Letteratura Giacomo Leopardi poesie

Letteratura Giacomo Leopardi poesie

 

 

 

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Letteratura Giacomo Leopardi poesie

IL SABATO DEL VILLAGGIO
La donzelletta vien dalla campagna,
In sul calar del sole,
Col suo fascio dell’erba; e reca in mano
Un mazzolin di rose e di viole,
Onde, siccome suole,
Ornare ella si appresta
Dimani, al dì di festa, il petto e il crine.
Siede con le vicine
Su la scala a filar la vecchierella
Incontro là dove si perde il giorno;
E novellando vien del suo buon tempo,
Quando ai dì della festa ella si ornava,
Ed ancor sana e snella
Solea danzar la sera intra di quei
Ch’ebbe compagni dell’età più bella.
Già tutta l’aria imbruna,
Torna azzurro il sereno, e tornan l’ombre
Giù da’ colli e da’ tetti,
Al biancheggiar della recente luna.
Or la squilla dà segno
Della festa che viene;
Ed a quel suon diresti
Che il cor si riconforta.
I fanciulli gridando
Su la piazzuola in frotta,

 

E qua e là saltando,
Fanno un lieto romore:
E intanto riede alla sua parca mensa,
Fischiando, il zappatore,
E seco pensa al dì del suo riposo.
Poi quando intorno è spenta ogni altra face,
E tutto l’altro,
Odi il martel picchiare, odi la sega
Del legnaiuol, che veglia
Nella chiusa bottega alla lucerna,
E s’affretta, e s’adopra
Di Fornir l’opra anzi il chiarir dell’alba.
Questo di sette è il più gradito giorno,
Pien di speme e di gioia:
Diman tristezza e noia
Recheran l’ore, ed al travaglio usato
Ciascuno in suo pensier farà ritorno.
Garzoncello scherzoso,
Cotesta età fiorita
E’ come un giorno d’allegrezza pieno,
Giorno chiaro, sereno,
Che percorre alla festa di tua vita.
Godi, fanciullo mio: stato soave,
Stagion lieta è cotesta.
Altro dirti non vò; ma la tua festa
Ch’anco tardi a venir non ti sia grave.

 

L’INFINITO
Sempre caro mi fu quest’ermo colle,
e questa siepe, che da tanta parte
dell’ultimo orizzonte il guardo esclude.
Ma sedendo e mirando, interminati
spazi di là da quella, e sovraumani
silenzi, e profondissima quiete
Io nel pensiero mi fingo; ove per poco
il cor non si spaura. E come il vento
odo stormir tra queste piante, io quello
infinito silenzio a questa voce
vo comparando: E mi sovvien l’eterno,
e le morte stagioni, e la presente
e viva, e il suon di lei. Così tra questa
immensità s’annega il pensier mio:
e il naufragar m’è dolce in questo mare.
( Giacomo Leopardi, 1819 )

 

ALLA LUNA
O graziosa luna, io mi rammento
che, or volge l’anno, sovra questo colle
io venia pien d’angoscia a rimirarti:
e tu pendevi allor su quella selva
siccome or fai, che tutta la rischiai.
Ma nebuloso e tremulo dal pianto
che mi sorgea sul ciglio, alla mie luci
il tuo volto apparia, ché travagliosa
era mia vita: ed è, né cangia stile,
o mia diletta luna. E pur mi giova
la ricordanza, e il noverar l’etate
del mio dolore. Oh come grato occorre
nel tempo giovanil, quando ancor lungo
la speme e breve ha la memoria il corso,
il rimembrar delle passate cose,
ancor che triste, e che l’affanno duri!
( Giacomo Leopardi, Idilli 1819 )

