Letteratura Luigi Pirandello sintesi opere

Letteratura Luigi Pirandello sintesi opere

 

 

 

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Letteratura Luigi Pirandello sintesi opere

L'esclusa
Il romanzo e l’ambientazione storico-geografica
“L’esclusa” è il primo romanzo pirandelliano. Finito di scrivere nel 1893, venne pubblicato alcuni anni più tardi (nel 1908) per difficoltà, si crede, di carattere editoriale. L’accuratezza con cui sono collocati personaggi e oggetti, la precisione impersonale della messa in scena e la minuta descrizione didascalica evidenziano l’impostazione teatrale dell’opera. Non a caso, da “L’esclusa” Pirandello ricavò la commedia “L’uomo, la bestia e la virtù”, portata in scena nel 1919.
L’opera affonda le sue radici in una cittadina siciliana di provincia durante gli ultimi anni dell’800. Qui un orizzonte limitato e pettegolo fruttifica nel terreno soffocato del pregiudizio, la condotta del singolo si basa sul “cosa dirà la gente”, il timore dello scandalo diventa il credo su cui impostare la propria vita e le proprie relazioni. L’arretratezza e l’ignoranza della gente assecondano la maldicenza, la curiosità e l’ipocrisia. Al pregiudizio si accostano il formalismo e il maschilismo. Pirandello delinea una società in cui il matrimonio è ridotto a rapporti gerarchici precostituiti, dove l’uomo è il padre-padrone e la donna un soprammobile in attesa di sistemazione. Il rapporto di coppia esclude un dialogo aperto ed egualitario, coprendo sotto la vernice del formalismo soffocante gli impulsi e i sentimenti autentici.
 La trama
Volendo riassumere il romanzo in una frase, si potrebbe affermare che narra la vicenda di una donna che, scacciata dalla società quando è innocente, vi è rimessa solo quando è colpevole.
Lo stesso Pirandello divise l’opera in due parti.
La prima parte presenta il caso di Marta Ajala, che pur essendo incinta del marito Rocco Pentagora, viene scacciata da questi perché ritenuta colpevole di adulterio. Fondamento di questa pesante accusa è la corrispondenza, più filosofico-letteraria che amorosa, che la giovane ha avuto con un suo ammiratore, l’avvocato Gregorio Alvignani. Nella famiglia d’origine Marta non trova alcuna comprensione per la sua sfortunata condizione: il padre Francesco si mostra deluso e adirato, la madre Agata troppo debole per contrastare il marito. Iniziano così una serie di disgrazie che colpiscono la famiglia Ajala: la morte di Francesco, la nascita di un bambino senza vita, la malattia di Marta, il tracollo economico. Ripresasi, Marta non si abbandona alla commiserazione, ma riprende gli studi e vince il concorso per insegnare all’Istituto Magistrale. L’assegnazione di quella cattedra nella sua città è motivo di malcontento per molti e Marta viene trasferita a Palermo.
La seconda parte della vicenda si dipana nell’anonimato della grande città. Marta tenta con fatica e dignità di ricostruirsi una vita, senza riuscire tuttavia a dimenticare il passato che la tormenta. La sua bellezza le attira le attenzioni, per altro non gradite, di numerosi colleghi, fra i quali lo “stravagante” professor Falcone; il caso le fa incontrare nuovamente Gregorio Alvignani. Cedendo ad un destino ritenuto ineluttabile più che ad un autentico sentimento d’amore, diviene la sua amante.
Intanto Rocco, convintosi dell’innocenza della moglie, la rivuole a casa e la raggiunge a Palermo. Di fronte al letto della madre Fana, ormai morente, ritrova Marta e la prega di tornare da lui. Anche davanti alla confessione della sposa, da poco realmente adultera, Rocco non la rifiuta e la accoglie.
 La protagonista: Marta
Marta rappresenta una donna che cerca di discostarsi da quelle presentate nella narrativa di fine secolo. Si propone come una donna forte, conscia del proprio valore e della propria dignità. È testarda e combattiva, cerca di farsi artefice del proprio destino e conquistarsi un piccolo spazio di libertà e autonomia. Non si piega al giudizio altrui: accusa il padre di essere un uomo accecato dall’orgoglio e dalla paura dello scandalo e il marito di poca fede e mancanza di fiducia. Di fronte alle restrittezze economiche, in cui versa la famiglia, assume un ruolo di guida per la madre e la sorella trovando un lavoro.
Ma anche Marta è figlia del proprio secolo e cede al destino della donna-oggetto, abbandonandosi al volere degli altri. Marta, travolta dagli eventi, si lega all’avvocato: non per amore, non come affermazione liberatoria di sé, ma come atto dovuto, per mancanza di volontà.
 I temi pirandelliani
L’alienazione alla vita
Uno dei temi più comuni della letteratura contemporanea a Pirandello è l’analisi della condizione umana. L’autore affronta questa tematica mettendo l’accento sulla dualità della natura umana e sul drammatico contrasto tra anima e corpo. L’anima anela alla liberazione dai vincoli del corpo, legato alla pesantezza della materia. La scoperta di estraneità al proprio corpo e l’inevitabile dissidio con esso porta a un’alienazione dalla vita.
Numerosi personaggi pirandelliani affrontano questa dualità e il lacerante contrasto che provoca:
-  L’avvocato della novella “La carriola” scopre di essere insopportabile e odioso, comincia a odiare se stesso e il mondo, fino a provare una violenta voglia di autodistruzione.
-  Mattia Pascal scopre quanto sia falsa e fittizia anche la sua nuova vita, ideata e costruita interamente da lui.
Marta sperimenta l’impossibilità di intrecciare relazioni che non siano legate all’idea del possesso amoroso di lei. Si realizza con chiarezza il dramma dell’incomunicabilità, dell’incomprensibilità e della frantumazione della realtà. Capisce che ogni rapporto interpersonale ha una finalità, che lei più o meno consapevolmente deve portare a compimento. Ecco che lei perde la propria autenticità e unità per diventare oggetto di desiderio, moglie fedifraga, figlia scapestrata, sorella su cui grava il bilancio famigliare… Marta, che si sente inautenticamente giudicata, si “vede vivere” negli occhi delle persone che la circondano. Per riprendere un passo di Pirandello, più volte usato dall’autore, si può dire che Marta sembri “non avere più coscienza d’essere, come una pietra, come una pianta… vivere per vivere, senza sapere di vivere”.
La solitudine
Pirandello ha una dolente visione della condizione dell’uomo: solitudine e mistero lo soffocano, la sua vita, il suo vero essere destinato a fluire continuamente, è inchiodata e ingabbiata dall’apparenza e dalle forme. Questa solitudine è data dall’inadeguatezza che l’uomo sente all’interno di sé, dall’insofferenza e il malessere che la sua anima prova. Come ci si può trovare a proprio agio con gli altri se non lo si è nemmeno con se stessi? Come si può condividere con qualcun altro i propri pensieri, se nemmeno noi sappiamo discernere il giusto e lo sbagliato nella burrasca del nostro ego?
La solitudine tormenta ogni uomo: il giudice D’Andrea della novella “La patente” che parla con le stelle, il viaggiatore di “Una giornata” scaraventato in una buia stazione ferroviaria, Mattia Pascal che tanto vorrebbe condividere il suo passato con Adriana.
Nel corso de “L’esclusa” Marta diviene l’incarnazione della solitudine: dapprima abbandonata dal marito, poi dal padre, dal figlio che portava in grembo, dall’avvocato e anche dal proprio spirito combattivo... Ma il dramma di Marta è anche il dramma di altri personaggi che si trovano a essere vittime e produttori di alienazione e autodistruttività. Se Marta è “l’esclusa” per eccellenza, chi fomenta acredine, spirito di rivalsa, chi rifiuta il confronto e il dialogo si autoesclude da ogni forma di libertà e avvelena il proprio cuore. A questo modello appartiene anche Rocco Pentagora: oppresso dalle regole, dalle convenzioni e da un forte senso del destino contro il quale non si può lottare.
L’inettitudine alla vita
Pirandello, rimanendo fedele alla sua concezione pessimistica della vita, ritrae la realtà come un insieme di forze violente che stravolgono la fisionomia interiore e autentica dell’uomo. Questo contrasto fra forze esterne e volontà interiori riduce l’uomo ad una maschera grottesca e assurda, irrigidita negli atteggiamenti più grossolani. L’uomo perde la sua vitalità, diviene un burattino in balia degli eventi, un inetto alla vita.
La figura dell’Alvignani rappresenta l’inetto a vivere, più volte ripreso da Pirandello: incapace di prendere soluzioni che diano una svolta definitiva nella sua relazione con Marta. Anche la giovane donna è caratterizzata dall’inettitudine alla vita, ma esclusivamente dal punto di vista sociale. Non accetta compromessi e ipocrisia, è conoscente dei propri diritti ma debole nel contrapporsi alle convenzioni sociali.
Lo stile
Durante la stesura del romanzo Pirandello non ha ancora la ricchezza di interessi che svilupperà nelle novelle, ma cerca la strada nel gusto naturalistico del tempo. Il Naturalismo, nato in Francia nella seconda metà dell'Ottocento, si caratterizza per la ricerca di una rappresentazione diretta e veritiera possibile del reale. I presupposti filosofici del naturalismo sono:
-  l'idea che il comportamento umano sia conseguenza diretta, oltre che dei fattori naturali, delle condizioni socio-ambientali.
-  l'idea che la società sia luogo di sopraffazione e abbrutimento, e quindi che il male e la malattia siano il prodotto delle strutture sociali distorte.
-  l'ipotesi che la psiche umana possa essere studiata dall'artista così come il mondo naturale viene indagato dallo scienziato.
Il narratore de “L’esclusa” rimane fedele al principio dell’impersonalità, voluto dal modello veristico, e lo scrittore, rinunciando alla dimensione soggettiva e ai pregiudizi ideologici, assume l'abito mentale del ricercatore. Un altro aspetto di carattere naturalista è il forte condizionamento sociale che caratterizza i personaggi, costretti ad agire da una forza maggiore.
Tuttavia la fina del romanzo contrasta con la logica di causa-effetto di impronta veristica e corrisponde a ciò che Pirandello considera umoristico.
 L’umorismo
Pirandello respinge l’accezione comune del termine (qualcosa che fa ridere), preferendo collegarlo ad un altro significato più profondo: la malinconia. La riflessione induce il lettore a non soffermarsi alla comicità di una situazione, ma raggiungere la visione umoristica, ossia la capacità di rilevare il contrario, il disincantato capire il tragico “perché” di un atteggiamento apparentemente bizzarro. Secondo Pirandello il comico è “avvertimento del contrario”, ossia il percepire un particolare che è il contrario di ciò che dovrebbe essere, mentre l’umorismo è il “sentimento del contrario”, ossia l’intuire le motivazioni reali, a volte drammatiche, che hanno prodotto quel comportamento apparentemente comico ed assurdo.

