Letteratura Umberto Eco Su alcune funzioni della letteratura

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Letteratura Umberto Eco Su alcune funzioni della letteratura

Umberto Eco
Su alcune funzioni della letteratura
 
  Racconta la leggenda, e se non è vera è ben trovata, che una volta Stalin abbia domandato quante divisioni aveva il papa. Quello che è successo nei decenni successivi ci ha dimostrato che le divisioni sono certo importanti in date circostanze, ma non sono tutto. Ci sono dei poteri immateriali, non valutabili a peso, che in qualche modo pesano.
Siamo circondati di poteri immateriali, che non si limitano a quelli che chiamiamo valori spirituali, come una dottrina religiosa. È un potere immateriale anche quello delle radici quadrate, la cui legge severa sopravvive ai secoli e ai decreti non solo di Stalin, ma persino del papa.

E tra questi poteri annovererei anche quello della tradizione letteraria, vale a dire del complesso di testi che l’umanità ha prodotto e produce non per fini pratici (come tenere registri, annotare leggi e formule scientifiche, verbalizzare sedute o provvedere orari ferroviari) ma piuttosto gratia sui, per amore di se stessi – e che si leggono per diletto, elevazione spirituale, allargamento delle conoscenze, magari per puro passatempo, senza che nessuno ci obblighi a farlo (se si prescinde dagli obblighi scolastici).

È vero che gli oggetti letterari sono immateriali solo a metà, perché si incarnano in veicoli che di solito sono cartacei. Ma un tempo si incarnavano nella voce di chi ricordava una tradizione orale, oppure su pietra, e oggi discutiamo sul futuro degli e-books, che dovrebbero permetterci di leggere sia una raccolta di barzellette che la Divina Commedia su uno schermo a cristalli liquidi.
Avvertirò subito che non intendo intrattenermi qui sulla vexata quaestio del libro elettronico. Io appartengo naturalmente a coloro che un romanzo o un poema preferiscono leggerselo su un volume cartaceo, di cui mi ricorderò persino le orecchie e la stazzonatura, ma mi dicono che esiste una generazione digitale di hackers che, non avendo mai letto un libro in vita propria, ora con l’e-book hanno avvicinato e gustato per la prima volta il Don Chisciotte. Tanto di guadagnato per la loro mente e tanto di perduto per la loro vista. Se le generazioni future arriveranno ad avere un buon rapporto (psicologico e fisico) con l’e-book, il potere del Don Chisciotte non cambierà.

A che cosa serve questo bene immateriale che è la letteratura?
Basterebbe rispondere, come ho già fatto, che è un bene che si consuma gratia sui, e dunque non deve servire a nulla.
Ma una visione così disincarnata del piacere letterario rischia di ridurre la letteratura allo jogging o alla pratica delle parole crociate – i quali oltretutto servono entrambi a qualcosa, vuoi alla salute del corpo, vuoi all’educazione lessicale. Quello di cui intendo parlare è quindi una serie di funzioni che la letteratura riveste per la nostra vita individuale e la vita sociale.

 La letteratura tiene in esercizio la lingua
 Tiene anzitutto in esercizio la lingua come patrimonio collettivo. La lingua, per definizione, va dove essa vuole, nessun decreto dall’alto, né da parte della politica, né da parte dell’accademia, può fermare il suo cammino e farla deviare verso situazioni che si pretendano ottimali. Il fascismo si è sforzato di farci dire mescita invece di bar, coda di gallo invece di cocktail, rete invece di goal, auto pubblica invece di taxi, e la lingua non gli ha dato retta. Poi ha suggerito una mostruosità lessicale, un arcaismo inaccettabile come autista in luogo di chauffeur, e la lingua lo ha accettato. Forse perché evitava un suono che l’italiano non conosce. Ha mantenuto taxi, ma gradatamente, almeno nel parlato, lo ha fatto diventare tassì.
La lingua va dove vuole ma è sensibile ai suggerimenti della letteratura. Senza Dante non ci sarebbe stato un italiano unificato. Dante nel De vulgari eloquentia analizza e condanna i vari dialetti italiani, si propone di foggiare un nuovo volgare illustre, nessuno avrebbe scommesso su un tale atto di superbia, eppure con la Commedia vince la sua partita. È vero che per diventare lingua parlata da tutti, il volgare dantesco ha impiegato alcuni secoli, ma se ce l’ha fatta è perché la comunità di coloro che credevano alla letteratura ha continuato a ispirarsi a quel modello. E se non ci fosse stato quel modello non si sarebbe forse neppure fatta strada l’idea di una unità politica. Forse è per questo che Bossi non parla un volgare illustre.
Venti anni di colli fatali, destini immarcescibili, eventi imprescindibili e aratri che tracciano il solco non hanno alfine lasciato alcuna traccia nell’italiano corrente, e ve ne hanno lasciato molta di più certi ardimenti, all’epoca inaccettabili, della prosa futurista.
E se qualcuno oggi lamenta il trionfo di un italiano medio diffusosi attraverso la televisione, non dimentichiamo che l’appello a un italiano medio, nella sua forma più nobile, è passato attraverso la prosa piana e accettabile di Manzoni e poi di Svevo o di Moravia.

