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III (gennaio 1820)
1 Italo ardito, a che giammai non posi
2 Di svegliar dalle tombe
3 I nostri padri? ed a parlar gli meni
4 A questo secol morto, al quale incombe
5 Tanta nebbia di tedio? E come or vieni
6 Sì forte a' nostri orecchi e sì frequente,
7 Voce antica de' nostri,
8 Muta sì lunga etade? e perché tanti
9 Risorgimenti? In un balen feconde
10 Venner le carte; alla stagion presente
11 I polverosi chiostri
12 Serbaro occulti i generosi e santi
13 Detti degli avi. E che valor t'infonde,
14 Italo egregio, il fato? O con l'umano
15 Valor forse contrasta il fato invano?
16 Certo senza de' numi alto consiglio
17 Non è ch'ove più lento
18 E grave è il nostro disperato obblio,
19 A percoter ne rieda ogni momento
20 Novo grido de' padri . Ancora è pio
21 Dunque all'Italia il cielo; anco si cura
22 Di noi qualche immortale:
23 Ch'essendo questa o nessun'altra poi
24 L'ora da ripor mano alla virtude
25 Rugginosa dell'itala natura,
26 Veggiam che tanto e tale
27 È il clamor de' sepolti, e che gli eroi
28 Dimenticati il suol quasi dischiude,
29 A ricercar s'a questa età sì tarda
30 Anco ti giovi, o patria, esser codarda.
31 Di noi serbate, o gloriosi , ancora
32 Qualche speranza? in tutto
33 Non siam periti? A voi forse il futuro
34 Conoscer non si toglie . Io son distrutto
35 Né schermo alcuno ho dal dolor, che scuro
36 M'è l'avvenire, e tutto quanto io scerno
37 È tal che sogno e fola
38 Fa parer la speranza. Anime prodi,
39 Ai tetti vostri inonorata, immonda
40 Plebe successe; al vostro sangue è scherno
41 E d'opra e di parola
42 Ogni valor; di vostre eterne lodi
43 Né rossor più né invidia; ozio circonda
44 I monumenti vostri; e di viltade
45 Siam fatti esempio alla futura etade.
46 Bennato ingegno , or quando altrui non cale
47 De' nostri alti parenti,
48 A te ne caglia, a te cui fato aspira
49 Benigno sì che per tua man presenti
50 Paion que' giorni allor che dalla dira
51 Obblivione antica ergean la chioma,
52 Con gli studi sepolti,
53 I vetusti divini, a cui natura
54 Parlò senza svelarsi, onde i riposi
55 Magnanimi allegràr d'Atene e Roma.
56 Oh tempi , oh tempi avvolti
57 In sonno eterno! Allora anco immatura
58 La ruina d'Italia, anco sdegnosi
59 Eravam d'ozio turpe, e l'aura a volo
60 Più faville rapia da questo suolo.
61 Eran calde le tue ceneri sante ,
62 Non domito nemico
63 Della fortuna, al cui sdegno e dolore
64 Fu più l'averno che la terra amico.
65 L'averno: e qual non è parte migliore
66 Di questa nostra? E le tue dolci corde
67 Susurravano ancora
68 Dal tocco di tua destra, o sfortunato
69 Amante . Ahi dal dolor comincia e nasce
70 L'italo canto. E pur men grava e morde
71 Il mal che n'addolora
72 Del tedio che n'affoga . Oh te beato,
73 A cui fu vita il pianto! A noi le fasce
74 Cinse il fastidio; a noi presso la culla
75 Immoto siede, e su la tomba, il nulla.
76 Ma tua vita era allor con gli astri e il mare,
77 Ligure ardita prole ,
78 Quand'oltre alle colonne , ed oltre ai liti
79 Cui strider l'onde all'attuffar del sole
80 Parve udir su la sera , agl'infiniti
81 Flutti commesso, ritrovasti il raggio
82 Del Sol caduto, e il giorno
83 Che nasce allor ch'ai nostri è giunto al fondo;
84 E rotto di natura ogni contrasto ,
85 Ignota immensa terra al tuo viaggio
86 Fu gloria, e del ritorno
87 Ai rischi . Ahi ahi, ma conosciuto il mondo
88 Non cresce, anzi si scema , e assai più vasto
89 L'etra sonante e l'alma terra e il mare
90 Al fanciullin, che non al saggio, appare.
91 Nostri sogni leggiadri ove son giti
92 Dell'ignoto ricetto
93 D'ignoti abitatori, o del diurno
94 Degli astri albergo, e del rimoto letto
95 Della giovane Aurora, e del notturno
96 Occulto sonno del maggior pianeta?
97 Ecco svaniro a un punto,
98 E figurato è il mondo in breve carta ;
99 Ecco tutto è simile, e discoprendo,
100 Solo il nulla s'accresce. A noi ti vieta
101 Il vero appena è giunto,
102 O caro immaginar; da te s'apparta
103 Nostra mente in eterno; allo stupendo
104 Poter tuo primo ne sottraggon gli anni;
105 E il conforto perì de' nostri affanni.
106 Nascevi ai dolci sogni intanto, e il primo
107 Sole splendeati in vista,
108 Cantor vago dell'arme e degli amori ,
109 Che in età della nostra assai men trista
110 Empièr la vita di felici errori:
111 Nova speme d'Italia. O torri, o celle,
112 O donne, o cavalieri,
113 O giardini, o palagi! a voi pensando,
114 In mille vane amenità si perde
115 La mente mia. Di vanità, di belle
116 Fole e strani pensieri
117 Si componea l'umana vita: in bando
118 Li cacciammo : or che resta? or poi che il verde
119 È spogliato alle cose? Il certo e solo
120 Veder che tutto è vano altro che il duolo.
121 O Torquato, o Torquato , a noi l'eccelsa
122 Tua mente allora, il pianto
123 A te, non altro, preparava il cielo.
124 Oh misero Torquato! il dolce canto
125 Non valse a consolarti o a sciorre il gelo
126 Onde l'alma t'avean, ch'era sì calda,
127 Cinta l'odio e l'immondo
128 Livor privato e de' tiranni . Amore,
129 Amor, di nostra vita ultimo inganno,
130 T'abbandonava. Ombra reale e salda
131 Ti parve il nulla, e il mondo
132 Inabitata piaggia . Al tardo onore
133 Non sorser gli occhi tuoi; mercè, non danno,
134 L'ora estrema ti fu. Morte domanda
135 Chi nostro mal conobbe, e non ghirlanda.
136 Torna torna fra noi, sorgi dal muto
137 E sconsolato avello,
138 Se d'angoscia sei vago, o miserando
139 Esemplo di sciagura. Assai da quello
140 Che ti parve sì mesto e sì nefando,
141 È peggiorato il viver nostro. O caro,
142 Chi ti compiangeria,
143 Se, fuor che di se stesso, altri non cura?
144 Chi stolto non direbbe il tuo mortale
145 Affanno anche oggidì se il grande e il raro
146 Ha nome di follia;
147 Né livor più, ma ben di lui più dura
148 La noncuranza avviene ai sommi? o quale,
149 Se più de' carmi, il computar s'ascolta,
150 Ti appresterebbe il lauro un'altra volta?
151 Da te fino a quest'ora uom non è sorto,
152 O sventurato ingegno,
153 Pari all'italo nome, altro ch'un solo,
154 Solo di sua codarda etate indegno
155 Allobrogo feroce, a cui dal polo
156 Maschia virtù, non già da questa mia
157 Stanca ed arida terra,
158 Venne nel petto ; onde privato, inerme,
159 (memorando ardimento) in su la scena
160 Mosse guerra a' tiranni : almen si dia
161 Questa misera guerra
162 E questo vano campo all'ire inferme
163 Del mondo. Ei primo e sol dentro all'arena
164 Scese, e nullo il seguì, che l'ozio e il brutto
165 Silenzio or preme ai nostri innanzi a tutto.
166 Disdegnando e fremendo, immacolata
167 Trasse la vita intera,
168 E morte lo scampò dal veder peggio.
169 Vittorio mio, questa per te non era
170 Età né suolo. Altri anni ed altro seggio
171 Conviene agli alti ingegni. Or di riposo
172 Paghi viviamo, e scorti
173 Da mediocrità: sceso il sapiente
174 E salita è la turba a un sol confine,
175 Che il mondo agguaglia. O scopritor famoso ,
176 Segui; risveglia i morti,
177 Poi che dormono i vivi; arma le spente
178 Lingue de' prischi eroi; tanto che in fine
179 Questo secol di fango o vita agogni
180 E sorga ad atti illustri, o si vergogni.
IX (maggio 1822)
1Placida notte, e verecondo raggio
2 Della cadente luna; e tu che spunti
3 Fra la tacita selva in su la rupe,
4 Nunzio del giorno; oh dilettose e care
5 Mentre ignote mi fur l'erinni e il fato,
6 Sembianze agli occhi miei; già non arride
7 Spettacol molle ai disperati affetti.
8 Noi l'insueto allor gaudio ravviva
9 Quando per l'etra liquido si volve
10 E per li campi trepidanti il flutto
11 Polveroso de' Noti, e quando il carro,
12 Grave carro di Giove a noi sul capo,
13 Tonando, il tenebroso aere divide.
14 Noi per le balze e le profonde valli
15 Natar giova tra' nembi, e noi la vasta
16 Fuga de' greggi sbigottiti, o d'alto
17 Fiume alla dubbia sponda
18 Il suono e la vittrice ira dell'onda.
19 Bello il tuo manto, o divo cielo, e bella
20 Sei tu, rorida terra. Ahi di cotesta
21 Infinita beltà parte nessuna
22 Alla misera Saffo i numi e l'empia
23 Sorte non fenno. A' tuoi superbi regni
24 Vile, o natura, e grave ospite addetta,
25 E dispregiata amante, alle vezzose
26 Tue forme il core e le pupille invano
27 Supplichevole intendo. A me non ride
28 L'aprico margo, e dall'eterea porta
29 Il mattutino albor; me non il canto
30 De' colorati augelli, e non de' faggi
31 Il murmure saluta: e dove all'ombra
32 Degl'inchinati salici dispiega
33 Candido rivo il puro seno, al mio
34 Lubrico piè le flessuose linfe
35 Disdegnando sottragge,
36 E preme in fuga l'odorate spiagge.
37 Qual fallo mai, qual sì nefando eccesso
38 Macchiommi anzi il natale, onde sì torvo
39 Il ciel mi fosse e di fortuna il volto?
40 In che peccai bambina, allor che ignara
41 Di misfatto è la vita, onde poi scemo
42 Di giovanezza, e disfiorato, al fuso
43 Dell'indomita Parca si volvesse
44 Il ferrigno mio stame? Incaute voci
45 Spande il tuo labbro: i destinati eventi
46 Move arcano consiglio. Arcano è tutto,
47 Fuor che il nostro dolor. Negletta prole
48 Nascemmo al pianto, e la ragione in grembo
49 De' celesti si posa. Oh cure, oh speme
50 De' più verd'anni! Alle sembianze il Padre,
51 Alle amene sembianze eterno regno
52 Diè nelle genti; e per virili imprese,
53 Per dotta lira o canto,
54 Virtù non luce in disadorno ammanto.
55 Morremo. Il velo indegno a terra sparto
56 Rifuggirà l'ignudo animo a Dite,
57 E il crudo fallo emenderà del cieco
58 Dispensator de' casi. E tu cui lungo
59 Amore indarno, e lunga fede, e vano
60 D'implacato desio furor mi strinse,
61 Vivi felice, se felice in terra
62 Visse nato mortal. Me non asperse
63 Del soave licor del doglio avaro
64 Giove, poi che perir gl'inganni e il sogno
65 Della mia fanciullezza. Ogni più lieto
66 Giorno di nostra età primo s'invola.
67 Sottentra il morbo, e la vecchiezza, e l'ombra
68 Della gelida morte. Ecco di tante
69 Sperate palme e dilettosi errori,
70 Il Tartaro m'avanza; e il prode ingegno
71 Han la tenaria Diva,
72 E l'atra notte, e la silente riva.
XI (1831?)
