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I PROMESSI SPOSI, DI ALESSANDRO MANZONI
UN PADRE DELLA CULTURA ITALIANA MODERNA
Un genio della sintesi
Manzoni è uno dei padri della cultura italiana moderna, cioè l’Italia nata come Stato nazionale a metà Ottocento fino (per certi aspetti) ai nostri giorni non sarebbe stata la stessa senza la sua opera e la sua figura, che sono state una presenza continua sia per chi le ha appoggiate e applicate che per chi le ha contestate: questo suo ruolo fondativo gli fu riconosciuto già in vita, come dimostrano riconoscimenti pubblici quali la nomina a senatore del neonato Regno d’Italia nel 1860, la nomina alla testa di una commissione su un problema fondamentale del nuovo Stato come l’insegnamento della lingua, e la promozione dei Promessi sposi a testo scolastico fondamentale e per la lingua e per i contenuti (un privilegio unico nella letteratura italiana moderna, e che vale ancora oggi in molti licei). Un ruolo così importante è anche un risultato dei tempi: Manzoni visse una vita molto lunga (ottantadue anni) che gli permise di accompagnare il periodo degli eventi fondamentali della storia italiana, e che ebbero uno dei loro centri proprio nella sua Milano: fu adolescente e poi giovane durante la Rivoluzione francese, la presenza francese in Italia e la prima autonomia politica sotto Napoleone di una dapprima repubblica e poi “Regno italico” con capitale Milano (1796-1814), uomo maturo e letterato sempre più celebre durante la Restaurazione e il ritorno di Milano sotto il dominio dell’impero asburgico, gli eventi rivoluzionari del ’48 (di cui Milano fu di nuovo protagonista), infine figura di importanza culturale indiscussa durante gli anni che portarono alla nascita (1860) del Regno d’Italia sotto la monarchia dei Savoia e al suo completamento ideale con la conquista di Roma capitale (1870). Ma l’unicità di Manzoni non è tanto una questione di tempi, quanto di genio: egli è stato una figura decisiva nella cultura del suo secolo grazie ad una grandezza intellettuale che si fonda su una straordinaria forza di sintesi: la capacità di sintesi culturale, che gli ha permesso di cercare una conciliazione tra l’illuminismo e il neoclassicismo civile in cui si è formata la sua gioventù e il romanticismo e il cattolicesimo che hanno segnato la sua maturità; la vastità di una cultura che, nella sua maturità, ha compreso la storia, la filosofia, la teologia, la letteratura e la riflessione sulla lingua; il rigore del pensiero, che si traduce nella capacità di porre problemi fondamentali e di affrontarli con risposte unitarie e sintetizzando i suddetti diversi campi della conoscenza; la chiarezza espressiva che corrisponde alla profondità del ragionamento; la ricerca di una lingua adeguata sia al contenuto che al pubblico, una ricerca che dà le sue prove più alte nei Promessi sposi, con i quali fonda la prosa narrativa italiana moderna. Alla base di queste ed altre doti sta la prima sintesi sopra ricordata, quella di due mondi culturali, il Settecento e l’Ottocento, cioè (detto semplificando) l’illuminismo e il romanticismo, il laicismo e la fede, la storia terrena dell’uomo e la sua dimensione trascendente: questi due mondi, che durante la Restaurazione furono considerati due mondi nemici e incompatibili, sono stati riassorbiti e sintetizzati nel suo pensiero e nella sua opera.
