle nozze della sorella Paolina. Si tratta di testi scritti con un'elaborazione metrica che ricalca gli schemi petrarchisti e che ci propone un neoclassicismo impegnato, nel quale emerge come tematica il tramonto dei miti degli antichi e la rappresentazione della rottura della magica intesa tra l'uomo e la Natura. Questa rottura causa, secondo il poeta, la fine delle virtù e l'inizio di un periodo disarmonico tra l'uomo e la Natura circostante. Due testi che si collocano sempre nella prima fase ma che anticipano molto le successive fasi evolutive sono le cosiddette Canzoni del suicidio, L'ultimo canto di Saffo e il Bruto minore. Nella prima abbiamo un suicidio di tipo esistenziale, mentre nella seconda compare il suicidio di tipo politico e civile. Dopo queste canzoni troviamo una fase di transizione che copre il periodo 1822-1828, un periodo di silenzio nella produzione leopardiana, se si eccettuano due testi: Alla sua donna e Al conte Carlo Pepoli.
Seconda fase La seconda fase della produzione poetica leopardiana è collocata nei sedici mesi di notte orribile, cioè negli anni 1828-1830 che corrispondono ai Canti pisano-recanatesi, quelli che venivano chiamati dalla critica di indirizzo crociano i Grandi idilli per contrapporli ai Piccoli idilli (quelli del 1819-21). I testi sono in tutto sette: due di questi A Silvia e Il risorgimento sono scritti a Pisa, mentre gli altri Canto notturno di un pastore errante dell'Asia, La quiete dopo la tempesta, Il sabato del villaggio, Le ricordanze sono scritti a Recanati. Il tema centrale di queste poesie, se si eccettua Il risorgimento, è l'infondatezza delle illusioni e, per contro, la reale condizione dell'uomo, che viene rappresentato secondo la sua condizione desiderosa di scoprire quegli interrogativi esistenziali ai quali non viene fornita alcuna risposta. Emerge, in questi i componimenti, la poetica del ricordo giocata tra giovinezza e rimpianto, unita a un desolato scoraggiamento che è determinato dal non senso delle interrogazioni che il poeta rivolge a se stesso ed alla Natura e che non trovano alcuna risposta. Dal punto di vista tecnico queste canzoni vedono il superamento della struttura petrarchesca; infatti abbiamo la cosiddetta canzone libera che è strutturata secondo strofe irregolari composte da endecasillabi e settenari o da endecasillabi sciolti; l'uso della canzone libera rappresenta l'abbandono del poeta delle forme chiuse ed il passaggio a un'inedita concentrazione espressiva che gli è consentita dalla maggiore libertà rispetto agli schemi classici.
Terza fase La terza fase della poesia leopardiana tocca agli anni 1831-1837 e fondamentalmente ha come tema l'indagine filosofica sul senso della vita e sul destino dell'uomo; interrogativi che il poeta si era già posto in tutta la sua vita, ma che qui ricevono una sistemazione a livello filosofico ed anche, se vogliamo, una parziale risposta. Se si eccettuano le Canzoni sepolcrali che omettiamo di spiegare, i testi più interessanti sono quelli del cosiddetto Ciclo di Aspasia e La ginestra. Il Ciclo di Aspasia si compone di cinque testi: Amore e morte, Il pensiero dominante, Aspasia, Consalvo, A se stesso. In questi testi il poeta parla dell’amore verso Fanny Targioni Tozzetti che è chiamata con lo pseudonimo di Aspasia, il nome di una cortigiana amante di Pericle. Il tema di questi componimenti è la sfida che l'amore ci propone nei confronti della negatività del mondo; è una sfida che tuttavia appare illusoria, in quanto anche questo amore viene definito come inganno estremo e porta, con la sua caduta, ad un momento di sconsolata sensazione di perdita del cuore. Ciò che cambia è se mai l'atteggiamento, in quanto Leopardi, nella sua aspirazione alla bellezza e nella contemporanea consapevolezza della deperibilità della bellezza, constata da un lato il limite materiale della condizione umana, ma si difende con un atteggiamento di forte dignità di fronte alla sconfitta e di fronte all’inganno dell'amore
L’altro testo importante di questa fase è La ginestra o il fiore del deserto. Una poesia molto lunga e complessa che Leopardi scrisse nel 1836 - 37, aggiungendo alcuni versi forse poco prima della morte. La ginestra rappresenta l’eroicità del poeta e la sua fiera determinazione ad affrontare la realtà con un atteggiamento laico, lucido, razionale, nel quale compaiono, per la prima volta, anche alcune soluzioni, quella che abbiamo chiamato la social catena, cioè una sorta di solidarietà tra gli uomini nei confronti della Natura. Nella Ginestra si individuano come tematiche centrali i limiti materiali della condizione e della fragilità dell'uomo; la solidarietà sociale e il desiderio di una comunanza di valori tra le persone proprio per fare resistenza nei confronti della Natura; e infine il desiderio e la segreta speranza di un'umanità libera dalle paure e dalle oppressioni. È un testo polemico nel quale Leopardi non rinuncia ad alcuni attacchi anche molto pesanti nei confronti della religione cristiana che viene da lui duramente criticata in quanto, nella sua interpretazione, il cristianesimo riduce le possibilità dell'uomo e lo porta a una sorta di rassegnazione nei confronti di se stesso e delle sue aspirazioni. Sulla Ginestra tornerò poi successivamente con una mia personale interpretazione che non intende ovviamente porsi come alternativa a quelle canoniche delle quali parlavo precedentemente, cioè quella marxista di Binni e quella di Gioanola; ma comunque è una lettura che tenta di offrire un contributo all'analisi di questo interessante componimento.