1D'in su la vetta della torre antica,
2 Passero solitario, alla campagna
3 Cantando vai finché non more il giorno;
4 Ed erra l'armonia per questa valle.
5 Primavera dintorno
6 Brilla nell'aria, e per li campi esulta,
7 Sì ch'a mirarla intenerisce il core.
8 Odi greggi belar, muggire armenti;
9 Gli altri augelli contenti, a gara insieme
10 Per lo libero ciel fan mille giri,
11 Pur festeggiando il lor tempo migliore:
12 Tu pensoso in disparte il tutto miri;
13 Non compagni, non voli,
14 Non ti cal d'allegria, schivi gli spassi;
15 Canti, e così trapassi
16 Dell'anno e di tua vita il più bel fiore.
17 Oimè, quanto somiglia
18 Al tuo costume il mio! Sollazzo e riso,
19 Della novella età dolce famiglia,
20 E te german di giovinezza, amore,
21 Sospiro acerbo de' provetti giorni,
22 Non curo, io non so come ; anzi da loro
23 Quasi fuggo lontano;
24 Quasi romito, e strano
25 Al mio loco natio ,
26 Passo del viver mio la primavera.
27 Questo giorno ch'omai cede alla sera,
28 Festeggiar si costuma al nostro borgo.
29 Odi per lo sereno un suon di squilla ,
30 Odi spesso un tonar di ferree canne,
31 Che rimbomba lontan di villa in villa.
32 Tutta vestita a festa
33 La gioventù del loco
34 Lascia le case, e per le vie si spande;
35 E mira ed è mirata, e in cor s'allegra.
36 Io solitario in questa
37 Rimota parte alla campagna uscendo,
38 Ogni diletto e gioco
39 Indugio in altro tempo: e intanto il guardo
40 Steso nell'aria aprica
41 Mi fere il Sol che tra lontani monti ,
42 Dopo il giorno sereno,
43 Cadendo si dilegua, e par che dica
44 Che la beata gioventù vien meno.
45 Tu, solingo augellin, venuto a sera
46 Del viver che daranno a te le stelle,
47 Certo del tuo costume
48 Non ti dorrai; che di natura è frutto
49 Ogni vostra vaghezza .
50 A me, se di vecchiezza
51 La detestata soglia
52 Evitar non impetro,
53 Quando muti questi occhi all'altrui core,
54 E lor fia vòto il mondo, e il dì futuro
55 Del dì presente più noioso e tetro,
56 Che parrà di tal voglia?
57 Che di quest'anni miei? che di me stesso?
58 Ahi pentirommi, e spesso,
59 Ma sconsolato, volgerommi indietro.
XII (1819)
Sempre caro mi fu quest'ermo colle,
e questa siepe, che da tanta parte
dell'ultimo orizzonte il guardo esclude.
Ma sedendo e mirando, interminati
5 spazi di là da quella, e sovrumani
silenzi, e profondissima quiete
io nel pensier mi fingo ; ove per poco
il cor non si spaura. E come il vento
odo stormir tra queste piante, io quello
10 Infinito silenzio a questa voce
vo comparando: e mi sovvien l'eterno,
e le morte stagioni , e la presente
e viva, e il suon di lei. Così tra questa
immensità s'annega il pensier mio:
15 E il naufragar m'è dolce in questo mare.
Commento A L’infinito
L’incipit della poesia stabilisce immediatamente una relazione affettiva (Sempre caro) tra il poeta e un luogo (quest’ermo colle) e un suo elemento paesaggistico (questa siepe). Il sempre iniziale dice che il sentimento affettivo verso il luogo è di lunga durata; il lettore perciò immagina la frequentazione del colle come un’azione consueta e lungamente ripetuta e, allo stesso modo, i pensieri di cui si dà conto nella lirica come pensieri abituali e molte volte reiterati.
Sia il colle che la siepe sono accompagnati dall’aggettivo dimostrativo questo; il poeta, cioè parla in presenza degli elementi ambientali che nomina e, per così dire, li mostra col dito al lettore.
Il colle è definito con un solo aggettivo: ermo, cioè solitario, appartato dai traffici degli uomini; dunque, luogo caro al poeta perché frequentato da lui solo.
La siepe ha una definizione più complessa: essa è posta in modo da impedire in gran parte allo sguardo la visione dell’orizzonte più lontano.
L’insieme dei Canti leopardiani (in particolare gli idilli) e la biografia del poeta permettono al lettore di dare una precisa collocazione geografica al luogo di cui il poeta parla: si tratta dei colli marchigiani, presso Recanati. Se è esatta l’identificazione tradizionale dell’ermo colle leopardiano, l’ultimo orizzonte, dal quale lo sguardo è escluso, consiste nel susseguirsi a perdita d’occhio di vallate e basse colline ad ovest del paese. L’orizzonte precluso è quindi molto ampio, spaziando per diverse decine di chilometri. Ma la vastità della vista è impedita dalla siepe. Sotto questo aspetto, colle e siepe si trovano in contrasto: il colle elevando il punto di osservazione dilata l’orizzonte, mentre la siepe lo riduce; eppure entrambi sono detti cari.
Chi conosce la poesia di Leopardi sa che la visione negata non perde di efficacia, anzi, ciò che i sensi non esauriscono ma percepiscono solo parzialmente eccita l’immaginazione molto più e più piacevolmente di una percezione interamente data. Come leggiamo in numerosissimi passi dello Zibaldone, l’estetica leopardiana ha in questa idea un cardine fondamentale. Proprio per la sua qualità di ostacolo alla vista, la siepe è detta cara.
Ma procediamo con la lettura del testo. La congiunzione avversativa Ma del quarto verso introduce proprio la giustificazione del contrasto prima delineato. Il poeta si pone dinanzi alla siepe nella inattività rilassata del corpo (sedendo) e nella concentrazione dello sguardo (mirare è verbo intensivo di vedere), cioè in atto contemplativo, nel quale lo schermo su cui si fissa l’occhio (la siepe) stimola la mente a vedere al di là di ciò che si vede: di là da quella (siepe) ... io nel pensier mi fingo. Occorre ricordare che il significato originario di fingere, qui usato da Leopardi, non è quello moderno di “fare finta”, “produrre apparenze non vere”, ma “costruire, dare forma (mentalmente)”. L’occhio vede la siepe, ma la mente sa che oltre c’è uno spazio immenso; il percorso del pensiero, però, non si arresta all’ultimo orizzonte visibile. Ciò che il pensiero può costruire nella mente va ben più lontano di qualche miglio di territorio collinare, ha a che fare con l’infinito, espresso con i tre sintagmi: interminati spazi, sovrumani silenzi, profondissima quiete. Il primo dei tre aggettivi dice l’assenza di un limite (in-terminati, senza termine). Il secondo rivela che l’immaginazione può rappresentarsi qualcosa che va oltre l’esperienza sensibile umana: il pensiero, proseguendo al di là dello spazio terrestre, entra in uno spazio sovrumano, disabitato dall’uomo, nel quale si perdono tutti i rumori e non resta che un silenzio, quale le orecchie non possono percepire. Il terzo sintagma pare ribadire il secondo, ma lo perfeziona dilatando la percezione uditiva (negativa) del silenzio a quiete, cioè a assenza di ogni moto e suggerendo, attraverso l’aggettivo superlativo, l’idea dello sprofondamento abissale. La mente umana è dunque capace di comprendere in sé l’infinito? Questo sembra essere l’interrogativo sotteso alla lirica. Il poeta, tuttavia, non sviluppa un’argomentazione teoretica, ma descrive un’esperienza: il pensiero può volare oltre i limiti dello spazio percepibile e immaginarsi l’interminabile, ma in quello spazio, che è poi uno stato dell’animo, il cuore umano prova una sensazione di smarrimento, che somiglia al terrore: ove per poco il cor non si spaura. Il poeta qui dice “cuore”, che è una parola comunissima e perfino banale nel linguaggio poetico, ma rispetto a “pensiero” indica una realtà più globale, che comprende non solo l’attività razionale e immaginativa, ma il complesso della coscienza; il cuore è metafora ancora efficace per significare tutto ciò che sta dentro l’uomo, che sta al di qua dei suoi sensi.
Esattamente a metà del testo, la lirica fa posto a un’altra specie di percezioni sensoriali e a una diversa esperienza di infinito. A fare da legame tra le due parti – con scelta poetica bellissima ed emozionante – sta il contrasto tra il silenzio sovrumano degli spazi fuori dai rumori terrestri e il vento che stormisce tra le piante. Queste piante, questa voce: di nuovo, come all’inizio della poesia, il poeta usa il dimostrativo, la parola che suppone la presenza fisica dell’oggetto tra chi parla e chi ascolta. Siamo tornati sulla terra, sul colle presso Recanati, in mezzo a percezioni sensoriali concrete e finite. Ma, come era avvenuto all’inizio a causa della visuale ostacolata, di nuovo è una percezione sensoriale, stavolta uditiva, a rilanciare il lavoro del pensiero, superando, si direbbe, lo spauramento del cuore: io quello / infinito silenzio a questa voce / vo comparando. In questo verso sta, a mio parere, il nòcciolo interpretativo della poesia. Il poeta si rappresenta nell’atto (è da notare il presente progressivo vo comparando, che dice il divenire dell’azione, il suo tentativo) di comparare quell’infinito silenzio (quello, s’intende, della precedente finzione immaginativa) con questa voce, quella del vento tra le fronde, cioè un rumore specifico e certamente finito. Ma si può comparare il silenzio con un rumore? e soprattutto, l’infinto con il finito? Che rapporto ci può mai essere tra realtà così evidentemente incommensurabili? Ritorneremo su questo problema dopo aver seguito ancora un po’ lo sviluppo della lirica.
La comparazione tra quello / infinito silenzio e questa voce produce in realtà uno slittamento del pensiero verso la dimensione temporale dell’infinito: l’eterno. La frase che va da metà del verso 11 a metà del verso 13 ricostruisce con una sintesi straordinaria e con meravigliosa suggestione poetica il percorso della mente. Le parole ripercorrono all’incontrario il percorso della mente, usando la rara figura retorica dell’ysteron-proteron, cioè dell’inversione del corso del tempo per cui ciò che viene dopo viene enunciato prima. Questa figura retorica è usata di solito per anticipare un effetto finale che si impone all’attenzione così rapidamente e con tale forza, che solo a posteriori il ragionamento può ricostruire, retrocedendo, la catena causale. Così, qui il poeta mette subito il punto d’arrivo: e mi sovvien l’eterno; poi viene il passato (le morte stagioni), il presente (la presente / e viva), e infine la sensazione uditiva che ha dato inizio al processo del pensiero (il suon di lei). Il suono del vento, dunque, sta a indicare l’attimo in cui l’io vive e i dati sensoriali da cui è avvolto. Mentre ciò che si vede (la siepe, ad esempio) occupa uno spazio e ha una relativa indipendenza dal tempo, i suoni sono impalpabili, privi di consistenza spaziale, totalmente affidati all’attimo in cui risuonano. Per questo, nella mente del poeta, il vento produce associazioni di tipo temporale. Se lo stormire delle foglie è il segno della stagione presente, l’immaginazione può ritornare alle stagioni che non sono più e retrocedere nel tempo senza limite, fino a concepire l’eternità, così come, nella prima metà del testo, l’immaginazione rivolta allo spazio aveva condotto a concepire l’infinito.
Dunque, dice il poeta, l’esperienza mentale dell’infinito (sia spaziale che temporale) sorge in noi a partire da dati sensoriali che non possono essere altro che finiti. Questo è il paradosso di cui ci parla L’infinito: noi conosciamo la realtà solo attraverso percezioni limitate, eppure il pensiero umano ha la capacità di procedere verso l’infinito.
Allora l’immensità che compare nel penultimo verso va intesa non semplicemente come sinonimo di infinito, ma etimologicamente come mancanza di misura, in-commensurabilità: non c’è misura tra l’esperienza sensibile di cui è fatta la nostra conoscenza e l’esperienza mentale, che pur facciamo, del progresso all’infinito. Di fronte a questa incommensurabilità il pensiero s’annega, verbo che, certo, si connette al naufragar del verso successivo, ma va anche letto di nuovo in senso etimologico: si nega. Il pensiero razionale è negato dal paradosso dell’infinito che nasce dal finito, smette di essere uno strumento utile di conoscenza; e tuttavia il naufragio della ragione nel mare della distanza tra il finito che conosciamo e l’infinito che concepiamo è la più dolce delle esperienze.
G.D.
Nello stesso periodo nel quale fu composto L’infinito, Leopardi leggeva i pensieri di Pascal (matematico e filosofo francese del ‘600), come risulta dalle annotazioni dello Zibaldone. I brani di Pascal che seguono forniscono interessanti riscontri sia concettuali che linguistici con la lirica leopardiana.
220 Quando considero la breve durata della mia vita, sommersa nell'eternità che la precede e la segue, il piccolo spazio che occupo e financo che vedo, inabissato nell'infinita immensità degli spazi che ignoro e che mi ignorano, io mi spavento e stupisco di trovarmi qui piuttosto che là, non essendoci nessuna ragione perché sia qui piuttosto che là, oggi piuttosto che domani. Chi mi ci ha messo? Per ordine e per opera di chi questo luogo e questo tempo furon destinati a me? (...)
222Il silenzio eterno di quegli spazi infiniti mi sgomenta.
223 Sproporzione dell'uomo'. (...) L'uomo contempli, dunque, la natura tutt'intera nella sua alta e piena maestà, allontanando lo sguardo dagli oggetti meschini che lo circondano. Miri quella luce sfolgorante, collocata come una lampada eterna a illuminare l'universo; la terra gli apparisca come un punto in confronto dell'immenso giro che quell'astro descrive, e lo riempia di stupore il fatto che questo stesso vasto giro è soltanto un tratto minutissimo in confronto di quello descritto dagli astri roteanti nel firmamento. E se, a questo punto, la nostra vista si arresterà, l'immaginazione vada oltre: si stancherà di concepire prima che la natura di offrirle materia. Tutto questo mondo visibile è solo un punto impercettibile nell'ampio seno della natura. Nessun'idea vi si approssima. Possiamo pur gonfiare le nostre concezioni di là dagli spazi immaginabili: in confronto della realtà delle cose, partoriamo solo atomi. E' una sfera infinita, il cui centro è in ogni dove e la circonferenza in nessun luogo. Infine, è il maggior segno sensibile dell'onnipotenza di Dio che la nostra immaginazione si perda in quel pensiero.
