Letteratura Umberto Saba poesie

Letteratura Umberto Saba poesie

 

 

 

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Letteratura Umberto Saba poesie

un saggio su U. Saba di R. Turrini    e altro ...

UMBERTO SABA (1883 - 1957)
“ O mio cuore dal nascere in due scisso,/quante pene durai per uno farne!/Quante rose a nascondere un abisso!  “
L’infanzia difficile di Umberto Saba, le conseguenze nella vita e la sua rielaborazione poetica.

Il verso che dà  il titolo a questo saggio è l’ultimo di un breve componimento di soli tre versi, inserito con il titolo di Secondo congedo, nella raccolta del 1928-29 Preludio e Fughe, che recita:
 O mio cuore dal nascere in due scisso,
quante pene durai per uno farne!
Quante rose a nascondere un abisso!   
Saba ci dice dunque di una lacerazione originaria, che precede la sua stessa nascita e che lo farà vivere a lungo “scisso”, diviso cioè fra le due componenti della sua identità primigenia, risalenti rispettivamente alla madre, severamente presente, e al padre,  da sempre, irresponsabilmente assente.
E’ lo stesso Saba a offrire continui riferimenti alla sua vicenda biografica dedicando, ad esempio, una parte fondamentale del suo Canzoniere, l’ Autobiografia , alle situazioni più significative della sua infanzia e adolescenza, fornendoci per di più  una ulteriore serie di chiarimenti e di informazioni, anche di tipo aneddotico, sui fatti che hanno ispirato le poesie di cui ci  propone anche la giusta chiave di lettura e dandoci, spesso in contrasto con i suoi critici, quella che potremmo definire l’interpretazione autentica del legame fra la sua poesia e la sua vita. Dunque Saba non è reticente, ma il linguaggio del poeta, anche quando sceglie le forme della prosa per esprimersi, pur essendo sempre suggestivo, non sempre è chiaro per chi non conosca i casi della sua vita.
Vediamo dunque di gettare un po’ di luce su questi fatti iniziali che riguardano vicende che addirittura precedono la sua nascita ma tali da condizionare poi la sua successiva esistenza e, per farlo, affidiamoci allo stesso Saba che, nato a Trieste nel 1883 dall’unione fra il padre cristiano, Ugo Edoardo Poli,  e l’ebrea Felicita Rachele Coen, così rievoca in una lettera a Nora Baldi del 1955, quell’infausta decisione:
“Esisteva, nel 1882 un uomo che vendeva mobili a schede (a rate). Era vedovo, con una bambina, figlio di un pittore che faceva quadretti di genere (credo di frutta,  per appenderli nelle camere da pranzo d’allora) e di una Arrivabene. Quando aveva circa quarant’anni, un sensale di matrimoni (si chiamava Tomba), gli propose mia madre, che non era molto più giovane di lui. Fu accettato. Per 4000 fiorini lo sciagurato si fece circoncidere, cambiò il suo nome in quello di Abramo, e (puoi immaginarti con quale nascosto rancore) sposò mia madre, che teneva allora un negozietto di mobili. Il primo litigio scoppiò per l’abito di nozze che costava 13 soldi al metro. Il disgraziato supplicò invano mia madre, di comperarne un altro per via del numero che portava scalogna. (Mia madre non era ignobile; ma non sapeva vivere, né lasciar vivere gli altri) […] Il giorno della mia nascita (un venerdì, 9 marzo del 1883; vedi come tutto ha qualcosa di fatale) egli era in prigione per lesa maestà (F.Giuseppe): credo piuttosto per scappare da mia madre: tanto più che i soldi erano finiti, e i parenti non volevano tirarne fuori degli  altri. Quando si accingevano a coprirmi, mia madre si oppose, dicendo che se vivevo vivevo, e se morivo morivo…”.
Quello fra il padre e la madre  non fu dunque un matrimonio felice, anzi non fu neppure un matrimonio, per così dire, o meglio da esso non ebbe origine una famiglia, poiché il padre, irrequieto ed errabondo, abbandonò definitivamente la moglie ancora prima della nascita del figlio. Rachele, sola, con l’aiuto dei suoi parenti e in particolare di una zia generosa, si fece carico della crescita e dell’educazione di Umberto. Sentendo doppiamente la responsabilità che aveva nei suoi confronti lo crebbe in clima di austera severità, incapace di esprimere il suo affetto, che pure era profondo e sincero, libero dalla sofferenza  e dal risentimento per l’abbandono del marito. Il piccolo Umberto è destinato a diventare così, inconsapevolmente,  il capro espiatorio di una situazione di dolore di  cui è la causa e  di cui è chiamato nello stesso tempo ad essere il risarcimento. Il figlio dovrebbe infatti compensare la madre con  il suo comportamento affettuoso e con la sua condotta perbene della perdita dell’amore e della presenza del marito. Ma un nuovo tradimento è in agguato per la donna, infatti il piccolo Berto, come il poeta si definisce nella raccolta omonima, messo a balia da una contadina slovena, Peppa Sabbaz, trovando nella nuova famiglia, dove è pure presente una sorta di padre buono nella persona del marito della balia, un clima sereno e caldo di affetti, mostra di preferire la  tenerezza della nutrice, che riversava su di lui l’amore per un figlioletto precocemente perduto,  all’austerità della madre che, temendo in questo modo di perdere anche lui, prima contrasta da lontano questa inclinazione poi, sentendosi sconfitta, si risolve a strapparlo definitivamente alla casa della balia, provocando così il primo irreversibile trauma in un bambino “conteso fra due madri”, come dice Muscetta, “ senza il correttivo del padre, di cui sentì acutissima la mancanza”. Questa la premessa, in forma di  dramma reale del futuro dramma poetico di Saba.
Non inganni, nella rievocazione del contratto matrimoniale che abbiamo più sopra riportato, il fatto che Saba descriva il padre più come una vittima che come un vero e proprio colpevole e che le valutazioni più dure siano invece riservate alla madre. Queste riflessioni datano infatti ad un’epoca in cui, il poeta, già molto vecchio e non troppo lontano dalla  sua morte, riversa in esse non solo i benefici, in termini di conoscenza e comprensione di una ormai lontana cura psicanalitica, ma anche, e forse soprattutto, il filtro di una esperienza assai ricca  e sofferta dal punto di vista umano che lo ha portato ad aprirsi, anche compassionevolmente, agli altri e alle ragioni che stanno dietro alle scelte di vita personali. In realtà Saba visse  allora la sua infanzia come un periodo angoscioso e lacerante in cui si inserisce anche il contrasto, destinato anch’esso ad avere ripercussioni personali e rielaborazione letteraria, fra due religioni, quella cattolica, del padre e della balia e quella ebraica della madre, che lo segnerà profondamente  anche se, personalmente, resterà sempre laico e ostile a qualunque forma di religione costrittiva, sia essa quella dei preti o dei rabbini. La tragedia del popolo ebraico provocata dalla persecuzione antisemita  nazista e fascista, vissuta anche da Saba in prima persona lo porterà suo malgrado a fare i conti con quelle lontane radici religiose che continueranno ad essere per lui, come vedremo, un nodo problematico irrisolto. Anche la intensa relazione con la moglie Lina, da lui conosciuta nella forma strana  che vedremo, non sfugge a queste premesse anzi trova in esse la sua ragion d’essere originaria e riproporrà, in misura significativa, il quadro problematico che abbiamo tracciato.
Ecco indicati i tre principali nuclei tematici che cercherò di sviluppare in questa sede, a cui un altro potrebbe essere aggiunto, che cito per indicarne la consapevolezza anche se non intendo ora svilupparlo: la problematica e controversa omosessualità di Saba riconducibile a quelle stesse premesse familiari e infantili, di cui tante tracce, anche evidenti, sono sparse nelle poesie del Canzoniere e che infine diventa vero e proprio tema narrativo in quel prezioso romanzo incompiuto e postumo che è Ernesto.  In ogni caso è evidente che ci stiamo addentrando in un terreno fertile per l’indagine psicoanalitica che pone non pochi problemi non solo a chi non sia esperto di questa scienza ma anche a chi, accostandosi per questa via, all’opera di un artista, avverte il rischio di ridurre l’interpretazione della sua opera a categorie lontane da quelle letterarie. Con Saba, tuttavia, questo è un rischio che dobbiamo correre, anche perché è lo stesso poeta per primo a praticare questa strada e a farsi analista di se stesso, dopo avere affrontato un breve ciclo di terapia psicoanalitica con il dottor Weiss. Questo rapporto terapeutico  ebbe inizio nei primi mesi del 1929, quando Saba aveva già 46 anni (troppo tardi per avere effettiva efficacia rispetto ad un limite che lui stesso indica a 40 anni) e si protrasse fino all’estate del 1931, quando si interruppe in modo non volontario e senza potersi dire utilmente concluso, per il trasferimento del dottor Weiss da Trieste a Roma.  
