Letteratura Giovanni Pascoli la poetica

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Letteratura Giovanni Pascoli la poetica

GIOVANNI PASCOLI - la poetica

Rivoluzione poetica

Secondo Giovanni Pascoli, la poesia non è una mera creazione della fantasia ma il risultato di una particolare capacità di "leggere" la realtà, non è una "invenzione" ma il disvelamento di ciò che è nelle cose, anche in quelle più semplici della vita di ogni giorno.
Pascoli, pertanto, fu il primo grande poeta italiano a mettere radicalmente in discussione l'idea consolidata secondo cui la poesia avrebbe potuto e dovuto cantare solo argomenti nobili ed elevati quali l'amore, le armi e la virtù: inoltre, aprendo le porte della poetica alle "piccole cose", Pascoli aprì anche la lingua della poesia alle "piccole parole", quelle - semplici - della comunicazione quotidiana, e completò l'avvicinamento del linguaggio poetico a quello della prosa.

La formazione letteraria

La fase cruciale della formazione letteraria di Pascoli va fatta risalire ai nove anni trascorsi a Bologna come studente alla Facoltà di Lettere (1873 - 1882). Allievo di Carducci, che si accorse subito delle qualità del giovane Pascoli, nella cerchia ristretta dell'ambiente creatosi attorno al poeta, Pascoli visse gli anni più movimentati della sua vita.
Qui, protetto comunque dalla naturale dipendenza tra maestro e allievo, Pascoli non ebbe bisogno di alzare barriere nei confronti della realtà, dovendo limitarsi a seguire gli indirizzi ed i modelli del suo corso di studi: i classici, la filologia, la letteratura italiana.
A margine degli studi veri e propri, egli, comunque, condusse una vasta esplorazione del mondo letterario ed anche scientifico straniero, attraverso riviste francesi specializzate che lo misero in contatto con l'avanguardia simbolista, e la lettura dei testi scientifico-naturalistici di Jules Michelet, Jean-Henry Fabre e Maurice Maeterlinck.
Tali testi utilizzavano la descrizione naturalistica - la vita degli insetti soprattutto, per quell'attrazione per il microcosmo così caratteristica del Romanticismo decadente di fine Ottocento - in chiave poetica; l'osservazione era aggiornata sulle più recenti acquisizioni scientifiche dovute al perfezionamento del microscopio e della sperimentazione di laboratorio, ma poi veniva filtrata letterariamente attraverso uno stile lirico in cui dominava il senso della meraviglia e della fantasia.
Era un atteggiamento positivista "romanticheggiante" che tendeva a vedere nella natura l'aspetto pre-cosciente del mondo umano.
È evidente in queste letture - come in quella successiva dell'opera dell'inglese James Sully sulla "psicologia dei bambini" - un'attrazione di Pascoli verso il "mondo piccolo" dei fenomeni naturali e psicologicamente elementari che tanto fortemente caratterizzò tutta la sua poesia. E non solo la sua.
Per tutto l'Ottocento la cultura europea aveva coltivato un particolare culto per il mondo dell'infanzia, dapprima, in un senso pedagogico e culturale più generico, poi, verso la fine del secolo, con un più accentuato intendimento psicologico.
I Romantici, sulla scia di Giambattista Vico e di Rousseau, avevano paragonato l'infanzia allo stato primordiale "di natura" dell'umanità, inteso come una sorta di età dell'oro.
Verso gli anni '80 si cominciò, invece, ad analizzare in modo più realistico e scientifico la psicologia dell'infanzia, portando l'attenzione sul bambino come individuo in sé, caratterizzato da una propria realtà di riferimento.
La letteratura per l'infanzia aveva prodotto in meno di un secolo una quantità considerevole di libri che costituirono la vera letteratura di massa fino alla fine dell'Ottocento.
Parliamo dei libri per i bambini, come le innumerevoli raccolte di fiabe dei fratelli Grimm (1822), di H.C. Andersen (1872), di Ruskin (1851), Wilde (1888), Maurice Maeterlinck (1909); o come i capolavori di Carroll, Alice nel paese delle meraviglie (1865). Oppure i libri di avventura adatti anche all'infanzia, come i romanzi di Jules Verne, Kipling, Twain, Salgari, London. O libri sull'infanzia, dall'intento moralistico ed educativo, come Senza famiglia di Malot (1878), Il piccolo Lord Faunthleroy di F.H. Burnett (1886), Piccole donne di Alcott (1869) e i celeberrimi Cuore di De Amicis (1886) e Pinocchio di Collodi (1887).
Tutto questo ci serve a ricondurre, naturalmente, la teoria pascoliana della poesia come intuizione pura e ingenua, espressa nella poetica del "Fanciullino", ai riflessi di un vasto ambiente culturale europeo che era assolutamente maturo per accogliere la sua proposta. In questo senso non si può parlare di una vera novità, quanto piuttosto della sensibilità con cui egli seppe cogliere un gusto diffuso ed un interesse già educato, traducendoli in quella grande poesia che all'Italia mancava dall'epoca di Leopardi.
Per quanto riguarda il linguaggio, Pascoli ricerca una sorta di musicalità evocativa, accentuando l'elemento sonoro del verso, secondo il modello dei poeti maledetti Verlaine e Mallarmé.