L'uomo, ritornato a sé, consideri quel che è in confronto a quel che esiste. Si veda come sperduto in questo remoto angolo della natura; e da quest'angusta prigione dove si trova, intendo dire l'universo, impari a stimare al giusto valore la terra, i reami, le città e se stesso. Che cos'è un uomo nell'infinito?
Ma per presentargli un altro prodigio altrettanto meraviglioso, cerchi, tra quel che conosce, le cose più minute. Un acaro gli offra, nella piccolezza del suo corpo, parti incomparabilmente più piccole: zampe con giunture, vene in queste zampe, sangue in queste vene, umori in queste vene, gocce in questi umori, vapori in queste gocce; e, suddividendo ancora queste ultime cose, esaurisca le sue forze in tali concezioni, sicché l'ultimo oggetto cui possa pervenire sia per ora quello del nostro ragionamento. Egli crederà forse che sia questa l'estrema minuzia della natura. Voglio mostrargli là dentro un nuovo abisso. Voglio raffigurargli non solo l'universo visibile, ma l'immensità naturale, che si può concepire nell'ambito di quello scorcio di atomo. Ci scorga un'infinità di universi, ciascuno dei quali avente il suo firmamento, i suoi pianeti, la sua terra, nelle stesse proporzioni del mondo visibile; e, in quella terra, animali e, infine, altri acari, nei quali ritroverà quel che ha scoperto nei primi. E, trovando via via negli altri le stesse cose, senza posa e senza fine, si perda in tali meraviglie, che fanno stupire con la loro piccolezza come le altre con la loro immensità. Invero, chi non sarà preso da stupore al pensiero che il nostro corpo, - che dianzi non era percepibile nell'universo, che a sua volta era impercettibile in seno al Tutto, - sia ora un colosso, un mondo, anzi un tutto rispetto al nulla, al quale non si può mai pervenire?
Chi si considererà in questa maniera sentirà sgomento di se stesso e, vedendosi sospeso, nella massa datagli dalla natura, tra i due abissi dell'infinito e del nulla, tremerà alla vista di tali meraviglie; e credo che, mutando la propria curiosità in ammirazione, sarà disposto a contemplarle in silenzio più che a indagarle con presunzione.
Perché, insomma, che cos'è l'uomo nella natura? Un nulla rispetto all'infinito, un tutto rispetto al nulla, qualcosa di mezzo tra il tutto e il nulla. Infinitamente lontano dalla comprensione di questi estremi, il termine delle cose e il loro principio restano per lui invincibilmente celati in un segreto imperscrutabile: ugualmente incapace d'intendere il nulla donde è tratto e l'infinito che lo inghiotte.
Che farà, dunque, se non scorgere qualche apparenza della zona mediana delle cose, in un'eterna disperazione di conoscerne il principio e il termine? Tutte le cose sono uscite dal nulla, e vanno sino all'infinito. Chi seguirà quei meravigliosi processi? Solo l'autore di quelle meraviglie le comprende; nessun altro lo può.
Per non aver considerato questi due infiniti, gli uomini si son vòlti temerariamente all'indagine della natura, come se avessero qualche proporzione con essa. E' strano che abbian voluto scoprire i principi delle cose, e giungere da questi sino a conoscere tutto, con una presunzione infinita come il loro oggetto: perché è certo che non si può concepire un tal disegno senza una presunzione o una capacità infinite, come la natura.
(...)
Impariamo, dunque, a conoscere le nostre capacità. Siamo qualche cosa e non siamo tutto. Quel tanto di essere che possediamo c'inibisce la conoscenza dei primi princìpi, che derivano dal nulla, e la pochezza del nostro essere ci preclude la vista dell'infinito.
Il nostro intelletto tiene nell'ordine delle cose intelligibili lo stesso posto che il nostro corpo nell'immensità della natura.
(...)
Tale la nostra effettiva condizione. Essa ci rende incapaci sia di conoscere con piena certezza come di ignorare in maniera assoluta. Noi voghiamo in un vasto mare, sospinti da un estremo all'altro, sempre incerti e fluttuanti. Ogni termine al quale pensiamo di ormeggiarci e di fissarci vacilla e ci lascia; e, se lo seguiamo, ci si sottrae, scorre via e fugge in un'eterna fuga. Nulla si ferma per noi. E' questo lo stato che ci è naturale e che, tuttavia, è più contrario alle nostre inclinazioni. Noi bruciamo dal desiderio di trovare un assetto stabile e un'ultima base sicura per edificarci una torre che s'innalzi all'infinito; ma ogni nostro fondamento scricchiola, e la terra si apre sino agli abissi.
Non cerchiamo, dunque, né sicurezza, né stabilità. La nostra ragione è sempre delusa dalla mutevolezza delle apparenze; nulla può fissare il finito tra i due infiniti che lo racchiudono e lo fuggono.
Quando avremo compreso ciò, credo che ce ne staremo tranquilli, ognuno nella condizione in cui la natura lo ha messo. Poiché lo stato mediano toccatoci in sorte rimane sempre distante dagli estremi, che importa avere un po' più di conoscenza delle cose? Chi ne ha di più, le guarderà un po' più dall'alto, ma resterà pur sempre infinitamente lontano dal termine: così come la durata della nostra vita resta infinitamente lontana dall'eternità, anche se si prolunghi di dieci anni.
Davanti a quegli infiniti, tutti i finiti sono eguali; e non vedo perché dobbiamo fermare l'immaginazione sull'uno piuttosto che sull'altro. Il semplice confronto che facciamo tra noi e il finito ci riesce penoso.
Se l'uomo cominciasse con lo studiare se stesso, capirebbe quant'è incapace di spingersi oltre. Come potrebbe una parte conoscere il tutto? Forse esso aspirerà a conoscere almeno le parti con cui ha qualche proporzione. Ma le parti del mondo sono tutte in tale rapporto e connessione reciproca che credo impossibile conoscere l'una senza l'altra e senza il tutto.
(...)
L'eternità delle cose in se stessa o in Dio deve anch'essa fare stupire la nostra breve durata. E l'immutabilità fissa e costante della natura, paragonata al continuo cangiamento che caratterizza il nostro essere, deve produrre lo stesso effetto.
XIII (1820)
Dolce e chiara è la notte e senza vento,
E queta sovra i tetti e in mezzo agli orti
Posa la luna, e di lontan rivela
Serena ogni montagna. O donna mia,
5 Già tace ogni sentiero, e pei balconi
Rara traluce la notturna lampa :
Tu dormi, che t'accolse agevol sonno
Nelle tue chete stanze; e non ti morde
Cura nessuna; e già non sai né pensi
10 Quanta piaga m'apristi in mezzo al petto.
Tu dormi: io questo ciel, che sì benigno
Appare in vista, a salutar m'affaccio,
E l'antica natura onnipossente,
Che mi fece all'affanno. A te la speme
15 Nego, mi disse , anche la speme; e d'altro
Non brillin gli occhi tuoi se non di pianto.
Questo dì fu solenne: or da' trastulli
Prendi riposo; e forse ti rimembra
In sogno a quanti oggi piacesti, e quanti
20 Piacquero a te: non io, non già, ch'io speri,
Al pensier ti ricorro. Intanto io chieggo
Quanto a viver mi resti, e qui per terra
Mi getto, e grido, e fremo. Oh giorni orrendi
In così verde etate! Ahi, per la via
25 Odo non lunge il solitario canto
Dell'artigian, che riede a tarda notte
Dopo i sollazzi, al suo povero ostello ;
E fieramente mi si stringe il core,
A pensar come tutto al mondo passa,
30 E quasi orma non lascia. Ecco è fuggito
Il dì festivo, ed al festivo il giorno
Volgar succede, e se ne porta il tempo
Ogni umano accidente. Or dov'è il suono
Di que' popoli antichi? or dov'è il grido
35 De' nostri avi famosi, e il grande impero
Di quella Roma, e l'armi, e il fragorio
Che n'andò per la terra e l'oceano?
Tutto è pace e silenzio, e tutto posa
Il mondo, e più di lor non si ragiona .
40 Nella mia prima età , quando s'aspetta
Bramosamente il dì festivo, or poscia
Ch'egli era spento , io doloroso, in veglia,
Premea le piume ; ed alla tarda notte
Un canto che s'udia per li sentieri
45 Lontanando morire a poco a poco ,
Già similmente mi stringeva il core.
O graziosa luna, io mi rammento
che, or volge l'anno , sovra questo colle
io venia pien d'angoscia a rimirarti:
e tu pendevi allor su quella selva
5 siccome or fai, che tutta la rischiari.
Ma nebuloso e tremulo dal pianto
che mi sorgea sul ciglio, alle mie luci
il tuo volto apparia, che travagliosa
era mia vita: ed è, né cangia stile,
10 O mia diletta luna. E pur mi giova
la ricordanza, e il noverar l'etate
del mio dolore. Oh come grato occorre
nel tempo giovanil, quando ancor lungo
la speme e breve ha la memoria il corso,
15 il rimembrar delle passate cose,
ancor che triste, e che l'affanno duri!
XXI (19-20 aprile 1828)
1 Silvia, rimembri ancora
2 Quel tempo della tua vita mortale,
3 Quando beltà splendea
4 Negli occhi tuoi ridenti e fuggitivi,
5 E tu, lieta e pensosa, il limitare
6 Di gioventù salivi?
7 Sonavan le quiete
8 Stanze, e le vie dintorno,
9 Al tuo perpetuo canto,
10 Allor che all'opre femminili intenta
11 Sedevi, assai contenta
12 Di quel vago avvenir che in mente avevi.
13 Era il maggio odoroso: e tu solevi
14 Così menare il giorno.
15 Io gli studi leggiadri
16 Talor lasciando e le sudate carte ,
17 Ove il tempo mio primo
18 E di me si spendea la miglior parte,
19 D'in su i veroni del paterno ostello
20 Porgea gli orecchi al suon della tua voce,
21 Ed alla man veloce
22 Che percorrea la faticosa tela .
23 Mirava il ciel sereno,
24 Le vie dorate e gli orti,
25 E quinci il mar da lungi, e quindi il monte.
26 Lingua mortal non dice
27 Quel ch'io sentiva in seno .
28 Che pensieri soavi,
29 Che speranze, che cori , o Silvia mia!
30 Quale allor ci apparia
31 La vita umana e il fato!
32 Quando sovviemmi di cotanta speme,
33 Un affetto mi preme
34 Acerbo e sconsolato,
35 E tornami a doler di mia sventura .
36 O natura, o natura,
37 Perché non rendi poi
38 Quel che prometti allor? perché di tanto
39 Inganni i figli tuoi?
Italo… padri?: Italiano coraggioso, perché non cessi di risvegliare i nostri antenati dalle loro tombe?
gli meni: li conduci.
Il tu che fa da soggetto della frase è la “voce antica de’ nostri” (padri).
risorgimenti: ritrovamenti di antichi testi.
certo… padri: non è certo senza l’alta volontà degli dei che il rinnovato grido dei padri riemerga di continuo a percuotere dove più pigro e pesante è il nostro oblio senza speranza.
pio: pietoso, misericordioso.
gloriosi: si riferisce agli eroi dimenticati.
non si toglie: non è nascosto.
al vostro sangue: per i vostri discendenti, frutto del vostro sangue.
Il poeta si rivolge di nuovo ad Angelo Mai.
non cale: non importa.
dira oblivione: funesta dimenticanza.
Oh tempi: tempi dell’Umanesimo.
immatura: lontana dall’adempiersi.
faville: scintille di valore e di ingegno.
Si rivolge a Dante, morto nel 1321 e quindi, nella prospettiva storica di Leopardi, nell’imminenza dei tempi umanistici.
averno: inferno. Il poeta pensa ai personaggi magnanimi che Dante incontra nella prima cantica della Divina Commedia.
Il poeta si rivolge a Francesco Petrarca, che amo Laura non ricambiato.
E pur…n’affoga: eppure pesa e lacera (morde) meno il male che addolora che il tedio che sommerge.
Cristoforo Colombo.
colonne: colonne d’Ercole, lo Stretto di Gibilterra.
Nelle Annotazioni a questa poesia Leopardi fornisce le testimonianze erudite «di questa fama anticamente divulgata, che in Ispagna e in Portogallo, quando il sole tramontava, s’udisse a stridere in mezzo al mare a guisa che fa un carbone o un ferro rovente che sia tuffato nell’acqua».
rotto… contrasto: demolito ogni ostacolo della natura.
ignota… rischi: un’immensa terra sconosciuta fu la gloriosa ricompensa al tuo viaggio e ai rischi del ritorno.
si scema: diminuisce, riduce le proprie dimensioni. Leopardi nelle Annotazioni: «dopo scoperta l’America, la terra ci par più piccola che non ci pareva prima».
etra: etere, aria, «l’elemento destinato al suono» (Leopardi, Elogio degli uccelli).
alma: feconda, generosa, materna.
giti: andati, participio passato del verbo “gire”, largamente usato in poesia.
ricetto: sito, luogo ospitale.
figurato… carta: il mondo è rappresentato in una piccola carta geografica.