La letteratura, contribuendo a formare la lingua, crea identità e comunità. Ho parlato prima di Dante, ma pensiamo a cosa sarebbe stata la civiltà greca senza Omero, l’identità tedesca senza la traduzione della Bibbia fatta da Lutero, la lingua russa senza Puskin, la civiltà indiana senza i suoi poemi di fondazione.
Ma la pratica letteraria tiene in esercizio anche la nostra lingua individuale. Oggi molti piangono la nascita di un linguaggio neo-telegrafico che si sta imponendo attraverso la posta elettronica e i messaggini dei cellulari, dove si dice ti amo anche con una sigla; ma non dimentichiamo che gli stessi giovani che inviano messaggi in questa nuova stenografia sono, almeno in parte, gli stessi che affollano quelle nuove cattedrali del libro che sono le grandi librerie multipiano, e che, anche solo sfogliando senza comperare, vengono a contatto con stili letterari colti ed elaborati, a cui i loro genitori, e certamente i loro nonni, non erano stati esposti.
Possiamo certo dire che, maggioranza rispetto ai lettori delle generazioni precedenti, questi giovani sono minoranza rispetto ai sei miliardi di abitanti del pianeta; né sono così idealista da pensare che a immense folle che mancano di pane e medicinali potrà portare sollievo la letteratura. Ma una osservazione vorrei fare: che gli sciagurati che, riunendosi in bande senza scopo, uccidono lanciando pietre dal cavalcavia o danno fuoco a una bambina, chiunque poi essi siano, non diventano tali perché sono stati corrotti dal Newspeak del computer (nemmeno al computer hanno accesso) ma perché restano esclusi dall’universo del libro e da quei luoghi dove, attraverso l’educazione e la discussione, arriverebbero a loro riverberi di un mondo di valori che arriva da e rinvia a libri.