LA SERA DEL DI’ DI FESTA
Dolce e chiara è la notte e senza vento,
e questa sovra i tetti e in mezzo agli orti
posa la luna, e di lontan rivela
serena ogni montagna. O donna mia,
già tace ogni sentiero, e pei balconi
rara traluce la notturna lampa:
tu dormi, ché t’accolse agevol sonno
nelle tue chete stanze; e non ti morde
cura nessuna; e già non sai né pensi
quanta piaga m’apristi in mezzo al petto.
Tu dormi: io questo ciel, che sì benigno
appare in vista, a salutar m’affaccio,
e l’antica natura onnipossente,
che mi fece all’affanno. – A te la speme
nego, mi disse, anche la speme,; e d’altro
non brillin gli occhi tuoi se non di pianto.
Questo dì fu solenne; or da’ trastulli
prendi riposo; e forse ti rimembra
in sogno a quanti oggi piacesti, e quanti
piacquero a te: non io, non già ch’io speri,
al pensier ti ricorro. Intanto io chieggo
quanto a viver mi resti, e qui per terra
mi getto, e grido, e fremo. Oh giorni orrendi in così verde etate!

Ahi, per la via
odo non lunghe il solitario canto
dell’artigian, che riede a tarda notte,
dopo i sollazzi, al suo povero ostello;
e fieramente mi stringe il core,
a pensar come tutto al mondo passa,
e quasi orma non lascia. Ecco è fuggito
il dì festivo, ed al festivo il giorno
volgar succede, e se ne porta il tempo
ogni umano accidente. Or dov’è il suono
di que’ popoli antichi? Or dov’è il grido
de’ nostri avi famosi, e il grande impero
di quella Roma, e l’armi e il fragorìo
che n’andò per la terra e l’oceàno?
Tutto è pace e silenzio, e tutto posa
il mondo, e più di lor non si ragiona.
Nella mia prima età, quando s’aspetta
bramosamente il dì festivo, or poscia
ch’egli era spento, io doloroso, in veglia,
premea le piume; ed alla tarda notte
un canto che s’udia per li sentieri
lontanando morire a poco a poco
già similmente mi stringeva il core.
( Giacomo Leopardi,Idilli,1820 )

IL PASSERO SOLITARIO
D’in su la vetta della torre antica,
Passero solitario, alla campagna
Cantando vai finchè non more il giorno;
Ed erra l’armonia per questa valle.
Primavera dintorno
Brilla nell’aria, e per li campi esulta,
Sì ch’a mirarla intenerisce il core.
Odi greggi belar, muggire armenti;
Gli altri augelli contenti, a gara insieme
Per lo libero ciel fan mille giri,
Pur festeggiando il lor tempo migliore:
Tu pensoso in disparte il tutto miri,
Non compagni, non voli,
Non ti cal d’allegria, schivi gli spassi;
Canti, e così trapassi
Dell’anno e di tua vita il più bel fiore.
Oimè, quanto somiglia
Al tuo costume il mio! Sollazzo e riso,
Della novella età dolce famiglia,
E te german di giovinezza, amore,
Sospiro acerbo de’ provetti giorni,
Non curo, io non so come; anzi da loro
Quasi fuggo lontano;
Quasi romito, e strano
Al mio loco natio,
Passo del viver mio la primavera.
Questo giorno ch’omai cede alla sera,
Festeggiar si costuma al nostro borgo.
Odi per lo sereno un suon di squilla,

 

Odi spesso un tornar di ferree canne,
Che rimbomba lontan di villa in villa.
Tutta vestita a festa
La gioventù del loco
Lascia le case, e per le vie si spande;
E mira ed è mirata, e in cor s’allegra.
Io solitario in questa
Rimota parte alla campagna uscendo,
Ogni diletto e gioco
Indugio in altro tempo: e intanto il guardo
Steso nell’aria aprica
Mi fere il sol che tra lontani monti,
Dopo il giorno sereno,
Cadendo sì dilegua, e par che dica
Che la beata gioventù vien meno.
Tu, solingo augellin, venuto a sera
Del viver che daranno a te le stelle,
Certo del tuo costume
Non ti dorrai, che di natura è frutto
Ogni vostra vaghezza.
A me, se di vecchiezza
La detestata soglia
Evitar non impetro,
Quando muti questi occhi all’altrui core,
E lor fia voto il mondo, e il dì futuro
Del dì presente più noioso e tetro,
Che parrà di tal voglia?
Che di quest’ anni miei? che di me stesso?
Ahi pentirommi, e spesso,
Ma sconsolato, volgerommi indietro.