La poesia come "mondo" che protegge dal mondo

Nella vita dei letterati italiani degli ultimi due secoli ricorre pressoché costantemente la contrapposizione problematica tra mondo cittadino e mondo agreste, intesi come portatori di valori opposti: mentre la campagna appare sempre più come il "paradiso perduto" dei valori morali e culturali, la città diviene simbolo di una condizione umana maledetta e snaturata, vittima della degradazione morale causata da un ideale di progresso puramente materiale.
Questa contrapposizione può essere interpretata sia alla luce dell'arretratezza economica e culturale di gran parte dell'Italia rispetto all'evoluzione industriale delle grandi nazioni europee, sia come conseguenza della divisione politica e della mancanza di una grande metropoli unificante come erano Parigi per la Francia e Londra per l'Inghilterra.
I "luoghi" poetici della "terra", del "borgo", dell'"umile popolo" che ricorrono fino agli anni del secondo dopoguerra non fanno che ripetere il sogno di una piccola patria lontana, che l'ideale unitario vagheggiato o realizzato non spegne mai del tutto.
Decisivo nella continuazione di questa tradizione fu proprio Pascoli, anche se i suoi motivi non furono quelli tipicamente ideologici degli altri scrittori, ma nacquero da radici più intimistiche e soggettive.
Dalla casa di Castelvecchio, dolcemente protetta dai boschi della Media Valle del Serchio vicino al borgo medievale di Barga, Pascoli non "uscì" più (psicologicamente parlando) fino alla morte.
Pur continuando in un intenso lavoro di pubblicazioni poetiche e saggistiche, e accettando nel 1905 di succedere a Carducci sulla cattedra dell'Università di Bologna, egli ci ha lasciato del mondo una visione univocamente ristretta attorno ad un "centro", rappresentato dal mistero della natura e dal rapporto tra amore e morte.
Fu come se, sopraffatto da un'angoscia impossibile a dominarsi, il poeta avesse trovato nello strumento intellettuale del componimento poetico l'unico mezzo per costringere le paure ed i fantasmi dell'esistenza in un recinto ben delimitato, al di fuori del quale egli potesse continuare una vita di normali relazioni umane.

Myricae

Il libro Myricae, è la raccolta di poesie più amata dal Pascoli. Il libro crebbe per il numero delle poesie in esso raccolte. Nel 1891, data della sua prima edizione, il libro raccoglieva soltanto 22 poesie. Nel 1903, la raccolta definitiva comprendeva 156 liriche del poeta. I componimenti in esso raccolti sono dedicati al ciclo delle stagioni, al lavoro dei campi e alla vita contadina. Il titolo indica la modestia e la semplicità della poetica. Le myricae, le umili tamerici, diventano un simbolo delle tematiche del Pascoli ed evocano riflessioni profonde. La descrizione realistica cela un significato più ampio così che, dal mondo contadino si arriva poi ad un significato universale. La rappresentazione della vita nei campi e della condizione contadina è solo all'apparenza il messaggio che il poeta vuole trasmettere con le sue opere. In realtà questa frettolosa interpretazione della poetica pascoliana fa da scenario a stati d'animo come inquietudini ed emozioni. Il significato delle Myricae, va quindi oltre l'apparenza. Nell'edizione del 1897 compare la poesia Novembre, mentre nelle successive compariranno anche altri componimenti come L'Assiuolo. Pascoli ha dedicato questa raccolta alla memoria di suo padre "A Ruggero Pascoli, mio padre".