E’ lo stesso Saba a darne notizia, in modo confidenziale, non volendo che sia risaputa, a Giacomo Debenedetti, in una lettera del 13 settembre 1929, in cui dice di avere accettato di sottoporsi, sia pure riluttante, ad un trattamento con il dottor Weiss, in concomitanza con una crisi nervosa più grave delle altre che già in precedenza lo avevano assalito, che lo aveva portato anche, non solo a meditare, ma addirittura a preparare il suicidio. In questa lettera, dopo aver detto “sto meglio, e meglio in una maniera nuova; che cioè non ha niente a che fare coi miei miglioramenti d’altre volte: qualche cosa nell’animo mio è mutato, e mutato per sempre”, arriva  al cuore del problema che, per la prima volta enuncia in termini così chiari: “Devi sapere che alla radice della mia malattia stava la mancanza del padre: ma come, in qual senso e con quali conseguenze è cosa incredibile e vera”. Questa lettera, unica fra quelle indirizzate ad amici e familiari  pubblicate con il titolo La spada d’amore, è significativamente, per le ragioni che vedremo, firmata con il nome di Berto In un’altra lettera a Vittorio Sereni del 1952, che riprende quasi gli stessi argomenti già esposti anche nell'interessante carteggio tenuto con lo psicoanalista Joachim Flescher tra il 1946 e il 1949, Saba, rievocando, a distanza di molto tempo, la sua esperienza con Weiss così si esprime: “ In realtà, più che guarire, personalmente, ho capito molte cose dell’anima umana, che prima mi erano non solo oscure, ma addirittura insospettate. La cosa peggiore della mia infanzia fu l’assenza di un padre (buono o cattivo)  e il dott. Weiss supplì, fino a un certo punto, a questa mancanza. Comunque, quando partì stavo molto meglio, ed egli potè dire a mia moglie: Suo marito non è guarito ma molto migliorato…”
Siamo dunque  al nodo centrale del nostro tema, il rapporto, o meglio, il mancato rapporto con il padre, di cui il poeta era già dolorosamente consapevole sul piano emotivo ma che riuscirà a comprendere meglio e a razionalizzare solo dopo l’intervento di analisi.
Della sua infanzia difficile abbiamo due diverse testimonianze in due separate  raccolte poetiche. La prima è la già citata Autobiografia, del 1924, prima della cura con Weiss, l’altra è Il piccolo Berto del 1929-31, contemporanea cioè al trattamento psicoanalitico. Entrambe affrontano questo aspetto ma lo presentano sotto una luce diversa.
Dalla prima sono tratti questi due sonetti:    
Quando nacqui mia madre ne piangeva,
sola, la notte, nel deserto letto.
Per me, per lei che il dolore struggeva,
trafficavano i suoi cari nel ghetto.
Da sé il più vecchio le spese faceva,
per risparmio, e più forse per diletto.
Con due fiorini un cappone metteva
Nel suo grande turchino fazzoletto.
Come bella doveva essere allora
La mia città: tutta un mercato aperto!
Di molto verde, uscendo con mia madre,
io, come in sogno, mi ricordo ancora.
Ma di malinconia fui tosto esperto;
unico figlio che ha lontano il padre.    
La figura del padre torna, da assoluta protagonista, in quest’altro:    
Mio padre è stato per me L’assassino,
fino ai vent’anni che l’ho conosciuto.
Allora ho visto ch’egli era un bambino,
e che il dono ch’io ho da lui l’ho avuto.
Aveva in volto il mio sguardo azzurrino,
un sorriso, in miseria, dolce e astuto.
Andò sempre pel mondo pellegrino;
più d’una donna l’ha amato e pasciuto.
Egli era gaio e leggero; mia madre tutti sentiva della vita i pesi.
Di mano ei gli sfuggì come un pallone.
<< Non somigliare- ammoniva- a tuo padre>>.
Ed io più tardi in me stesso lo intesi:
Eran due razze in antica tenzone.   
L’ultimo verso di questo sonetto, anticipa in modo ancora più crudo, il “ cuore in due scisso” che abbiamo citato all’inizio, con una significativa differenza. Nel primo, la contrapposizione fra le due razze, a cui non è estranea anche la differenza religiosa fra i due genitori, è, per così dire, un dato di fatto  assunto oggettivamente, come la constatazione di due stili di vita e di due modi di intenderla fra di loro inconciliabili, di cui lo stesso poeta trova dolorosamente traccia anche in sé, come segno di una doppia, inevitabile eredità. Nel secondo il dato oggettivo si è trasformato in sentimento, non più “due razze”, ma un unico “cuore”, sia pure lacerato e alla ricerca di una difficile sintesi che porterà il poeta non solo a constatare ma anche a comprendere le ragioni di quella differenza.
Saba è stato il più acuto interprete di se stesso e della sua poesia in quell’opera straordinaria e originale che è la Storia e cronistoria del Canzoniere, composta fra il il 1944 e il 1947, in cui ci fornisce puntuali esegesi di tipo stilistico, unitamente a chiarimenti di carattere biografico e psicologico. Ma per quanto riguarda i sonetti dell’Autobiografia è piuttosto sbrigativo e, riferendosi in particolare al secondo sonetto citato, si limita ad un’analisi di tipo stilistico, soffermandosi sui difetti che lui stesso evidenzia, come l’immagine del “pallone” che avverte pesante in contrasto con la leggerezza che avrebbe voluto suggerire. A proposito del contenuto afferma soltanto che “ chi non avverte fino a che punto questo sonetto è ad un tempo universale e individuale, la sua appartenenza cioè alla grande poesia, è sordo ai valori poetici più essenziali, e nessun ragionamento, nostro o d’altri potrebbe persuaderlo”. Non si sofferma dunque ad approfondire il rapporto figlio-genitore, che pure è presentato in termini così crudi, come se, in questa fase della sua esistenza la sua angoscia potesse risolversi ancora solo per immagini, non avendo ancora acquisito la capacità, che più tardi verrà, di analizzarla e comprenderla in se stesso. Diverso è il tono delle poesie del Piccolo Berto, in cui il poeta appare quasi riconciliato con le sue origini, in seguito alla comprensione delle ragioni che determinarono un tempo il comportamento irresponsabile del padre e quello troppo austero della madre. Questo non annulla la gravità dell’angoscia che questi fatti determinarono in lui e non ne allevia il dolore, tuttavia il poeta è ora in grado di leggere meglio anche nell’ animo del padre e della madre e di dare un senso ad episodi e situazioni che segnarono fin dall’infanzia la sua esacerbata sensibilità.
In un articolo pubblicato sulla Fiera letteraria nel 1946, dal titolo Poesia, filosofia e psicanalisi, in cui polemizza con Benedetto Croce per le sue posizioni ostili a  quello che, riduttivamente, il filosofo definisce “freudismo”, considerando le teorie del medico viennese alla stregua di un rozzo psicologismo di matrice pansessuale, estraneo a  qualunque rapporto con la poesia, Saba, dopo aver difeso con competenza da conoscitore, anche sul piano teorico,  i meriti della psicanalisi che considera la sola vera grande scienza contemporanea, ponendo Freud fra i grandi della civiltà moderna, insieme a Copernico e Darwin e, sul piano filosofico, a Nietzche, passa a considerare, alla luce soprattutto della sua esperienza personale, il rapporto fra poesia e psicanalisi e, rifacendosi alle affermazioni di Croce sostiene: “Una persona che, attraverso un’esperienza psicanalitica condotta fino in fondo e completamente riuscita, avesse superati in se stessa tutti i propri <<complessi>> e, con quelli, la propria infanzia, non scriverebbe più poesie, nemmeno se avesse sortito dalla natura il genio poetico di Dante; tanto più se ne allontanerebbe quanto più l’inconscio che l’alimenta fosse diventato in lei conscio. Quell’ipotetica persona non perderebbe, per l’analisi, la facoltà di esprimersi (che si ha o non si ha): ma sentirebbe il bisogno di esprimere altro e in altra forma. Perché questo? Perché la poesia, come tutte le arti, è impensabile senza che ci sia, in chi la esercita, una forte, un’ eccessivamente forte carica di narcisismo, carica che l’analisi tende, per quanto possibile, a diminuire, deviandola dal soggetto all’oggetto (…) Un estremo di narcisismo ed una, anche relativa, salute psichica non possono coesistere. <<Non credo- diceva Freud ad un suo collega che lo consultava a proposito di un suo cliente- che era appunto un poeta- <<non credo che il suo paziente potrà mai guarire del tutto. Al più uscirà dalla cura molto più illuminato su se stesso e gli altri. Ma se è un vero poeta, la poesia rappresenta per lui un compenso troppo forte alla nevrosi, perché possa interamente rinunciare ai benefici della malattia>>. La prognosi si rivelò poi vera alla lettera; quel poeta non guarì del tutto, ma le poesie che scrisse dopo l’analisi furono più liete e serene delle precedenti. Ecco un esempio di come la psicanalisi possa influire anche sulla poesia, o, meglio, sui poeti”.
Questi sono i vantaggi che lo stesso Saba trae dalla psicanalisi, il primo tra i quali è il riconoscimento e la riconciliazione con la sua infanzia, con quel bambino che convive nell’adulto e rappresenta l’occhio giusto con cui il poeta deve guardare al mondo, recuperandone l’innocenza non priva, però, anche di quel fare dispettoso, irrispettosamente curioso e demistificante che fa dei suoi giovani piuttosto dei ragazzacci, come appunto il “ragazzaccio aspro e vorace” a cui, per similitudine è accostata l’amata Trieste che con essi condivide una “scontrosa grazia”.
Non a caso  (del resto è lo stesso Saba ad avvertirci in una sua Scorciatoia che “non esiste il caso: non esiste la famosa tegola sul capo. Esistono nessi- ed autodecisioni- che noi non sappiamo”) il ciclo del Piccolo Berto si apre con una poesia in cui il recupero della sua ormai lontana infanzia prende avvio dall’immagine di sua figlia, l’amata Linuccia, che, facendogli vivere le consolazioni della paternità condivisa , gli ripropone, ma ormai addolcito, il rimpianto  del bambino che fu, con le sue gioie e i suoi dolori, compreso il primo e più importante: l’assenza del padre. 
Mia figlia
mi tiene il braccio intorno al collo, ignudo;
ed io alla sua carezza m’addormento.[...]
Al seno
approdo di colei che Berto ancora
mi chiama, al primo, all’amoroso seno,
ai verdi paradisi dell’infanzia.   