 

Alla luna

  O graziosa luna, io mi rammento 

che, or volge l'anno, sovra questo colle

io venia pien d'angoscia a rimirarti:

e tu pendevi allor su quella selva

siccome or fai, che tutta la rischiari.

Ma nebuloso e tremulo dal pianto

che mi sorgea sul ciglio, alle mie luci

il tuo volto apparia, che travagliosa

era mia vita: ed è, né cangia stile,

o mia diletta luna.  E pur mi giova  

la ricordanza, e il noverar l'etate

del mio dolore.  Oh come grato occorre

nel tempo giovanil, quando ancor lungo

la speme e breve ha la memoria il corso,

il rimembrar delle passate cose, 

ancor che triste, e che l'affanno duri!

 

La quiete dopo la tempesta

  Passata è la tempesta:

odo augelli far festa, e la gallina,

tornata in su la via,

che ripete il suo verso. Ecco il sereno

rompe là da ponente, alla montagna;

sgombrasi la campagna,

e chiaro nella valle il fiume appare.

Ogni cor si rallegra, in ogni lato

risorge il romorio

torna il lavoro usato. 

L'artigiano a mirar l'umido cielo,

con l'opra in man, cantando,

fassi in su l'uscio; a prova

vien fuor la femminetta a còr dell'acqua

della novella piova;

e l'erbaiuol rinnova

di sentiero in sentiero

il grido giornaliero.

Ecco il Sol che ritorna, ecco sorride

per li poggi e le ville. Apre i balconi,

apre terrazzi e logge la famiglia:

e dalla via corrente, odi lontano

tintinnio di sonagli; il carro stride

del passegger che il suo cammin ripiglia.

  Si rallegra ogni core.  

Sì dolce, sì gradita

quand'è, com'or, la vita?

Quando con tanto amore

l'uomo a' suoi studi intende?

O torna all'opre? o cosa nova imprende? 

Quando de' mali suoi men si ricorda?

Piacer figlio d'affanno;

gioia vana, ch'è frutto

del passato timore, onde si scosse

e paventò la morte

chi la vita abborria;

onde in lungo tormento,

fredde, tacite, smorte,

sudàr le genti e palpitàr, vedendo

mossi alle nostre offese

folgori, nembi e vento.

 

O natura cortese,

son questi i doni tuoi,

questi i diletti sono

che tu porgi ai mortali. Uscir di pena

è diletto fra noi.

Pene tu spargi a larga mano; il duolo

spontaneo sorge: e di piacer, quel tanto

che per mostro e miracolo talvolta

nasce d'affanno, è gran guadagno. Umana

prole cara agli eterni! assai felice

se respirar ti lice

d'alcun dolor: beata

se te d'ogni dolor morte risana.

 

 

IL PRIMO AMORE
Tornami a mente il dì che la battaglia
D'amor sentii la prima volta, e dissi:
Oimè, se quest'è amor, com'ei travaglia!

Che gli occhi al suol tuttora intenti e fissi,
Io mirava colei ch'a questo core
Primiera il varco ed innocente aprissi.

Ahi come mal mi governasti, amore!
Perchè seco dovea sì dolce affetto
Recar tanto desio, tanto dolore?

E non sereno, e non intero e schietto,
Anzi pien di travaglio e di lamento
Al cor mi discendea tanto diletto?

Dimmi, tenero core, or che spavento,
Che angoscia era la tua fra quel pensiero
Presso al qual t'era noia ogni contento?

Quel pensier che nel dì, che lusinghiero
Ti si offeriva nella notte, quando
Tutto queto parea nell'emisfero:

Tu inquieto, e felice e miserando,
M'affaticavi in su le piume il fianco,
Ad ogni or fortemente palpitando.