 La lettura delle opere letterarie ci obbliga a un esercizio della fedeltà e del rispetto nella libertà dell’interpretazione
 C’è una pericolosa eresia critica, tipica dei nostri giorni, per cui di un’opera letteraria si può fare quello che si vuole, leggendovi quanto i nostri più incontrollabili impulsi ci suggeriscono. Non è vero. Le opere letterarie ci invitano alla libertà dell’interpretazione, perché ci propongono un discorso dai molti piani di lettura e ci pongono di fronte alle ambiguità e del linguaggio e della vita. Ma per poter procedere in questo gioco, per cui ogni generazione legge le opere letterarie in modo diverso, occorre essere mossi da un profondo rispetto verso quella che io ho altrove chiamato l’intenzione del testo.
Da un lato ci pare che il mondo sia un libro «chiuso» che consente una sola lettura, perché se c’è una legge che governa la gravitazione planetaria, o è quella giusta o è quella sbagliata; rispetto a esso l’universo di un libro ci appare come un mondo aperto. Ma cerchiamo di avvicinarci con buon senso a un’opera narrativa e confrontiamo le proposizioni che possiamo enunciare intorno a essa con quelle che pronunciamo intorno al mondo. Del mondo, noi diciamo che le leggi della gravitazione universale sono quelle enunciate da Newton, o che è vero che Napoleone è morto a Sant’Elena il 5 maggio 1821. E tuttavia, se abbiamo una mente aperta, saremo sempre disposti a rivedere le nostre convinzioni, il giorno che la scienza enuncerà una diversa formulazione delle grandi leggi cosmiche, o uno storico troverà documenti inediti che provino che Napoleone era morto su di una nave bonapartista mentre tentava la fuga. Invece, rispetto al mondo dei libri, proposizioni come Sherlock Holmes era scapolo, Cappuccetto Rosso viene divorata dal lupo ma poi è liberata dal cacciatore, Anna Karenina si uccide, rimarranno vere in eterno e non potranno mai essere confutate da nessuno. […]
I testi letterari non solo ci dicono esplicitamente quello che non potremo mai più revocare in dubbio ma, a differenza del mondo, ci segnalano con sovrana autorità ciò che in essi va assunto come rilevante e ciò che non possiamo prendere come spunto per libere interpretazioni.
[…]
All’inizio dei Tre moschettieri si dice che d’Artagnan arriva a Meung su un ronzino di quattordici anni il primo lunedì di aprile del 1625. Se si ha un buon programma sul proprio computer si può immediatamente stabilire che quel lunedì era il 7 aprile. Una squisitezza per trivia games tra devoti dumasiani. Si può impostare su questo dato una sovra-interpretazione del romanzo? Direi di no, perché la partitura non rende rilevante quel dato. Il corso del romanzo non rende neppure rilevante che l’arrivo di d’Artagnan avvenisse di lunedì – mentre rende rilevante che fosse di aprile (si ricordi che, per celare il fatto che la sua splendida tracolla era ricamata solo sul davanti, Porthos indossava un lungo mantello di velluto cremisi che la stagione non giustificava – a tal punto che il moschettiere doveva fingere di essere raffreddato).
Queste potranno sembrare a molti delle ovvietà, ma queste ovvietà (spesso dimenticate) ci dicono che il mondo della letteratura è tale da ispirarci la fiducia che ci sono alcune proposizioni che non possono essere revocate in dubbio, e ci offre quindi un modello, immaginario sin che volete, di verità. Questa verità letterale si riverbera su quelle che chiameremo verità ermeneutiche: perché a chi ci dicesse che d’Artagnan era trascinato da una passione omosessuale nei confronti di Porthos, che l’Innominato è stato indotto al male da un irrefrenabile complesso d’Edipo, che la Monaca di Monza, come certi politici d’oggi potrebbero suggerire, era stata corrotta dal comunismo, o che Panurge fa quello che fa in odio al nascente capitalismo, potremo sempre rispondere che nei testi a cui ci si riferisce non è possibile trovare alcuna affermazione, alcun suggerimento, alcuna insinuazione che ci permetta di abbandonarci a queste derive interpretative. Il mondo della letteratura è un universo nel quale è possibile fare dei test per stabilire se un lettore ha il senso della realtà o è preda delle sue allucinazioni.
I personaggi migrano
  Possiamo fare affermazioni vere sui personaggi letterari perché ciò che loro accade è registrato in un testo, e un testo è come una partitura musicale. È vero che Anna Karenina muore suicida così come è vero che la Quinta di Beethoven è in do minore (e non in fa maggiore come la Sesta) e inizia con «sol, sol, sol, mi bemolle». Ma a certi personaggi letterari – non a tutti – accade che escano dal testo in cui sono nati per migrare in una zona dell’universo che ci riesce molto difficile delimitare. I personaggi narrativi migrano, quando hanno fortuna, da testo a testo, e quelli che non migrano non lo fanno non perché siano ontologicamente diversi dai loro fratelli più fortunati, ma semplicemente perché non hanno avuto fortuna e non ci siamo più occupati di loro.
Hanno migrato da testo a testo (e attraverso adattamenti in sostanze diverse, da libro a film o a balletto, o dalla tradizione orale al libro) sia i personaggi del mito che quelli della narrativa «laica», Ulisse, Giasone, Artù o Parsifal, Alice, Pinocchio, d’Artagnan. […]
Questi personaggi sono diventati in qualche modo collettivamente veri perché la comunità ha fatto su di essi, nel corso dei secoli o degli anni, degli investimenti passionali. Noi facciamo investimenti passionali individuali su tante fantasie che possiamo elaborare a occhi aperti o nel dormiveglia. Noi possiamo realmente commuoverci pensando alla morte di una persona che amiamo, o risentire reazioni fisiche immaginandoci mentre abbiamo con essa un rapporto erotico, e parimenti, per processi di identificazione o di proiezione, possiamo commuoverci sulla sorte di Emma Bovary o, come è avvenuto ad alcune generazioni, essere trascinati al suicidio dalle sventure di Werther o di Jacopo Ortis. Ma, quando qualcuno ci chiedesse se veramente la persona, di cui abbiamo immaginato la morte, è morta, risponderemmo di no, che si è trattato di una nostra privatissima fantasia. Invece quando ci si chiede se veramente Werther si è ucciso rispondiamo di sì, e la fantasia di cui parliamo non è più privata, è una realtà culturale su cui l’intera comunità dei lettori conviene. Tanto che giudicheremmo folle chi si uccidesse solo perché ha immaginato (ben sapendo che si trattava di un parto della sua immaginazione) che la sua amata è morta, mentre cerchiamo di giustificare in qualche modo chi si sia ucciso per il suicidio di Werther, pur sapendo che si trattava di personaggio fittizio.