La prima strofa propone un’immagine rovesciata rispetto alla tradizionale consuetudine familiare: è la figlia che culla il padre in una sorta di inconsapevole ninna.nanna carezzevole che lo induce al sonno e al sogno lieto. La figlia compie nei confronti del padre quell’ufficio che il vero padre di lui non compì mai, opera pertanto anch’essa  una sorta di risarcimento nei confronti del padre, non troppo dissimile nelle motivazioni, anche se più dolce  nei fatti, di quello che un tempo il giovane Saba fu chiamato a compiere nei confronti della madre abbandonata, una madre il cui posto, però, nel cuore del bambino era stato preso dalla nutrice. Questa è la prima delle tre poesie che a lei sono dedicate con il titolo appunto di Tre poesie alla mia balia. Nella balia, nel suo calore corporeo, nella sua funzione di nutrice che dona il latte della vita e, più tardi ancora, un simbolico caffelatte che segna l’approdo all’età adulta, si incarna per il poeta la vera maternità e questo determina in lui un’altra lacerante scissione, quella fra l’ amore per la madre affettiva, che definisce “madre di gioia” e quello per  la madre biologica, la severa Rachele Coen, maestra di dolori e di timori. Quest’ultima che non avrebbe potuto sopportare un nuovo abbandono  lo sottrasse, a tre anni, incurante del suo dolore, alla Peppa. Saba rievoca poeticamente quello straziante momento così: 
...Un grido
s’alza di bimbo sulle scale. E piange
anche la donna che va via. Si frange
 per sempre un cuore in quel momento.
Adesso
Sono passati quarant’anni.
Il bimbo È un uomo adesso, quasi un vecchio, esperto
Di molti beni e molti mali. E’ Umberto
Saba quel bimbo. E va, di pace in cerca,
a conversare colla sua nutrice;
che anch’ella fu di lasciarlo infelice,
non volontaria lo lasciava. Il mondo
fu a lui sospetto d’allora, fu sempre
(o tale almeno gli parve) nemico.
Appeso al muro è un orologio antico
 così che manda un suono quasi morto.
Lo regolava nel tempo felice
il dolce balio; è un caro a lui conforto
regolarlo in suo luogo. Anche gli piace
a sera accendere il lume, restare/da lei gli piace, fin ch’ella gli dice:
<<E’ tardi. Torna da tua moglie, Berto>>.   
Come si vede, l’assenza del padre ha provocato anche un ulteriore conflitto di cui Saba porterà il peso, oltre a quello dell’odio della madre nei confronti dell “assassino” lontano: un conflitto tra donne. Al primo, quello fra la madre e la balia, il farsi uomo del poeta ne aggiungerà un altro, anche se di natura solo psicologica, quello fra la madre e la moglie, introdotta, benchè assente dal quadro rievocato, dalle parole della Peppa, nell’ultimo verso dove compare, anche lei in alternativa, anche se non in contrapposizione drammatica, con la nutrice.
Ma prima di affrontare l’interessante rapporto che legò per la vita, durante quasi cinquant’anni, Saba e la moglie Lina, vorrei soffermarmi sull’analisi che lo scrittore propone del Piccolo Berto in Storia e cronistoria del Canzoniere. A differenza di quanto prima ho fatto notare, a proposito dei sonetti dell’ Autobiografia, nel caso delle poesie di questa raccolta, il poeta che rispetto a quelli era stato piuttosto sbrigativo, in questo caso si diffonde a lungo nella loro analisi, per chiarire la quale sente la necessità di fare riferimento alla sua terapia  psicanalitica, per rendere omaggio non solo al grande valore, sia pure non risolutivo, come abbiamo già detto, di quella cura, ma anche, in modo esplicito, a quello di chi ne fu l’artefice, il già citato dottor Weiss che divenne per lui, in quelle circostanze, una sorta di sostituto del padre. Dice Saba:“Noi non vogliamo giustificare nulla: vogliamo solo spiegare come queste strane poesie sono nate. Il paziente lettore ricorderà forse che abbiamo spesso parlato del <<dolore di Saba>>, di quel <<pensiero coatto>> del quale, in termini crudi, egli accusa l’esistenza nel secondo sonetto dell’ Autobiografia. Ed anche di una specie di <<ambivalenza affettiva>>, che lo aveva accompagnato per quasi tutta la vita. Sono cose, queste che possono far soffrire un pover’uomo più a lungo e più atrocemente di qualunque altra malattia; avvelenarne, per quanto alto possa essere il suo valore individuale e sociale, l’esistenza. Ora, Il piccolo Berto porta una dedica: al dott. Edoardo Weiss. Tutti sanno che il dottor Weiss era un psicanalista, anzi il  leader dei  pochi, vergognosamente pochi, psicanalisti italiani. Egli esercitava la sua  impossibile (nel senso di difficile) professione a Trieste prima, a Roma poi; e questo fino che i <<provvedimenti per la difesa della razza>> non lo obbligarono a trasferirsi in America, a guarire cioè degli americani invece che degli italiani. E’ chiaro, attraverso la dedica, che il piccolo Berto è rinato durante una cura psicanalitica   il cui procedimento consiste nel rimuovere, o cercar di rimuovere, il velo d’amnesia che copre gli avvenimenti della primissima infanzia, e trovare in essi le ragioni dei conflitti che lacerano la vita dell’adulto. (Potremmo dire dell’umanità, solo che quello che per il singolo, è l’infanzia, per l’umanità è la preistoria. L’umanità -lo si è visto fin troppo bene- è ammalata dalla sua preistoria). Ma non si spaventi il lettore. Noi non vogliamo parlargli né di complessi né di procedimenti psicanalitici, né di altre cose del genere, che sappiamo essergli- a torto o a ragione- in odio. Abbiamo solo voluto chiarire la, reale o apparente, stranezza di alcune poesie di Saba; ci affrettiamo ad aggiungere che nulla  v’è  in esse di psicanalitico. [sottolineatura dell’autore] Sono semplicemente dei ricordi d’infanzia. Il poeta reagì al trattamento attaccandosi a quello che, della sua infanzia, andava, mano a mano, scoprendo: una tragedia infantile adorabile mi si va disegnando e trasformando i ricordi in poesia.”
La citazione che Saba fa di se stesso, con quell’ossimoro, una tragedia infantile adorabile, richiama il verso da cui siamo partiti che racchiude  in sé le rose dell’infanzia e l’abisso dell’angoscia che la segnò. Tutto quello che, fino all’incontro con Weiss e alla rinascita del piccolo Berto, era stato riferito nelle sue poesie solo come grumo di irrisolto dolore è ora materia di sogno e di adorabile rimpianto. Non è stato cancellato e neppure dimenticato, ma si è addolcito e rasserenato, grazie alla più limpida visione che il poeta ha acquisito in se stesso e di se stesso.
SABA E LA MOGLIE LINA  
Ma fondamentale  nella vita adulta di Saba è il rapporto con la moglie Lina, che lo scrittore volle conoscere per ragioni che sono ancora una volta materia di indagine psicologica. Mentre svolgeva il servizio militare a Salerno, sentì raccontare da un commilitone, di ritorno da una licenza nella sua città, la triste storia di una giovane che era stata malamente abbandonata dal fidanzato dal quale era stata precedentemente separata da motivi politici estranei alla loro volontà. La giovane si era a lungo adoperata per far ritornare l’amato dall’esilio ma, quando questa possibilità era sta infine concessa, il fidanzato, ormai avviato lungo altre strade, anche sentimentali, non aveva voluto fare ritorno da lei. La donna era caduta in uno stato depressivo che faceva temere per la sua salute e la sua vita. Saba decide allora, programmaticamente, rispondendo ad una sorta di imperativo interiore, di conoscere e di “guarire” quella giovane. Le cose andarono effettivamente così. Tornato in licenza a Trieste  “andò subito in cerca della Lina”. Quando la vide: “una donna bruna,  coi capelli nerissimi, che le ricadevano inanellati sulle spalle, intenta ad annaffiare dei vasi di  gerani, esposti, perché prendessero aria, alla finestra, capì - sentì –che quella, o nessun’altra, era sua moglie”.
Le citazioni sono tratte dal ricordo-racconto del 1957 ( la moglie era morta nel novembre dell’anno precedente, Saba morirà quello stesso anno), in cui,  sotto il titolo di Come un vecchio che sogna, rievoca quelle lontane vicende per la figlia Linuccia. E’ impossibile non vedere in questo ricordo la volontà di sconfiggere la morte che già era intervenuta a separarli, richiamando alla vita quella donna, l’origine di quell’amore da cui erano nate per il poeta una nuova vita e quella figlia che perpetuava la madre a partire anche dal nome (parlando di loro con altri le chiamava le due Line e allo stesso modo si rivolgeva loro nelle lettere indirizzate ad entrambe): “Da quello sguardo in su e da quel sorriso da quella finestra infiorata, sei nata, alcuni anni dopo, tu, figlia mia Linuccia”.
A proposito di questo  strano matrimonio nato da una sorta di imperativo morale  che lo porta a risarcire la donna abbandonata dall’amante infedele assumendo lui il ruolo del giovane buono, Giovanni Comisso osserva che in questo modo “egli avrebbe vendicato la madre abbandonata dal marito, e in conclusione, sposando la Lina  avrebbe, come Edipo, sposato sua madre”. L’interpretazione è certamente suggestiva e forse fondata da un punto di vista dell’analisi e delle sue ambivalenze, ma certo la vita è altra cosa dagli schematismi psicoanalitici e in questo caso, di fronte ad un amore che legò Saba e la moglie nel modo straordinario testimoniato dal sonetto 12 dell’ Autobiografia e fu passione, dedizione, dolore, gelosia e rabbia, gioia e fatica, limitarlo alle sue sole origini psichiche appare piuttosto riduttivo.   
Ed amai nuovamente; e fu di Lina
dal rosso scialle il più della mia vita.
Quella che cresce accanto a noi, bambina
dagli occhi azzurri, è dal suo grembo uscita.