E dove io tristo ed affannato e stanco
Gli occhi al sonno chiudea, come per febre
Rotto e deliro il sonno venia manco.

Oh come viva in mezzo alle tenebre
Sorgea la dolce imago, e gli occhi chiusi
La contemplavan sotto alle palpebre!

Oh come soavissimi diffusi
Moti per l'ossa mi serpeano, oh come
Mille nell'alma instabili, confusi

Pensieri si volgean! qual tra le chiome
D'antica selva zefiro scorrendo,
Un lungo, incerto mormorar ne prome.

E mentre io taccio, e mentre io non contendo,
Che dicevi, o mio cor, che si partia
Quella per che penando ivi e battendo?

Il cuocer non più tosto io mi sentia
Della vampa d' amor, che il venticello
Che l'aleggiava, volossene via.

Senza sonno io giacea sul dì novello,
E i destrier che dovean farmi deserto,
Battean la zampa sotto al patrio ostello.

Ed io timido e cheto ed inesperto,
Ver lo balcone al buio protendea
L'orecchio avido e l'occhio indarno aperto,

La voce ad ascoltar, se ne dovea
Di quelle labbra uscir, ch'ultima fosse;
La voce, ch'altro il cielo, ahi, mi togliea.

Quante volte plebea voce percosse
Il dubitoso orecchio, e un gel mi prese,
E il core in forse a palpitar si mosse!

 

E poi che finalmente mi discese
La cara voce al core, e de' cavai
E delle rote il romorio s'intese;

Orbo rimaso allor, mi rannicchiai
Palpitando nel letto e, chiusi gli occhi,
Strinsi il cor con la mano, e sospirai.

Poscia traendo i tremuli ginocchi
Stupidamente per la muta stanza,
Ch'altro sarà, dicea, che il cor mi tocchi?

Amarissima allor la ricordanza
Locommisi nel petto, e mi serrava
Ad ogni voce il core, a ogni sembianza.

E lunga doglia il sen mi ricercava,
Com'è quando a distesa Olimpo piove
Malinconicamente e i campi lava.

Ned io ti conoscea, garzon di nove
E nove Soli, in questo a pianger nato
Quando facevi, amor, le prime prove.

Quando in ispregio ogni piacer, nè grato
M'era degli astri il riso, o dell'aurora
Queta il silenzio, o il verdeggiar del prato.

Anche di gloria amor taceami allora
Nel petto, cui scaldar tanto solea,
Che di beltade amor vi fea dimora.

Nè gli occhi ai noti studi io rivolgea,
E quelli m'apparian vani per cui
Vano ogni altro desir creduto avea.

Deh come mai da me sì vario fui,
E tanto amor mi tolse un altro amore?
Deh quanto, in verità, vani siam nui!

Solo il mio cor piaceami, e col mio core
In un perenne ragionar sepolto,
Alla guardia seder del mio dolore.

E l'occhio a terra chino o in se raccolto,
Di riscontrarsi fuggitivo e vago
Nè in leggiadro soffria nè in turpe volto:

Che la illibata, la candida imago
Turbare egli temea pinta nel seno,
Come all'aure si turba onda di lago.

E quel di non aver goduto appieno
Pentimento, che l'anima ci grava,
E il piacer che passò cangia in veleno,

Per li fuggiti dì mi stimolava
Tuttora il sen: che la vergogna il duro
Suo morso in questo cor già non oprava.

Al cielo, a voi, gentili anime, io giuro
Che voglia non m'entrò bassa nel petto,
Ch'arsi di foco intaminato e puro.

Vive quel foco ancor, vive l'affetto,
Spira nel pensier mio la bella imago,
Da cui, se non celeste, altro diletto
Giammai non ebbi, e sol di lei m'appago.

 

Canto notturno di un pastore errante dell'Asia

  Che fai tu, luna, in ciel? dimmi, che fai,

Silenziosa luna?