Da Milano a Parigi: un letterato illuminista e neoclassico (1785-1809)
Alessandro Manzoni nasce il 7 marzo 1785 a Milano, dal conte Pietro Manzoni (quarantasei anni) e da Giulia Beccaria (vent’anni), figlia di Cesare Beccaria, uno dei grandi nomi dell’illuminismo italiano, ma da quanto si sapeva già ai suoi tempi, il suo padre naturale è il conte Giovanni Verri (che fu l’amante di Giulia Beccaria in quegli anni), fratello di Pietro e di Alessandro, anche loro (soprattutto Pietro) uomini di punta dell’illuminismo milanese: questa situazione anagrafica sembra anticipare materialmente il primo fondamentale segno distintivo della personalità di Manzoni, che fu davvero (culturalmente ma anche, si è visto, nel sangue) un figlio dell’illuminismo lombardo. E infatti il giovane dimostrerà presto, appena i tempi glielo permetteranno, che nelle sue vene non scorre il sangue della famiglia paterna, conservatrice e religiosa: malgrado la sua educazione tradizionale, e quindi religiosa, curata dal suo padre legale (1791-1801) – la madre si è separata dal 1791 – Manzoni è un giovane figlio del suo secolo, laico e radicale in politica, che si entusiasma per la Rivoluzione francese, come quasi tutti i giovani suoi coetanei (ad es. Foscolo, più vecchio di lui di sette anni), e per la “liberazione”, da parte delle truppe francesi guidate dal giovane generale Napoleone Bonaparte, del ducato asburgico di Milano, ora Repubblica cisalpina (1796-1799): il suo primo componimento poetico impegnativo è il poemetto Del trionfo della Libertà (1801), che celebra la Rivoluzione francese, la caduta del dispotismo monarchico e i tempi nuovi per la civiltà europea. I maestri del giovane poeta sono, in questi anni, i maestri della letteratura italiana illuministica e neoclassica: Giuseppe Parini per la funzione educativa e l’impegno sociale della poesia, Vincenzo Monti (che Manzoni conosce di persona e da cui riceve apprezzamenti lusinghieri) per l’eleganza formale. Intanto l’allargamento dei contatti culturali (gli esuli napoletani confluiti a Milano lo stimolano allo studio della storia e della riflessione sulla storia), e anche nelle prime poesie, di ispirazione illuministico-neoclassica, è il contenuto illuministico a prevalere e a formare una poetica eminentemente seria e civile, cioè fondata sulla letteratura come espressione di una profonda moralità personale e ricerca della verità. La prima espressione compiuta di questa poetica nasce da un’importante svolta biografica: nel 1805 il giovane Alessandro abbandona la casa dei conti Manzoni e va a vivere a Parigi con la madre (da cui era stato separato dal 1791), e sempre nel 1805 muore il convivente di sua madre, Carlo Imbonati, per il quale Manzoni scrive, come omaggio funebre, il poemetto in endecasillabi sciolti In morte di Carlo Imbonati (pubblicato nel 1806), dove la celebrazione del defunto (che era stato da giovane un allievo di Parini) è la celebrazione di una letteratura intesa come missione etica, come religione laica del “santo vero”, nel nome anche, appunto, del maestro di etica personale e letteraria che era stato Parini. Questi sono anni di serenità (madre e figlio vivono una vita idillica a Parigi) e di approfondimenti umani e culturali: i due risultati più importanti sono l’amicizia con Claude Fauriel, studioso di letteratura medievale e di letteratura francese e italiana, destinatario da allora in poi di un carteggio lungo e fondamentale per le riflessioni sulla letteratura e sulla propria opera, e il matrimonio con Enrichetta Blondel (1808), una giovane svizzera di famiglia calvinista conosciuta a Milano nel 1807, da cui nel 1809 nasce a Parigi la prima figlia, Giulia. Mentre il giovane Manzoni, ormai diventato padre di famiglia e nobile proprietario terriero dopo che la morte del suo padre anagrafico (1807) lo ha lasciato erede universale delle sue sostanze, ha i primi contatti non superficiali con il mondo della religione (il matrimonio con Enrichetta Blondel viene celebrato con doppio rito, civile e calvinista), la sua opera letteraria è sempre più percorsa da un’inquietudine che sembra portare la poetica illuministico-neoclassica alle sue estreme conseguenze e preludere a una svolta letteraria: nel 1809 pubblica il poemetto Urania, un tipico testo neoclassico sulla funzione civilizzatrice della poesia, cioè delle Muse e delle Grazie (evidente l’analogia con l’ultimo capolavoro di Foscolo, il poema incompiuto Le Grazie, che comincerà qualche anno dopo), e in quell’anno scrive a Claude Fauriel un giudizio su alcuni suoi versi di circostanza (un’epistola poetica all’amico per l’invio di una sua composizione) che sembra quasi annunciare una svolta: «... sono molto scontento di questi versi, soprattutto per la loro assoluta mancanza d’interesse; non è così che se ne devono fare; forse ne farò di peggiori, ma non ne farò mai più così.»
Da Parigi a Milano: la conversione al cattolicesimo, l’adesione al Romanticismo e la grande stagione creativa (1809-1827).