Trieste è la città, la donna è Lina,
per cui scrissi il mio libro di più ardita
sincerità; né dalla sua fu fin ad oggi mai l'anima partita.

Ogni altro conobbi umano amore;
ma per Lina torrei di nuovo un'altra
vita, di nuovo vorrei cominciare.

Per l'altezze l'amai del suo dolore;
perché tutto fu al mondo, e non mai scaltra,
e tutto seppe, e non se stessa, amare.
L’animale  simbolo di Lina, più di ogni altro a cui pure è associata, è la gallina, protagonista della novella che ne porta il titolo e della prima strofa della lunga poesia  a lei dedicata:  A mia moglie.  E’ lo stesso Saba a riconoscere e a non sapere immediatamente spiegare l’apparente bizzarria di questa predilezione che si trasforma addirittura in identificazione: “Se poi qualcuno gli avesse chiesto perché tanto gli piaceva quello stupido volatile, a cui gli altri non associano che idee gastronomiche, il fanciullo non avrebbe forse saputo cosa rispondere. A molti infatti che allora glielo chiesero, egli non rispose che vent’anni dopo, con una lirica, poco, anche quella, capita”.
La citazione è tratta dalla novella del 1913 La gallina e la lirica a cui Saba si riferisce è appunto A mia moglie. La novella racconta, con evidenti riferimenti autobiografici, di un giovane, qui chiamato Odone, impiegato come praticante d’ufficio in una ditta commerciale di Trieste. Ricevuto il suo primo stipendio lo porta orgogliosamente alla madre e, avendo avuto da lei il permesso di trattenerne per sé una metà, a patto che ne faccia buon uso e si guardi bene dall’andarlo pericolosamente a spendere con le donne, decide in un primo momento di comperare con quei soldi un regalo per la madre, per dimostrarle ulteriormente l’intensità del suo affetto e tutta la sua riconoscenza. Ma, giunto al mercato con le idee ancora incerte, finisce per essere attratto e distratto dai suoi primitivi propositi dalla vista delle gabbie degli uccelli e del pollame, dove in particolare lo colpisce “un bellissimo esemplare davvero, con una testolina piccola ed espressiva, un piumaggio nero e brillante, e una coda lunga arcuata”. Bisogna sapere che, nella sua infanzia, Odone aveva avuto come compagna di giochi e vero e proprio oggetto d’amore una gallina, con la quale praticamente conviveva e che era infine morta di troppo amore e troppo cibo, essendole scoppiato il cuore per troppa grassezza. “Odone ne avrebbe voluto subito un’altra; desiderio che sua madre non volle assolutamente appagare”. Ma ecco il desiderio rinascere di fronte a quella gabbia del mercato per cui, spinto da un impulso irrefrenabile, la compera. Dovendo ritornare in fretta al lavoro dà incarico al venditore di recapitarla al suo indirizzo. Le ore del pomeriggio che lo separano dal rientro a casa trascorrono fra un misto di ansia e ripensamenti, fra timore e pentimento, ma il giovane è del tutto impreparato a  quello che lo attende a sera. La madre lo accoglie, diversamente da quanto temeva, allegra e contenta del graditissimo regalo. A Odone che, sollevato, chiede di vedere la gallina, la madre, che nel racconto porta lo stesso nome della madre vera di Saba, gliela mostra: “La massaia aperse una porta. Dietro, appesa a un chiodo e già spennata, la gallina, nella sua rigidità di cadavere”. Il figlio impietrisce e, sconvolto dal dolore si ritira a piangere nella sua camera: “Il cuore gli batteva forte, e lacrime di dolore gli pungevano gli occhi, non solo per la miserevole fine del pollo – servito ad uno scopo così diverso da quello per cui l’aveva comprato- ma al pensiero che sua madre- sua madre!- non lo aveva capito. Era possibile questo? Che una madre non capisse il figlio? Che un figlio, per farsi capire da sua madre, dovesse spiegarsi come con un estraneo? Erano fatte così le madri? (dieci anni dopo avrebbe detto le donne), o solo la sua?”
L’episodio determina una crisi irreversibile, una crisi di crescita, premessa di un nuovo lacerante distacco, infatti “da quella sera amò meno, sempre meno, sua madre”.
Di questa novella ha dato una interessante spiegazione in chiave psicanalitica Mario Lavagetto, interpretandone il diffuso simbolismo anche alla luce della ritualità ebraica che di certo non era, almeno inconsapevolmente, estranea a Saba. In base a questo la gallina  rappresenta la “reincarnazione del padre lontano”, nei confronti del quale la madre compie una sorta di assassinio rituale, compiendo il quale però, in virtù di una ambigua ambivalenza sempre presente nei simboli, “uccide anche se stessa E’ tuttavia possibile un’altra interpretazione, più immediatamente evidente. La gallina è già in questa novella la moglie, l’altra donna, la più importante e la più pericolosa delle donne da cui la madre mette in guardia il figlio; è la donna il cui amore e il desiderio per la quale sono più forti e vincenti, tanto che la madre non riuscirà a staccare il figlio da lei, come un tempo potè fare con un’altra antagonista, strappandolo alle braccia della amata nutrice. Uccidendo la gallina la madre tenta di  eliminare un altro oggetto d’amore. Ma la vita, con le sue necessità e crudeltà sentimentali, ha già cominciato ad essere più forte di lei. Infatti , come abbiamo già visto, Odone-Saba “da quella sera amò meno, sempre meno, sua madre”. Questo disamore è necessario perché possa nascere in lui un altro amore che sarà il nuovo oggetto anche del suo canto: “Ed amai nuovamente; e fu di Lina”, tema centrale della raccolta Trieste e una donna. Questa lettura mi sembra peraltro autorizzata  dalla stesso Saba quando accosta la gallina del racconto a quella della poesia dedicata vent’anni dopo alla moglie:   