SCHEDA DI ANALISI
 Titolo: Così è (se vi pare)”
 Autore: Luigi Pirandello
 Biografia:
Nato nel 1867 presso Agrigento, in un podere di campagna detto il Caos, Luigi Pirandello proviene da una famiglia che fonda la sua agiatezza sulle locali miniere di zolfo. Sono appunto queste miniere che gli consentono di seguire e terminare tranquillamente gli studi. Conseguita la licenza liceale si iscrive contemporaneamente sia alla Facoltà di Legge che a quella di Lettere dell'Università di Palermo. Nel 1887 si trasferisce alla Facoltà di Lettere dell'Università di Roma, dalla quale è però costretto ad allontanarsi in seguito ad un diverbio con il rettore. Si iscrive, allora, all'Università di Bonn.
Nel 1892 si stabilisce a Roma e inizia ad insegnare presso l’Università. Nel 1894 sposa Antonietta Portulano, dalla quale ha tre figli. Le alte rendite delle miniere di zolfo gli permettono, grazie ad un assegno mensile inviatogli dal padre, di dedicarsi anche all’attività di scrittore, senza preoccupazioni di carattere economico. Dopo alcune raccolte di poesie, pubblica così le prime novelle e i primi romanzi.  Nel 1903 una frana sommerge la zolfara in cui erano investiti tutti i beni della famiglia Pirandello e ne determina il tracollo finanziario. Antonietta rimane gravemente sconvolta, tanto da dover trascorrere il resto della vita in un ospedale psichiatrico. La pazzia della moglie segna profondamente la vita dello scrittore.
Da quel momento Pirandello si dedica con assiduità al lavoro di scrittore, che ora gli permette di ottenere agiatezza economica.
La produzione dell’autore si indirizza inizialmente soprattutto verso la narrativa. Una prima tappa importante è la pubblicazione nel 1904 del romanzo “Il fu Mattia Pascal”, che accompagnato da numerose polemiche, ottiene un grandissimo successo in Italia e all’estero. Ad esso seguono “I vecchi e giovani” (1913), dedicato al dramma del Sud dopo l’unità d’ltalia; quindi “Si gira” (1915), opera in seguito rimaneggiata e ripubblicata con il titolo “Quaderni di Serafino Gubbio operatore” (1925).
 Riassunto:
Nel salotto dell’ appartamento del consigliere Agazzi ha luogo una discussione sul caso di una strana famiglia che, in seguito  alle distruzioni causate da un terremoto, si è trasferita nello stesso palazzo. Corre voce che il nuovo inquilino, il signor Ponza, abbia alloggiato la suocera , la signora Frola, nell’appartamento situato di fronte a quello del signor Agazzi e che le impedirebbe di vedere la figlia, che abita al piano superiore.
All’inizio partecipano alla discussione solo il la signora Amalia Agazzi,, sua figlia Dina e il fratello Lamberto Laudisi, ma in seguito la curiosità contagia tutti ed una schiera di amici si ritrova nel salotto di casa Agazzi cercando di capire il motivo di questo comportamento.
Si escogitano piani per potere estorcere informazioni ai nuovi arrivati, ma i risultati non fanno altro che aumentare la confusione: la signora Frola spiega che suo genero è pazzo, crede di essere rimasto vedovo e di essersi risposato con un’altra donna che non ha alcuna parentela con lei. Il signor Ponza, dal canto suo, sostiene invece che è sua suocera ad essere impazzita e che, non volendosi rassegnare alla scomparsa della figlia, sia convinta che viva ancora con lui.
Le due versioni contrastanti suscitano perplessità. L’unico che si mostra scettico è Laudisi e la sua tesi secondo la quale sia la signora Frola che il signor Ponza possano aver ragione, non viene ascoltata da nessuno, perché ritenuta inspiegabile.
Il consigliere Agazzi ordina addirittura delle ricerche in prefettura e organizza un incontro fra suocera e genero per scoprire la verità, ma entrambi i provvedimenti non danno esito.
Non resta allora che interpellare la diretta interessata, la signora Ponza, la quale stupisce tutti dicendo: “io sono colei che mi si crede” e non svela il segreto della sua identità.
 Personaggi
–      Stabilisci se i personaggio è credibile
I personaggi, appartenenti alla classe borghese, più che credibili, possono essere considerati stereotipi. Pirandello esaspera alcuni loro comportamenti e ironizza il loro modo di fare, soprattutto mettendo in evidenza la sfrenata curiosità.
–      Stabilisci come viene presentato il personaggio
In questo adattamento teatrale, i personaggi vengono presentati dall’autore attraverso brevi descrizioni delle caratteristiche fisiche, poste come incisi tra una battuta e l’altra. L’aspetto interiore può essere intuito analizzando i comportamenti e i discorsi. L’aspetto fisico e l’abbigliamento, aggiungono particolari sul carattere di alcuni personaggi.
 –      Analizza la caratterizzazione
Non è rilevabile la caratterizzazione dei personaggi, né per quanto riguarda l’aspetto fisico, essendo la durata della vicenda molto limitata, né per quanto riguarda l’aspetto interiore, poiché quasi tutti restano intestarditi nella loro curiosità.
 –      Analizza il rapporto personaggio-autore
E’ possibile individuare un rapporto abbastanza stretto tra autore e personaggi. Questi infatti appartengono allo stesso ambiente borghese di Pirandello. Anche la presenza dell’elemento “pazzia” fornisce un collegamento con l’esperienza della vita dello scrittore. Egli ha infatti vissuto in prima persona la pazzia della moglie, avvenimento che ha lasciato molte tracce  nella sua produzione.
Il personaggio che si identifica maggiormente con l’autore sembra essere Lamberto Laudisi. Pirandello, infatti, pur non esprimendo giudizi, lo presenta come una persona diversa, l’unica che sostiene la relatività della verità, tema ricorrente nelle opere dello scrittore.
 –        Descrizione dei personaggi principali:
La caratteristica che accomuna tutti i personaggi, eccetto Laudisi, è la curiosità.
–      AMALIA AGAZZI è una signora di circa quarantacinque anni. E’ la moglie del consigliere Agazzi e per la posizione sociale che occupa, come dice Pirandello, mostra “un contegno di importanza ostentata”. E’ curiosa ed ha grandi capacità organizzative, che dimostra progettando continuamente piani per scoprire la verità.
–      LAMBERTO LAUDISI è il fratello della signora Agazzi. Ha circa quaranta anni, è elegante, ma senza ricercatezze. A differenza di tutti gli altri personaggi non si lascia sopraffare dalla curiosità nei confronti della vicenda del signor Ponza. Crede nell’esistenza di due possibili verità. Sconcerta continuamente gli altri con discorsi contorti e riflessioni che nessuno capisce.  I fatti però alla fine gli danno ragione.
–      LA SIGNORA FROLA è un’anziana signora, linda, modesta, molto affabile. Ha una grande tristezza negli occhi attenuata da un costante sorriso sulle labbra. E’ vista come vittima del signor Ponza e le simpatie della maggior parte degli altri personaggi vanno a lei.
–      IL SIGNOR PONZA è un uomo tozzo, bruno, dall’aspetto quasi truce. Ha i capelli neri, fitti, una fronte bassa e grossi baffi neri. Veste sempre di nero e questo sottolinea la situazione infelice nella quale si trova. All’inizio viene accusato di tener prigioniere sua suocera e sua moglie. Gli altri personaggi lo ritengono colpevole e pazzo. Lavora come impiegato all’ufficio del prefetto.
–      IL CONSIGLIERE AGAZZI, marito della signora Amalia, è un uomo sui cinquanta anni. Rosso di capelli, ha la barba e indossa un paio di occhiali cerchiati d’oro. Anch’egli si interessa del caso e lavorando come consigliere del prefetto, fa di tutto per trovare documentazioni che chiariscano la situazione della famiglia Ponza.
–      DINA è una ragazza di diciannove anni, figlia dei coniugi Agazzi. Partecipa alla discussione e aiuta la madre ad organizzare i vari piani per trovare la verità.
A questi personaggi si aggiungono una schiera di amici, interessati alla vicenda, come ad esempio i coniugi Sirelli, la signora Cini, la signora Nenni e il commissario Centauri.
 Tempo
–      Individua l’epoca storica
La vicenda si svolge agli inizi del Novecento, quando Pirandello ha scritto la novella da cui è stato tratto questo adattamento teatrale, “La signora Frola e il Signor Ponza suo genero”.
In questo periodo si può collocare l’inizio del decadimento degli ideali della borghesia. Si avverte l’impossibilità di sfuggire alle vuote convenzioni create da questa società e nello stesso tempo si intuisce la loro inutilità. Pirandello attraverso le sue opere ci presenta l’ambiente sociale di quest’epoca con fedeltà.
 –      Individua la durata della storia
La storia si sviluppa in appena due giorni. La durata narrativa corrisponde quasi a quella reale. In un’opera teatrale infatti è presente solo il discorso diretto. Pirandello fa utilizzo dell’ellissi per “tagliare” i periodi di tempo che non hanno alcuna utilità nell’economia della vicenda.
 Spazio
La vicenda si svolge nel salotto di una tipica casa borghese.
 Narratore
 In questo adattamento teatrale non è presente il narratore. Pirandello aggiunge solamente degli incisi tra una battuta e l’altra che hanno lo scopo di descrivere i personaggi o scene che non possono essere comprese attraverso i dialoghi.
 Lingua e stile
Il lessico adoperato, essendo il racconto stato scritto agli inizi del novecento, corrisponde al linguaggio parlato di quell’epoca. E’ ricco di termini oggi caduti in disuso e il modo di esprimersi dei personaggi è ricercato. Le espressioni utilizzate sono coerenti all’ambiente sociale nel quale si svolge la vicenda.
 Tematiche trattate
 Il tema di fondo di questa opera è il concetto della “relatività della verità”. Pirandello, proprio come Laudisi, pensa infatti che non esista un’unica forma di verità. La realtà viene percepita da ciascuno in modo diverso: ognuno la interpreta in base alla sua esperienza poichè non esistono dati oggettivi.
Commento
Ho trovato la lettura di questo adattamento teatrale molto piacevole e scorrevole. La curiosità che anima i personaggi viene presto trasmessa a chi legge, spingendo a proseguire la lettura del testo. Il ritmo veloce mantiene vivo l’interesse del lettore, che vuole scoprire la verità sulla famiglia Ponza insieme con i protagonisti dell’opera. Si è coinvolti emotivamente fino alla sconcertante frase finale pronunciata dalla signora Ponza  “Io sono colei che mi si crede”. Questa frase riassume la concezione che Pirandello ha della realtà e beffa, oltre che i personaggi della storia, anche il lettore che non si aspetta una conclusione così enigmatica. L’impossibilità di raggiungere la verità, il dubbio, l’ambiguità, riassumono il tormento umano.
Il linguaggio utilizzato è semplice, schietto e coerente con l'ambiente sociale nel quale si svolge la vicenda. Questo mi ha consentito di calarmi meglio nella situazione che Pirandello vuole rappresentare attraverso la sua opera teatrale.

Uno, nessuno e centomila

Il  romanzo è narrato in prima persona da un narratore interno: Vitangelo Moscarda, il protagonista della vicenda. Il narratore non racconta, commenta ad intervalli, distaccati l’uno dall’altro, e alterna alla riflessione, la provocazione. È un tono di voce, questo del narratore, che alla fine riesce forte ed uniforme, pur nei frequenti scatti e nei non meno improvvisi abbassamenti di tensione intellettuale, a favore di momenti idillici, se non addirittura estatici. All’impressione quasi grafica di discontinuità compositiva, certamente voluta, fa da riscontro quindi, la presenza di una voce narrante, le cui alternanze e contrazioni, o dilatazioni, governano non un racconto tradizionale, ma una sorta di flusso di coscienza,"stream of consciosness".
Dal mio punto di vista ho trovato particolarmente interessante e originale questo modo di raccontare, intervenendo continuamente a destare l’attenzione del lettore, chiamato in prima persona a partecipare alle vicende, il "voi" diventa un vero e proprio personaggio. Questa funzione di "pungolo" che Pirandello ha attribuito a Vitangelo è focalizzata a invogliare il lettore a riflettere su quanto detto, non può lasciarti indifferente.

IL ROMANZO HA UNA DIVISIONE INTERNA?
Si, il romanzo presenta una divisione interna piuttosto articolata: si suddivide in otto libri che comprendono capitoli identificati, ciascuno con il proprio titolo. L’unità nominale dei loro argomenti e la significazione complessiva sono, in questo modo, garantiti. Ma se si guarda all’interno, il taglio e la misura dei singoli capitoli risultano sempre più rapidi e incisivi.
Il libro I è una sorta di preambolo necessario per lo sviluppo del romanzo intero. Il protagonista scopre infatti, grazie ad un’osservazione della moglie, che il naso gli pende verso destra, si rende così conto di non conoscere il suo stesso corpo, le cose che più intimamente gli appartenevano: il naso, le orecchie, le mani, le gambe.
Il libro II introduce un altro elemento di riflessione annunciato, ma non sviluppato nel precedente. Riguarda il soprannome impiegato da Dida per rivolgersi a Vitangelo: Gengè.
Su questo tono prosegue il terzo libro: continua il rifiuto del nome, questa volta tocca anche al cognome Moscarda. È chiamata in causa, poi, la storia della famiglia e la vita del padre, un banchiere che esercitava l’usura e della cui attività Vitangelo continua a godere.
Il libro IV parla della prima "pazzia" commessa dal protagonista: inizialmente sembra voler sfrattare uno scultore mancato ridotto in povertà, ma alla fine decide di donargli una casa sotto gli occhi di tutti, ma invece di ottenere riconoscenza, viene bollato come PAZZO.
Il libro V rincalza l’attenzione precedente di sottrarsi del tutto alla taccia di usuraio, ritirando nomi e soldi dalla banca gestita dagli amici. Siffatta decisione è maturata, però, soprattutto contro la moglie, sino al punto di afferrarla e sbatterla su una poltrona.
Il libro VI, che registra l’abbandono della casa da parte di Dida, un inutile dialogo tra Vitangelo e il suocero, la volontà del protagonista di laurearsi, dimostra l’impossibilità di liberarsi di Gengè.
Il libro VII contiene una sorta di intervallo romanzesco, dove Vitangelo è alle prese con un’amica della moglie: Anna Rosa, che gli rivela che i familiari vogliono interdirlo.
Il libro VIII conduce il protagonista là dove da tempo è diretto: un ospizio di mendiità, costruito per penitenza dei suoi peccati, dietro intervento ecclesiastico.
 TIPOLOGIA TESTUALE:
romanzo di carattere (filosofico - umoristico).
 TRAMA:
Da uno specchio, superficie ambigua e inquietante, emerge un giorno per Vitangelo Moscarda, un volto di sé finora ignorato: un naso in pendenza verso destra. Questo avvenimento provoca in lui una profonda crisi che lo porta a scoprire che gli altri si fanno di lui un’immagine diversa da quella che egli si è creato di se stesso, scopre cioè di non essere "uno", come aveva creduto sino a quel momento, ma di essere "centomila", nel riflesso delle prospettive degli altri, e quindi "nessuno". Questa presa di coscienza fa saltare tutto il sistema di certezze e determina una crisi sconvolgente. Vitangelo ha orrore delle "forme" in cui lo chiudono gli altri e non vi si riconosce, ma anche orrore della solitudine in cui lo piomba lo scoprire di non essere "nessuno". Decide perciò di distruggere tutte le immagini che gli altri si fanno di lui, in particolare quella dell’usuraio" ( il padre infatti gli ha lasciato in eredità una banca), per cercare di essere "uno per tutti". Incomincia così a ribellarsi facendo cose che, agli occhi di chi gli sta attorno, appaiono incomprensibili. Ricorre così ad una serie di gesti folli, come regalare una casa a un vagabondo. Vuole vendere la banca di cui non si è mai occupato e che gli assicura una certa agiatezza economica, e quando rivela alla moglie e all’amico Quantorzo che vuole cancellare la nomea di usuraio, loro scoppiano a ridere senza ritegno. Così colpito nell’animo, già, fortemente contrastato, strattona la moglie ribellandosi a quella marionetta, di nome Gengè, di cui ella si era sempre compiaciuta. Le pazzie si intensificano: ferito gravemente da un’amica della moglie, colta da un raptus inspiegabile di follia, al fine di evitare lo scandalo cede tutti i suoi averi per fondare un ospizio per poveri, ed egli stesso vi si fa ricoverare, estraniandosi totalmente dalla vita sociale.
Proprio in questa scelta trova una sorta di guarigione dalle sue ossessioni, rinunciando definitivamente ad ogni identità e abbandonandosi pienamente al puro fluire della vita, rifiutandosi di fissarsi in alcuna "forma", rinascendo nuovo in ogni istante, vivendo tutto fuori di sé e identificandosi di volta in volta nelle cose che lo circondano, alberi, vento, nuvole. La città è lontana. Me ne giunge, a volte, nella calma del vespro, il suono delle campane. Ma ora quelle campane le odo non più dentro di me, ma fuori, per sé sonare, che forse ne fremono di gioia nella loro cavità ronzante, in un bel cielo azzurro pieno di sole tra lo stridio delle rondini o nel vento nuvoloso, pesanti e così alte sui campanili aeri. Pensare alla morte, pregare. C’è pure che ha ancora questo bisogni, e se ne fanno voce le campane. Io non l’ho più questo bisogno, perché muoio ogni attimo, io, rinasco nuovo e senza ricordi: vivo e intero, non più in me, ma ogni cosa fuori.