Ludovico Ariosto, contemporaneo della scoperta dell’America e cantore delle armi e degli amori, secondo il famoso incipit dell’Orlando furioso.
in bando li cacciammo: abbiamo espulso (dalla nostra letteratura e dalla nostra mente) le belle fantasie.
Torquato Tasso, autore della Gerusalemme liberata.
Il poeta fa riferimento ai sentimenti maligni da cui Tasso si sentì sempre perseguitato nell’ambiente della corte estense.
Ombra… piaggia: il nulla ti parve realtà sostanziale e il mondo una plaga disabitata.
A Tasso fu offerta l’incoronazione poetica a Roma, da lui ambitissima, ma morì prima di poterla ricevere.
o quale…volta?: chi ti porgerebbe un’altra volta la corona d’alloro se (oggi) si dà retta più al calcolare che alla poesia?
Da te… petto: dopo di te, o sventurato ingegno, non è sorto nessun altro uomo pari alla nostra antica grandezza, fuorché uno solo, unico che fosse indegno di vivere in un’età così vile, il fiero piemontese (Vittorio Alfieri) al quale fu ispirata in cuore (venne nel petto) virile energia dal cielo (dal polo), non già da questa mia terra spenta e infeconda.
Vittorio Alfieri fu soprattutto autore di tragedie, nelle quali esaltava le virtù morali e civili degli eroi classici, spesso con intento fortemente critico verso i regimi tirannici a lui contemporanei.
turba: folla. Con il latinismo “turba” è qui espresso precisamente il concetto di massa, fondamentale nella sociologia contemporanea, che all’epoca di Leopardi non aveva ancora il termine codificato.
Il poeta torna in chiusura a rivolgersi a Angelo Mai.
ti cal: ti importa.
Io, non so come, non mi curo del divertimento e del riso, che sono i dolci compagni della giovane età, e nemmeno di te, amore, che sei fratello della giovinezza e doloroso rimpianto nei giorni maturi.
quasi… natio: come un solitario e straniero al luogo natale.
squilla: campana.
alla campagna: verso la campagna. Il sintagma composto da a + nome di luogo per indicare un rapporto spaziale indeterminato, è stilema amato da Leopardi.
indugio: rimando.
e intanto… monti: e intanto il sole mi colpisce lo sguardo disteso nell’aria serena, sole che tra i lontani monti…
Tu… vaghezza: tu, solitario uccellino, giunto al termine (a sera) che il destino (le stelle) darà alla tua vita, di certo non compiangerai il tuo stile di esistenza, perché ogni vostro desiderio è frutto di natura.
A me…voglia?: a me, se non ottengo (impetro) di evitare la detestata soglia della vecchiaia, quando questi (miei) occhi non diranno più nulla (saranno muti)al cuore altrui e il mondo sarà privo di interesse (vòto) ai miei occhi, e il giorno futuro sarà più noioso e tetro del giorno presente, che cosa penserò di tale scelta (quella della fuga da ogni compagnia descritta nella poesia)?
Interminati: senza termine, illimitati.
mi fingo: mi immagino, alla lettera, secondo l’etimologia latina, “costruisco” con la mente.
morte stagioni: le età trascorse, il passato.
lampa: arcaico per lampada.
cura: preoccupazione, pensiero (latinismo).
antica natura: compl. oggetto dipendente da a salutar m’affaccio.
Il soggetto sottinteso è l’antica natura onnipossente.
ti rimembra: ti ricordi.
chieggo: chiedo.
verde etade: giovane età.
ostello: casa, dimora. La parola mette in evidenza l’idea di luogo di rifugio.
giorno volgar: giorno comune, feriale, contrapposto a festivo.
posa: il verbo “posare” nel lessico leopardiano esprime la quiete, l’assenza di moto e di azione.
si ragiona: si parla.
prima età: infanzia.
or… spento: quando il giorno festivo era finito.
le piume: del letto.
un canto… a poco: si udiva un canto morire a poco a poco allontanandosi per i sentieri.
or volge l’anno: si compie un anno, l’anno ha compiuto tutto il suo giro.
Oh come il ricordo delle cose passate giunge gradito nell’età giovanile, quando il corso della speranza è ancora lungo e quello della memoria breve, anche quando il ricordo è triste e il dolore si prolunga nel presente.
il limitare… salivi: ti avviavi a oltrepassare la soglia della giovinezza.
vago: parola molto amata da Leopardi, mantiene entrambi i significati che ha nella lingua italiana: “bello” e “indefinito”.
sudate carte: faticose letture.
io… tela: io, tralasciando talvolta gli amati studi e le pagine difficili (che affaticano), sulle quali si consumava il primo tempo della mia vita e la parte migliore di me stesso, dai balconi (veroni) della dimora paterna porgevo orecchio al suono della tua voce e al (rumore della) tua mano che si muoveva nel lavoro della tessitura.
Lingua… seno: non si può dire in parole umane ciò che io sentivo nel cuore.
cori: cuori, sentimenti.
Quando… sventura: quando mi torna in mente quanto era grande quella speranza, mi opprime un sentimento crudele e disperato e ritorno ad addolorarmi per la mia sorte sventurata.
40 Tu pria che l'erbe inaridisse il verno,
41 Da chiuso morbo combattuta e vinta,
42 Perivi, o tenerella . E non vedevi
43 Il fior degli anni tuoi;
44 Non ti molceva il core
45 La dolce lode or delle negre chiome,
46 Or degli sguardi innamorati e schivi;
47 Né teco le compagne ai dì festivi
48 Ragionavan d'amore.
49 Anche peria fra poco
50 La speranza mia dolce: agli anni miei
51 Anche negaro i fati
52 La giovanezza. Ahi come,
53 Come passata sei ,
54 Cara compagna dell'età mia nova,
55 Mia lacrimata speme!
56 Questo è quel mondo? questi
57 I diletti, l'amor, l'opre, gli eventi
58 Onde cotanto ragionammo insieme?
59 Questa la sorte dell'umane genti?
60 All'apparir del vero
61 Tu, misera, cadesti: e con la mano
62 La fredda morte ed una tomba ignuda
63 Mostravi di lontano .
Analisi di A Silvia
Testo a struttura simmetrica e chiusa: dopo pochi versi introduttivi (vv. 1-6) che annunciano l'intento evocativo (secondo la poetica della rimembranza), due strofe rappresentano l'età delle speranze rispettivamente in Silvia giovinetta (vv. 7-14) e nel poeta (vv. 15-27); la strofa centrale (vv. 28-39), caratterizzata da una sintassi e da una retorica fortemente espressive (successione di esclamative e di interrogative, personificazione e antagonismo della natura), interrompe la rievocazione per riassumerne e spiegarne il senso; seguono altre due strofe che tornano a rappresentare Silvia (vv. 40-48) e il poeta (vv. 49-63) nella fase di morte delle speranze: negli ultimi versi (vv. 60-63) la figura di Silvia si confonde con l'allegoria, in un quadro che, venuto meno qualsivoglia elemento descrittivo o realistico, è tutto costruito su emblemi e astrazioni: la speranza che si allontana e l'apparire del vero, la mano che mostra e la tomba nuda. Le due vicende parallele esemplificano una verità filosofica: è proprio della natura umana sperare nella felicità, ma è inevitabile che tale speranza sia disattesa poiché la natura generale delle cose non è finalizzata alle aspettative degli individui. È questo, come sappiamo, uno dei temi di fondo del pensiero di Leopardi: è la «contraddizione spaventevole» che egli scopriva nell'esistenza (e che enunciava con estrema precisione in una pagina del 1825).
In questo canto la contraddizione non solo è dichiarata, in termini di discorso concettuale, nei versi di protesta contro la natura (vv. 36-38, «O natura, o natura, / perché non rendi poi / quel che prometti allor?») ma è espressa anche attraverso la struttura metaforica del linguaggio. Consideriamo la seconda parte del testo, dove giunge .a conclusione la parabola di Silvia: Silvia non arriva a vedere il fiore della sua vita, muore prima ancora che l'inverno dissecchi le erbe del prato. La metafora (di antica tradizione letteraria) del fiore (= giovinezza) qui sottolinea l'accostamento tra due ordini di esistenza, tra il corso della vita umana e il grande ciclo vegetativo; ma ne pone anche in luce uno sfasamento tragico e inspiegabile, poiché alla regolarità con cui si succedono le fasi naturali (primavera/inverno) si contrappone la vicenda interrotta dell'individuo il cui destino è di non realizzarsi neppure biologica mente (non fiorisce, è escluso dall'amore).
La contraddizione è dunque molteplice: tra le speranze e l'apparire del vero; tra la natura dell'uomo e i processi naturali e materiali di cui egli è parte; tra l'individuo e le specie, tra la sfera affettiva e quella biologica. In questa luce bisogna rileggere anche la prima parte del canto, dove si sviluppa l'analogia tra promesse della primavera e promesse (che non saranno mantenute) dell'adolescenza: la figura di Silvia rimanda fin dall'inizio a connotazioni funebri.
(da Il materiale e l’immaginario, 1986)
XXII (26 agosto – 12 settembre 1829)