Tu sei come una giovane,
una bianca pollastra.
 Le si arruffano al vento
le piume, il collo china
per bere, e in terra raspa;
ma nell’andare, ha il lento
tuo passo di regina,
ed incede sull’erba
pettoruta e superba.
E’ migliore del maschio.
E’ come sono tutte
le femmine di tutti
i sereni animali
che avvicinano  a Dio.
Così se l’occhio, se il giudizio mio
non  m’inganna, fra queste hai le tue uguali,
e in nessuna altra donna.
Quando la sera assonna
le gallinelle,
mettono voci che ricordan quelle,
dolcissime, onde a volte dei tuoi mali,
ti quereli, e non sai
che la tua voce ha la soave e triste
musica dei pollai. 

SABA E GLI EBREI  
L’altro tema che mi pare opportuno trattare, con riferimento alle origini e all’infanzia del nostro, è quello del legame fra Saba e l’ebraismo che, a dir la verità, diventa per lui, come per altri drammaticamente significativo, solo nell’età adulta, quando è chiamato a fare i conti con la sua componente ebraica dalle Leggi razziali e dalla successiva persecuzione antisemita messa in atto dal nazismo e dal fascismo.
Saba non ebbe nell’infanzia  una educazione religiosa ortodossa. L’ebraismo significava per la madre e la sua famiglia, più un’appartenenza ad un gruppo che una   fede rigorosamente praticata, tanto è vero che non ci furono problemi ad affidare il figlio, che fra le altre cose non fu mai circonciso, alle cure di una nutrice cattolica e praticante che, nell’ambito delle sue consuetudini, non esitava a farsi accompagnare dal bambino in Chiesa e ad impartirgli, senza peraltro nessuna volontà di proselitismo, insegnamenti e pratiche di culto cattoliche. In quell’epoca, il conflitto fra le diverse fedi delle due donne e l’inevitabile confusione nella mente del bambino, esprime più la loro concorrenza affettiva che  un preciso significato religioso e serve più che altro da pretesto alla madre per sottrarlo infine, definitivamente alla balia. A questo si deve aggiungere che il padre fedifrago era cattolico, per cui  su questa religione viene deviata una ostilità che ha ben altra origine, mentre tutti gli esempi maschili  positivi che essa offriva al figlio appartenevano alla sua famiglia ebrea, a partire dallo zio, oculato amministratore che fungeva da  sostegno economico per la donna e il figlio senza beni, per culminare nel modello ideale di cui la madre avrebbe voluto che Saba seguisse le orme, Samuele Davide Luzzatto, detto Sciadàl, letterato e gloria della famiglia. Ma il giovane non subì che marginalmente quell’influenza, soprattutto da un punto di vista culturale, preferendo le letture dei poeti classici e contemporanei della letteratura italiana, alla lettura della Torah. Anche il modello propostogli non lo interessò più di tanto e anzi scandalizzò e preoccupò la madre dichiarandole che sognava per il suo avvenire una gloria addirittura più alta di quella di Sciadàl, e in un altro campo, quello poetico.
Quando nel 1952, Saba si accinge a raccogliere in vista di una pubblicazione le sue prose sparse, recupera anche cinque racconti che ricordava di avere scritto “come un incubo” più di quarant’anni prima. Sono quelli che nel volume delle Prose compaiono per primi con il titolo collettivo Gli Ebrei-1910-1912. Più che racconti veri e propri sono ricordi esposti in forma narrativa di persone e situazioni riconducibili all’ambiente materno, e di essi, nella Prefazione dice che “furono scritti quando l’antisemitismo pareva un gioco; ed io potevo, senza rimorso, abbandonarmi alla comprensiva ironia, venata di  nascosta tenerezza, verso persone e cose (vere le une e le altre) che conobbi e vidi, o di cui, più spesso, ho sentito parlare, al tempo della mia fanciullezza. Mia madre- come si sa- era ebrea ed ebrea era tutta la sua famiglia. I racconti sono nati da due movimenti: dalla reazione (venata -come ho detto- di tenerezza) ad un modo di essere che non era il mio, che era già molto raro in quegli anni, e che mi stupiva come <<una nota di colore>> in più nel <<mondo meraviglioso>>, e, penso, da una specie di nostalgia di mio padre, che non era ebreo, e conobbi poco e tardi”.
Saba avverte bene il rischio del fraintendimento a cui può esporsi con questi racconti, basti leggere Il ghetto di Trieste nel 1860, per rendersi conto di quanto poco possa apparire, per dirla con un termine ora in voga, politically correct, l’immagine degli ebrei e dei loro comportamenti commerciali, dopo gli orrori della persecuzione antisemita, in seguito alla quale essere ebreo e parlare degli ebrei ha assunto un nuovo significato e ha modificato anche i modi della loro rappresentazione. Egli vuole pertanto sgombrare il campo da qualunque possibile interpretazione in chiave riduttiva o eccessivamente critica dei comportamenti degli ebrei da lui descritti la cui apparente, ma solo apparente, e non sostanziale diversità rispetto all’ “altra gente”  è riconducibile a condizioni storiche e a ragioni di costume. Per parte sua, concludendo la Prefazione, afferma: “Aggiungo solo, a scanso di equivoci, che –alieno per mia natura, e per quanto possibile alla natura umana- da odi religiosi e razziali, se ho sempre riconosciuto quelli che sono stati i pregi e i difetti degli ebrei (simili, almeno qui in Italia, a quelli di tutti gli altri italiani e mediterranei) non mi sono mai sentito che italiano fra italiani. Il resto, prima che la pazzia e la disperazione degli uomini ne facessero una tragedia, era per me -lo ripeto volentieri- poco più che una <<nota di colore>>”.
Dunque l’ebraismo non era, non è mai stato, un vero problema per Saba, fino che le vicende storico-politiche non lo hanno fatto diventare tale, ma anche in questo caso le difficoltà di ogni natura che dovette subire e i rischi che corse non furono tali da fargli scoprire, come per molti altri nelle sue condizioni, un senso di appartenenza, una condivisione, sia pure forzatamente indotta dall’esterno, della cultura e dei valori ebraici. Tutto quello che andava capitando in Europa agli ebrei Saba lo imputava alla follia degli uomini e alla responsabilità di chi non aveva saputo o voluto vedere in tempo l’abisso in cui il fascismo stava trascinando gli uomini, tutti gli uomini, anche se gli ebrei furono vittime  in modo più atroce e tragico di tutti gli altri. Anche nelle lettere scritte in quel periodo, oltre che nella produzione poetica, non c’è traccia di un ripensamento di tipo religioso o di un interessamento politico riconducibile alla specificità dell’ebraismo. Saba vive la condanna del suo essere per metà  ebreo come un fatto, un altro doloroso capitolo della sua vita già così dolorosamente segnata da altre vicende.
E’ in un periodo successivo che le sue radici ebree vengono discusse in modo problematico, duramente  polemico e del tutto privo di ogni ipotesi di fratellanza razziale , non a caso ancora una volta in seguito ad un impulso di tipo psicanalitico.