La svolta più importante nella vita di Manzoni si verifica tra il 1809 e il 1810, e culmina nella conversione al cattolicesimo: nel febbraio 1810 ottiene che il suo matrimonio sia celebrato anche secondo il rito cattolico, e il 2 aprile, a Parigi, durante le feste per il matrimonio di Napoleone e Maria Luisa d’Austria, nella folla perde di vista la moglie, viene colto da una crisi di agorafobia e si rifugia nella chiesa di san Rocco, dove riesce a calmarsi. Questo è l’episodio rimasto celebre, ma esso non può rappresentare il percorso psicologico che condusse Manzoni a convertirsi, in questo come poi l’Innominato nei Promessi sposi, dopo un lungo colloquio interiore: pare molto adeguata alla sua personalità la testimonianza di Giovan Battista Giorgini (che sarà suo genero), secondo cui Manzoni è arrivato alla fede «... per la via della logica –. Logico stringente come Egli era, dopo aver tutto interrogato a lungo, intorno a sé e dentro di sé, e non aver trovato mai risposta alcuna che lo soddisfacesse, finì col convincersi che l’uomo non può fare a meno di una fede religiosa». Questa rivoluzione interiore cambierà tutta la vita anche culturale e letteraria di Manzoni: la letteratura civile di ispirazione illuministico-neoclassica viene ora sostituita da una nuova forma di impegno letterario che sublima gli ideali illuministici nella celebrazione del messaggio evangelico, un impegno che si concretizza innanzitutto nei primi quattro Inni sacri (1815; vi si aggiungerà La Pentecoste, pubblicata nel 1822) e poi in uno scritto esplicitamente teologico, le Osservazioni sulla morale cattolica (1819). La conversione religiosa non nega e non cancella anche altre posizioni radicate nel pensiero di Manzoni, a cominciare da quelle politiche, sempre “italiane” e antiaustriache, come dimostrano le due canzoni politiche scritte nel 1814-15 (Aprile 1814 e Il proclama di Rimini, incompiuta) che accompagnano le speranze in un regno d’Italia indipendente, e le crisi di nervi (di cui da ora in poi soffrirà per tutta la vita) che coincidono con la caduta definitiva di Napoleone (con la battaglia di Waterloo) e il ritorno degli Austriaci a Milano e in Italia, e le inquietudini che gli procura l’alleanza politica della Chiesa cattolica con il legittimismo monarchico.
Manzoni invece, malgrado la prudenza che gli impedisce ogni collaborazione letteraria esplicita, frequenta l’ambiente della nobiltà milanese riunito intorno alla rivista “Il Conciliatore”, un ambiente romantico in letteratura e liberale in politica. La sua partecipazione discreta alla battaglia letteraria che scuote l’Italia della Restaurazione, la polemica tra classicisti e romantici, nata nel 1816 proprio a Milano sulla rivista “La Biblioteca italiana” provoca dei risultati decisivi per la letteratura italiana: l’adesione al Romanticismo produrrà la riflessione fondamentale della lettera a Cesare d’Azeglio Sul Romanticismo (1823), e insieme con la conversione religiosa fisserà la poetica e le idee da cui nasceranno le opere della breve quanto straordinaria stagione creativa di Manzoni scrittore di letteratura. Il Manzoni maturo è ormai un autore romantico, che intreccia riflessione religiosa, interesse per la storia nazionale e sperimentazione in generi letterari tipici appunto del Romanticismo europeo: dapprima l’opera in poesia, con il dramma storico di tipo shakespeariano e non più classicistico (Il conte di Carmagnola, 1820, seguito dalla Lettera al signor Chauvet sulle unità di tempo e di luogo nella tragedia, uno scritto polemico proprio a difesa del teatro moderno di Shakespeare e dei romantici; Adelchi, 1822, insieme con il Discorso sur alcuni punti della storia longobardica in Italia), la lirica storico-politica (l’ode Marzo 1821, sui moti liberali europei ed italiani del 1820-1821, l’ode Cinque maggio, scritta in pochi giorni per la morte di Napoleone); e poi la prosa, con il romanzo storico, uno dei generi più diffusi nell’Europa della Restaurazione grazie soprattutto all’inglese Walter Scott, che Manzoni conosce sempre meglio mentre scrive, dal 1821, Fermo e Lucia, il titolo del romanzo che, concluso nel 1823 e poi profondamente riscritto, diventerà I promessi sposi, ed uscirà in prima edizione nel 1827. Il romanzo (che già entro il 1828 fu tradotto in varie lingue europee) suscita successo e scalpore e divide l’opinione letteraria e politica italiana fin dalla sua uscita, ma Manzoni è già un letterato famoso in Europa dagli anni Venti, dalla recensione di Goethe, allora lo scrittore occidentale vivente più celebre, al Conte di Carmagnola, tant’è vero che sempre nel 1827 in Germania viene pubblicato un volume di Opere poetiche, con la prefazione dello stesso Goethe.