Resta da accennare, (ma solo un rapido accenno) Il tramonto della luna, probabilmente l'ultimo componimento di Leopardi che, ancora una volta, si rivolge alla luna e lo fa, in pratica, per la terza volta. Una prima volta lo aveva fatto nell'idillio Alla luna , in cui dominava la poetica del ricordo; poi nel Canto notturno di un pastore errante dell'Asia, dove la luna era l'interlocutrice muta del poeta e quindi diventata l'alter ego cioè il Leopardi stesso che non trovava risposte ai suoi interrogativi; e infine abbiamo Il tramonto della luna in cui la luna viene descritta nel suo ciclo continuo paragonato a quello dell'uomo il quale, però, alla fine della sua parabola esistenziale non risorge e quindi termina miseramente, secondo l'interpretazione di Leopardi, la sua fragile ed infelice esistenza.
“LE OPERETTE MORALI”
A cura di Gauri Giorgieri
Genesi dell'opera
Il progetto delle Operette Morali prende forma in un solo anno, il 1824, in cui Leopardi si dedica alla stesura delle prime 20 prose e che segue di due anni l'ambita fuga da Recanati e il soggiorno a Roma. Negli anni successivi continua a operarvi spostando l'ordine di alcuni testi ed aggiungendone di nuovi. A partire dalla lettura dei pessimisti antichi e dei materialisti settecenteschi (d'Holbach in particolare) compone il Frammento apocrifo di Stratone da Lampsaco, il Copernico e il Dialogo di Plotino e Porfirio, non presenti nella prima edizione dell'opera, che appare a Milano nel 1827 per l'editore Stella.
La seconda edizione è data alle stampe nel 1834 a e vi appaiono due dialoghi scritti nel 1832: Dialogo di un Venditore di almanacchi e di un Passeggere e Dialogo di Tristano e di un amico.
Lo stesso editore, Antonio Ranieri, curerà anche la terza edizione fiorentina dell'opera nel 1845. Le 22 operette sono qui divenute 24 per l'aggiunta delle tre composte tra il 1825 e il 1827 e l'esclusione del Dialogo di un lettore di umanità e di Sallustio.
Nel 1850 l'opera sarà messa all'indice con l'accusa di assenza di verità religiose e troverà posto nello scaffale dei libri “proibiti” di casa Leopardi a Recanati.
Fonti
La fonte principale dell'opera, sotto il piano stilistico, è lo scrittore greco Luciano di Samostata, vissuto nel II secolo d.C., in età ellenistica, che ispirò in Leopardi la scelta del genere satirico.
Egli ne riconosce l'arguzia e la grazia formale come la capacità di mettere in ridicolo le false condizioni umane rappresentandone il vero destino in tutta la sua drammatica portata.
Non è da sottovalutare, inoltre, la lettura dei dialoghi di Platone, di cui colse la capacità di fondere insieme estro poetico e temi filosofici.
Altri richiami classici si ritrovano in Cicerone (nei moralisti in generale) e nello storico Senofonte.
Tra i moderni sceglie invece i dialoghi satirici sei-settecenteschi, il tema del viaggio di Voltaire (il Candido) e Sterne e ancora lo stile aperto e satirico dell'Ariosto.