Sorgi la sera, e vai,

Contemplando i deserti; indi ti posi.

Ancor non sei tu paga

Di riandare i sempiterni calli?

Ancor non prendi a schivo, ancor sei vaga

Di mirar queste valli?

Somiglia alla tua vita

La vita del pastore.

Sorge in sul primo albore

Move la greggia oltre pel campo, e vede

Greggi, fontane ed erbe;

Poi stanco si riposa in su la sera:

Altro mai non ispera.

Dimmi, o luna: a che vale

Al pastor la sua vita,

La vostra vita a voi? dimmi: ove tende

Questo vagar mio breve,

Il tuo corso immortale?

  Vecchierel bianco, infermo,

Mezzo vestito e scalzo,

Con gravissimo fascio in su le spalle,

Per montagna e per valle,

Per sassi acuti, ed alta rena, e fratte,

Al vento, alla tempesta, e quando avvampa

L'ora, e quando poi gela,

Corre via, corre, anela,

Varca torrenti e stagni,

Cade, risorge, e più e più s'affretta,

Senza posa o ristoro,

Lacero, sanguinoso; infin ch'arriva

Colà dove la via

E dove il tanto affaticar fu volto:

Abisso orrido, immenso,

Ov'ei precipitando, il tutto obblia.

Vergine luna, tale

E la vita mortale.

  Nasce l'uomo a fatica,

Ed è rischio di morte il nascimento.

Prova pena e tormento

Per prima cosa; e in sul principio stesso

La madre e il genitore

Il prende a consolar dell'esser nato.

Poi che crescendo viene,

L'uno e l'altro il sostiene, e via pur sempre

Con atti e con parole

Studiasi fargli core,

E consolarlo dell'umano stato:

Altro ufficio più grato

Non si fa da parenti alla lor prole.

Ma perché dare al sole,

Perché reggere in vita

Chi poi di quella consolar convenga?

Se la vita è sventura,

Perché da noi si dura?

Intatta luna, tale

E lo stato mortale.

Ma tu mortal non sei,

E forse del mio dir poco ti cale.

  Pur tu, solinga, eterna peregrina,

Che sì pensosa sei, tu forse intendi,

Questo viver terreno,

Il patir nostro, il sospirar, che sia;

Che sia questo morir, questo supremo

Scolorar del sembiante,

E perir dalla terra, e venir meno

Ad ogni usata, amante compagnia.

E tu certo comprendi

Il perché delle cose, e vedi il frutto

Del mattin, della sera,

Del tacito, infinito andar del tempo.

Tu sai, tu certo, a qual suo dolce amore

Rida la primavera,

A chi giovi l'ardore, e che procacci

Il verno co' suoi ghiacci.

Mille cose sai tu, mille discopri,

Che son celate al semplice pastore.

Spesso quand'io ti miro

Star così muta in sul deserto piano,

Che, in suo giro lontano, al ciel confina;

Ovver con la mia greggia

Seguirmi viaggiando a mano a mano;

E quando miro in cielo arder le stelle;

Dico fra me pensando:

A che tante facelle?

Che fa l'aria infinita, e quel profondo

Infinito seren? che vuol dir questa

Solitudine immensa? ed io che sono?

Così meco ragiono: e della stanza

Smisurata e superba,

E dell'innumerabile famiglia;

Poi di tanto adoprar, di tanti moti

D'ogni celeste, ogni terrena cosa,

Girando senza posa,

Per tornar sempre là donde son mosse;

Uso alcuno, alcun frutto

Indovinar non so. Ma tu per certo,

Giovinetta immortal, conosci il tutto.

Questo io conosco e sento,

Che degli eterni giri,

Che dell'esser mio frale,

Qualche bene o contento

Avrà fors'altri; a me la vita è male.

 

  O greggia mia che posi, oh te beata,   

Che la miseria tua, credo, non sai!

Quanta invidia ti porto!