Nell’agosto del 1946 prese avvio un interessante carteggio con lo psicanalista ebreo Joachim  Flescher, su iniziativa di quest’ultimo. Il  motivo di questo approccio fu l’ammirazione da parte di Flescher per lo scritto già citato in cui Saba contestava la rozzezza delle idee di Benedetto Croce sulla psicanalisi. Ben presto la corrispondenza arriva a toccare tematiche più personali ed è lo psicanalista a dare involontariamente avvio a quello che gli apparirà come uno sfogo “antisemita” da parte dello scrittore. Nella lettera del 9 marzo 1949, riferendosi alle sue poesie dice infatti: “…dalla lettura dei suoi versi mi sembra che Lei probabilmente non ha avuto una madre troppo dolce e <<permissiva>> e che comunque delusioni e rinunce La dovevano aver colpito prima ancora che si fosse delineata la costellazione <<edipica>>. Così solo mi spiego il verso antiebraico in una sua poesia, che prima pensavo rivelasse che il Suo padre fosse stato ebreo e non – come seppi dalla Cronistoria - la madre. Un rapporto insoddisfacente con la madre in quella fase ci rende molto vulnerabili. (…) Spesso, per mantenere <<buona>> l’immagine della madre (…) il risentimento per le frustrazioni viene dislocato ( ingiustamente) sul padre. Lei mi sembra ha perfino –almeno in quel verso- spostato sul padre anche l’elemento ebraico, come causa di certi dispiaceri (antisemitismo), come allusione ad altre più profonde  delusioni riferibili alla madre. Dal padre poi parte la catena Superio -opinione sociale- delusione- e reattiva depressione”.
E’ come se le osservazioni di Flescher facessero da detonatore e portassero finalmente allo scoperto il groviglio affastellato di rancori personali e di motivazioni di tipo spirituale e addirittura etico che stanno alla base del suo presunto <<antisemitismo>>.  Nella lunga lettera di risposta, dopo avere fornito ampi chiarimenti sulla natura, che noi già conosciamo,  dei suoi rapporti familiari  e sul  clima in cui maturarono i suoi anni di infanzia, nell’ultima parte, con un piglio, un’energia e una lucidità d’analisi  che tradiscono  la forza della repressione a lungo trattenuta prosegue: “E adesso vengo al mio <<antisemitismo>>. Non so da quali miei versi lei lo abbia dedotto; se da uno dei Versi militari  (“di troppo ebraico, di troppo panciuto”) o se dalla famigerata strofetta della Capra…
A partire dal ricordo d’infanzia che lo vede aspramente rimproverato dalla madre, ebrea, per essere andato, contro la sua volontà, in chiesa con la balia, luogo per lui di delizie che non avevano nulla di religioso, e da quello della balia stessa che lo minacciava, quando era cattivo, di <<farlo ebreo>>, con evidente riferimento alla circoncisione che il bambino inconsapevolmente interpretava come castrazione, si costruisce per Saba una serie di  identificazioni. L’ebraismo, per motivazioni che prescindono da qualunque valutazione di carattere religioso, si ricollega alla  durezza della madre e alla paura della circoncisione-castrazione, il cattolicesimo con la bontà, i profumi e il calore della balia che, fra le altre, gli offre anche la consolazione, tipicamente cattolica, dell’angelo custode che lo accoglie  e lo protegge nel sonno notturno. Dal caso personale Saba passa poi  a valutazioni di carattere generale che confermano, a suo dire, il carattere “lieto e commovente” delle rappresentazioni artistiche di tipo figurativo a cui si affida la rappresentazione di religioni serene  come quella greca antica , che si incarna in immagini di giovani liberi, felici, in armonia con se stessi e con il mondo. Ben diversa è la rappresentazione di se stessa che offre la religione ebraica, dominata da immagine cupe di vecchi severi, “schiacciati a terra dal senso di colpa”, e che si esprime in liturgie spaventosamente repellenti come il suono stridulo e agghiacciante del Sofar [corno di montone rituale]. Gli ebrei in quanto tali,, la cui maggiore responsabilità consiste proprio nell’essere “stati i maggiori apportatori nel mondo del <<senso di colpa>>, cioè della sola effettiva <<colpa>> che esista. dovrebbero cessare di esistere. E’ questa la più importante ragione per cui Saba  non mostra nessuna simpatia neppure per il  progetto del nuovo stato di Israele che darebbe certificazione ufficiale e diritto di esistenza a ciò che lui vorrebbe  invece eliminare.
Egli si rende conto di quanto sia difficile  esprimere queste posizioni in quegli anni e dopo quello che è accaduto, sa quale rischio correrebbe di essere frainteso nelle sue vere intenzioni, pertanto, anche nell’ambito di questo sfogo  privato e confidenziale vuole ben chiarire le sue ragioni a Flescher: “Ma lasciando stare le immagini, IO SO CHE COSA SONO E CHE COSA SIGNIFICANO GLI EBREI (lo so più di lei, perché in me c’è la parte giudicata e la giudicante; niente – si capisce- di quello che pensava Hitler, piuttosto un’infinita miseria che una qualsiasi potenza di male) e IN QUANTO EBREI, CHE SI SENTONO EBREI, che vogliono [maiuscolo e corsivo nel testo] essere ebrei, essi e i loro figli, e i figli dei loro figli, decisamente non li amo. In quanto persone umane è un’altra cosa: ho conosciuto e conosco ebrei ed ebree che sono persone deliziose, fra le più deliziose che si possono trovare al mondo. Ma queste persone né si vergognano né ci tengono ad essere ebrei; e in pratica nemmeno lo sono. Insomma, se dipendesse da me, non farei nessun male agli ebrei. Punirei solo con l’immediata fucilazione nella schiena tutti quelli che praticano e fanno praticare la circoncisione ( non la sola, ma certamente una delle cause per cui gli ebrei si sposano solo fra di loro: un ragazzo ogni poco timido si vergogna di mostrare quella ridicola mutilazione a una donna che non sia della sua razza). Così pure proibirei il culto nei templi, scioglierei le loro comunità ecc. ecc. Che si battezzino, se vogliono battezzarsi, e se no rimangano (come ho fatto io) senza nessuna religione. Non colpirei gli individui, aiuterei solo gli ebrei a non sentirsi più ebrei, e quindi a cessare di esserlo”.
Flescher, prima di riprendere, per ribatterle e contestarle , le dure  affermazioni di Saba, sostiene che “la Sua severità contro la religione ebraica è di natura emotiva” e credo si difficile dargli torto, riconoscendo perlomeno un evidente fondo di emotività nella dura presa di posizione antiebraica di Saba che, tuttavia, come è altrettanto evidente, non ha nulla a che vedere, né con le motivazioni né con la pratica dell’antisemitismo  messa in atto da nazismo e fascismo.
Per concludere ora questa lunga riflessione, credo di poter dire che il polemico, rabbioso riferimento di Saba all’orrore della circoncisione come timore patito e come fatto subito, sia pure quest’ultimo non da lui direttamente, ci riporta là dove eravamo partiti, cioè a quel padre mai avuto che, per sposare una donna ebrea, per necessità e non per amore, accettò di essere circonciso, di subire cioè una castrazione simbolica. Per come la vede ora il figlio, questa mutilazione, inflitta per di più ad un uomo adulto, ebbe una parte non secondaria, insieme ad altri aspetti poco raccomandabili del suo carattere, nel determinare in lui  quel rancore che presto si trasformò in volontà di fuga definitiva da quella donna e da quel mondo così cupi ed ostili. Quell’uomo che la madre odiò poi per sempre e la cui mancanza fece tanto soffrire il giovane Umberto, è dunque, infine, non più da figlio a padre, ma da uomo a uomo, più da compiangere che da condannare, anche perché, le stesse esperienze di vita da lui vissute e conosciute in altri gli hanno nel frattempo insegnato quanto possano essere forti le tentazioni di fuga da pesi che, in certi momenti, appaiono insopportabili alla fragilità umana.
Rita Turrini

U. Saba
Preghiera alla madre
madre che ho fatto
soffrire
(cantava un merlo alla finestra, il giorno
abbassava, sì acuta era la pena
che morte a entrambi io m’invocavo)
madre
ieri in tomba obliata, oggi rinata
presenza,
che dal fondo dilaga quasi vena
d’acqua, cui dura forza reprimeva,
e una mano le toglie abile o incauta
l’impedimento;
presaga gioia io sento
il tuo ritorno, madre mia che ho fatto,
come un buon figlio amoroso, soffrire.