TEMPO:
fabula e intreccio sostanzialmente coincidono perché gli avvenimenti seguono l’ordine cronologico. Bisogna, però, sottolineare il fatto che nella prima parte del romanzo non vi è racconto, ma solo l’arrovellarsi ossessivo del protagonista, monologante, sui temi dell’identità fittizia, dell’inconsistenza della persona. Solo nella seconda parte il filo di un intreccio comincia a dipanarsi, ma anche qui l’organicità del racconto, la concatenazione logica e coerente delle cause e degli effetti, salta: i gesti inconsulti del protagonista sono la negazione di una logica comune, sono coerenti solo all’interno della sua follia, e così pure il gesto di Anna Rosa, l’amica della moglie che spara a Vitangelo, resta del tutto gratuito, immotivata, inspiegabile.
Da sottolineare, inoltre, la presenza di alcune digressioni ( il racconto della casa del padre, le corse in carrozza da ragazzo ), incisi filosofici ( nuvole e vento, l’uccellino, campagna e città), nonché anticipazioni, mia moglie, che non era stata mai mia moglie, ma la moglie di colui, si ritrovò subito, inorridita, come in braccio a un estraneo, a uno sconosciuto; e dichiarò di non potermi più amare, di non poter più convivere con me neanche un minuto e scappò via.
Sissignori, come vedrete, scappò via.
Non viene esplicitamente indicato nel testo quando avvengono le vicende, ma è plausibile pensare che il romanzo sia ambientato nei primi anni del novecento, lo possiamo dedurre dalle descrizioni degli ambienti, dei personaggi e dalle professioni esercitate. Non si parla di avvenimenti storici di rilievo tali da farci dedurre il contesto storico del romanzo, che appare così in escono piano. Non sappiamo neppure quanto durano le vicende, presumibilmente qualche mese.
Il tempo della storia è sicuramente minore rispetto al tempo del racconto, non vi sono infatti sommari, ma solo pause, descrittive e dialogate, e analisi soprattutto filosofiche. Il ritmo è lento, in modo particolare nella prima parte del racconto.
Alla luce di quanto detto, emerge, in primo luogo, l’esiguità dei fatti, estremamente pochi e l’assenza di riferimenti temporali, questo perché per Piarandello non sono importanti gli avvenimenti quanto le considerazioni che si possono trarre. Lo stesso vale per l’aspetto temporale: l’autore ha tentato di creare un romanzo "fuori dal tempo" che potesse cioè adattarsi a qualsiasi epoca, in effetti gli argomenti trattati sono moderni, riguardano anche noi stessi, provocando in questo modo, un vero e proprio annullamento del tempo storico.
 SPAZIO:
gli avvenimenti si svolgono nella nobile città di Richieri, inventata e che potrebbe rifarsi tanto ad Agrigento quanto a Palermo, e si articolano in ambienti sia interni che esterni: la casa del protagonista, la banca, le vie della città, la Badia Grande ecc. ecc. di questi luoghi l’autore ci fornisce particolari descrizioni: e pareva un lago la piazza con tutto quel brillio di stelle un allegro sprazzo di sole, e nella corsa, Dio che guazzabuglio di cose, la vasca, quel chiosco da giornali, il tram che infilava lo scambio e strideva spietatamente alla girata, quel cane che scappava…- Quella Badia, già castello feudale dei Chiaramonte, con quel portone basso tutto tarlato, e la vasta corte con la cisterna in mezzo, e quello scalone consunto, cupo e rintronante, che aveva il rigido delle grotte, e quel largo e lungo corridoio con tanti usci da una parte e dall’altra e i mattoni rossi del pavimento avvallato lustravano alla luce del finestrone in fondo aperto al silenzio del cielo, tante vicende di casi e di aspetti di vita aveva accolto in sé…
l’ambiente che prevale è cittadino, e la folla è importante perché alimenta le dicerie sulla pazzia di Vitangelo, che si sente continuamente osservato e giudicato da tutti come un usuraio. I luoghi sono presentati dal punto di vista del protagonista e nelle sue descrizioni prevalgono sostanzialmente elementi visivi.
 PERSONAGGI:
il protagonista assoluto di questo romanzo è Vitangelo Moscarda, di lui l’autore ci offre anche una descrizione fisica in diversi punti della narrazione, e in particolare mentre analizza i suoi difetti fisici, avevo ventotto anni e sempre fino allora ritenuto il mio naso, se non proprio bello, almeno molto decente, come insieme tutte le altre parti della mia persona- le mie sopracciglia parevano sugli occhi due accenti circonflessi ^ ^, le mie orecchie erano attaccate male, una più sporgente dell’altra; e altri difetti. Ancora più interessante è la descrizione che Vitangelo si fa guardandosi allo specchio, gli guardai i capelli rossigni; la fronte immobile, dura e pallida; quelle sopracciglia ad accento circonflesso; gli occhi verdastri, quasi forati qua e là nella cornea da macchioline giallognole; attoniti, senza sguardo; quel naso che pendeva verso destra, ma di bel taglio aquilino; i baffi rossicci che nascondevano la bocca; il mento solido, un po’ rilevato. Ma non credo che l’autore abbia voluto soffermarsi particolarmente sul ritratto fisico del protagonista anche perché nella descrizione emergono tratti irrilevanti dell’aspetto, anche se la "crisi" di Vitangelo scoppia con la presa di coscienza di un difetto fisico, di quali fatti volete parlare? Del fatto che io sono nato, anno tale, mese tale, giorno tale, nella nobile città di Richieri, nella casa in via tale, numero tale, del signor Tal dei Tali e dalla signora Tal dei Tali…alto di statura un metro e sessantotto; rosso di pelo, ecc.ecc ? è la sua mente che ci interessa e che viene accuratamente scrutata e vediamo che il protagonista si arrovella, perde il sonno pur di trovare una risposta ai suoi quesiti, per vedere in definitiva più chiaro. Non si limita a confessare di non sapere chi sia, ma afferma deliberatamente di non voler più essere nessuno, di rifiutare totalmente ogni identità individuale. Bisogna per Vitangelo vivere di attimo in attimo, in perenne mutazione, e ciò è una condizione esaltante, gioiosa. Ma per arrivare a questa conclusione ha dovuto affrontare la società e distruggere quelle immagini che la gente si era creata di lui, non mi sono più guardato in uno specchio, e non mi passa neppure per il capo che cosa sia avvenuto della mia faccia e di tutto il mio aspetto...nessun nome. Nessun ricordo oggi del nome di ieri.
Spesso ho come avuto la sensazione che Vitangelo non fosse un vero personaggio, ma una sorta di voce della coscienza che ha il compito di redarguirci e di farci capire la realtà delle cose e, anche in quest’ambito, non risultano importanti le vicende in cui il protagonista è coinvolto quanto ciò che ci dice e ciò che vuole comunicare.
Gli altri personaggi che compaiono nel racconto possono essere così suddivisi:
quelli che lo considerano Gengè:

  • La moglie Dida, innamorata di quella marionetta che reputava sciocca, timida, quel suo Gengè esisteva, mentre io per lei non esistevo affatto, non ero mai esistito… quando il protagonista la strattona, incredula che quell’uomo possa essere il suo Gengè, lo abbandona. Vitangelo ne era comunque innamorato.
  • Il padre di Dida, molto curato, non pur nei panni, anche nell’acconciatura dei capelli e dei baffi fino all’ultimo pelo; biondo, biondo; e d’aspetto non dirò volgare, ma comune ad ogni modo. Anche per lui Vitangelo era uno stupidissimo uomo sempre soddisfatto di sé
  • Anna Rosa, un’amica di Dida, presente nella parte più romanzata del racconto, orfana di padre e di madre, abitava con una vecchia zia in quella casa che pare schiacciata dalle mura altissime della Badia Grande. Sembra pazza quando si ferisce incidentalmente e poi ferisce lo stesso Vitangelo.

Quelli che lo considerano usuraio:

  • Firbo e Quintorzo, gli amici fidati di Vitangelo così come li definisce lui, voluto bene da tutti quei consoci, da Quantorzo, come figliuolo, da Firbo, come un fratello, i quali tutti sapevano che con me era inutile parlare di affari e che bastava di tanto in tanto chiamarmi a firmare… infatti questi due soci del protagonista non avevano di lui alcuna considerazione, gestivano gli affari non curanti dell’opinione del padrone della banca: Vitangelo che di fatto era per tutti un usuraio. Quando Vitangelo assume un atteggiamenti inconsueto e commette delle "pazzie", i due cari amici del protagonista non si preoccupano di scoprirne la causa, ma si limitano a trovare la soluzione migliore per non vedere danneggiati i loro interessi. Risultano così infidi, privi di compassione, interessati solo al denaro.
  • La folla, le persone del paese non sono dei veri personaggi, ma sono importanti perché concorrono ad aumentare la crisi del protagonista, che si vede da tutti bollato come usuraio.
  • Monsignor Partanna, era stato eletto vescovo per istanze e mali uffici di potenti prelati a Roma. Don Antonio Sclepis, era un prete lungo e magro, quasi diafano, come se tutta l’aria e la luce dell’altura dove viveva lo avessero non solo scolorito ma anche rarefatto.