Non sol perché d'affanno

Quasi libera vai;

Ch'ogni stento, ogni danno,

Ogni estremo timor subito scordi;

Ma più perché giammai tedio non provi.

Quando tu siedi all'ombra, sovra l'erbe,

Tu se' queta e contenta;

E gran parte dell'anno

Senza noia consumi in quello stato.

Ed io pur seggo sovra l'erbe, all'ombra,

E un fastidio m'ingombra

La mente, ed uno spron quasi mi punge

Sì che, sedendo, più che mai son lunge

Da trovar pace o loco.

E pur nulla non bramo,

E non ho fino a qui cagion di pianto.

Quel che tu goda o quanto,

Non so già dir; ma fortunata sei.

Ed io godo ancor poco,

O greggia mia, né di ciò sol mi lagno.

Se tu parlar sapessi, io chiederei:

Dimmi: perchè giacendo

A bell'agio, ozioso,

S'appaga ogni animale;

Me, s'io giaccio in riposo, il tedio assale?

  Forse s'avess'io l'ale

Da volar su le nubi,

E noverar le stelle ad una ad una,

O come il tuono errar di giogo in giogo,

Più felice sarei, dolce mia greggia,

Più felice sarei, candida luna.

O forse erra dal vero,

Mirando all'altrui sorte, il mio pensiero:

Forse in qual forma, in quale

Stato che sia, dentro covile o cuna,

È funesto a chi nasce il dì natale.

 

A Silvia

 Silvia, rimembri ancora

Quel tempo della tua vita mortale,

Quando beltà splendea

Negli occhi tuoi ridenti e fuggitivi,

E tu, lieta e pensosa, il limitare

Di gioventù salivi?

  Sonavan le quiete

stanze, e le vie dintorno,

al tuo perpetuo canto,

allor che all'opre femminili intenta

sedevi, assai contenta

di quel vago avvenir che in mente avevi.

Era il maggio odoroso: e tu solevi

così menare il giorno.

Io gli studi leggiadri 

talor lasciando e le sudate carte,

ove il tempo mio primo

e di me si spendea la miglior parte,

d'in su i veroni del paterno ostello

porgea gli orecchi al suon della tua voce,

ed alla man veloce

che percorrea la faticosa tela.

Mirava il ciel sereno,

le vie dorate e gli orti,

e quinci il mar da lungi, e quindi il monte.

Lingua mortal non dice

quel ch'io sentiva in seno.

  Che pensieri soavi,

che speranze, che cori, o Silvia mia!

Quale allor ci apparia

la vita umana e il fato!

Quando sovviemmi di cotanta speme,

un affetto mi preme

acerbo e sconsolato,

e tornami a doler di mia sventura.

O natura, o natura,

perché non rendi poi

quel che prometti allor? perché di tanto

inganni i figli tuoi?

  Tu pria che l'erbe inaridisse il verno,

da chiuso morbo combattuta e vinta,

perivi, o tenerella. E non vedevi

il fior degli anni tuoi;

non ti molceva il core

la dolce lode or delle negre chiome,

or degli sguardi innamorati e schivi;

né teco le compagne ai dì festivi

ragionavan d'amore.

  Anche peria tra poco

la speranza mia dolce: agli anni miei

anche negaro i fati

la giovanezza. Ahi come,

come passata sei,

cara compagna dell'età mia nova,

mia lacrimata speme!

Questo è quel mondo? questi

i diletti, l'amor, l'opre, gli eventi

onde cotanto ragionammo insieme?

questa la sorte dell'umane genti?

All'apparir del vero

tu, misera, cadesti: e con la mano

la fredda morte ed una tomba ignuda

mostravi di lontano.

Fonte: http://www.misirizzi.it/TESTI%20TEATRALI%20%20E%20%20NON%20SOLO/Poesie%20di%20Giacomo%20Leopardi.doc

Sito web da visitare: http://www.misirizzi.it/

Autore del testo: non indicato nel documento di origine

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