Cuor morituro (1925-30)
il poeta

io non so amare,
io non so fare
bene che questa cosa,
cui dava a me la vita dolorosa
unico scampo.

io dico l’arte
d’incider carte
di difficili versi,
che spesso stanno fra lor come avversi
nemici in campo.

preludio e canzonette (1922-1923)
secondo congedo
o mio cuore dal nascere in due scisso,
quante pene durai per uno farne!
quante rose a nascondere un abisso!

preludio e fughe (1928-1929)
Ritratto della mia bambina
da Cose Leggere e vaganti
La mia bambina con la palla in mano,
con gli occhi grandi colore del cielo
e dell’estiva vesticciola: "Babbo
-mi disse – voglio uscire oggi con te"
Ed io pensavo : Di tante parvenze
che s’ammirano al mondo, io ben so a quali
posso la mia bambina assomigliare.
Certo alla schiuma, alla marina schiuma
che sull’onde biancheggia, a quella scia
ch’esce azzurra dai tetti e il vento sperde;
anche alle nubi, insensibili nubi
che si fanno e disfanno in chiaro cielo;
e ad altre cose leggere e vaganti.
        Goal
 Il portiere caduto alla difesa
ultima vana, contro terra cela
la faccia, a non veder l'amara luce.
Il compagno in ginocchio che l'induce,
con parole e con mano, a rilevarsi,
scopre pieni di lacrime i suoi occhi.

La folla - unita ebbrezza - par trabocchi
nel campo. Intorno al vincitore stanno,
al suo collo si gettano i fratelli.
Pochi momenti come questo belli,
a quanti l'odio consuma e l'amore,
è dato, sotto il cielo, di vedere.

Presso la rete inviolata il portiere
- l'altro - è rimasto. Ma non la sua anima,
con la persona vi è rimasto sola.
La sua gioia si fa una capriola,
si fa baci che manda di lontano.
Della festa - egli dice - anch'io son parte.

Tre poesie alla mia balia

1

Mia figlia
mi tiene il braccio intorno al collo, ignudo;
ed io alla sua carezza m' addormento.

Divento
legno in mare caduto che sull' onda
galleggia. E dove alla vicina sponda
anelo, il flutto mi porta lontano.
Oh, come sento che lottare è vano!
Oh, come in petto per dolcezza il cuore
vien meno!

Al seno
approdo di colei che Berto ancora
mi chiama, al primo, all' amoroso seno,
ai verdi paradisi dell' infanzia

2

Insonne
mi levo all' alba. Che farà la mia
vecchia nutrice? Posso forse ancora
là ritrovarla, nel suo negozietto?
Come vive, se vive? E a lei m'affretto,
pure una volta, con il cuore ansante.

Eccola : è viva; in piedi dopo tante
vicende e tante stagioni. Un sorriso
illumina, a vedermi, il volto ancora
bello per me, misterioso. E' l'ora
a lei d'aprire. Ad aiutarla accorso
scalzo fanciullo, del nativo colle tutto
improntato, la persona china
leggera, ed alza la saracinesca.

Nella rosata in cielo e in terra fresca
mattina io ben la ritrovavo. E sono
a lei d'allora. Quel fanciullo io sono
che a lei spontaneo soccorreva; immagine
di me, d' uno di me perduto...

3

...Un grido
s'alza il bimbo sulle scale. E piange
anche la donna che va via. Si frange
per sempre un cuore in quel momento.
Adesso
sono passati quarant'anni.

Il bimbo
è un uomo adesso, quasi un vecchio, esperto
di molti beni e molti mali. E' Umberto
Saba quel bimbo. E va, di pace in cerca,
a conversare colla sua nutrice;
che anch'ella fu di lasciarlo infelice,
non volontaria lo lasciava. Il mondo
fu a lui sospetto d' allora, fu sempre
(o tale almeno gli parve) nemico.

Appeso al muro è un orologio antico
così che manda un suono quasi morto.
Lo regolava nel tempo felice
il dolce balio; è un caro a lui conforto
regolarlo in suo luogo. Anche gli piace
a sera accendere il lume, restare
da lei gli piace, fin ch' ella gli dice:
"E' tardi. Torna da tua moglie, Berto".

da:  "Il Canzoniere"  (1948) 
Il Borgo
Fu nelle vie di questo
Borgo che nuova cosa
m'avvenne.
Fu come un vano
sospiro
il desiderio improvviso d'uscire
di me stesso, di vivere la vita
di tutti,
d'essere come tutti
gli uomini di tutti
i giorni.
Non ebbi io mai sì grande
gioia, né averla dalla vita spero.
Vent'anni avevo quella volta, ed ero
malato. Per le nuove
strade del Borgo il desiderio vano
come un sospiro
mi fece suo.
Dove nel dolce tempo
d'infanzia
poche vedevo sperse
arrampicate casette sul nudo
della collina,
sorgeva un Borgo fervente d'umano
lavoro. In lui la prima
volta soffersi il desiderio dolce
e vano
d'immettere la mia dentro la calda
vita di tutti,
d'essere come tutti
gli uomini di tutti
i giorni.
La fede avere
di tutti, dire
parole, fare
cose che poi ciascuno intende, e sono,
come il vino ed il pane,
come i bimbi e le donne,
valori
di tutti. Ma un cantuccio,
ahimé, lasciavo al desiderio, azzurro
spiraglio,
per contemplarmi da quello, godere
l'alta gioia ottenuta
di non esser più io,
d'essere questo soltanto: fra gli uomini
un uomo.
Nato d'oscure
vicende,
poco fu il desiderio, appena un breve
sospiro. Lo ritrovo
- eco perduta
di giovinezza - per le vie del Borgo
mutate
più che mutato non sia io. Sui muri
dell'alte case,
sugli uomini e i lavori, su ogni cosa,
è sceso il velo che avvolge le cose
finite.
La chiesa è ancora
gialla, se il prato
che la circonda è meno verde. Il mare,
che scorgo al basso, ha un solo bastimento,
enorme,
che, fermo, piega da un parte. Forme,
colori,
vita onde nacque il mio sospiro dolce
e vile, un mondo
finito. Forme,
colori,
altri ho creati, rimanendo io stesso,
solo con il mio duro
patire. E morte
m'aspetta.
Ritorneranno,
o a questo
Borgo, o sia a un altro come questo, i giorni
del fiore. Un altro
rivivrà la mia vita,
che in un travaglio estremo
di giovinezza, avrà per egli chiesto,
sperato,
d'immettere la sua dentro la vita
di tutti,
d'essere come tutti
gli appariranno gli uomini di un giorno
d'allora.
                                                                                                        (Dal Canzoniere, Milano, Garzanti, 1951)
***
inediti 2002

BOLLE DI SAPONE
Arrivi allegro come una bandiera
allegra,
alzata in cima d'un'antenna.
"Quale
del tuo lungo viaggio è stata l'ora
che piu' non si dimentica, felice;
quella per cui molte fatiche hai spese,
molto denaro dello zio, ed un cuore
anche ha sofferto dell'attesa?"
"L'ora
la piu' simile - dici - a questa".
Esprimi
da un cannoncello improvvisato, liberi
bolle in aere vaganti, sfere accese
dei fulgori dell'iride; con gli occhi
le reggi a lungo e con l'anima, e s'una
scoppia, mal nata, innanzi tempo, imprechi
come a una perdita grave.
Non dici
altro del tuo viaggio, altro non chiedo

 

SOLDATO SUL CAMION    
Non pare che di ciò tutto si goda,
con fragore sul camion trasportato?
Menerebbe, se can fosse, la coda

SOLDATO DI SCORTA

Fra i pensosi che in linea han da tornare,
e i pochi in breve licenza felici,
scorta un soldato due mitragliatrivi,
che fa l'atto, qua e là, di mitragliare

MARCIA

Ai soldati che andavano a morire
si suonava una marcia fragorosa
In noi - per cosa
piu' difficile - nascono in silenzio
altre musiche, come
bianche corolle sulla scorza nera
e senza foglie di un ramo che insorge
muto sul cielo di una primavera
tragica
Vivere
è piu' difficile a noi di morire

SABA Il poeta rinasce in una bolla di sapone

 

di ERMANNO KRUMM (2002)

 

 

Ritrovate da Arrigo Stara, in due grossi

fascicoli, quattro poesie inedite di Umberto

Saba dattiloscritte, con correzioni autografe.

Due brevi componimenti, del 1916 17, da

aggiungere a quelli pubblicati nell'"Intermezzo

quasi giapponese" del Canzoniere del 1919

(espunti però   tranne due   dalle edizioni

definitive, a partire dal 1945). E due poesie

piu' ampie, del 1933 (rispettivamente di febbraio

e marzo), che si collocano in un momento

decisivo per lo scrittore triestino.