STILE:
il romanzo assume la forma del soliloquio, trasformabile o meno in un dialogo con un pubblico chiamato all’ascolto della voce narrante, e voluto presente, quasi come prima incarnazione di un pubblico di lettori. I quali a teatro ovviamente non esistono; ed anche nel romanzo dovrebbero per Pirandello, uscire dalla loro condizione passivi ed essere coinvolti da chi li provoca.
Per quanto riguarda la sintassi, Piandello fa di tutto perché il soliloquio di Vitangelo Moscarda perda il timbro di protesta e di denuncia in nome dei valori umani genericamente condivisi. Deve risuonare, piuttosto, come pronuncia di una voce singola, socialmente, e prima ancora familiarmente emarginata. Comunque Pirandello non si serve di toni accesi e disperati, come invece aveva fatto nel Fu Mattia Pascal. Frequenti sono le frasi esclamative nelle quali si esprime tutto il desiderio di fuga dal mondo e di annullamento della natura che anima Vitangelo Moscarda, un mio dunque che non era per me!, tutto quel corpo lì che per me era niente; eccolo: niente!
Il lessico è ricco di aggettivi, molte sono le affermazioni incidentali, le interrogative retoriche, forme verbali esortative o imperative, ma in attesa di che, lui? Di vedermi?no. egli poteva essere veduto, ma non vedermi,- la campagna! Che altra pace, eh? Vi sentite sciogliere. Si; ma se mi sapete dire dov’è? Dico la pace. No, non temete, non temete! Vi sembra propriamente che ci sia pace qua?. Comunque tutte queste modalità di parlare, in Uno nessuno e centomila progressivamente si allentano e si scaricano.
Interessante è il passo nel racconto in cui Pirandello arriva a chiedere scusa ai suoi lettori per gli ammiccamenti cui è costretto a ricorrere, non potendo sapere come loro appare in quel momento, scusatemi, tutti questi ammiccamenti; ma ho bisogno di ammiccare, d’ammiccare così perché, non potendo sapere come v’appaio in questo momento, tiro anche, con questi ammiccamenti, a indovinare.
Pirandello ha utilizzato un linguaggio originale, diretto, in grado di comunicare al lettore l’angoscia più o meno esplicita del personaggio senza filtri ipocriti e fuorvianti. Pirandello ha dato luogo ad uno sperimentalismo straordinario grazie ad un lessico raffinato e letterato, elementi dialettali e gergali, termini specialistici, espressioni trite e banali, il discorso indiretto libero e primo fra tutti il dialogo, usato con grandissima frequenza e segnalatore di una qualità scenica della scrittura pirandelliana che si manifesta anche con l’immediatezza visiva dei gesti e delle parole.
Ne risulta una lingua parlata, intessuta di movimenti, drammatica, che riflette la propensione di Pirandello perla scrittura teatrale: una scrittura che è il risultato di un sapiente impasto di parole, silenzi, gesti, espressioni e rapporti spaziali.
TEMI:
ALCUNE INFORMAZIONI SULLA FORMAZIONE DEL ROMANZO:
Uno, nessuno, centomila, l’ultimo romanzo di Pirandello, fu pubblicato a puntate sul settimanale "La fiera letteraria" nel 1926. L’idea del romanzo era già nella mente di Pirandello nel 1910, come si capisce dalla lettera a Bontempelli. La previsione di Pirandello non si realizzò e il romanzo non comparve nel 1913. Un testo che anticipa la stampa del romanzo appare nel gennaio del 1915, il lavoro di scrittura procederà poi fra alti e bassi negli anni successivi: " sto ora ultimando un romanzo che avrebbe dovuto uscire prima di tutte le mie commedie. In questo romanzo c’è la sintesi completa di tutto ciò che ha fatto e la sorgente di quello che farò", questa una delle dichiarazioni di Pirandello. Il libro appare quasi ultimato nel 1922, ma vedrà la luce solo quattro anni più tardi.
Un lungo processo che abbraccia trasversalmente non solo la vita, ma l’opera stessa di Pirandello, in questo romanzo si ritrovano infatti le principali tematiche trattate dallo stesso:
1.      La presa di coscienza della prigionia delle "forme":
il problema dell’identità era già presente nel Fu Mattia Pascal e viene affrontato da Vitangelo Moscarda che parla in modo retrospettivo: il protagonista conclusosi un ciclo della sua vita, si volge indietro a rievocarlo. Dopo la scoperta che il naso gli pende da una parte egli, che non se ne era ami avveduto, scopre così che l’immagine che si è creato di sé non corrisponde a quella che gli altri hanno di lui. Si rende conto del fatto che esistono infiniti "Moscarda", l’uno diverso dall’altro, a seconda della visione delle tante persone che lo conoscono, in primo luogo la moglie. In lui nasce pertanto un vero orrore per la prigionia delle "forme" in cui gli altri lo costringono; ma scopre anche di non essere "nessuno" per sé, e questo genera in lui un’altra forma di orrore, un senso angoscioso di assoluta solitudine.
2.      La rivolta e la distruzione delle forme: la pazzia:
la pazzia è un modo caro agli eroi pirandelliani per scardinare il meccanismo delle forme, delle convezioni e degli istituti sociali che imprigionano la vita nel suo fluire. Viene quindi vista positivamente.
3.      Sconfitta e guarigione:
Moscarda ha cercato, con le sue follie, di ribellarsi al sistema ferreo delle convenzioni sociali, di scardinarlo, ma è rimasto sconfitto. E tuttavia proprio in questa sconfitta trova una
 forma di guarigione dalle angosce che lo ossessionavano, alienarsi da se stessi, rifiutare il proprio nome, per abbandonarsi gioiosamente al fluire della vita, morendo ad ogni attimo e rinascendo nuovo e senza ricordi, per identificarsi con tutte le cose fuori.
4.      L’umorismo:
esso si basa sulla finzione, per cui l’individuo, per non essere emarginato dai suoi simili, deve ricorrere a continue menzogne e ipocrisie, deve insomma indossare una maschera che solo la riflessione umoristica permette di individuare e denunciare. La consapevolezza dell’inganno del vivere conduce inevitabilmente ad una rottura dei valori borghesi tradizionali e soprattutto a una visione lacerata e frammentaria della creatura umana e a nessuna identità profonda, che si rispecchia in un’arte disorganica e trasgressiva, deformata e critica.
5.      L’identificazione uomo - natura:
nella parte finale del racconto tra uomo e natura si crea un’identificazione profonda, quest’albero, respiro tremulo di foglie nuove. Sono quest’albero. Albero, nuvola, quasi mistica, è proposta come modello per ogni uomo che sappia rompere il meccanismo delle convenzioni sociali.
6.      Lo specchio:
ma quando sta davanti allo specchio, nell’attimo che si rimira, lei non è più viva, perché bisogna che lei fermi un attimo in sé la vita per vedersi. Lei s’atteggia. E atteggiarsi è come diventare statua per un momento. La vita si muove di continuo e non può mai vedere veramente se stessa…lei sta tanto a mirarsi in codesto specchio, in tutti gli specchi, perché non vive… non si può vivere davanti a uno specchio. Vitangelo si è reso conto che nessuno di noi può vedersi e anche se uno riuscisse a conoscersi, di fatto non potrebbe mai sapere che cosa pensano gli altri.

COMMENTO PERSONALE:
personalmente ho trovato questo libro molto interessante e anche curioso per il metodo stilistico utilizzato da Pirandello, anche se in alcune parti, soprattutto gli esempi filosofici, erano molto difficili da capire. Mi è piaciuto soprattutto l’uso del dialogo, rivolgendosi ad un "voi" immaginario, perché mi sentivo chiamata in causa, e a volte mi è sembrato che l’autore capisse cosa stavo pensando. Inoltre gli argomenti trattati sono estremamente attuali, spesso anche a noi capita di essere fraintesi dagli altri, che non comprendono veramente chi siamo, così la nostra personalità non può rivelarsi a pieno perché qualsiasi cosa tentiamo di fare non sarà mai capita dagli altri, che guardano verso di noi con i loro occhi. 

 

Analisi del testo:  “Il fu Mattia Pascal” di Luigi Pirandello
 Note sull’autore
La vita
Luigi Pirandello, nato ad Agrigento nel 1867, compì i suoi studi a Palermo, Roma e si laureò in lettere presso l’università di Bonn (in Germania) nel 1891. Tornato in Italia nel 1892, prese residenza a Roma, dove trascorse poi gran parte della sua vita, collaborando a vari giornali e riviste, e insegnando per oltre vent’anni letteratura italiana presso l’Istituto Superiore di Magistero Femminile (dal 1897 al 1922). Il dissesto finanziario causato dalla perdita della rendita di una miniera di zolfo (lascito paterno), lo costringerà a mettersi in concorrenza anche sul mercato editoriale vendendo le sue novelle e romanzi.  E’ da notare che nel 1904 ebbe inizio una grave crisi mentale della moglie ( iniziata proprio grazie al dissesto finanziario, e sfociata  in una forma morbosa e violenta di gelosia nei confronti del marito), che costituì per lo scrittore una vera e propria tragedia familiare (il matrimonio doveva essere infatti “di convenienza” ma si trasformò sfortunatamente in matrimonio d’amore in quanto, come affermava lo stesso Pirandello <Non ci si può sposare innamorati, perché il matrimonio deve essere un patto lucido e consapevole: in un matrimonio senza amore, la donna si adatta al marito, assume il suo ruolo e lo porta avanti creando un’unione solida e portatrice di grandi risultati>), che non rimase senza influsso sulla sua dolorosa concezione del mondo. Negli anni del dopoguerra si dedicò sempre più decisamente all’attività teatrale e fu così che nel 1925 fondò a Roma il Teatro d’arte, dando vita - per alcuni anni- ad una propria compagnia drammatica. In politica, aderì al partito fascista, ma non si espresse mai apertamente su questo tema. Mussolini, gli fece costruire un teatro, a Roma, anche se non apprezzava le sue opere (lontane anni luce dal trionfalismo del regime). Nel 1934, mentre si faceva sempre più largo e profondo l’interesse suscitato in tutto il mondo dalla sua opera teatrale, gli fu conferito Premio Nobel per la letteratura. Morì a Roma, in seguito ad un attacco di polmonite, nel 1936. A fianco è il pino sotto il quale sono tumulate le ceneri di Pirandello. Egli infatti espresse la volontà di non essere sepolto, ma cremato dopo una breve e semplice cerimonia funebre.
 L’arte e la personalità 
Vissuto nel periodo a cavallo tra ’800 e ‘900, fra il naturalismo e l’inizio del decadentismo (periodo delle insicurezze decadentiste, dei “sensi” di Baudelaire, della solitudine di Pascoli, delle tensioni avanguardistiche) Pirandello, come Svevo, è definito uno scrittore isolato, difficile da inquadrare in un movimento letterario ben definito. Nelle sue opere sono rappresentate le riflessioni sull’esistenza, sul male di vivere e sul ruolo dell’uomo nella società; vi si afferma, infatti, l’impossibilità al conseguimento d’alcuna soluzione positiva alla crisi che coinvolge e sconvolge i singoli individui, il tessuto sociale e le istituzioni
Pirandello imposterà i suoi primi scritti come verista, fotografando la realtà siciliana    (estremamente utile sarà l’esperienza fatta in un’estate di “lavoro” alla cava di zolfo paterna), e denunciandola socialmente; il realismo di Pirandello, si discosta comunque dai temi del verismo Verghiano: in Verga, esiste un analisi esterna dei personaggi e delle situazioni, intrisa di particolari idealismi (la religione, l’onore…), mentre nell’analisi Pirandelliana i personaggi vivono una realtà non univoca, ma multiforme e sfaccettata, prigionieri di un mondo illusorio e incoerente, un mondo in cui l’inutilità e la miseria della loro vita appaiono come l’unico scenario di base in cui si snoda la vicenda umana, percepita, peraltro in modo sempre diverso a seconda di chi la osserva. Inoltre, Pirandello analizza non solo la classe operaia più umile, ma anche la borghesia, con le sue nevrosi, le sue frustrazioni.
Nella vita e nel suo flusso eterno, Pirandello avverte, da un lato disordine, causalità e caos, dall’altro percepisce disgregazione e frammentazione. Egli sente i rapporti sociali inautentici, rifiuta le forme e le ipocrisie imposte dalla società; a questo proposito, il pessimismo dello scrittore è totale e ciò lo si nota anche, nelle sue opere, dalla caratterizzazione dei personaggi, i quali sono posti sempre in situazioni paradossali, svelando così la contraddittorietà dell’esistenza umana. Vede, Pirandello, un mondo vuoto, privo di ideali: si è perso il gusto dell’eroe, del giusto. Ognuno vive la propria promiscuità, e lo scrittore gliela getta in faccia attraverso le sue opere. Egli punta il dito contro la classe borghese, vuota di ideali e cultura, che crea angosce, ansia, sopraffazione. Dal rifiuto della società organizzata nasce una figura ricorrente in Pirandello, quella del "forestiero della vita", l’uomo cioè che si isola e si esclude, colui che guarda vivere gli altri e se stesso dall’esterno con un atteggiamento "umoristico", in una prospettiva di autoestraniazione. La poetica pirandelliana viene così a basarsi su alcuni nuclei concettuali: il vitalismo e il caos della vita. Il vitalismo è la tesi secondo cui la vita non è mai né statica né omogenea, ma consiste in un’incessante trasformazione da uno stato all’altro; la vita è, in definitiva, una contraddizione insanabile: è caos, movimento, mentre gli uomini cercano disperatamente di fissare delle forme stabili, ma l’unico momento in cui vi riescono coincide con la loro morte; la frattura è così inconciliabile.  Il relativismo nel sostenere che è impossibile giungere a stabilire una verità, insieme al soggettivismo, legano Pirandello al clima culturale del primo Novecento, cioè alla fase in cui si compie la crisi del Positivismo. Pirandello rifiuta il Positivismo, movimento che riteneva la scienza capace di dare risposte certe alle angosce e all’infelicità della vita (movimento ateo), e si reputa testimone attento e consapevole della crisi della sua epoca, vivendone le contraddizioni. Egli interpreta in modo originale l’atmosfera decadente, traendo dall’esperienza concreta del suo tempo i suggerimenti per un’analisi lucida ed amara della natura della realtà; ma, se per alcuni motivi la sua posizione rientra nell’ambito di quello che si è soliti definire Decadentismo, sotto altri aspetti (espressionismo) egli lo ha già superato.
Pirandello è stato considerato un autore "filosofico" più attento ai contenuti che alle soluzioni stilistiche e che non si limita a teorizzare le sue concezioni, ma le usa come materia, ne fa l’oggetto delle proprie composizioni. Con le sue opere, la letteratura italiana esce dall’ambito nazionale e acquista respiro europeo. E’, infatti, uno dei pochi autori italiani importanti, conosciuto a livello internazionale con Svevo, Ungaretti, la generazione d’inizio secolo, e quindi, dopo l’arrivo (nonostante il regime fascista) della letteratura americana e nordeuropea in Italia, Gadda, Pasolini, Calvino negli anni ‘50/’60.
 Le tematiche pirandelliane 
1.       La pazzia – Il senso della pazzia è una delle tematiche più importanti nell’universo Pirandelliano: la pazzia è quando noi non ci rendiamo più conto  di avere sul volto una maschera (oppure, rendendocene conte, ce la togliamo) maschera che cambiamo tante volte al giorno, a seconda del ruolo che dobbiamo sostenere. Quando non ci si rende conto di aver la maschera, o non la si indossa più, si può essere se stessi, dire agli altri in faccia ciò che siamo, ciò che pensiamo; gli altri vedendoci diversi ci crederanno pazzi. Essere se stessi, liberarsi delle convenzioni, non atteggiarsi, non comportarsi come la gente vorrebbe che ci si comportasse. Il pazzo si fa portare dall’immaginazione e capisce che è padrone della vita trovando se stesso. Pirandello arriva a queste considerazioni attraverso le vicissitudini familiari della moglie l’inizio della situazione di instabilità emotiva, e quindi di pazzia della consorte coincidono, e ne sono causate, dal tracollo economico seguito all’allagamento delle miniere di zolfo avite. La moglie, già mentalmente instabile (si dice che ciò fu dovuto alle gravidanze), subisce un gravissimo shock. Nel 1904 impazzisce del tutto (esternando ciò in convulsi atti di gelosia e accuse di tradimento).
 2.       Le realtà soggettive - Lo scrittore fa curare la moglie senza però ottenere risultati (sarà internata, e morirà in ospedale psichiatrico nel 1952). Arriva così alla conclusione di lasciarla alle sue convinzioni, di non contrariarla. Infatti, quando vogliamo sconvolgere l’equilibrio raggiunto da un altro, gli facciamo del male; occorre rispettare il mondo interiore, la realtà che l’altro si è costruito, nella quale crede e sta bene sino a che qualcuno non cerca di strappargliela. Ognuno vive sul proprio piano, ha la sua realtà, percepisce una realtà diversa e opposta da quella di tutti gli altri, l’importante è lasciarlo dove vuole stare (anti positivismo). Ma alfine, qual è la visione giusta, “normale” della realtà? Quella usualmente mediata dalla ragione “media” comunemente accettata, o quella deformata, come se fosse “percepita da oltre uno specchio”? Così come non esiste una visione “univoca” della realtà, così, per assioma, non esiste una visione “giusta” della realtà: possono esistere solo ideologie, culture della realtà che mirano a definirsi come le uniche giuste, veritiere e corrette: fanatismi religiosi, movimenti politici, immersi peraltro nel secolo dei “dubbi”, della mancanza di certezze.
 3.       La frammentazione dell’essere - l’uomo non ha una sola identità, ma tante quante gli altri gliene attribuiscono. Quando la certezza dell’essere se ne va costatando che gli altri ci vedono in modo, anzi, in miriadi di modi (un modo per ogni altro) diversi da come ci vediamo, da come avevamo creduto di essere da sempre, le certezze si disgregano, si “impazzisce”, si capisce che ognuno di noi è una persona diversa per tutti gli altri, ogni persona vede, percepisce, prende di noi cose diverse, e non i tratti salienti da noi usualmente considerati (rif.: “Uno, nessuno e centomila”). La vita è movimento, ma l’uomo, per poter vivere ha bisogno di fissare dei ruoli, ma la forma chiusa è immobilità, quindi morte; non c’è soluzione. Ci si vede vivere dall’esterno osservando la gabbia in cui si è stati costretti a costruire la propria vita.
 4.       La maschera - Non potendo quadrare il mio io, non so chi io sia, non sono, e perciò non posso comunicare agli altri. Il vivere è perciò una pena. Ci si atteggia a qualcosa che non si è, si modifica qualcosa di cui non si è sicuri e perciò ci si rende ridicoli: quindi noi continuamente ci mascheriamo, per convenire alle aspettative della gente, alle convenzioni sociali. Il mondo è fatto di continui atteggiamenti per apparire, e perciò l’uomo si dilania; va così incontro alle psicosi dell’uomo moderno.
 5.       L’umorismo – L’umorismo, nel significato comune del termine, indica la percezione o la rappresentazione, in riferimento a determinate situazioni, del ridicolo (nelle cose, nell’uomo ecc.), allo scopo di suscitare ilarità. Generalmente, fermandosi a questo primo livello di “lettura” senza successive analisi, l’umorismo è, quindi, quasi sinonimo di comico. L’umorismo Pirandelliano, invece, nasce dalle situazioni di dolore, dalle sofferenze e dal “divenire” patetico degli altri (sottintendendo il compatimento e la pietà, certo, ma anche la speranza che a noi non capiti mai una simile situazione). L’umorismo di Pirandello, parte dal comico come avvertimento del contrario (la situazione anomala e ridicola che suscita l’ilarità), per poi arrivare, tramite una riflessione mirata alle cause che hanno determinato tale comportamento o situazione, cogliendone gli aspetti intrinsechi, spesso dolorosi e pietosi ad un sentimento del contrario. Nelle sue opere Pirandello lavorerà solo sull’aspetto umoristico delle vicende e delle persone, puntando sempre ad una riflessione palese, o indotta nel lettore, sulle angosce e l’amarezza derivanti dal vivere determinate situazioni.
  6.       L’antieroe – Pirandello guarda dentro l’uomo. Anche l’eroe (che di solito ha una morale con certezze granitiche, che non pecca) non è vero che alla fine è felice, anzi, può perdere, essere preso in giro, fallire. E’ l’antieroe, il protagonista dei romanzi del ‘900, l’inetto alla vita, l’incapace, il complessato, il perdente.