1 Vaghe stelle dell'Orsa, io non credea
2 Tornare ancor per uso a contemplarvi
3 Sul paterno giardino scintillanti,
4 E ragionar con voi dalle finestre
5 Di questo albergo ove abitai fanciullo,
6 E delle gioie mie vidi la fine.
7 Quante immagini un tempo, e quante fole
8 Creommi nel pensier l'aspetto vostro
9 E delle luci a voi compagne! allora
10 Che, tacito, seduto in verde zolla,
11 Delle sere io solea passar gran parte
12 Mirando il cielo, ed ascoltando il canto
13 Della rana rimota alla campagna!
14 E la lucciola errava appo le siepi
15 E in su l'aiuole, susurrando al vento
16 I viali odorati, ed i cipressi
17 Là nella selva; e sotto al patrio tetto
18 Sonavan voci alterne, e le tranquille
19 Opre de' servi. E che pensieri immensi,
20 Che dolci sogni mi spirò la vista
21 Di quel lontano mar, quei monti azzurri,
22 Che di qua scopro, e che varcare un giorno
23 Io mi pensava, arcani mondi, arcana
24 Felicità fingendo al viver mio!
25 Ignaro del mio fato, e quante volte
26 Questa mia vita dolorosa e nuda
27 Volentier con la morte avrei cangiato.
28 Né mi diceva il cor che l'età verde
29 Sarei dannato a consumare in questo
30 Natio borgo selvaggio, intra una gente
31 Zotica, vil; cui nomi strani, e spesso
32 Argomento di riso e di trastullo,
33 Son dottrina e saper; che m'odia e fugge,
34 Per invidia non già, che non mi tiene
35 Maggior di sé, ma perché tale estima
36 Ch'io mi tenga in cor mio, sebben di fuori
37 A persona giammai non ne fo segno.
38 Qui passo gli anni, abbandonato, occulto,
39 Senz'amor, senza vita; ed aspro a forza
40 Tra lo stuol de' malevoli divengo:
41 Qui di pietà mi spoglio e di virtudi,
42 E sprezzator degli uomini mi rendo,
43 Per la greggia ch'ho appresso: e intanto vola
44 Il caro tempo giovanil; più caro
45 Che la fama e l'allor, più che la pura
46 Luce del giorno, e lo spirar: ti perdo
47 Senza un diletto, inutilmente, in questo
48 Soggiorno disumano, intra gli affanni,
49 O dell'arida vita unico fiore.
50 Viene il vento recando il suon dell'ora
51 Della torre del borgo. Era conforto
52 Questo suon, mi rimembra, alle mie notti,
53 Quando fanciullo, nella buia stanza,
54 Per assidui terrori io vigilava,
55 Sospirando il mattin. Qui non è cosa
56 Ch'io vegga o senta, onde un'immagin dentro
57 Non torni, e un dolce rimembrar non sorga.
58 Dolce per sé; ma con dolor sottentra
59 Il pensier del presente, un van desio
60 Del passato, ancor tristo, e il dire: io fui.
61 Quella loggia colà, volta agli estremi
62 Raggi del dì; queste dipinte mura,
63 Quei figurati armenti, e il Sol che nasce
64 Su romita campagna, agli ozi miei
65 Porser mille diletti allor che al fianco
66 M'era, parlando, il mio possente errore
67 Sempre, ov'io fossi. In queste sale antiche,
68 Al chiaror delle nevi, intorno a queste
69 Ampie finestre sibilando il vento,
70 Rimbombaro i sollazzi e le festose
71 Mie voci al tempo che l'acerbo, indegno
72 Mistero delle cose a noi si mostra
73 Pien di dolcezza; indelibata, intera
74 Il garzoncel, come inesperto amante,
75 La sua vita ingannevole vagheggia,
76 E celeste beltà fingendo ammira.
77 O speranze, speranze; ameni inganni
78 Della mia prima età! sempre, parlando,
79 Ritorno a voi; che per andar di tempo,
80 Per variar d'affetti e di pensieri,
81 Obbliarvi non so. Fantasmi, intendo,
82 Son la gloria e l'onor; diletti e beni
83 Mero desio; non ha la vita un frutto,
84 Inutile miseria. E sebben vòti
85 Son gli anni miei, sebben deserto, oscuro
86 Il mio stato mortal, poco mi toglie
87 La fortuna, ben veggo. Ahi, ma qualvolta
88 A voi ripenso, o mie speranze antiche,
89 Ed a quel caro immaginar mio primo;
90 Indi riguardo il viver mio sì vile
91 E sì dolente, e che la morte è quello
92 Che di cotanta speme oggi m'avanza;
93 Sento serrarmi il cor, sento ch'al tutto
94 Consolarmi non so del mio destino.
95 E quando pur questa invocata morte
96 Sarammi allato, e sarà giunto il fine
97 Della sventura mia; quando la terra
98 Mi fia straniera valle, e dal mio sguardo
99 Fuggirà l'avvenir; di voi per certo
100 risovverrammi; e quell'imago ancora
101 Sospirar mi farà, farammi acerbo
102 L'esser vissuto indarno, e la dolcezza
103 Del dì fatal tempererà d'affanno.
104 E già nel primo giovanil tumulto
105 Di contenti, d'angosce e di desio,
106 Morte chiamai più volte, e lungamente
107 Mi sedetti colà su la fontana
108 Pensoso di cessar dentro quell'acque
109 La speme e il dolor mio. Poscia, per cieco
110 Malor, condotto della vita in forse,
111 Piansi la bella giovanezza, e il fiore
112 De' miei poveri dì, che sì per tempo
113 Cadeva: e spesso all'ore tarde, assiso
114 Sul conscio letto, dolorosamente
115 Alla fioca lucerna poetando,
116 Lamentai co' silenzi e con la notte
117 Il fuggitivo spirto, ed a me stesso
118 In sul languir cantai funereo canto.
119 Chi rimembrar vi può senza sospiri,
120 O primo entrar di giovinezza, o giorni
121 Vezzosi, inenarrabili, allor quando
122 Al rapito mortal primieramente
123 Sorridon le donzelle; a gara intorno
124 Ogni cosa sorride; invidia tace,
125 Non desta ancora ovver benigna; e quasi
126 (inusitata maraviglia!) il mondo
127 La destra soccorrevole gli porge,
128 Scusa gli errori suoi, festeggia il novo
129 Suo venir nella vita, ed inchinando
130 Mostra che per signor l'accolga e chiami?
131 Fugaci giorni! a somigliar d'un lampo
132 Son dileguati. E qual mortale ignaro
133 Di sventura esser può, se a lui già scorsa
134 Quella vaga stagion, se il suo buon tempo,
135 Se giovanezza, ahi giovanezza, è spenta?
136 O Nerina! e di te forse non odo
137 Questi luoghi parlar? caduta forse
138 Dal mio pensier sei tu? Dove sei gita,
139 Che qui sola di te la ricordanza
140 Trovo, dolcezza mia? Più non ti vede
141 Questa Terra natal: quella finestra,
142 Ond'eri usata favellarmi, ed onde
143 Mesto riluce delle stelle il raggio,
144 È deserta. Ove sei, che più non odo
145 La tua voce sonar, siccome un giorno,
146 Quando soleva ogni lontano accento
147 Del labbro tuo, ch'a me giungesse, il volto
148 Scolorarmi? Altro tempo. I giorni tuoi
149 Furo, mio dolce amor. Passasti. Ad altri
150 Il passar per la terra oggi è sortito,
151 E l'abitar questi odorati colli.
152 Ma rapida passasti; e come un sogno
153 Fu la tua vita. Iva danzando; in fronte
154 La gioia ti splendea, splendea negli occhi
155 Quel confidente immaginar, quel lume
156 Di gioventù, quando spegneali il fato,
157 E giacevi. Ahi Nerina! In cor mi regna
158 L'antico amor. Se a feste anco talvolta,
159 Se a radunanze io movo, infra me stesso
160 Dico: o Nerina, a radunanze, a feste
161 Tu non ti acconci più, tu più non movi.
162 Se torna maggio, e ramoscelli e suoni
163 Van gli amanti recando alle fanciulle,
164 Dico: Nerina mia, per te non torna
165 Primavera giammai, non torna amore.
166 Ogni giorno sereno, ogni fiorita
167 Piaggia ch'io miro, ogni goder ch'io sento,
168 Dico: Nerina or più non gode; i campi,
169 L'aria non mira. Ahi tu passasti, eterno
170 Sospiro mio: passasti: e fia compagna
171 D'ogni mio vago immaginar, di tutti
172 I miei teneri sensi, i tristi e cari
173 Moti del cor, la rimembranza acerba.
XXIII (22 ottobre 1829 – 9 aprile 1830)
1Che fai tu, luna, in ciel? dimmi, che fai,
2 Silenziosa luna?
3 Sorgi la sera, e vai,
4 Contemplando i deserti; indi ti posi .
5 Ancor non sei tu paga
6 Di riandare i sempiterni calli?
7 Ancor non prendi a schivo , ancor sei vaga
8 Di mirar queste valli?
9 Somiglia alla tua vita
10 La vita del pastore.
11 Sorge in sul primo albore;
12 Move la greggia oltre pel campo, e vede
13 Greggi, fontane ed erbe;
14 Poi stanco si riposa in su la sera:
15 Altro mai non ispera.
16 Dimmi, o luna: a che vale
17 Al pastor la sua vita,
18 La vostra vita a voi ? dimmi: ove tende
19 Questo vagar mio breve,
20 Il tuo corso immortale?
21 Vecchierel bianco, infermo,
22 Mezzo vestito e scalzo,
23 Con gravissimo fascio in su le spalle,
24 Per montagna e per valle,
25 Per sassi acuti, ed alta rena , e fratte ,
26 Al vento, alla tempesta, e quando avvampa
27 L'ora, e quando poi gela,
28 Corre via, corre, anela,
29 Varca torrenti e stagni,
30 Cade, risorge, e più e più s'affretta,
31 Senza posa o ristoro,
32 Lacero, sanguinoso; infin ch'arriva
33 Colà dove la via
34 E dove il tanto affaticar fu volto:
35 Abisso orrido, immenso,
36 Ov'ei precipitando, il tutto obblia.
37 Vergine luna, tale
38 È la vita mortale.
39 Nasce l'uomo a fatica,
40 Ed è rischio di morte il nascimento.
41 Prova pena e tormento
42 Per prima cosa; e in sul principio stesso
43 La madre e il genitore
44 Il prende a consolar dell'esser nato.
45 Poi che crescendo viene,
46 L'uno e l'altro il sostiene, e via pur sempre
47 Con atti e con parole
48 Studiasi fargli core ,
49 E consolarlo dell'umano stato:
50 Altro ufficio più grato
51 Non si fa da parenti alla lor prole.
52 Ma perché dare al sole,
53 Perché reggere in vita
54 Chi poi di quella consolar convenga?
55 Se la vita è sventura
56 Perché da noi si dura?
57 Intatta luna, tale
58 È lo stato mortale.
59 Ma tu mortal non sei,
60 E forse del mio dir poco ti cale .
61 Pur tu, solinga, eterna peregrina,
62 Che sì pensosa sei, tu forse intendi,
63 Questo viver terreno,
64 Il patir nostro, il sospirar, che sia;
65 Che sia questo morir, questo supremo
66 Scolorar del sembiante ,
67 E perir dalla terra , e venir meno
68 Ad ogni usata, amante compagnia.
69 E tu certo comprendi
70 Il perché delle cose, e vedi il frutto
71 Del mattin, della sera,
72 Del tacito, infinito andar del tempo.
73 Tu sai, tu certo, a qual suo dolce amore
74 Rida la primavera,
75 A chi giovi l'ardore, e che procacci
76 Il verno co' suoi ghiacci .
77 Mille cose sai tu, mille discopri,
78 Che son celate al semplice pastore.
79 Spesso quand'io ti miro
80 Star così muta in sul deserto piano,
81 Che, in suo giro lontano, al ciel confina;
82 Ovver con la mia greggia
83 Seguirmi viaggiando a mano a mano;
84 E quando miro in cielo arder le stelle;
85 Dico fra me pensando:
86 A che tante facelle ?
87 Che fa l'aria infinita, e quel profondo
88 Infinito seren ? che vuol dir questa
89 Solitudine immensa? ed io che sono?
90 Così meco ragiono: e della stanza
91 Smisurata e superba,
92 E dell'innumerabile famiglia ;
93 Poi di tanto adoprar, di tanti moti
94 D'ogni celeste, ogni terrena cosa,
95 Girando senza posa,
96 Per tornar sempre là donde son mosse;
97 Uso alcuno, alcun frutto
98 Indovinar non so. Ma tu per certo,
99 Giovinetta immortal, conosci il tutto.
100 Questo io conosco e sento,
101 Che degli eterni giri,
102 Che dell'esser mio frale ,
103 Qualche bene o contento
104 Avrà fors'altri; a me la vita è male.
105 O greggia mia che posi, oh te beata,
106 Che la miseria tua, credo, non sai!
107 Quanta invidia ti porto!
108 Non sol perché d'affanno
109 Quasi libera vai;
110 Ch'ogni stento, ogni danno,
111 Ogni estremo timor subito scordi;
112 Ma più perché giammai tedio non provi.
113 Quando tu siedi all'ombra, sovra l'erbe,
114 Tu se' queta e contenta;
115 E gran parte dell'anno
116 Senza noia consumi in quello stato.
117 Ed io pur seggo sovra l'erbe, all'ombra,
118 E un fastidio m'ingombra
119 La mente, ed uno spron quasi mi punge
120 Sì che, sedendo, più che mai son lunge
121 Da trovar pace o loco .
122 E pur nulla non bramo ,
123 E non ho fino a qui cagion di pianto.
124 Quel che tu goda o quanto,
125 Non so già dir; ma fortunata sei.
126 Ed io godo ancor poco,
127 O greggia mia, né di ciò sol mi lagno.
128 Se tu parlar sapessi, io chiederei:
129 Dimmi: perché giacendo
130 A bell'agio, ozioso,
131 S'appaga ogni animale;
132 Me, s'io giaccio in riposo, il tedio assale?
133 Forse s'avess'io l'ale
134 Da volar su le nubi,
135 E noverar le stelle ad una ad una,
136 O come il tuono errar di giogo in giogo ,
137 Più felice sarei, dolce mia greggia,
138 Più felice sarei, candida luna.
139 O forse erra dal vero ,
140 Mirando all'altrui sorte, il mio pensiero:
141 Forse in qual forma, in quale
142 Stato che sia, dentro covile o cuna ,
143 È funesto a chi nasce il dì natale.
XXIV (17-20 settembre 1829)
1Passata è la tempesta:
2 Odo augelli far festa, e la gallina,
3 Tornata in su la via,
4 Che ripete il suo verso. Ecco il sereno
5 Rompe là da ponente, alla montagna ;
6 Sgombrasi la campagna,
7 E chiaro nella valle il fiume appare.
8 Ogni cor si rallegra, in ogni lato
9 Risorge il romorio
10 Torna il lavoro usato.
11 L'artigiano a mirar l'umido cielo,
12 Con l'opra in man , cantando,
13 Fassi in su l'uscio; a prova
14 Vien fuor la femminetta a còr dell'acqua
15 Della novella piova;
16 E l'erbaiuol rinnova
17 Di sentiero in sentiero
18 Il grido giornaliero.
19 Ecco il Sol che ritorna, ecco sorride
20 Per li poggi e le ville. Apre i balconi,
21 Apre terrazzi e logge la famiglia :
22 E, dalla via corrente, odi lontano
23 Tintinnio di sonagli; il carro stride
24 Del passeggier che il suo cammin ripiglia.
25 Si rallegra ogni core.
26 Sì dolce, sì gradita
27 Quand'è, com'or, la vita?
28 Quando con tanto amore
29 L'uomo a' suoi studi intende?
30 O torna all'opre? o cosa nova imprende?
31 Quando de' mali suoi men si ricorda?
32 Piacer figlio d'affanno;
33 Gioia vana, ch'è frutto
34 Del passato timore, onde si scosse
35 E paventò la morte
36 Chi la vita abborria ;
37 Onde in lungo tormento,
38 Fredde, tacite, smorte,
39 Sudàr le genti e palpitàr, vedendo
40 Mossi alle nostre offese
41 Folgori, nembi e vento .
42 O natura cortese,
43 Son questi i doni tuoi,
44 Questi i diletti sono
45 Che tu porgi ai mortali. Uscir di pena
46 È diletto fra noi.