Dovremo ben trovare uno spazio dell’universo dove questi personaggi vivono e determinano i nostri comportamenti, così che li eleggiamo a modello di vita, nostra altrui, e ci comprendiamo benissimo quando diciamo che qualcuno ha il complesso di Edipo, un appetito gargantuesco, un comportamento donchisciottesco, ha la gelosia di un otello, un dubbio amletico, è un dongiovanni inguaribile, una perpetua. E questo, in letteratura, non accade solo coi personaggi, ma anche con le situazioni, e gli oggetti.
Perché le donne che vanno e vengono per la stanza parlando di Michelangelo, i cocci aguzzi di bottiglia infissi nella muraglia, nel sole che abbaglia, le buone cose di pessimo gusto, la paura che ci viene mostrata in un pugno di polvere, la siepe, le chiare, fresche e dolci acque, il fiero pasto, diventano metafore ossessive, pronte a ripeterci a ogni istante chi siamo, cosa vogliamo, dove andiamo, oppure ciò che non siamo e ciò che non vogliamo?
Queste entità della letteratura sono tra noi. Non erano lì dall’eternità come (forse) le radici quadrate e il teorema di Pitagora, ma ormai, dopo che sono state create dalla letteratura e nutrite dai nostri investimenti passionali, esse ci sono e con esse dobbiamo fare i conti. Diciamo pure, per evitare discussioni ontologiche e metafisiche, che esse esistono come abiti culturali, disposizioni sociali. Ma anche il tabù universale dell’incesto è un abito culturale, una idea, una disposizione, eppure ha avuto la forza di muovere i destini delle società umane.
Ipertesti aperti e storie finite
  Ma, qualcuno oggi ci dice, anche i personaggi letterari rischiano di diventare evanescenti, mobili, incostanti, e di perdere quella loro fissità che ci imponeva di non negarne i destini. Siamo entrati nell’era dell’ipertesto, e l’ipertesto elettronico non solo ci permette di viaggiare attraverso un gomitolo testuale (sia esso un’intera enciclopedia o l’opera omnia di Shakespeare) senza necessariamente «sfilare» tutta l’informazione che contiene, penetrandolo come un ferro da maglia in un gomitolo di lana.
Grazie all’ipertesto è nata anche la pratica di una scrittura inventiva libera.
Su Internet trovate programmi con cui potete scrivere collettivamente delle storie, partecipando a narrazioni di cui è possibile modificare l’andamento, all’infinito. E se potete fare questo con un testo che, insieme a un gruppo di amici virtuali, state inventando, perché non farlo anche per i testi letterari esistenti, acquistando programmi grazie ai quali potrete cambiare le grandi storie che ci stanno ossessionando magari da millenni?
[…] Sarebbe male? No, perché anche questo la letteratura ha già fatto, e prima degli ipertesti, con il progetto di Le Livre di Mallarmé, i cadaveri squisiti dei surrealisti, i miliardi di poemi di Queneau, i libri mobili della seconda avanguardia. Ed è questo che ha fatto la jam session jazz. Ma il fatto che esista la pratica della jam session, che muta ogni sera il destino di un tema, non ci esenta, né ci scoraggia, dall’andare nelle sale di concerto dove la Sonata in Si bemolle minore opera trentacinque finirà ogni sera sempre nello stesso modo.
Qualcuno ha detto che a giocare con meccanismi ipertestuali si sfugge a due forme di repressione, l’obbedienza a vicende decise da un altro e la condanna alla divisione sociale tra coloro che scrivono e coloro che leggono. Questo mi pare una sciocchezza, ma certamente giocare creativamente con gli ipertesti, modificando le storie e contribuendo a crearne delle nuove, può essere un’attività appassionante, un bell’esercizio da praticare a scuola, una nuova forma di scrittura molto affine alla jam session. […]
Jurij Lotman, ne La cultura e l’esplosione riprende la famosa raccomandazione di Cechov, per cui se in un racconto o in un dramma viene mostrato all’inizio un fucile appeso alla parete, prima della fine quel fucile dovrà sparare. Lotman ci lascia capire che il vero problema non è se poi il fucile sparerà davvero. Proprio il non sapere se sparerà o no, conferisce significatività all’intreccio. Leggere un racconto vuole anche dire essere presi da una tensione, da uno spasimo. Scoprire alla fine che il fucile ha sparato, o meno, non assume il semplice valore di una notizia. È la scoperta che le cose sono andate, e per sempre, in un certo modo, al di là dei desideri del lettore. Il lettore deve accettare questa frustrazione, e attraverso di essa provare il brivido del Destino. Se si potesse decidere del destino dei personaggi, sarebbe come andare al banco di una agenzia di viaggi: «Allora dove vuole trovare la Balena, alle Samoa o alle Aleutine? E quando? E vuole ucciderla lei, o lascia fare a Quiqueg?» La vera lezione di Moby Dick è che la Balena va dove vuole.
[…]
Questo ci dicono tutte le grandi storie, caso mai sostituendo, a Dio, il fato, o le leggi inesorabili della vita. La funzione dei racconti «immodificabili» è proprio questa: contro ogni nostro desiderio di cambiare il destino, ci fanno toccar con mano l’impossibilità di cambiarlo. E così facendo, qualsiasi vicenda raccontino, raccontano anche la nostra, e per questo li leggiamo e li amiamo. Della loro severa lezione «repressiva» abbiamo bisogno. La narrativa ipertestuale ci può educare alla libertà e alla creatività. È bene, ma non è tutto. I racconti «già fatti» ci insegnano anche a morire.
Credo che questa educazione al Fato e alla morte sia una delle funzioni principali della letteratura. Forse ce ne sono altre, ma ora non mi vengono in mente.
 