 Luogo e anno di edizione  Roma, 1904
Nel 1903 Pirandello scrive “Il fu Mattia Pascal”, pubblicato l’anno seguente a puntate su “La nuova Antologia”, poi in volume, tradotto subito in varie lingue.
 Riassunto dell’opera
L’intera vicenda ruota attorno al personaggio di Mattia Pascal, protagonista e narratore della storia.
Suo padre viaggiava e seppe arricchirsi giocando a carte con un capitano inglese di Liverpool.
Con la grande fortuna accumulata riuscì a comprare case, vigne e campi nel suo paesino ligure, Miragno. Purtroppo, a causa di una malattia, morì durante l’ennesimo viaggio, lasciando la moglie ed i suoi due figli, Mattia e Roberto, soli. L’amministrazione della grande ricchezza dei Pascal fu affidata dall’ingenua donna al Malagna, amico del marito. Purtroppo si rivela una scelta sbagliatissima: tale amministratore pensa solo al proprio interesse e col passare degli anni tutti gli averi e le proprietà dei Pascal finiscono in mano sua, complice la cecità della madre di Mattia.
Nonostante il lento declino della famiglia, Mattia e Roberto crescono spensierati, liberi da ogni pensiero morale, religioso e scolastico. La loro educazione era stata affidata a Pinzone, un insegnante di poco conto che volentieri si lasciva coinvolgere dai due ragazzi e preferiva spassarsela e divertirsi con i suoi due “allievi” piuttosto che insegnare loro qualcosa di concreto.
Gli anni passano e Mattia cresce, maturando un carattere impulsivo, allegro e spensierato.
L’odiato Malagna non riesce ad avere figli dalla prima moglie malata e per questa situazione soffre moltissimo. Dopo la morte della consorte decide di mettere le mani sulla bella Oliva. Così facendo rovina la storia d’amore di Mattia con quella ragazza. Malagna si risposa ma il figlio che Oliva mette alla luce non è suo: è di Mattia. Decide di crescerlo ugualmente come se fosse stato suo, visto il suo grande desiderio di diventare padre ora realizzabile.
Da Malagna intanto si trasferiscono la vedova Pescatore e la bella figlia Romilda. La ragazza piace moltissimo a Pomino, amico di Mattia. Il giovane Pascal inizia a frequentarla per conto dell’amico ed involontariamente tra i due nasce un amore. Mattia è costretto a sposarsi, nonostante il parere contrario della vedova Pescatore ed una rovina finanziaria ormai troppo evidente.
Da questo momento la vita di Mattia diventa un inferno ed il ragazzo sembra perseguitato dalla sfortuna e dalle disgrazie. Si trasferisce in una casa umile perché ormai è senza ricchezze, la moglie non sembra più amarlo, perde la sua bellezza originaria ed i due figli che ella mette alla luce muoiono uno dopo l’altro, a causa della loro gracilità e mancanza di salute. In più la suocera lo odia moltissimo per il suo carattere e la sua povertà e con il suo comportamento violento e bisbetico rovina la tranquillità della casa. La mamma di Mattia è vittima di questa donna e di lì a poco muore. Solo la zia Scolastica riesce a contrastare il suo caratteraccio. Per vivere Pascal è costretto a cercarsi per la prima volta in vita sua un lavoro ed ottiene il posto di bibliotecario, lavoro alquanto inutile in un paese di analfabeti senza il minimo interesse per la cultura.
Il lavoro troppo noioso, limitato alla caccia ai topi ed alla lettura per ingannare il tempo, l’inferno in casa e la morte quasi contemporanea dei due figli e della adorata madre mandano in crisi Mattia.
All’insaputa di tutti parte da solo per Montecarlo, attirato dal gioco d’azzardo. La fortuna, incredibile ma vero, stavolta è dalla sua parte ed in una decina di giorni, tra conoscenze singolari e molte puntate fortunate riesce a moltiplicare la misera cifra iniziale fino alla bellezza di 82.000 lire, una fortuna per quell’epoca e forse la fine di molti suoi problemi.
Ma il destino non ha ancora finito di giocare con Mattia e sta per presentargli una nuova e favorevole sorpresa. Mentre pensa a come utilizzare al meglio i soldi vinti al casinò, cercando magari di pagare qualche debito e riscattando così qualcuna delle vecchie proprietà perdute, legge distrattamente su un giornale una notizia sconvolgente, la notizia della propria morte.
Secondo quel giornale Mattia Pascal si è suicidato vicino al molino alla Stia, una sua vecchia proprietà, a causa di dissesti finanziari e lutti familiari. Moglie e suocera lo hanno riconosciuto nel cadavere ritrovato nel fiume ed in via di decomposizione. E’ chiaro che lo sventurato suicida non può essere Mattia, in realtà la sua lunga lontananza senza alcun preavviso, una vaga somiglianza ed una nascosta speranza di vedere quell’odiato marito morto per davvero avranno spinto le due donne a riconoscere Mattia in un corpo estraneo.
Mattia, dopo la lettura di quella incredibile notizia, di quell’errore fortuito, vede apparire davanti a sé una nuova vita, fatta di libertà e la rottura di ogni legame con il passato. Mattia Pascal è ufficialmente creduto morto e solo lui sa che non è vero. Potrà vivere senza problemi e responsabilità come da giovane, anche grazie alla nuova ricchezza da non dividere con nessun creditore.  Nella nuova vita inoltre non dovrà commettere gli errori fatti nella precedente e perciò da adesso in poi basta con i legami, fonte di problemi e responsabilità. Dopo vari accertamenti per essere completamente sicuro di quella svista incredibile, quasi impossibile, Mattia decide di diventare un altro e di non essere più Mattia Pascal, ormai morto insieme ai suoi problemi.
E’ necessario cambiare aspetto: via la fede e la folta barba appartenuta a Mattia, farsi crescere molto i capelli e usare occhiali colorati, necessari per nascondere l’occhio sbircio, caratteristica avuta fin dalla nascita. Mattia è morto, bisogna cambiare nome ed ancora una volta è il destino a suggerirgli come comportarsi: un dialogo tra due signori gli mette in testa il nome di Adriano Meis. Per evitare futuri problemi viene inventato anche un credibile passato, fatto di lutti e viaggi che gli avrebbe impedito di conoscere la sua famiglia, a parte un amabile nonnino che l’ha cresciuto ed educato. Da adesso in poi la vita di Mattia-Adriano è un continuo viaggiare per l’Italia e per la Germania, su un piroscafo, visitando le città più belle e famose, il tutto nella più completa solitudine e libertà. Ma una vita del genere, senza affetti, amicizie e legami stanca presto: Adriano si accorge che la sua libertà è solo il frutto di un errore, che l’ha reso un uomo sconosciuto ad tutti e dalla legge, inventato, misterioso, impossibilitato a qualsiasi operazione dove sia necessario dare le proprie generalità (non potrà quindi mai avere una proprietà e nemmeno una casa propria),geloso del proprio segreto.
Non potrà mai confidarsi con nessuno ed è condannato a vivere da forestiero.
A Milano inizia a riflettere seriamente sulla propria condizione di vita ed a scoprire a poco a poco tutti gli svantaggi non calcolati. Perfino l’acquisto di un cagnolino per la propria compagnia lo metterebbe in contraddizione: finirebbe con il legarsi a qualcosa e ciò non era assolutamente nei suoi progetti iniziali. Il dialogo con un uomo conosciuto in un locale lo porta a considerazioni sugli ideali intoccabili della vita, sull’importanza della famiglia e delle amicizie come sostegno e come morale.
Adriano decide quindi di cambiare, di trasferirsi nella bella Roma dove sistemarsi, magari in una camera affittata da qualche famiglia disponibile. Così Adriano entra in casa Paleari, dove conosce il singolare e buffo Anselmo padrone di casa, la figlia Adriana e la signorina Caporale. Grazie a questi personaggi Adriano potrà riflettere sulla sua condizione e cambiare ancora una volta. La riservatezza ed il carattere schivo di Adriano a poco a poco, col passare dei mesi, vanno sempre più scomparendo: Adriano la sera ama discutere con Adriana e la Caporale e scopre con sorpresa di essere amato da quest’ultima. Riscopre gli affetti, la soddisfazione di piacere e di essere importante per qualcuno: dentro di lui trova una nuova serenità e torna alla ricerca di legami forti. Adesso è capace di innamorarsi di nuovo e lo fa di Adriana. Questo nuovo amore è diverso da tutti i precedenti ed è sicuramente più puro, fatto di sguardi e di intese, visto il carattere timido della ragazza.
L’equilibrio in casa Paleari viene interrotto dall’inaspettato ritorno di Terenzio Papiani, il cognato di Adriana, marito della sua defunta sorella. E’ un tipo losco che vuole sposarsi con la giovane ragazza per non dover restituire la dote ad Anselmo. Ma la ragazza è amata da Adriano che non può sopportare tale ingiustizia. Così decide di ostacolare Terenzio, che si rivela sempre più falso e spregevole. Intanto Adriano decide di migliorare il suo aspetto estetico e contemporaneamente eliminare l’ultima traccia in lui di Mattia Pascal: il difetto dell’occhio, sottoponendosi ad una sicura operazione. L’esito è positivo ma Mattia deve stare quaranta giorni a riposo nell’oscurità della sua stanza. Tutti gli abitanti della casa cercano di fargli compagnia in modi più o meno apprezzati. Viene addirittura organizzata una seduta spiritica da Terenzio, ma ha solo lo scopo di prendere in giro Anselmo (l’unico partecipante che amava le teorie sul post-morte) e distrarre Adriano mentre un complice gli ruba 12.000 lire. Ma il protagonista è con le spalle al muro ed entra in una nuova crisi: non può assolutamente denunciare il furto come tanto desidera Adriana, altrimenti la polizia avrebbe indagato anche sul suo conto e scoperto che è un uomo inventato, senza passato.
Non può nemmeno amare la ragazza, accorgendosi solo adesso di nuovi e tremendi svantaggi che la sua condizione “idillica” gli impongono. In fondo lui è sempre un uomo sposato e non può né risposarsi, perché non può utilizzare il nome di Adriano Meis, né chiedere alla ragazza amata, tanto semplice ed onesta, un compromesso, un amore senza matrimonio, magari dicendole la verità sul proprio conto. E’ un morto che deve sempre morire ed è destinato a farlo in solitudine, senza ideali. Solo adesso si accorge di non essersi mai interessato alla religione. Inoltre in lui nasce anche un rimorso, un pensiero per il povero disgraziato suicidatosi alla Stia e scambiato per Pascal.
Adriano finisce col rinunciare a denunciare Terenzio e così facendo offende Adriana, che a sua insaputa aveva detto tutto in casa ed adesso viene smentita ingiustamente. Decide anche di far soffrire la ragazza con la gelosia per poterla allontanare da sé: in questo modo non lo amerà più e risolverà, forse in maniera triste e sbagliata, il suo problema. L’occasione per ingelosire Adriana è data da una visita in casa di una importante famiglia spagnola coinvolta in politica da sempre.
Qui Adriano rincontra la bellissima Pepita ed il suo ragazzo, pittore, Bernaldez (già conosciuti durante la seduta spiritica - rapina).Approfittando di un piccolo litigio tra i due, inizia a fare la corte alla bella ragazza ed ad offendere il pittore spagnolo. La lite tra i due uomini può solo risolversi con un duello mortale ed ancora una volta Adriano scopre un suo limite. Non potrà mai avere testimoni e farà la fine del vigliacco non presentandosi al duello con lo spagnolo il giorno dopo.
Immerso nei suoi pensieri Adriano arriva a riflettere su un ponte e qui…decide di far morire, dopo solo due anni di vita, Adriano Meis per poter finalmente tornare Mattia Pascal. Lascia sul posto un bigliettino assieme ad alcuni indumenti ed ancora una volta leggerà su un quotidiano la notizia della propria morte, la seconda. Pascal è rinato, pronto a tornare alla sua vecchia vita. A Pisa ogni aspetto estetico di Adriano scompare. Con i capelli corti e la barba lunga rinasce i vecchio Mattia, stavolta con l’occhio di Adriano, segno inconfutabile della sua seconda vita.
Decide di andare trovare per primo il fratello Roberto. Naturalmente quest’ultimo rimane stupito dalla vista del fratello creduto morto da due anni, ma in poco tempo si calma e può riabbracciare Mattia. Da lui viene a sapere che Romilda si è risposata col vecchio e ricco amico Pomino e che se tornerà a Mirano tale matrimonio sarà annullato secondo la legge. Così Romilda tornerà, con o senza il suo consenso, sua moglie. Ma il ritorno a casa è obbligatorio e così Mattia torna a Miragno, affrontando il proprio destino. Nessuno sembra riconoscerlo e quando entra in casa di Pomino succede un gran caos: Romilda sviene, il suo nuovo marito si preoccupa per il matrimonio da annullare e la vecchia suocera reagisce alla sua maniera, urlando come una matta. Ma davanti ad una famiglia felice, ad un figlio di Romilda finalmente sano, Mattia sa che non potrà intromettersi nella sua vita una seconda volta. Ormai è inutile fare valere i suoi diritti sul matrimonio: meglio vivere nel paese in disparte, lasciando le cose al loro equilibrio attuale e stabile. Così facendo Mattia ha sicuramente fatto la scelta giusta, abbandonando tutto ciò che non è più suo, perché stato del fu Mattia Pascal.
E mentre continua a lavorare come bibliotecario assieme a don Eligio potrà scrivere la sua incredibile storia ed andare ogni tanto a visitare la sua tomba, con la strana sensazione di sentirsi morto e sepolto laggiù, alla Stia, per un suicidio vicino al molino…
 Narratore
La narrazione è condotta in prima persona; è Mattia Pascal, il protagonista, che raccontando ci fornisce il suo punto di vista interno con focalizzazione 0 (zero/onnisciente). L'onniscienza del narratore è dovuta dal fatto che lui racconta la sua storia a posteriori, quando questa è già successa; questo permette che al lettore vengano fornite anticipazioni degli avvenimenti che ne stimolano la curiosità.
Mattia Pascal scrive, su invito di don Eligio, la sua biografia sotto forma di diario, rivolgendosi direttamente al lettore, dialogando persino con lui.
L'ordine cronologico è regressivo, cioè lo scrittore ricorda fatti avvenuti in precedenza e va a ritroso nel tempo, salvo tornare al presente alla fine del racconto.