Saba aveva "dimenticato" questi fogli in uno di

quei faldoni che ancora oggi riempiono le pareti

della sua libreria antiquaria, "il nero antro

sofferto" in cui ha lavorato e vissuto dal 1919,

anno in cui, lasciata la direzione di una sala

cinematografica di proprietà di parenti, compra

la libreria di via san Nicolò. E dove rimane

finché le leggi razziali non lo obbligano (lui

di madre ebrea e padre cattolico) a organizzare

una finta vendita a favore del fidato assistente

Carletto Cerne e a lasciare Trieste. Torna alla

sua libreria alla fine della guerra, e vi resta

fino all'anno della morte. Carletto   così lo

chiamavano tutti   rileva allora l'attività che,

a sua volta, lascia al figlio Mario, attuale

gestore.

E' qui   da questa via aperta sul mare, nella

sala dove campeggia la foto dell'antico,

illustre proprietario   che Arrigo Stara,

curatore delle opere di Saba ( Tutte le poesie e

Tutte le prose, Meridiani, Mondadori,

rispettivamente 1988 e 2001), ha rinvenuto i

versi che pubblichiamo in esclusiva.

Piu' volte menzionata nell'epistolario   ricorda

adesso Stara   si pensava che "Bolle di sapone"

fosse andata perduta. Si sapeva solo che era

stata composta in occasione del ritorno in città

dell'amico Nello Stock (delle famose

distillerie) e che Saba la considerava la prima

della serie intitolata Parole (1933 34) .

Scritta dopo un lungo silenzio (anche in seguito

all'esperienza psicoanalitica con Weiss), la

poesia ritrovata inaugura quello straordinario

periodo che ha   come segnala Saba stesso

"qualcosa di nuovo, come una nuova strana

primavera". Una "seconda rinascita", aggiunge

Mario Lavagetto, lettore assiduo e attento del

Canzoniere. Nuova la lingua: meno rime,

arcaismi, parole tronche e forzature; nuova la

serenità, la calma tutta al presente.

L'autobiografico "io" del poeta sembra, dopo la

cura, acquietato, mentre i precedenti eccessi

"narrativi" lasciano ora il posto alla forza

delle immagini.

In "Bolle di sapone", per esempio, si stagliano

le figure di Saba e Stock. All'inizio, pochi

versi ben in rilievo, con quell'"arrivo allegro

come una bandiera / allegra". Poi il botta e

risposta dei due, seguito dal passaggio sulle

parole come bolle "in aere vaganti", chiara

ripresa di una dichiarazione di poetica del

1920: "Anche i versi somigliano alle bolle / di

sapone; una sale e un'altra no". La poesia si

conclude, infine, con un commento epigrammatico,

tipico di Saba.

"Marcia", la seconda poesia del '33 ritrovata,

ruota intorno all'immagine della primavera

"tragica", che pare fatichi, come il poeta

cinquantenne, a rinascere. Nella versione

definitiva di Parole, questo antichissimo tema

poetico ritorna in un altro testo, "Primavera",

dove la stagione degli amori uccide e resuscita

crudelmente. La bella, e di nuovo epigrammatica,

chiusa di "Marcia" ("Vivere / È piu' difficile a

noi di morire") ricorda quella di una poesia piu'

tarda, "Sera di febbraio", che esprime lo stesso

male di vivere: "E' il pensiero / della morte

che, infine, aiuta a vivere".

Giocosamente risolte in un giro di rima, le due

composizioni brevi su modello giapponese ( aiku

) riproducono il clima dei Versi militari

(1908). Anche se scritte durante la Prima guerra

mondiale, risentono del piacere del giovane che

aveva trovato se stesso fra i soldati: piacere

del cane che mena lo coda ("Soldato sul camion")

e di quell'ironico far atto di mitragliare

("Soldato di scorta").

Nell'esercito come parata e come spettacolo

prevale di nuovo la forza dell'immagine (senza

drammi). Forse perché anche in questo caso, come

con la primavera, Saba riprende antiche figure

della poesia che nei secoli, Novecento compreso,

si rinnovano senza perdere la loro carica

figurativa.

 

OTTOBRE – NOVEMBRE 1956:
LINUCCIA SABA

LA SOLITARIA TAVOLA DI SABA
L’ho visto mangiare in cucina, nella sua cucina, e credo, sono sicura, che nessuno al mondo può sospettare che il nostro poeta, il poeta del Canzoniere, mangi quelle cose, in quell’ambiente, in quella compagnia. Mangia seduto sull’orlo della seggiola, in vestaglia e pantofole, preparato soltanto un lato della tavola, solo, pallido e disperato: un fiasco di vino davanti, e il piatto quasi vuoto. Nel piatto sta la sua invenzione, quasi l’unica cosa che mangi: burro, salsa di acciughe e sugo di limone. “E’ importante”, spiega a chi lo guarda mangiare, “che il burro e la salsa non siano amalgamati insieme e che ci sia molto limone”. Mangia quella strana salsa così piccante quasi senza pane, rapidamente, e tutto in lui esprime, con quella forza che gli viene dalla sua natura lirica, lirica sempre e in ogni momento, l’inappetenza. E’ solo perché chi egli ama è lontana e ammalata e chi gli è vicino, due donne, sono esseri remoti che nulla possono dargli. L’una è una vecchia domestica, una contadina, che intuisce di servire un essere eccezionale, che a suo modo ama e teme, ma sbagliando sempre, così che con ogni suo gesto o parola o offerta ferisce la sensibilità di Umberto Saba. L’altra è una coinquilina, rimasta lì dalla guerra, sana e popolare, e che non ha neanche tanta fantasia da meravigliarsi, né tanta gentilezza da cercare di essere d’aiuto. Così, mentre Saba mangia, si muove intorno a lui, canta e sfaccenda e lava i piatti. Saba, è evidente, non mangia per vivere, non mangia perché ha fame, non mangia per ubbidire a un rito comune a tutti, mangia solo per tentare di dimenticarsi cinque minuti: per fare qualche cosa. Io lo guardo ed ho il cuore così stretto che desidero solo fuggire lontana: sento che nessuna parola lo raggiunge, che non posso riportarlo in camera da pranzo. Eppure penso, mentre lo osservo e lo vedo più che vecchio, antico, con lo sguardo azzurro e acuto, le mani sempre belle e la voce piena di risonanza, questa è la stessa cucina dove tanto è stato cucinato, tanto e con tanto amore, la stessa dove ogni giorno enormi pezzi di carne trovavano varie forme di cottura proprio per essere rapidamente divorati da Saba. Perché Saba è stato un mangiatore e un carnivoro che quasi solo di carne si nutriva e delle cose affini e complementari della carne: formaggi piccanti e le verdi olive greche, piccole e grinzose, che si vendevano in barili: amare, mai salate. Mangiava subito, appena rientrato in casa, prima di parlare, senza prender fiato, senza riposare un momento. Chi mangiava con lui era al primo cucchiaio di minestra, che Saba aveva finito, ed egli accendeva il sigaro toscano. Aveva finito, in quel brevissimo spazio di tempo, le più che generose porzioni che la Lina, sua moglie, gli metteva davanti. Era un giorno il bollito, un altro le famose “fugazzette” (della carne di manzo tritata fine, manipolata a forma di polpetta, lasciata macerare nell’olio per molte ore e poi cucinata con uno spicchio di aglio) o lo stufato consumato per ore e ore a fuoco lento, o l’arrosto dorato e tenerissimo e le seppie col nero o tutte le altre cose che, di volta in volta, gli piacevano. Sì, certo, e mi pare impossibile, è la stessa cucina dalla quale partivano i piatti per Saba e per gli amici venuti da vicino e da lontano per stare con lui, ed erano invitati a pranzo e anche – perché no? – un po’ giudicati dalla famiglia a seconda della capacità del loro stomaco. Così era giudicato inappetente chi si accontentava di due grosse fette di carne e inefficiente chi non riusciva a finirne una. Ricordo il piacere di Svevo, povero Svevo eternamente costretto a dieta, quando, invitato a pranzo da Saba, lasciava paura e malattia fuori della porta e si abbandonava al suo naturale piacere per la buona tavola.
Ma a queste cose, guardando oggi Saba, non posso pensare, non posso pensare a quei tempi passati e affettuosi, vorrei poter pensare a un avvenire almeno un poco migliore, vorrei rivedere Saba, riaperto il cuore agli amici che lo aspettano, mangiare in compagnia, vorrei rivederlo mangiare senza ripugnanza per il fatto di nutrirsi, vorrei provarne meno pena per potergli volere più bene.

Fonte: http://www.mlbianchi.altervista.org/saba.doc

Sito web da visitare: http://www.mlbianchi.altervista.org

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