Il poeta e l'"io fanciullino"

Uno dei tratti salienti per i quali Pascoli è passato alla storia della letteratura è la cosiddetta poetica del fanciullino, da egli stesso così bene esplicitata appunto nello scritto omonimo apparso sulla rivista " Il Marzocco" nel 1897.
In tale scritto, Pascoli, influenzato dal manuale di psicologia infantile di J. Sully e da "La filosofia dell'inconscio" di E. von Hartmann, dà una definizione assolutamente compiuta - almeno secondo il suo punto di vista - della poesia (dichiarazione poetica). Si tratta di un testo di 20 capitoli, in cui si svolge il dialogo fra il poeta e la sua anima di fanciullino, simbolo:

  • dei margini di purezza e candore, che sopravvivono nell'uomo adulto;
  • Emblema della poesia e delle potenzialità latenti di scrittura poetica nel fondo dell'animo umano:

Caratteristiche del fanciullino:

  • "Rimane piccolo anche quando noi ingrossiamo e arrugginiamo la voce ed egli fa sentire il suo tinnulo squillo come di campanella".
  • "Piange e ride senza un perché di cose, che sfuggono ai nostri sensi ed alla nostra ragione".
  • Guarda tutte le cose con stupore e con meraviglia, non coglie i rapporti logici di causa- effetto, ma INTUISCE.
  • Scopre nelle cose le relazioni più ingegnose.
  • Riempie ogni oggetto della propria immaginazione e dei propri ricordi (soggettivazione), trasformandolo in simbolo.

Il poeta allora mantiene una razionalità di fondo, organizzatrice della metrica poetica, ma:

  • Possiede una sensibilità speciale, che gli consente di caricare di significati ulteriori e misteriosi anche gli oggetti più comuni;
  • Comunica verità latenti agli uomini: è "Adamo", che mette nome a tutto ciò che vede e sente (secondo il proprio personale modo di sentire, che tuttavia ha portata universale).
  • Deve saper combinare il talento della fanciullezza (saper vedere), con quello della vecchiaia (saper dire);
  • Coglie l'essenza delle cose e non la loro apparenza fenomenica.

La poesia, quindi, è tale solo quando riesce a parlare con la voce del fanciullo ed è vista come la perenne capacità di stupirsi tipica del mondo infantile, in una disposizione irrazionale che permane nell'uomo anche quando questi si è ormai allontanato, almeno cronologicamente, dall'infanzia propriamente intesa.
Ha scarso rilievo per Pascoli la dimensione storica (egli trova suoi interlocutori in Omero, Virgilio, come se non vi fossero secoli e secoli di mezzo): la poesia vive fuori dal tempo ed esiste in quanto tale.
Nel fare poesia una realtà ontologica (il poeta-microcosmo) si interroga su un'altra realtà ontologica (il mondo-macrocosmo); ma per essere poeta è necessario confondersi con la realtà circostante senza che il proprio punto di vista personale e preciso interferisca: il poeta si impone la rinuncia a parlare di se stesso. È vero che la vicenda autobiografica dell'autore caratterizza la sua poesia, ma con connotazioni di portata universale; cioè la morte del padre viene percepita come l'esempio principe della descrizione dell'universo, di conseguenza gli elementi autenticamente autobiografici sono scarsi. Tuttavia, nel passo XI de "Il fanciullino", Pascoli dichiara che un vero poeta è, più che altro, il suo sentimento e la sua visione che cerca di trasmettere agli altri.
Per cui il poeta Pascoli rifiuta:

  • il Classicismo, che si qualifica per la centralità ed unicità del punto di vista del poeta, che narra la sua opera ed esprime la proprie sensazioni.
  • il Romanticismo, dove il poeta fa di se stesso, dei suoi sentimenti e della sua vita, poesia.

La poesia, così definita, è naturalmente buona ed è occasione di consolazione per l'uomo ed il poeta.
Pascoli fu anche commentatore e critico dell'opera di Dante e diresse inoltre la collana editoriale "Biblioteca dei Popoli".

La produzione latina

Giovanni Pascoli fu anche autore di poesie in lingua latina e con esse vinse per ben 13 volte il Certamen Hoefftianum, un prestigioso concorso di poesia latina che annualmente si teneva ad Amsterdam. La produzione latina accompagnò il poeta per tutta la sua vita: dai primi componimenti scritti sui banchi del collegio degli Scolopi di Urbino, fino a Thallusa, poemetto di cui il poeta seppe della vittoria solo sul letto di morte nel 1912. In particolare, l'anno 1892 fu insieme l'anno della sua prima premiazione con il poemetto Veianius e l'anno della stesura definitiva delle Myricae.
Pascoli amava molto il latino, che può essere considerato la sua lingua del cuore: il poeta scriveva in latino, prendeva appunti in latino, spesso pensava in latino, trasponendo poi espressioni latine in italiano; la sorella Maria ricorda che dal suo letto di morte Pascoli parlò in latino, anche se la notizia è considerata dai più poco attendibile, dal momento che la sorella non conosceva questa lingua.

 

Fonte: http://www.calamandrei2013.altervista.org/PASCOLI_poetica.doc

Sito web da visitare: http://www.calamandrei2013.altervista.org

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