 

 Tipologia testuale
Pubblicato nel 1904, in piena era Giolittiana, “Il Fu Mattia Pascal” è il primo romanzo italiano scritto in forma “autobiografica”, redatto cioè in prima persona, con la presentazione quindi di una visione esclusivamente soggettiva della vicenda, visione che nega la realtà se non colta con quella particolare percezione: la razionalità realista non esiste più, per ogni persona esiste, così, una visione personalissima della realtà. Tale situazione costringe il lettore ad una personificazione con il protagonista, ed al successivo sforzo di uscire da questo stato di “simbiosi”.
Il romanzo ha una struttura circolare, infatti inizia dalla conclusione, rivendicando la condizione particolare di Mattia Pascal, ritenuto morto, che assume una nuova identità, uccide fittiziamente anche quest’ultima, e quindi ritorna se stesso ma al di fuori della sua normale vita precedente, condizione di chi è fuori dal tempo e quindi fuori dalla vita (questo particolare tipologia di narrazione è estremamente innovativa).

 Fabula e intreccio
Fabula e intreccio, ne "Il fu Mattia Pascal", non coincidono, se non nelle ultime pagine del romanzo. Il narratore, per il resto, racconta le vicende che gli sono  capitate a posteriori, dopo che queste si sono verificate.
 Tempo
In tutta la vicenda mancano del tutto riferimenti cronologici precisi ed espliciti. Pirandello non ci dà date o altre precisazioni a riguardo. Dalle notizie che Mattia legge in treno su un giornale (Lessi che l'imperatore di Germania aveva ricevuto a Potsdam, a mezzodì; l'ambasciata marocchina e che al ricevimento aveva assistito anche il segretario di Stato, barone Richtofen. La missione presentata poi all'imperatrice, era stata trattenuta a colazione… Anche lo Zar e la Zarina avevano ricevuto a Peterhof una speciale missione tibetana, che aveva presentato alle LL. MM. I doni del Lama.) possiamo però capire che la vicenda si svolge tra la fine del ‘800 e gli inizi del ‘900.Sono riferimenti di fatti politici accaduti in Germania ed in Russia. Quindi per quanto riguarda la collocazione storica della vicenda, si limita a fare da semplice scenario: per Pirandello non sono fondamentali collocazioni spaziali e temporali precise, ciò che più conta sono i personaggi, i loro pensieri e le loro azioni. Così facendo la storia diventa assoluta perché la lezione di vita di Mattia è valida in ogni tempo ed in ogni luogo.
 Durata
La narrazione dell'autore inizia dalla giovinezza di Mattia Pascal anche se in realtà il racconto vero e proprio ha la durata di due anni. Per quanto riguarda la durata dell’azione va considerato il tipo di narrazione utilizzato da Pirandello per la sua opera: è in prima persona attraverso il punto di vista di Mattia. L’intera vicenda è un enorme flashback, visto che Mattia racconta i fatti attraverso un diario su invito di don Eligio. Sono presenti anticipazioni che  preparano il lettore agli eventi successivi o che aumentano l’attesa dello svolgersi della vicenda. Perciò l’opera inizia con il Mattia maturo che ha già affrontato la vicenda ed in seguito viene ricordata tutto la sua vita: l ’infanzia, il matrimonio, la fuga dal paese verso Montecarlo, il lungo viaggio lungo l’Italia e la Germania, il soggiorno a Roma ed il ritorno a Mirano. La fine della storia si collega all’inizio dell’opera.
 Spazio
L’incredibile avventura di Mattia-Adriano si svolge principalmente in due località e cioè a Miragno, il paesino ligure dove nasce Mattia ed a Roma, dove Adriano affitta una stanza ad una famiglia. Queste due località possono essere considerate le patrie delle due vite del personaggio. Dopo la scelta della libertà assoluta e della seconda vita Mattia viaggia moltissimo, visitando l’Italia e la Germania. Vengono citati paesi come Torino, Milano, Venezia, Firenze e poi ancora Montecarlo, Colonia, Worms e Magonza. Nonostante la molteplicità dei luoghi citati mai Pirandello si sofferma a descriverli, forse perché sarebbe inutile ai fini della storia interamente concentrata sulla molteplicità dei personaggi, sull’analisi dei caratteri e sulla maturazione di Mattia.
Tecniche narrative
Il romanzo "Il fu Mattia Pascal" è diviso in diciotto capitoli numerati e titolati più l'ulteriore Avvertenza sugli scrupoli della fantasia, esterno alla storia ma aggiunto dallo stesso Pirandello al suo romanzo qualche anno dopo la prima stesura per dimostrare come le vicende di Mattia Pascal, seppure straordinarie e quasi inspiegabili, possano realmente accadere.
La struttura narrativa de "Il fu Mattia Pascal" non è quella tradizionale dei romanzi in cui il protagonista racconta le proprie vicende. L'opera si apre con due premesse: la prima in cui ci viene presentato il protagonista-narratore e il suo strano caso; e la seconda, "filosofica", nella quale lo stesso autore ritiene necessario esporre la sua concezione a riguardo dell'uomo e della vita. Dopo le due premesse inizia una lunghissima analessi che qualche volta sarà interrotta da alcune anticipazioni dell'autore, spesso molto brevi.
Le sequenze narrative all'interno del romanzo, sono, assieme a quelle riflessive e dialogate le predominanti. Quelle riflessive portano spesso l'autore a vere e proprie considerazioni di carattere filosofico, mentre quelle dialogate sono caratterizzate per lo più dal discorso indiretto, da quello diretto libero e da monologhi interiori dello stesso io narrante. Proprio la presenza di sequenze dialogate e narrative fa sì che il ritmo della storia sia sempre veloce e incalzante.
Il tono usato da Pirandello per il suo romanzo è di tipo colloquiale, anche perché spesso è proprio lo stesso autore che interagisce col lettore; lo stile è chiaro, semplice e scorrevole.
 Stile e lessico
La sintassi e il lessico de “Il fu Mattia Pascal” sono funzionali dal punto di vista della narrazione, che segue fedelmente i pensieri, i progetti, i ragionamenti del protagonista, dalla cui mediazione sono tra l'altro mediate le descrizioni di tutti gli altri personaggi. Di conseguenza, l'analisi dello stile è più o meno equivalente a quella del modo di ragionare di Mattia Pascal. Ad esempio possiamo notare che i pensieri di Mattia non sono mai eccessivamente articolati, ma seguono piuttosto la scia di sensazioni, impressioni, ricordi che sopraggiungono senza una logica precisa; del resto anche l'elaborazione di decisioni, quando non segue l'indole impetuosa, risponde ad esigenze pratiche e spesso inaspettate, per cui la risoluzione finale raramente è frutto di una ponderazione complessa e articolata. È proprio quando la meditazione si fa più prolungata, invece, che il protagonista tarda a trovare una via d'uscita.
Al di là di tutto ciò, comunque, bisogna dire che linearità e la sintesi sono caratteristiche intrinseche dello stile di Pirandello, insieme a quella colloquialità che semplifica le stesse riflessioni filosofiche, esemplificate e tradotte in immagini familiari.
In modo analogo, il lessico appare improntato alla quotidianità, pur essendo arricchito da quella coloritura di termini ed espressioni tipiche del parlato, oppure ottenuti con invenzioni talvolta bizzarre o con l'uso di diminutivi e accrescitivi. Questi contributi lessicali permettono allo stile di Pirandello di non essere monotono, e consentono al discorso ora di accelerare, ora di rallentare, ora di distendersi, ora di agitarsi, il tutto sempre in risposta allo stato d'animo del soggetto narrante.
 Personaggi
L’opera pirandelliana è caratterizzata da una grande quantità di personaggi (almeno una trentina) tutti differenti tra loro e tutti con una diversa importanza nella vicenda. Se alcuni sono fondamentali, altri potrebbero essere considerati quasi superflui ma servono ugualmente a creare un piccolo e verosimile mondo, fatto di sfaccettature e di personaggi molto eterogenei tra loro, per rappresentare quanto più possibile il reale. Ogni personaggio viene presentato da Mattia in modi diversi ma la descrizione iniziale è minima, spesso senza un accenno di aspetto fisico. Il carattere del personaggio che entra in scena si presenta da sé, indirettamente, attraverso lo sviluppo della vicenda. Dalle sue azioni e dai dialoghi è possibile capire anche il suo modo di pensare. Infine si nota che alla fine della storia l’unico che veramente è cambiato e maturato rispetto alla condizione iniziale è il protagonista Mattia Pascal. Quindi tutti gli altri personaggi a parte lui hanno la funzione di cornice.