47 Pene tu spargi a larga mano; il duolo
48 Spontaneo sorge e di piacer, quel tanto
49 Che per mostro e miracolo talvolta
50 Nasce d'affanno, è gran guadagno. Umana
51 Prole cara agli eterni! assai felice
52 Se respirar ti lice
53 D'alcun dolor: beata
54 Se te d'ogni dolor morte risana .
Analisi di La quiete dopo la tempesta
La base concettuale è data dalla «teoria del piacere»: il piacere ha un'essenza soltanto negativa, poiché consiste o nel sollievo che si prova al cessare del dolore o nell'aspettativa del futuro. La Quiete rappresenta in forma di apologo il primo dei due casi (il secondo è invece esemplificato secondo uno schema assai simile nell'altro canto, composto da Leopardi pressappoco negli stessi giorni, Il sabato del villaggio).
La composizione si articola in una prima ampia strofa (vv. 1-24) in cui si descrive la vita del borgo che torna alle opere consuete; in una parte centrale (vv. 25-31), costruita su una successione di interrogative, che segna il passaggio dall'esempio specifico e minimo (il temporale in campagna) al discorso generale, dove la tempesta diventa metafora dei pericoli ben più vasti e straordinari che periodicamente minacciano gli uomini; in un'ultima parte (vv. 32-54, con inizio quindi all'interno della seconda strofa) di enunciati perentori che rivelano la verità filosofica, smascherando con un brusco effetto di contrasto (v. 32, «Piacer figlio d'affanno ») la serenità delle immagini d'apertura; sono ironici i versi conclusivi (vv. 42-54) che contengono l'apostrofe diretta alla natura.
Per l'interpretazione di questo canto (e del Sabato che gli è simile) alcuni suggerimenti interessanti si possono trarre da uno studio di G. Lonardi , che ha riconosciuto e analizzato la presenza di varie fonti greche: presenza sorprendente in un testo che sembrerebbe nascere semplicemente dall'osservazione di una realtà familiare. Sono possibili invece riscontri precisi con Omero (Iliade, VIII, vv. 555-59 ; XVI, vv. 297-300 ) da cui viene per esempio l'immagine del cielo nuvoloso che si «rompe», con Arato, autore nel IV-Il I secolo a. C. dei Phaenomena in cui è tratto tipico l'alternarsi dello stile descrittivo e della riflessione amara (per la tempesta si veda in particolare v. 988 e seguenti) e anche con un frammento dell'Ecate di Callimaco. Leopardi rappresentò la quotidianità di Recanati avendo in mente quei poeti che egli giudicava ancora «primitivi» e «naturali». Non è illegittimo, secondo Lonardi, supporre che nel mondo artigiano-contadino egli abbia in una certa misura trasferito il modello antico; che abbia visto l'erbaiuolo, la femminetta, il carrettiere come figure esemplari di un'umanità arcaica e semplice. Senonché, quando egli compone questi canti, non può più credere che la condizione di ignoranza, la non-problematicità, sia una condizione di felicità: o meglio, questa gli appare fragile e provvisoria, confinata nel breve momento che segue alla tempesta e ridotta per di più al solo e mediocre ritorno delle abitudini («torna il lavoro usato», v. 10). Leopardi finisce dunque per concedere anche agli «ignoranti» il triste privilegio dell'infelicità, ma non si assegna, né assegna ad altri, un «compito» verso di loro. «Forse è lo stesso dire che non si definisce costituzionalmente diverso, ma solo, in quel punto, fornito di una coscienza che le creature che osserva non hanno».
(da Il materiale e l’immaginario, 1986)
XXV (settembre 1829)
1La donzelletta vien dalla campagna,
2 In sul calar del sole,
3 Col suo fascio dell'erba; e reca in mano
4 Un mazzolin di rose e di viole,
5 Onde, siccome suole,
6 Ornare ella si appresta
7 Dimani, al dì di festa, il petto e il crine .
8 Siede con le vicine
9 Su la scala a filar la vecchierella,
10 Incontro là dove si perde il giorno ;
11 E novellando vien del suo buon tempo ,
12 Quando ai dì della festa ella si ornava,
13 Ed ancor sana e snella
14 Solea danzar la sera intra di quei
15 Ch'ebbe compagni dell'età più bella.
16 Già tutta l'aria imbruna,
17 Torna azzurro il sereno , e tornan l'ombre
18 Giù da' colli e da' tetti,
19 Al biancheggiar della recente luna.
20 Or la squilla dà segno
21 Della festa che viene;
22 Ed a quel suon diresti
23 Che il cor si riconforta.
24 I fanciulli gridando
25 Su la piazzuola in frotta,
26 E qua e là saltando,
27 Fanno un lieto romore:
28 E intanto riede alla sua parca mensa,
29 Fischiando, il zappatore ,
30 E seco pensa al dì del suo riposo.
31 Poi quando intorno è spenta ogni altra face ,
32 E tutto l'altro tace,
33 Odi il martel picchiare, odi la sega
34 Del legnaiuol, che veglia
35 Nella chiusa bottega alla lucerna,
36 E s'affretta, e s'adopra
37 Di fornir l'opra anzi il chiarir dell'alba.
38 Questo di sette è il più gradito giorno,
39 Pien di speme e di gioia:
40 Diman tristezza e noia
41 Recheran l'ore, ed al travaglio usato
42 Ciascuno in suo pensier farà ritorno .
43 Garzoncello scherzoso ,
44 Cotesta età fiorita
45 È come un giorno d'allegrezza pieno,
46 Giorno chiaro, sereno,
47 Che precorre alla festa di tua vita .
48 Godi, fanciullo mio; stato soave,
49 Stagion lieta è cotesta.
50 Altro dirti non vo'; ma la tua festa
51 Ch'anco tardi a venir non ti sia grave .
XXVIII (maggio 1833?)
1 Or poserai per sempre,
2 Stanco mio cor. Perì l'inganno estremo,
3 Ch'eterno io mi credei . Perì. Ben sento,
4 In noi di cari inganni,
5 Non che la speme, il desiderio è spento .
6 Posa per sempre. Assai
7 Palpitasti. Non val cosa nessuna
8 I moti tuoi, né di sospiri è degna
9 La terra. Amaro e noia
10 La vita, altro mai nulla; e fango è il mondo.
11 T'acqueta omai. Dispera
12 L'ultima volta. Al gener nostro il fato
13 Non donò che il morire. Omai disprezza
14 Te, la natura, il brutto
15 Poter che, ascoso, a comun danno impera,
16 E l'infinita vanità del tutto .
Analisi di A se stesso
Il metro e l'impianto concettuale. Come risponda, ottimamente, a questo schema metrico lo svolgimento del pensiero, mostra anzi tutto il ritorno, all'inizio di ciascun gruppo, del medesimo motivo (vv. 1, 6, 11): «Or poserai per sempre...; Posa per sempre...; T'acqueta omai... ».
E il progressivo variar dei concetti, dall'uno all'altro dei tre gruppi, ogni volta s'irradia, conseguente, da quel fermo spunto iniziale.
1. Posa mio cuore. Perito oramai l'inganno estremo (l'inganno d'amore), chiusa è la via ad ogni speranza, ad ogni desiderio.
2. Posa mio cuore. Dopo tanto palpitare, chiaro è che nulla al mondo vale i palpiti di un cuore, e che la vita non offre se non duolo e tedio.
3. Posa mio cuore. Unico dono del destino all'uomo è la morte. La vita non gli può suggerir che disprezzo: anche per sé, anche per la natura, e per il male onnipossente, e per «l'infinita vanità del tutto».
«Infinita vanità del tutto»: colpisce la singolare potenza di questa formula finale, a cui il metro stesso, si noti, dà singolare risalto, riservandole, fuor del disegno normale, un apposito verso. Delle tre parti, infatti, di cui consta il canto, la terza ed ultima eccede di un verso la misura delle altre; e si tratta, appunto, dell'endecasillabo riservato alla formula finale.
Mobilità estrema degli elementi costruttivi. Non c'è quasi verso in questo canto che non sia sintatticamente spezzato. Maggiore del numero dei versi è quello delle proposizioni. E di diciotto, quante esse sono, due sole sono subordinate (l'inganno « ch'eterno io mi credei »; il potere « che ascoso a comun danno impera »). Delle altre, due sole si legano, mediante congiunzione (v. 8 né, v. 10 e), alla proposizione precedente; le rimanenti son tutte autonome, senza alcun le game né di subordinazione, né di coordinazione. Brevissime, in genere: cinque se ne contano nei primi tre versi, dieci dal sesto al tredicesimo. La più lunga è l'ultima (vv. 13-16); ma è interrotta da una subordinata (v. 15), ed è spezzata inoltre dalla presenza di quattro allineati accusativi («te, la natura, il brutto poter [che ecc.], e l'infinita vanità del tutto» ).
Frequenti, conseguentemente, sono le pause; le più pesanti (undici) segnate da punti; e meritano un particolare rilievo le due che delimitano, prima e dopo, nel corso del terzo verso, una parola sola: «.Peri.» Tra le pause maggiori s'intercalano poi, non meno numerose, le pause minori (minori, ma sensibili), segnate da virgole. Una anzi, alla fine del v. lO, è segnata da un punto e virgola, dove l'interpunzione vuole palesemente rovesciar la funzione, che normalmente è d'avvicinamento, della copulativa e (... «altro mai nulla; e fango è il mondo»).
Due proposizioni, che hanno il soggetto in comune, mancano di verbo («Amaro e noia la vita, altro mai nulla»). Un verbo, invece, costituisce da solo un'altra proposizione («Perì»). Altrove il verbo si presenta con la semplice scorta di un avverbio, o di una locuzione avverbiale («Ben sento», «Posa per sempre », «Assai palpitasti», «T'acqueta omai», «Dispera l'ultima volta»). Pochi sono gli aggettivi: il primo suona, sconsolato, nell'unico vocativo di tutto il canto («stanco mio cor»); due altri, allitterati e assonanti («estremo», «eterno»),sorgono a fissare i due tempi del fatale «inganno»; due altri, entrambi in posizione di rilievo, il primo martellato dalla rima («brutto»), il secondo isolato dalle pause («ascoso»), vengono a caratterizzare il potere, 1'«arcana malvagità», che governa il mondo; l'ultimo («infinita») s'allunga lento ad abbracciare l'universale vanità: tutti, fuor d'ogni compiacimento ornativo, accusano la necessità della loro presenza. Ma il discorso, essenzialmente, è fatto di verbi e di sostantivi. Dei verbi qualcuno si ripete («poserai» - «posa»; «perì» - «perì»), altri ripetono il medesimo movimento (e son gli imperativi «posa», «t'acqueta», «dispera», «disprezza»). Prevalgono tuttavia i sostantivi, quantitativamente e qualitativamente. Tra loro uno solo si ripete, ed è, più che ripetizione, contrapposizione tra il singolo «estremo inganno», non ancor placato nel ricordo, e i generici «cari inganni», che la memoria ha già riscattati: gli «ameni inganni» della « prima età» . Del resto quasi tutti i sostantivi son ricchi di espressività, anche quelli che stanno, abbinati, a distinguere concetti affini («speme» e «desiderio», «moti» e «sospiri»); ma quelli specialmente che, dal «nulla» al «tutto», designano gli aspetti essenziali delle cose: «terra», «mondo», «natura», «vita», morte, «fato». Su loro batte, forte, a volta a volta l'accento. E vibra in quell'accento il disprezzo, che in altri sostantivi, con altrettanta forza, apertamente si svela: «noia», «fango».
Notevole il numero dei sostantivi; notevole anche il fatto che aggettivi, pronomi e verbi si trasformino talora in sostantivi (l'«amaro», il «morire», il «tutto»). Più notevole, comunque, è che, in genere, ciascuno di quei tanti sostantivi attiri di per sé, su di sé, con l'aiuto delle sapienti pause, il pensiero. Di qui ciò che già si è notato: il gran numero delle proposizioni e la continua spezzatura dei versi. Raro avviene che la frase sintattica coincida con la frase ritmica. E quel che i francesi chiamano enjambement (e che potrebbe ben tradursi con «accavallamento») domina da un capo all'altro di questo canto, come certo in nessun altro canto leopardiano.
(Angelo Monteverdi, Frammenti critici leopardiani, Napoli, Esi, 1967)
Angelo Monteverdi (Cremona, 1886 - Lavinio Lido di Enea, Roma, 1967) è stato docente di filologia romanza nelle università di Friburgo (1922), di Milano (1932), di Roma (1942-61); dal 1947 diresse con Aurelio Roncaglia la rivista «Cultura neolatina». Tra i suoi studi linguistici e di critica testuale, oltre che letterari, ricordiamo: Le origini e il Duecento, 1937; Saggi neolatini, 1945; Studi e saggi sulla letteratura italiana dei primi secoli, 1954; La poesia provenzale in Italia, 1956; Centoe Duecento, 1971, postumo; Manuale di avviamento agli studi romanzi, 1952; e l'interpretazione critica dei Canti leopardiani (Frammenti critici leopardiani, Napoli, Esi, 1967).
o il fiore del deserto
XXXIV (1836)
E gli uomini amarono più le tenebre che la luce.