Non mancano poi le fonti scientifiche: Galilei, Copernico, Newton, Cartesio e Locke, con la sua valorizzazione dell'esperienza e infine la documentazione filosofica in vista delle 3 operette del 1825-27
Temi
La scelta di 24 prose differenziate per argomento e personaggi sembra presentare le operette come unità singole, senza individuarne collegamenti che le presentino entro un unico quadro tematico essenziale. Questa impressione è in parte corretta dal titolo, che vi attribuisce un aggettivo comune, se non un vero e proprio ruolo pedagogico.
Tuttavia, ad una lettura più attenta, l'intera opera è percorsa da una catena tematica essenziale che si ripresenta nelle modalità più disparate.
1) Infelicità. Motivo che ricorre nella poetica leopardiana è interpretato come condizione inevitabile dell'esistenza umana, dovuta all'essenza impalpabile del suo concetto, obiettivo dell'uomo secondo molte concezioni filosofiche, che non è definibile entro un certo limite. Non essendone inoltre determinabile la presenza, sia per la sua natura soggettiva che per il fatto di non essere un'essenza dotata di estensione, non è possibile riconoscerla quando la si possiede, giungendo a desiderare inevitabilmente una felicità sempre maggiore. Leopardi riconosce la possibilità di ingannare l'infelicità solo attraverso la morte dei sensi, che ne determina la fine della percezione, così come il sonno. (Dialogo di Melambruno e di Farfarello).
2) Natura. Anche la natura è vista negativamente, come degno del pessimismo leopardiano, divenuto proverbiale. Malgrado essa non venga interpretata come principale responsabile dell'infelicità umana gli viene attribuita una certa insofferenza (Dialogo della Natura e di un'Anima) verso il dolore dell'uomo che è lasciato al fato. La caratteristica di non svolgere alcuna azione negativa rispetto all'umanità la rende, per il suo astenersi dal prendere una posizione a suo favore, più colpevole di quel che sarebbe se esercitasse esplicitamente la sua crudeltà, così come gli ignavi danteschi sono considerati più indegni di ogni peccatore.
3) Infondatezza dei miti. L'opera appare unificata più di ogni altra cosa dall'intento di dissipare le superstizioni e le credenze fondate sull'ignoranza. La natura, la quale si astiene dall'agire a favore o contro l'uomo, non appare più caratterizzata, in primo luogo, dal finalismo che la voleva creata a suo uso e scopo (Dialogo di un folletto e di uno gnomo). Ed assieme al finalismo, ampiamente criticato, dai suoi contemporanei (ma già dai Razionalisti tra il 1500 e il 1600), egli colpisce duramente l'esaltazione del progresso e della scienza illuministi, il mito della civiltà e quello della perfettibilità della specie. Questo è possibile anche tramite il confronto tra antichi e moderni (Il Parini, ovvero della gloria; Dialogo d'un venditore di almanacchi e di un Passeggere).
4) Noia e Piacere. Il secondo è per Leopardi l'intensità delle sensazioni (Dialogo di un Fisico e di un Metafisico) così come il gusto del rischio e della sfida, mentre la noia non è che l'assenza di condizioni di piacere. Tuttavia queste condizioni sembrano venire meno e il quadro risultarne, ancora una volta, vanificato: l'individuo comprende che il piacere appartiene sempre al passato e al futuro e mai al presente (Dialogo di Torquato Tasso e del suo genio familiare)
5) Morte e Suicidio. Il tema della morte è molto caro all'artista, che lo ripropone in modo diverso in quasi tutte le operette. Essa è vista come la fine della vita sensibile e dunque del dolore terreno, in qualità di sonno eterno. La riflessione sul suicidio compare diverse volte e culmina nel Dialogo di Plotino e Porfirio in cui quest'ultimo difende la scelta di darsi la morte combattendo contro la critica del maestro che gli propone argomenti quali la compassione e il senso d'animo.
Lingua
Le Operette Morali sono caratterizzate da una prosa tendenzialmente semplice, leggera e ariosa, dalla modernità sconvolgente per un autore italiano del 1800. La forma del testo è, nella sua essenza, elegante, promotrice di quello stesso decoro classico di cui avevano scelto di avvalersi Foscolo e Manzoni, che qui giunge ad una forma più sicura e definita. Evita sapientemente gli arcaismi e la ricercatezza è sostituita da un linguaggio semplice, che ben restituisce la suggestione del parlato (sintassi semplice, diversamente dalla prosa trecentesca).
Nei dialoghi soprattutto, l'artificiosità è annullata dalla brevità degli interventi, adatta a un tono colloquiale, così come dall'uso di giochi di parole, presentati come battute di spirito che incalzano il ritmo concitato della discussione.
Sono molto utilizzati il registro ironico, il paradosso e la metafora, definite dalla chiarezza, propria dello stile del poeta recanatese.