 Mattia PascalAdriano Meis
Il protagonista dell’opera, che attraverso un enorme flash back ci racconta la sua vita singolare, nella quale ha potuto morire formalmente per ben due volte.
Mattia Pascal proviene da una famiglia benestante le cui finanze, però, sono venute a mancare con la morte del padre a causa della cattiva amministrazione del patrimonio da parte di Batta Malagna. Mattia non è particolarmente avvenente: ha un volto placido e stizzoso, è minuto, ha il naso molto piccolo, come il mento, del resto, ed è costretto a portare un paio di occhiali tondi per curare lo strabismo di uno dei suoi occhi; ma era pieno di salute, e questo gli bastava.  Si preoccupa del proprio aspetto solo durante la trasformazione Mattia-Adriano, per un fine preciso .Con l’operazione all’occhio capisce di amare di più sé stesso.
Tra il protagonista della vicenda e la madre c'è un ottimo rapporto di stima, rispetto e tenerezza. Tra Mattia e Roberto, il fratello, il rapporto è più di complicità.
Romilda non sembra essere molto importante per lui e l’unico suo grande amore è sicuramente Adriana, che con la sua dolcezza ha saputo conquistarlo in un momento di trasformazione morale.
Mattia, insieme al fratello Roberto è cresciuto senza preoccupazioni ed anche nelle situazioni più difficili assume un atteggiamento tranquillo e sarcastico .Si preoccupa della sua libertà, di avere meno problemi possibile e di divertirsi, almeno da giovane. La prima svolta che cerca di dare alla sua vita è il matrimonio con Romilda. Col matrimonio e la difficile condizione in casa inizia a sentirsi troppo legato alle cose materiali, ai soldi che non bastano mai e cerca una via di fuga, un ritorno alla vita semplice e divertente che ha potuto fare da piccolo.
Scappa all’insaputa di tutti a Montecarlo, per fuggire dai propri problemi e per stare da solo.
Alla roulette il destino e la fortuna gli offrono molti soldi che, insieme alla notizia incredibile della propria morte gli offrono l’occasione di abbandonare una vita fatta di problemi e di iniziarne una nuova, perfetta. Così diventa Adriano Meis, ma durante i suoi lunghi viaggi scopre quanto sia insignificante una vita senza legami, senza responsabilità ed affetti. Tutto questo lo spinge a tornare Mattia, ma ormai è troppo tardi. La sua scomparsa ha permesso alla famiglia ed alla moglie di sostituirlo, creando una nuova e sconosciuta armonia. Con la sua esperienza è maturato, cresciuto ed ha scoperto gli ideali a cui fare riferimento nella vita, ma non può avere una seconda possibilità. Ad un uomo come lui, vittima del destino e della sua volontà di cambiarlo, non rimane altro da fare se non commiserarsi davanti alla propria tomba, la tomba del fu Mattia Pascal.
 La madre di Mattia Pascal
Mattia Pascal ha una vera e propria devozione nei riguardi della sua santa (cap. III) madre, il rapporto fra i due è di tenerezza e stima.
È molto pacata, placida, quasi infantile. Ha una voce e una risata nasale che sembra la faccia vergognare. È molto gracile e spesso malata dopo la morte del marito, anche se non si lamenta mai dei propri mali. Ciò che probabilmente più la preoccupa è la sorte dei due figli, rimasti praticamente senza nulla dopo la morte del padre e dopo che la stessa signora Pascal aveva lasciato tutte le sue ricchezze e proprietà sotto l'amministrazione di Batta Malagna, poiché inetta a questo genere di faccende: non è capace di gestire da sola la grande ricchezza lasciata dal marito e lascia l’intera amministrazione dei suoi affari e delle sue proprietà al Malagna. Non accorgendosi degli imbrogli fatti alle sue spalle può solo facilitare la sua rovina.
Quando Mattia si sposa con Romilda non riesce a sopportare la vicinanza della violenta e bisbetica vedova Pescatore e finisce con il diventarne una vittima. Fugge di casa con la sorella ma la morte la colpisce dopo poco, a causa degli affanni e dei feroci litigi subiti in precedenza.
 Roberto Pascal
È il fratello maggiore di due anni di Mattia Pascal. Viene presentato inizialmente, quando il protagonista parla della sua infanzia. I due hanno un ottimo rapporto di complicità, soprattutto durante l'infanzia e la prima giovinezza. Sono due amici e insieme a Mino Gerolamo formano un gruppo inseparabile.
Berto, questo è il suo soprannome, al contrario di Mattia, è bello di volto e di corpo (cap. III), molto vanitoso e curato nell'aspetto. Da adolescente non combina tutti i guai sentimentali del fratello e lo ritroviamo verso la fine della vicenda un uomo maturo, serio ed abbastanza fortunato, capace di compensare il dissesto finanziario subito in gioventù: Grazie alla sua avvenenza riesce a contrarre un matrimonio felice con una giovane più ricca di lui e vive con lei e la famiglia di questa ad Oneglia.
 Zia Scolastica
È la sorella del padre di Mattia, è completamente differente dalla sorella e Mattia se ne accorge fin da piccolo. Aveva molta più paura di lei che dei leggeri rimproveri della madre. Spesso apre gli occhi alla sorella su ciò che avviene attorno al lei ed è l’unica donna capace di vincere una lite contro la vedova Pescatore, perché ha un carattere ancora più forte e duro di lei e sicuramente più saggio.
Scolastica nutre davvero un grande rancore nei confronti dell'amministratore del patrimonio del fratello e vede come unica soluzione dello scempio che compie Malagna un nuovo matrimonio della cognata, semmai con Gerolamo Pomino, un suo vecchio corteggiatore. La madre di Mattia rifiuta però la proposta, Zia Scolastica così la accoglie nella sua casa per sottrarla alle angherie della consuocera e della nuora, e fa lo stesso col nipote Mattia tornato a Miragno dopo che per anni tutti lo credevano morto.
 Batta Malagna
Il disonesto amministratore delle ricchezze della famiglia di Mattia. Approfittando della ingenuità e buona fede della moglie del defunto Pascal, riesce ed agire indisturbato ed a diventare a poco a poco molto ricco. Non ha rispetto per l’amico defunto e la sua famiglia, non si fa scrupoli a dirigere la sua attività in modo sbagliato, costringendo i Pascal a vendere una dopo l’altra tutte le loro proprietà, per poi acquistarle ad un prezzo stracciato e goderne i frutti. Mattia, cresciuto nella spensieratezza totale a causa della madre non se ne preoccupa e non si meraviglia una volta arrivata la povertà.
Aveva un viso lungo incorniciato da baffi melensi e pizzo; il pancione era languido (cap. I) che sembrava arrivasse fino a terra, le gambe corte e tozze: insomma, secondo Mattia, aveva il volto e il corpo che più non si addicevano ad un ladro come Malagna.
Questo personaggio sembra punito dal destino per le sue azioni disoneste: è continuamente afflitto perché non riesce ad avere un figlio. Anche in famiglia non si comporta in maniera corretta. La sua prima moglie era malata e non poteva bere vino a mangiare i cibi più gustosi. Ma lui non si cura di questo ed a tavola sembra provocarla, mangiando e bevendo con gusto ed in modo plateale ciò che per la moglie lì presente è veleno.
Si inserisce negativamente anche nella vita sentimentale di Mattia, come se averlo rovinato economicamente non fosse stato abbastanza. Una volta morta la prima moglie decide di sposarsi con la bella Oliva, rovinando il primo amore di Mattia. Infatti i due ragazzi si amavano e da lui Oliva aspettava un bambino. Ciò nonostante Malagna decide di accettare quel figlio di Mattia come suo. Così finalmente potrà diventare padre. Mattia su questo fatto ironizza arrivando a definire Malagna in un certo senso onesto. In fondo tutte le ricchezze accumulate da quell’amministratore a forza di rubare e truffare i Pascal sarebbero un giorno passate a suo figlio, così tutto sarebbe stato restituito. Mattia ama scherzare in questo modo sarcastico e pungente.
 Marianna Dondi – vedova Pescatore
Madre di Romilda e cugina di Batta Malagna, è una vera strega secondo Mattia Pascal, cui cerca di impedire di mantenere una relazione con la figlia poiché lo ritiene uno sfaccendato e inetto. Nonostante preferisca la "candidatura" di Batta Malagna come marito della figlia, si arrende alla scelta di questa di sposare Mattia. Tuttavia non accetta la sua misera condizione di vita dovuta al matrimonio della figlia con Mattia, ormai poverissimo. Quindi fa di tutto per vendicarsi e, da brava suocera, è la causa principale dei litigi in casa Pascal, spesso troppo violenti. Il suo personaggio esprime sicuramente antipatia ed è divertente vedere il comportamento di Mattia nei suoi confronti, quanto poco venga considerata e rispettata.
 Romilda Pescatori
È la figlia di Marianna Dondi; appare molto cortese e gentile nei confronti di Mattia quando si incontrano per la prima volta nella casa dove lei vive con la madre. Mattia Pascal si innamora subito di quegli occhi belli, di quel nasino, di quella bocca (cap. IV). Romilda, durante un incontro con il protagonista del romanzo giunge persino a pregarlo di fuggire con lei per potersi liberare della oppressiva presenza della madre. Il matrimonio tra i due viene imposto e nasce quasi per gioco. Infatti Mattia si era avvicinato a lei solo per conto dell’amico Pomino e per toglierla dalle grinfie del Malagna.
Ma presto l'atteggiamento della giovane cambia radicalmente: rimasta incinta di Mattia vuole che la paternità del figlio sia attribuita all'arricchito cugino della madre, Batta Malagna, ma quando quest'ultimo decide di tornare da Oliva, la moglie, rimasta a sua volta incinta(di Mattia), Romilda accetta di sposarsi con Pascal. I nove mesi della gravidanza sono vissuti dalla giovane in una maniera tremenda e riversa la sua sofferenza sul marito che stenta a sopportarla.
Soffre della condizione in casa Pascal, dei continui litigi e non può fare a meno di seguire le scelte della madre. E’ di carattere debole e tutto ciò si trasmette alla sua salute: perde la bellezza giovanile e i due figli che mette al mondo, essendo troppo gracili per sopravvivere, muoiono entrambi.
Quando Mattia Pascal torna a Miragno dopo anni di assenza, Romilda si è risposata con Mino Pomino e i due hanno avuto una bambina la cui purezza e innocenza convincono lo stesso Pascal a non fare rivendicazioni a proposito della madre.
Alla vista di Mattia sviene per l’emozione. Sembra trovarsi davvero bene col nuovo e ricco marito: è tornata ad essere la bella Romilda di gioventù ed il figlio di Pomino è nato sano e sta benissimo.
 Adriana Paleari
È la figlia di Anselmo Paleari, proprietario della pensione di via Ripetta a Roma dove Mattia Pascal, sotto l'identità di Adriano Meis, alloggia durante il suo soggiorno nella capitale.
Quando il protagonista del romanzo vede per la prima volta Adriana ella gli appare tutta confusa, una signorinetta piccola piccola, bionda, pallida, dagli occhi cerulei, dolci, mesti, come tutto il volto (cap. X) e gli appare anche molto giovane. Veste di nero a causa della recente morte della sorella maggiore.
E’ una ragazza pura, gentile, educatissima, tenera e discreta ma allo stesso tempo è responsabile di sé stessa e di tutta la famiglia.
Adriana è molto religiosa: detesta la passione del padre Anselmo per ciò che è occulto e le sedute spiritiche cui partecipa soventemente; è sempre molto pacata e tranquilla in ogni occasione; solamente una volta durante il romanzo ha una reazione violenta, quando Mattia Pascal-Adriano Meis, scoperto il furto del denaro commesso dal cognato della stessa Adriana, le confessa di non voler denunciare il fatto. La reazione, così insolita per il suo carattere, è dovuta al fatto che Terenzio Papiano la voglia sposare per ottenere il denaro della sua dote, e il furto che questi compie ai danni di Mattia-Adriano sarebbe la maniera migliore per sbarazzarsi definitivamente dell'avido cognato.
 Anselmo Paleari
Padre di Adriana, è il sessantenne proprietario della pensione di via Ripetta a Roma.
Quando Mattia lo incontra per la prima volta, nota il suo torso nudo roseo, ciccioso, senza un pelo (cap. X).
Paleari, agli occhi dello stesso protagonista del romanzo è un uomo completamente estraneo rispetto alla realtà che lo circonda a causa delle sue noiose riflessioni che espone continuamente al povero Pascal-Meis. Ormai non può più lavorare e tutta la sua vita è dedicata alla lettura, alla filosofia ed alle riflessioni sul suo tema preferito: l’occulto. L'occulto è l'argomento che più interessa ad Anselmo e organizza spesso sedute spiritiche con lo scopo di richiamare le anime dei morti.
 Terenzio Papiano
Era il marito della sorella di Adriana, morta senza avere avuto figli.
È un uomo sui quarant'anni, con occhi grigi, acuti e irrequieti (cap. XII) calvo, alto, robusto e con evidenti baffi brizzolati.
Papiano non ha scrupoli: dovendo restituire ad Anselmo Paleari la dote della moglie morta, cerca piuttosto di indurre Adriana a sposarlo in modo di non dover più consegnare al padre il denaro che gli doveva, e sfrutta l'aiuto di Silvia Caporale, un'altra ospite della pensione rimasta impoverita dopo avere affidato ogni suo avere allo stesso Papiano. Notando però l'interesse di Pascal-Meis per la giovane che ha preso di mira, Terenzio cerca di avvicinarlo a Pepita Pantogada, nipote del Marchese di Auletta presso cui lo stesso Papiano lavora come segretario, ma non riesce nel suo intento. Papiano, allora, con l'aiuto del fratello, sottrae a Mattia-Adriano una forte somma di denaro (dodicimila lire )come ricompensa del suo interessamento per Adriana.
 La signorina Caporale
Un personaggio minore, inquilina nella casa Paleari. E’ una donna brutta e zitella, che si consola con l’alcool della propria misera condizione. Ha avuto una volgare relazione con Terenzio ma è stata solo usata. E’ lei che suggerisce ad Adriano l’operazione all’occhio e nei suoi confronti diventa sempre più curiosa ed invadente. La compagnia e le chiacchierate con il curioso coinquilino la fanno innamorare ma il suo sentimento non verrà mai contraccambiato. Ha una grande complicità con Adriana, ma spesso finisce solo con fare arrabbiare o mettere in imbarazzo la giovane ragazza.
 Pinzone
E’ il mediocre insegnante di Mattia e Roberto, capace solo di insegnamenti noiosi ed inutili. Spesso è complice dei due vispi ragazzi e li fa divertire invece di eseguire il suo dovere in cambio di un po’ di vino. E’ un personaggio buffo e subisce anche gli scherzi dei due bambini se li tradisce raccontando alla loro mamma le loro birbanterie.
E’ un personaggio di seconda importanza, con un carattere mediocre se paragonato a quello del protagonista. Amico di Mattia, appare per la prima volta nell’opera durante la gioventù del Pascal. Non ha problemi economici e nel paese ha diverse proprietà lasciate dal padre. Si innamora di Romilda e chiede al giovane Pascal di aiutarlo a conquistarla, vista la sua timidezza ed il carattere debole. Rimane deluso ed offeso quando capisce che l’amico, a forza di andare a trovare la ragazza se ne è innamorato, ma anche in seguito non dimostra mai apertamente il suo disprezzo. Anzi, è disposto ad aiutare Mattia quando cerca lavoro, gli offre del denaro ed è lui a trovargli il posto di bibliotecario. I n fondo è di indole buona ma risulta vittima degli altri, incapace di reagire.
Quando Mattia è creduto morto da tutto il paese di Miragno si sposa con la vedova Pascal e questo atteggiamento è visto da Mattia quasi un tradimento, soprattutto della moglie “vendutasi” a lui perché ricco, anche se in gioventù l’aveva disprezzato. La critica di Mattia fa nascere il dubbio Che Pomino non sia amata da Romilda, ma solo sfruttato per ottenere una vita agiata.
Alla vista di Mattia non sa proprio come reagire, non riuscendo a trovare una soluzione per evitare l’annullamento del suo matrimonio. E’ sollevato quando capisce che Mattia non vuole intromettersi nella sua nuova famiglia  ma la sua felicità e la stabilità della sua condizione non è dovuta alle sue azioni: è una conseguenza delle scelte coraggiose di Mattia.
 I temi
"Il fu Mattia Pascal" presenta moltissime tematiche che possono essere oggetto di discussione ancora oggi dopo quasi un secolo dalla sua stesura.
La maschera
_E' estremizzato il bisogno dell'uomo di darsi una maschera per vivere in società, forma che oltre ad essere, secondo l'autore, necessaria è anche difficilmente sostituibile dato che l'individuo, o meglio la sua maschera, dal momento in cui nasce vanno a far parte di un gran meccanismo che non può rompersi e per questo, ognuno è costretto a recitare la sua parte senza neanche chiedersi il perché. Se in quest'immenso gioco si prova a “bluffare”, si è destinati a fallire e nel migliore dei casi bisogna tornare ad essere una delle tante pedine; l'unico modo per estraniarsene è non essere più utili per il proseguimento della partita, in altre parole o morire o impazzire, le sole condizioni in cui ci si può, forse, considerare liberi.
_La maschera, così come l'appartenere ad un gruppo, il calarsi in una trappola è inteso come necessario perché l'uomo come singolo non ha alcun valore se non per se stesso, e nessuna possibilità di essere veramente libero di decidere arbitrariamente o quasi della propria esistenza.
_La realtà è concepita unicamente come una formalità: non è tanto importante che una cosa sia vera ma basta che possa esserlo e si sfrutta ciò finché qualcuno non dimostra l'opposto; ad esempio nel racconto, a nessuno importa se Mattia sia morto veramente, l'importante che lui non torni (potrebbe anche essere morto davvero o no è uguale!) in modo che il nuovo matrimonio di Romilda non desti scandali, e quando lui torna, nessuno si meraviglia perché a questo punto che lui sia morto davvero o no non è più importante dato che ha deciso di non riprendersi la moglie. Adesso potrebbe anche morire veramente che sicuramente nessuno lo farebbe scrivere su un giornale dato che tutte le apparenze sono salve ed il grande mosaico della vita sociale non subirebbe contraccolpi. 
L’identità e la morte
La prima frase : ”Una delle poche cose, anzi forse la sola che io sapessi di certo era questa: che mi chiamavo Mattia Pascal” e l'ultima: “Io sono il fu Mattia Pascal” del romanzo affrontano il tema dell'identità, molto presente all'interno di tutta la narrazione, durante la quale vengono prese in esame via via altre tematiche; tra queste la morte (dopo la mia terza, ultima e definitiva morte) che non solo riguarda quella molteplice di Mattia Pascal, ma anche quella del padre, della madre e delle figlie dello stesso protagonista, ma anche quella del pallidissimo giovane suicidatosi dopo avere perso tutto ciò che aveva al Casinò di Montecarlo. La morte pone fine ad inutili vite in cui ognuno si affatica a raggiungere obiettivi tutto sommato inutili e per i quali lo ricorderanno a malapena i suoi cari, se mai ne ha avuti.
L’amore
Anche l'amore è visto come sentimento assurdo, infatti, Mattia non comprende a cosa sia dovuto e a quale scopo Pomino abbia per Romilda un tale sentimento, ed anche il suo rapporto con Adriana, è vissuto dal protagonista in chiave molto egoistica e personale. 
Il gioco e la fortuna
Il gioco (Non seppi, o meglio, non potei arrestarmi a tempo) è un altro dei temi del romanzo che va associato anche quello della fortuna (Non ebbi più né modo né tempo di stupirmi allora del favore, più favoloso che straordinario, della fortuna). 
La solitudine
Altra importante tematica del romanzo è la solitudine (mi trovai qui solo, mangiato dalla noia). Due difetti, uno fisico e uno di carattere più manuale, amministrativo, che Mattia Pascal pone molto spesso in rilievo sono il suo strabismo (un occhio, il quale, non so perché, tendeva a guardare per conto suo, altrove) e la sua incapacità (ero inetto a tutto). È proprio il suo occhio strabico che gli permette di seguire, come uno spettatore, il suo "lasciarsi vivere"; questo difetto fisico, dopo un'operazione, viene eliminato a Roma, e proprio da quel momento, Pascal, riesce a mettere un po' di ordine nella sua esistenza iniziando a chiarire la realtà della vita che lo circonda, dato che, non ne è più uno spettatore, eliminato l'occhio strabico. Altra caratteristica di Mattia Pascal è il suo continuo peregrinare (seguitai ancora per qualche tempo a viaggiare), egli viaggia per sfuggire da una realtà che non gli appare bene definita, chiara, e quindi lo spaventa.