Giovanni 3,19
Qui su l'arida schiena
del formidabil monte
sterminator Vesevo ,
la qual null'altro allegra arbor né fiore,
5 tuoi cespi solitari intorno spargi,
odorata ginestra,
contenta dei deserti. Anco ti vidi
de' tuoi steli abbellir l'erme contrade
che cingon la cittade
10 la qual fu donna de' mortali un tempo ,
e del perduto impero
par che col grave e taciturno aspetto
faccian fede e ricordo al passeggero.
Or ti riveggo in questo suol, di tristi
15 lochi e dal mondo abbandonati amante,
e d'afflitte fortune ognor compagna.
Questi campi cosparsi
di ceneri infeconde, e ricoperti
dell'impietrata lava,
20 che sotto i passi al peregrin risona;
dove s'annida e si contorce al sole
la serpe, e dove al noto
cavernoso covil torna il coniglio;
fur liete ville e colti,
25 e biondeggiàr di spiche, e risonaro
di muggito d'armenti;
fur giardini e palagi,
agli ozi de' potenti
gradito ospizio; e fur città famose
30 che coi torrenti suoi l'altero monte
dall'ignea bocca fulminando oppresse
con gli abitanti insieme. Or tutto intorno
una ruina involve,
dove tu siedi, o fior gentile, e quasi
35 i danni altrui commiserando, al cielo
di dolcissimo odor mandi un profumo,
che il deserto consola. A queste piagge
Venga a queste lande (piagge) colui
che è solito esaltare con lode
il nostro stato, e veda quanto
l'amante natura ha cura del nostro genere.
E qui potrà anche stimare
con giusta misura la potenza
dell'umanità (seme umano),
che (cui, compl. ogg.), quando meno ha timore,
la dura nutrice (= la natura), con un lieve moto, annienta in un momento in parte,
e può anche con moti poco meno lievi
distruggere (annichilare) del tutto all'improvviso.
Sono dipinte in questi pendii (rive)
"le magnifiche sorti e progressive"
dell'umanità.
Osserva (mira) qui e specchiati qui,
secolo superbo e sciocco,
che hai abbandonato la via (calle)
fino (insino) allora segnata avanzando (innanti)
dal pensiero risorto, e volti i passi all'indietro,
ti vanti dell'andare a ritroso (ritornar),
e lo chiami procedere.
Tutte le menti intelligenti (ingegni),
di cui la loro sorte crudele (rea) ti fece padre
(= che ebbero la sfortuna di nascere in questo secolo),
vanno adulando le tue idee infantili (pargoleggiar)
benché (ancor ch') tra sé talora
ti scherniscano (a ludibrio t'abbian).
Non io scenderò con una tale vergogna sotto terra;
ma piuttosto avrò mostrato
quanto più è possibile aperto il disprezzo
che si chiude (serra) nel mio petto per te:
benché io sappia che l'oblio opprime
chi ha infastidito (increbbe) troppo la propria epoca.
Fin da ora (finor) me ne rido assai di questo male,
che mi sarà comune a te
(= anche il secolo superbo e sciocco sarà obliato).
Vai sognando la libertà, e nello stesso tempo
vuoi di nuovo servo il pensiero,
per il quale soltanto risorgemmo in parte dalla barbarie,
e per il quale soltanto si cresce in civiltà, la quale sola guida verso il meglio i pubblici destini (fati).
A tal punto (così) ti dispiacque la verità
della sorte aspra e dell'infima condizione (depresso loco) che la natura ci diede.
Per questo vigliaccamente volgesti le spalle (il tergo)
al lume che lo fece palese: e, mentre fuggi (fuggitivo),
chiami vile chi lo segue, e nobile e grande (magnanimo)
solo colui che schernendo se stesso o gli altri,
astuto o folle, innalza (estolle) fin sopra gli astri
la condizione (il grado) dei mortali.
Un uomo povero e malato,
che sia generoso e alto di anima,
non si definisce (chiama) né si stima
ricco d'oro né gagliardo,
e non fa tra la gente
un'esibizione ridicola (risibil mostra)
di vita dispendiosa o di corpo vigoroso (valente persona);
ma si lascia apparire senza vergogna
e parlando si chiama (noma) apertamente
bisognoso (mendico) di forza e di denaro (tesor) ,
e delle sue cose dà un giudizio (fa stima) uguale al vero.
Qui mira e qui ti specchia,
secol superbo e sciocco,
che il calle insino allora
55 dal risorto pensier segnato innanti
abbandonasti, e volti addietro i passi,
del ritornar ti vanti,
e procedere il chiami.
Al tuo pargoleggiar gl'ingegni tutti,
60 di cui lor sorte rea padre ti fece,
vanno adulando, ancora
ch'a ludibrio talora
t'abbian fra sé. Non io
con tal vergogna scenderò sotterra;
65 ma il disprezzo piuttosto che si serra
di te nel petto mio,
mostrato avrò quanto si possa aperto:
ben ch'io sappia che obblio
preme chi troppo all'età propria increbbe.
70 di questo mal, che teco
mi fia comune, assai finor mi rido.
Libertà vai sognando, e servo a un tempo
vuoi di novo il pensiero,
sol per cui risorgemmo
75 della barbarie in parte, e per cui solo
si cresce in civiltà, che sola in meglio
guida i pubblici fati.
Così ti spiacque il vero
dell'aspra sorte e del depresso loco
80 che natura ci diè. Per questo il tergo
vigliaccamente rivolgesti al lume
che il fe palese: e, fuggitivo, appelli
vil chi lui segue, e solo
magnanimo colui
85 che se schernendo o gli altri, astuto o folle,
fin sopra gli astri il mortal grado estolle.
Uom di povero stato e membra inferme
che sia dell'alma generoso ed alto,
non chiama sé né stima
90 ricco d'or né gagliardo,
e di splendida vita o di valente
persona infra la gente
non fa risibil mostra;
ma se di forza e di tesor mendico
95 lascia parer senza vergogna, e noma
parlando, apertamente, e di sue cose
fa stima al vero uguale.
Magnanimo animale
Io non credo (che sia un) essere (animale)
nobile e grande (magnanimo), ma stolto,
quello che, nato per perire, nutrito di pene,
dice: "Sono fatto per godere",
e riempie le carte di fetido orgoglio,
promettendo in terra eccelsi fati
e straordinarie (nuove) felicità,
che non solo questo globo (orbe),
ma tutto il cielo ignora,
a popoli che un'onda di mare agitato (commosso),
un fiato di aria ammorbata (maligna),
un crollo sotterraneo distrugge così
che a gran pena sopravvive (avanza)
di loro la rimembranza.
Nobile natura è quella
che si ardisce a sollevare
gli occhi mortali contro al fato comune,
e che, con lingua franca,
senza togliere nulla al vero,
confessa il male che ci fu dato in sorte
e lo stato basso e fragile;
(nobile natura) è quella che si mostra
grande e forte nel soffrire,
e non aggiunge (accresce) alle sue miserie
gli odi e le ire verso altri uomini (fraterne),
ancor più gravi di ogni altro danno,
dando all'uomo la colpa del suo dolore,
ma dà la colpa a quella che veramente è colpevole (rea), che è madre per il parto,
ma per il volere è matrigna (la Natura).
Costei (l'uomo nobile) chiama nemica;
e pensando, poiché questa è la verità,
l'umana compagnia
congiunta e ordinata fin da principio (in pria)
contro di essa (natura), considera (estima)
tutti gli uomini alleati fra loro (fra se confederati),
e abbraccia tutti con vero amore,
porgendo ed aspettando valido aiuto (aita)
negli alterni pericoli e nelle angosce
della guerra comune. E crede stolto armare
la mano (destra) per offendere altri uomini
(alle offese dell'uomo) e porre lacci e inciampi al vicino,
così come sarebbe (stolto), in mezzo al campo (di
battaglia)
con la spada (brando) fra i propri guerrieri.
Quando così fatti pensieri saranno (fien) palesi
al popolo come già lo furono,
e quell'orrore che in origine (primo) strinse i mortali
in una catena sociale contro la malvagia (empia) natura
circondato dall'esercito nemico (oste contraria),
nel più violento (in sul più vivo) incalzare degli assalti,
dimenticando (obliando) i nemici,
intraprendere acri scontri (acerbe gare) con gli amici
e mettere in fuga e far strage (fulminar)
sarà riportato in parte
da un sapere veritiero (verace), l'onesta e retta
convivenza (conversar) dei cittadini
e giustizia e pietà avranno allora altra radice
che non superbe favole (fole),
fondata sulle quali (ove= dove) la probità del volgo
può stare in piedi quanto può starci
ciò che si fonda (ha la sede) sull'errore.
Sovente in queste rive,
che, desolate, a bruno
160 veste il flutto indurato , e par che ondeggi,
seggo la notte; e su la mesta landa
in purissimo azzurro
veggo dall'alto fiammeggiar le stelle,
cui di lontan fa specchio
165 il mare, e tutto di scintille in giro
per lo vòto seren brillare il mondo.
E poi che gli occhi a quelle luci appunto,
ch'a lor sembrano un punto,
e sono immense, in guisa
170 che un punto a petto a lor son terra e mare
veracemente ; a cui
l'uomo non pur, ma questo
globo ove l'uomo è nulla,
sconosciuto è del tutto ; e quando miro
175 quegli ancor più senz'alcun fin remoti
nodi quasi di stelle,
ch'a noi paion qual nebbia, a cui non l'uomo
e non la terra sol, ma tutte in uno,
del numero infinite e della mole,
180 con l'aureo sole insiem, le nostre stelle
o sono ignote, o così paion come
essi alla terra, un punto
di luce nebulosa ; al pensier mio
che sembri allora, o prole
185 dell'uomo? E rimembrando
il tuo stato quaggiù, di cui fa segno
il suol ch'io premo ; e poi dall'altra parte,
che te signora e fine
credi tu data al Tutto, e quante volte
190 favoleggiar ti piacque, in questo oscuro
granel di sabbia, il qual di terra ha nome,
per tua cagion, dell'universe cose
scender gli autori, e conversar sovente
co' tuoi piacevolmente , e che i derisi
195 sogni rinnovellando, ai saggi insulta
fin la presente età, che in conoscenza
ed in civil costume
sembra tutte avanzar ; qual moto allora,
mortal prole infelice, o qual pensiero
200 verso te finalmente il cor m'assale?
Non so se il riso o la pietà prevale.
Come d'arbor cadendo un picciol pomo,
cui là nel tardo autunno
maturità senz'altra forza atterra,
205 d'un popol di formiche i dolci alberghi ,
cavati in molle gleba
con gran lavoro, e l'opre
e le ricchezze che adunate a prova
con lungo affaticar l'assidua gente
210 avea provvidamente al tempo estivo,
schiaccia, diserta e copre
in un punto ; così d'alto piombando,
dall'utero tonante
scagliata al ciel profondo,
215 di ceneri e di pomici e di sassi
notte e ruina , infusa
di bollenti ruscelli
o pel montano fianco
furiosa tra l'erba
220 di liquefatti massi
e di metalli e d'infocata arena
scendendo immensa piena ,
le cittadi che il mar là su l'estremo
lido aspergea, confuse
225 e infranse e ricoperse
in pochi istanti: onde su quelle or pasce
la capra, e città nove
sorgon dall'altra banda, a cui sgabello
son le sepolte, e le prostrate mura
230 l'arduo monte al suo piè quasi calpesta.
Non ha natura al seme
dell'uom più stima o cura
che alla formica: e se più rara in quello
che nell'altra è la strage,
235 non avvien ciò d'altronde
fuor che l'uom sue prosapie ha men feconde .
Ben mille ed ottocento
anni varcàr poi che spariro, oppressi
dall'ignea forza, i popolati seggi,
240 e il villanello intento
ai vigneti, che a stento in questi campi
nutre la morta zolla e incenerita,
ancor leva lo sguardo
sospettoso alla vetta
245 fatal, che nulla mai fatta più mite
ancor siede tremenda, ancor minaccia
a lui strage ed ai figli ed agli averi
lor poverelli. E spesso
il meschino in sul tetto
250 dell'ostel villereccio, alla vagante
aura giacendo tutta notte insonne,
e balzando più volte, esplora il corso
dal temuto bollor , che si riversa
dall'inesausto grembo
255 su l'arenoso dorso, a cui riluce
di Capri la marina
e di Napoli il porto e Mergellina.
e se appressar lo vede , o se nel cupo
del domestico pozzo ode mai l'acqua
260 fervendo gorgogliar , desta i figliuoli,
desta la moglie in fretta, e via, con quanto
di lor cose rapir posson, fuggendo,
vede lontan l'usato
suo nido, e il picciol campo,
265 che gli fu dalla fame unico schermo,
preda al flutto rovente,
che crepitando giunge, e inesorato
durabilmente sovra quei si spiega.
Torna al celeste raggio
270 dopo l'antica obblivion l'estinta
Pompei, come sepolto
scheletro, cui di terra
avarizia o pietà rende all'aperto ;
e dal deserto foro
275 diritto infra le file
dei mozzi colonnati il peregrino
lunge contempla il bipartito giogo
e la cresta fumante ,
che alla sparsa ruina ancor minaccia.