Il ruolo dell'ironia.
E' sempre il titolo dell'opera, in cui l'autore si serve del sostantivo plurale e alterato operette, il primo segnale, per il lettore, del contenuto ironico dell'opera. Dall'altro lato, l'aggettivo morali non sembra attenuare questa impressione ma piuttosto valorizzarla, attribuendo il vezzeggiativo al concetto di moralità che assume un tono deformato.
Questo espediente, che ricorda quello utilizzato da Berchet nella “Lettera semiseria di Grisostomo”, permette allo scrittore recanatese di incarnare, in una prima e immediata impressione, l'essenza dell'opera che alterna ad una profonda riflessione etica e filosofica (preceduta da un rigido percorso di studi) un registro informale e dei toni parodistici nei confronti dell'umanità e della storia.
La funzione della satira è in particolare quella di criticare le false convinzioni che ancora affliggevano l'uomo della sua epoca, come appare al poeta nel suo rapporto con il “borgo selvaggio” natale, segnato dalla generale arretratezza dello Stato Pontificio che porta una dura resistenza ad ogni tentativo di evoluzione sociale. E' infine nella risposta dell'uomo di fronte ai suoi errori, o meglio nella “non risposta” di Leopardi stesso alle domande esistenziali che pone attraverso i suoi dialoghi che l'ironia si trasforma in dramma e il pessimismo leopardiano appare in tutta la sua entità.
Ma la satira offre anche un'ampia libertà stilistica: è possibile un passaggio dal tono “alto” a quello “basso”, licenze poetiche, ambiguità verbali, giochi di parole nonché ampie possibilità di invenzione dal punto di vista linguistico come narrativo. Senza sottovalutare il fascino dell'iornia che pone lo scrittore su un piano di superiorità rispetto alle cose del mondo, mostrandolo dunque estraneo al bene e al male, come chi osservi a distanza una realtà animale e selvaggia.
La filosofia leopardiana
Leopardi nutre molte riserve verso l'indagine filosofica, per questo le Operette Morali si presentano come una novità per il poeta che fonde, con capacità di sintesi meticolosa, filosofia (come ricerca del vero) e poesia (del bello), facoltà diverse seppur segnate da una netta affinità.
L'atteggiamento critico di Leopardi rispetto alla materia filosofica è giustificato da un'accusa di inaridimento, da parte della sua indagine, delle facoltà poetiche dell'uomo e in primo luogo dell'immaginazione. In particolare egli rifiuta la sua capacità di dare senso alla vita e gli attribuisce piuttosto funzione di demolire gli errori prodotti dall'intelletto umano, tematica presente nell'opera di Rousseau come di Kant.
Diversamente dal pensiero illuminista che li caratterizza entrambi (a tratti), egli giunge tuttavia a un esito nichilista che pone l'uomo al cospetto del nulla, estraneo al mito del progresso e di superiorità sociale.
Francesco De Sanctis ha individuato dei parallelismi tra la concezione leopardiana e quella del filosofo Arthur Shopenauer per linee di pensiero intorno a temi comuni (noia, dolore, vanità delle cose, critica del progresso). Tuttavia essi giungono ad esiti differenti: il filosofo d'oltralpe nella via della cieca volontà di vivere, rappresentata dagli stadi dell'arte e poi nell'ascesi, dalla negazione del desiderio, mentre il recanatese sfocia in una prospettiva etica e presenta come risposta al male di vivere una certa resistenza dell'uomo contro la Natura, trovando un modo per accettarla e resisterle.
Le Operette e la Bibbia
Secondo un'opinione da anni confermata da parte della critica, dopo gli iniziali dissensi, l'opera Leopardiana risente molto degli influssi della Bibbia ed in particolare del libro di Giobbe e del Qohelet, probabilmente letti in lingua originale grazie alla conoscenza dell'ebraico.
Tuttavia, qualcuno osserva, il Giobbe presentato da Leopardi risulta, in parte, deformato:
egli propone le domande angoscianti del patriarca, ma non riserva la stessa considerazione alle risposte di Dio, di cui tace l’intervento provvidenziale, conclusione del libro biblico.
Le domande che si pone, rimangono dunque senza risposta e i dialoghi divengono così monologhi.
Lo stesso problema si presenta nella considerazione leopardiana del mondo che, a tratti, sembra avere delle analogie con quella di S. Giovanni evangelista che lo contrappone a Cristo.
Tuttavia mentre questi intendeva con il termine mondo il peccato e la corruzione, Leopardi lo usa per indicare la società, trasferendo su un piano del tutto diverso la sua critica.
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