 

Il messaggio dell’autore
Pirandello con la sua opera ha cercato di ottenere qualcosa di assolutamente nuovo e di difficile realizzazione. In fondo, visti i dialoghi e le riflessioni presenti nell’opera, l’autore è sia un filosofo che un comico allo stesso tempo e da questa strana fusione nasce qualcosa di unico.
La voluta assenza di descrizioni temporali e spaziali permette di concentrare la visione del lettore proprio su una vicenda caratterizzata da un ritmo continuo, da prendere come esempio e lezione di vita. La storia di Mattia è completamente basata su un fatto incredibile, ma non impossibile.
E qui sta il succo della novità pirandelliana :gli eventi narrati possono sembrare addirittura eccezionali ed impossibili ma non lo sono. Fatti e personaggi non sono opera di invenzione basata sulla fantasia dell’autore ma rappresentano la realtà più strana ed inaspettata. Pirandello realizza un mondo non irreale e nemmeno reale, visto che in fondo è sempre una opera scritta. La sua vicenda, i  fatti, i dialoghi ed i personaggi sono perciò verosimili, capaci di diventare una realtà.
Nella prima premessa alla vicenda Pirandello inserisce una critica contro Copernico, che con la sua scoperta ha sconvolto il modo di pensare dell’uomo. La terra non è al centro dell’universo e gli uomini solo una infinitesimale parte di esso. Perciò ogni gloria o sopravvalutazione risulta vana.
La storia di Mattia ha anche un importante e pessimistico retroscena: in soli due anni tutti gli abitanti di Miragno lo dimenticano, la famiglia non sembra disperarsi della sua morte e la moglie si risposa sostituendolo con uomo più ricco. Anche se la sua morte è stata una finta, Mattia ha perso tutto e non può sperare di riottenerlo. La nostra società dimentica presto, sostituisce e va avanti.
L’opera di Pirandello può essere considerata una lunga favola che attraverso una storia, una moltitudine di personaggi vuole trasmettere al lettore una morale. L’uomo non può lottare contro la propria sorte, anche se tristemente avversa e nemmeno crearsela con le proprie mani come fa Mattia Pascal diventando Adriano Meis. Siamo tutti delle marionette con una maschera, pronti ad adattarci alla varietà enorme di situazioni che ci coinvolgono.

 

Fonte: http://www.mlbianchi.altervista.org/uno.doc

Sito web da visitare: http://www.mlbianchi.altervista.org/

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