280 E nell'orror della secreta notte
per li vacui teatri,
per li templi deformi e per le rotte
case, ove i parti il pipistrello asconde,
come sinistra face
285 che per vòti palagi atra s'aggiri,
corre il baglior della funerea lava,
che di lontan per l'ombre
rosseggia e i lochi intorno intorno tinge .
Così, dell'uomo ignara e dell'etadi
290 ch'ei chiama antiche, e del seguir che fanno
dopo gli avi i nepoti,
sta natura ognor verde, anzi procede
per sì lungo cammino
che sembra star. Caggiono i regni intanto,
295 passan genti e linguaggi: ella nol vede:
e l'uom d'eternità s'arroga il vanto.
E tu, lenta ginestra,
che di selve odorate
queste campagne dispogliate adorni,
300 anche tu presto alla crudel possanza
soccomberai del sotterraneo foco,
che ritornando al loco
già noto, stenderà l'avaro lembo
su tue molli foreste. E piegherai
305 sotto il fascio mortal non renitente
il tuo capo innocente:
ma non piegato insino allora indarno
codardamente supplicando innanzi
al futuro oppressor; ma non eretto
310 con forsennato orgoglio inver le stelle,
né sul deserto, dove
e la sede e i natali
non per voler ma per fortuna avesti;
ma più saggia, ma tanto
315 meno inferma dell'uom, quanto le frali
tue stirpi non credesti
o dal fato o da te fatte immortali.
Tu… tenerella: Tu, piccola e tenera Silvia, prima che l’inverno facesse ingiallire l’erba, morivi combattuta e vinta da una malattia nascosta nel tuo corpo.
non ti molceva… schivi: non ti lusingava la lode per i tuoi capelli neri o per i tuoi sguardi pieni d’amore e tuttavia pudichi.
Anche… poco: perì anche dopo poco tempo.
Da qui fino al termine il poeta non si rivolge più a Silvia, ma alla personificazione della speranza (mia lacrimata speme).
vero: è la comprensione della realtà delle cose – odiosa agli occhi del poeta – contrapposta alle felici speranze e alle amate illusioni che contraddistiguono i primi anni della vita umana.
Il “tu” a cui si rivolge il poeta è sempre la Speranza, alla quale non resta che additare la tomba. Rovesciando il proverbio classico secondo cui “finché c’è vita c’è speranza”, qui l’ultima e unica vera speranza è riposta nella morte.
ti posi: ti fermi. È la visione prescientifica del pastore asiatico che immagina l’esistere della luna come un’alternanza di cammino (quando il suo moto è visibile in cielo) e di riposo (quando tramonta).
Ancor… calli?: non sei ancora sazia di ripercorrere vie (calli) sempre uguali?
prendi a schivo: ti viene disgusto.
sei vaga: sei attratta, hai piacere.
a che vale: che valore ha, che senso ha.
a voi: agli astri del cielo.
rena: sabbia.
fratte: scoscendimenti coperti di macchie intricate di bosco.
studiasi… core: si preoccupano di fargli coraggio.
parenti: genitori (latinismo).
perché… dura?: perché noi la sopportiamo?
ti cale: ti importa.
scolorar del sembiante: impallidire del volto nella morte.
perir dalla terra: venir meno, scomparire dalla faccia della terra.
il frutto: lo scopo.
a chi giovi… ghiacci: a chi dia beneficio l’ardore estivo e che fine ottenga (procacci) l’inverno con i suoi ghiacci. Insomma, quale sia il senso dell’alternarsi delle stagioni.
facelle: fiammelle. Sono evidentemente le stelle.
seren: cielo.
stanza: spazio.
innumerabile famiglia: insieme innumerevole degli esseri prodotti dalla natura.
girando: che girano.
frale: fragile, effimero.
contento: gioia.
loco: quiete.
nulla non bramo: non desidero nulla.
noverar: contare.
di giogo in giogo: da un rilievo montuoso all’altro.
erra dal vero: si allontana dalla verità, si sbaglia.
dentro covile o cuna: in una tana o in una culla, nella condizione animale come in quella umana.
rompe: irrompe, squarcia le nubi.
alla montagna: il locativo introdotto dalla preposizione “a” è uno stilema largamente usato da Leopardi e ha il significato di riferimento spaziale indefinito: “dalla parte della montagna”, “verso la montagna”.
sgombrasi: si libera, la visuale ritorna limpida.
l’opra: l’oggetto del suo lavoro.
a prova: a gara, in fretta.
còr: raccogliere.
poggi: lievi colline.
la famiglia: la servitù.
Quando… intende?: in quale altro momento l’uomo attende alle sue occupazioni (studi, latinismo) con altrettanto amore?
gioia…aborria: gioia priva di reale contenuto, che è frutto del timore ormai superato, a causa del quale coloro che normalmente detestano (aborria) la vita si turbarono (si scosse) e temettero (paventò) la morte. Secondo la convinzione profonda di Leopardi gli uomini, tutti gli uomini, non possono far altro che aborrire la vita, eccetto che in particolari situazioni, come quella illustrata in questa poesia.
onde… vento: per la qual cosa le genti sudarono e tremarono (palpitar), vedendo le forze della natura (folgori, nembi e vento) mosse contro di noi.
mostro: prodigio, fenomeno straordinario (latinismo).
cara agli etereni!: cara alle divinità! Detto con ironia.
assai… risana: abbastanza fortunata se ti è lecito tirare fiato da qualcuno dei (consueti) dolori, ma veramente beata solo allorché la morte ti risana da ogni dolore.
G. Lonardi, Per un restauro classico della «Quiete dopo la tempesta », in Classicismo e utopia nella lirica leopardiana, Firenze, Olschki, 1969.
Vincenzo Monti, Traduzione dell'Iliade, VIII
Siccome quando in ciel tersa è la Luna,
e tremole e vezzose a lei dintorno
sfavillano le stelle, allor che l'aria
è senza vento, ed allo sguardo tutte
si scuoprono le torri e le foreste
e le cime de' monti; immenso e puro
l'etra si spande, gli astri tutti il volto
rivelano ridenti, e in cor ne gode
l'attonito pastor
Vincenzo Monti, Traduzione dell'Iliade, XVI
Siccome allor che dall'eccelsa vetta
di gran monte le nubi atre disgombra
il balenante Giove, appaion tutte
subitamente le vedette e gli alti
gioghi e le selve, e immenso s'apre il cielo:
così respinta l'ostil fiamma, aprissi
de' Dànai il core e respirò.
onde… crine: con il quale (mazzolino) ella si propone (appresta), l’indomani, giorno di festa, di ornare il petto e i capelli, come fa di solito.
incontro… giorno: rivolta verso il tramonto.
e novellando… tempo: e va raccontando dei suoi tempi giovanili.
torna… sereno: il cielo si schiarisce, da nero ritorna blu, al sorgere della luna.
squilla: campana.
riede… zappatore: il bracciante agricolo ritorna fischiettando alla sua povera mensa.
face: lume.
fornir: portare a termine.
al travaglio… ritorno: ognuno ritornerà col suo pensiero al solito lavoro.
Garzoncello scherzoso: ragazzino a cui piace divertirsi.
età fiorita: fanciullezza.
precorre: precede.
festa di tua vita: l’età adulta. Nel pensiero leopardiano, l’età adulta è sempre connotata negativamente; lo stesso avviene anche qui: essa è chiamata festa in analogia al dì di festa di cui si tratta in questa poesia, giorno atteso, ma in realtà pieno di tristezza e noia.
la tua festa… grave: non ti pesi se anche la tua età adulta (festa) tarda a venire.
poserai: ti quieterai.
Perì… credei: morì, finì anche l’estremo inganno – l’amore – che io avevo creduto eterno.
Ben… spento: mi accorgo bene che è spenta non solo la speranza, ma anche il desiderio degli inganni che (un tempo) mi erano stati cari.
Assai: a sufficienza, quanto basta.
Omai… tutto: ormai disprezza (imperativo, il cui soggetto è “tu, cuore”) te stesso, la natura, il brutto potere nascosto che domina a danno di tutti, e l’infinita inutilità e vuotezza di ogni cosa. L’ultima frase riecheggia il celebre ritornello del libro biblico di Qoelet: “Vanità delle vanità e tutto è vanità”.
ameni...età: le citazioni sono tratte dal canto di Leopardi Le ricordanze.
Vesevo: Vesuvio.
erme: solitarie
cittade… tempo: la città che un tempo fu dominatrice di tutti gli uomini: Roma.
afflitte fortune: grandezze decadute.
flutto indurato: i fiumi di lava delle antiche eruzioni.
La proposizione principale del lungo periodo (che termina al v. 185) è posta alla fine: al pensier mio che sembri allora, o prole dell’uomo?
E poi… veracemente: e quando poi fisso gli occhi a quelle stelle, che agli occhi sembrano un punto mentre invece sono immense, tanto che (in guisa che) rispetto a loro (a petto a lor) terra e mare sono veramente un punto.
a cui… tutto: alle quali (stelle) è sconosciuto del tutto non solo l’uomo, ma l’intero globo terrestre dove l’uomo è nulla.
e quando…nebulosa: e quando osservo quegli ammassi di stelle infinitamente lontani, che a noi sembrano un pulviscolo (nebbia), ai quali non solo l’uomo e la terra, ma tutte insieme le stelle che noi vediamo (le nostre stelle), infinite nel numero e nella grandezza, insieme all’aureo sole, o sono invisibili (ignoti) o si vedono come essi dalla terra, cioè un punto di luce nebulosa.
Di nuovo, la proposizione principale del periodo si trova alla fine: qual moto allora, / mortal prole infelice, o qual pensiero / verso te finalmente il cor m'assale?
di cui… premo: il suolo (lavico) che calpesto è il segno dello stato umano: condizione effimera e in balia della natura.
e quante volte… piacevolmente: e quante volte piacque all’umanità fantasticare che gli autori di tutte le cose (le divinità) scendessero su questo oscuro granello di sabbia che ha il nome di terra, a causa sua e conversassero piacevolmente con gli uomini.
e che i derisi… avanzar: e (rimembrando)che, rinnovando i sogni caduti nel ridicolo, perfino l’età attuale, che sembra sopravanzare tutte le altre in conoscenza e civiltà, insulta gli uomini saggi.
Periodo molto complesso, consistente in una similitudine: come un pomo cadendo da un albero devasta la città delle formiche, così il fiume di lava del vulcano distrusse la città degli uomini.
alberghi: dimore.
cavati… gleba: scavati nella terra soffice.
a prova: a gara. L’espressione, spesso usata da Leopardi, indica un movimento vivace di molti nello stesso atto e con lo stesso fine.
l’assidua gente: il popolo delle formiche.
schiaccia… punto: schiaccia, porta desolazione e seppellisce in un attimo. I tre verbi sono i reggenti la prima parte della similitudine; il soggetto dei tre verbi è picciol pomo.
utero tonante: ventre rimbombante del vulcano.
notte e ruina: sono i soggetti principali di tutta la seconda parte della similitudine; vanno collegati ai verbi reggenti confuse e infranse e ricoperse. Si deve intendere: tenebre e distruzione, provocata da cenere, pomici e sassi.
infusa… piena: mentre scendeva un’immensa piena, fluida di bollenti ruscelli o furiosa tra l’erba lungo il fianco della montagna, composta di rocce e metalli liquefatti e di sabbia infuocata.
le cittadi: complemento oggetto di confuse e infranse e ricoperse.
l’uom… feconde: l’uomo prolifica meno abbondantemente (delle formiche).
varcàr: passarono.
villanello: contadino.
E spesso…bollor: e spesso, il misero contadino, giacendo insonne tutta la notte sul tetto (a terrazza) della casa rurale, e balzando più volte, tiene d’occhio il flusso di magma.
inesausto grembo: cavità del vulcano, che sempre produce magma.
se appressar lo vede: se il contadino vede avvicinarsi il flusso lavico.
o se… gorgogliar: o se sente gorgogliare l’acqua nel profondo del pozzo di casa (perché per il calore si è messa a bollire).
Torna… aperto: torna alla luce del sole, dopo l’antica dimenticanza, la distrutta Pompei, come uno scheletro sepolto che la brama di tesori o la pietà riesumano dalla terra. Il poeta si riferisce agli scavi che, a partire dagli ultimi anni del XVIII secolo, cominciarono a restituire l’antica Pompei, per interessamento dei re di Napoli, desiderosi soprattutto di disseppellire opere d’arte e oggetti di pregio con cui arricchire le proprie collezioni.
dal deserto… fumante: il viaggiatore, dal foro deserto, in piedi (diritto) tra le file dei colonnati mozzati, contempla in lontananza la duplice cima e la cresta fumante (del Vesuvio).
E nell’orror… tinge: e nell’atmosfera spaventosa della notte profonda, corre il bagliore della lava portatrice di morte attraverso i teatri vuoti, i templi straziati e le case diroccate, dove il pipistrello nasconde i suoi piccoli, come una fiaccola funebre che si aggiri nera per i palazzi vuoti, che rosseggia di lontano in mezzo alle ombre e tinge di rosso i luoghi tutt’intorno.
lenta: flessuosa.
Fonte: https://quattrosecoli.files.wordpress.com/2012/07/leopardi-poesie.doc
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