* Il presente saggio è una versione rivista e ampliata dell’intervento di chiusura della IV edizione

  del «Festivaletteratura» (Mantova, sett. 2000).

 

DOMANDE

  1. Individua nel testo e riporta un esempio di potere immateriale, poi proponi tu un analogo esempio.
  2. individua nel testo, sottolinea e riporta la definizione di letteratura: proponi la stessa definizione in un altro “formato” (sinonimi, grafo, slogan….)
  3. A tuo avviso l’autore è favorevole alla lettura su video? Motiva la risposta.
  4. A tuo avviso l’autore è favorevole all’uso dei messaggini? Motiva la risposta

Riscrivi il brano in forma schematica utilizzando al massimo 7 righe di testo.
Per ogni paragrafo, individua la struttura argomentativa.


           Divisione: reparto dell'esercito

           Esempio di lessico del periodo fascista

           collage di frasi tratte dalla poesia italiana dell’800 e 900.

 

Fonte: http://www.pascal.re.it/Documents/SpazioStudenti/materialeDidattico/informatico/Grisendi-3BCinf-UmbertoEco_letteratura.doc

Sito web da visitare: http://www.pascal.re.it/

Autore del testo: sopra indicato nel documento di origine

Il testo è di proprietà dei rispettivi autori che ringraziamo per l'opportunità che ci danno di far conoscere gratuitamente i loro testi per finalità illustrative e didattiche. Se siete gli autori del testo e siete interessati a richiedere la rimozione del testo o l'inserimento di altre informazioni inviateci un e-mail dopo le opportune verifiche soddisferemo la vostra richiesta nel più breve tempo possibile.

 

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