L’abbandono della letteratura creativa (1827-1859)
La stagione creativa letteraria si conclude con la prima edizione dei Promessi sposi. Da allora in poi Manzoni continuerà ad essere uno scrittore, ma non più uno scrittore di letteratura: l’unica eccezione, ma molto particolare, sarà il lungo lavoro di correzione linguistica dei Promessi sposi in accordo con la sua riflessione sulla lingua letteraria italiana, che ora individua nel fiorentino parlato cólto il modello e la norma di una lingua letteraria che voglia essere accessibile a tutto il pubblico italiano; tale lavoro comincia con il soggiorno a Firenze del 1827, si intensifica soprattutto negli anni 1837-1840, e si concluderà con la seconda edizione dei Promessi sposi, stampata a dispense tra il 1840 e il 1842 con in appendice la Storia della colonna infame. Ma dal punto di vista letterario, la poetica manzoniana sembra esaurirsi da sola: nel 1828, subito dopo aver pubblicato I promessi sposi, riflette sulla natura del romanzo storico e conclude sulla inconciliabilità di storia e “invenzione” (cioè immaginazione, ricreazione fantastica), proprio i due elementi sul cui equilibrio e sul cui intreccio si sono fondate le opere della sua stagione “romantica” degli anni Venti (queste riflessioni, oggetto del saggio Del romanzo storico e, in genere, de’ componimenti misti di storia e d’invenzione, saranno pubblicate nel 1850). Comincia ora una seconda e più lunga stagione creativa, caratterizzata dall’abbandono della letteratura creativa a favore pressoché esclusivo della saggistica, cioè della riflessione principalmente sulla lingua e sulla storia, e anche da una molteplicità di progetti molti dei quali resteranno incompiuti, e dei quali le opere pubblicate in vita saranno una parte esigua. Dal punto di vista biografico gli anni Trenta-Quaranta trascorrono in una vita tranquilla e ritirata (tra Milano e le residenze di campagna), scossi solo da eventi famigliari importanti come la morte di Enrichetta Blondel (1833: nel suo ricordo Manzoni scriverà nel 1835 l’inno incompiuto Il Natale del 1833), il secondo matrimonio con l’aristocratica milanese Teresa Borri Stampa (1837) e la morte della madre (1841). La riflessione sulla lingua si amplia ora dalla lingua letteraria ai problemi legati a una lingua italiana nazionale, ma stenta a tradursi in opere definitive: dei vari lavori progettati negli anni Trenta, esce solo una lettera a Giacinto Carena (autore di un Vocabolario domestico) Sulla lingua italiana (1847). Intanto gli eventi storici, cioè i moti del 1848, tornano a coinvolgerlo direttamente: durante le cosiddette Cinque giornate di Milano suo figlio Filippo è arrestato e tenuto alcune settimane in ostaggio dagli Austriaci; Manzoni, che fa parte dell’opinione liberale antiaustriaca e filosabauda, firma la richiesta di aiuto militare al re Carlo Alberto, è proposto come membro della Camera del parlamento sabaudo (ma rifiuta l’incarico per ragioni caratteriali), e stampa i suoi versi politici Il proclama di Rimini e Marzo 1821 per una sottoscrizione a favore dei profughi veneti; tornati infine gli Austriaci a Milano, per prudenza si chiude in una sorta di esilio volontario fino al 1850 nella villa del figlio Stefano fuori città. Negli anni Cinquanta, tra viaggi in Toscana e soggiorni presso ville di famiglia o di amici nella campagna lombarda, lavora sempre ai suoi progetti sulla lingua italiana e scrive anche di filosofia (un dialogo Dell’invenzione, 1850).
Un simbolo vivente della nuova Italia (1859-1873)
La sua fama internazionale è consolidata da anni, quando, nel 1859, la guerra tra il regno di Savoia e l’impero asburgico annette Milano dapprima al regno di Savoia e poi, nel 1860, al neonato regno d’Italia: è quindi naturale che fin dal 1859 riceva una pensione vitalizia “a titolo di ricompensa nazionale” dal re Vittorio Emanuele II e poi venga nominato senatore del Regno nel 1860; inoltre riceve nel 1860 le visite di Vittorio Emanuele II, di Cavour e, nel 1862 quella di Garibaldi, a conferma che è già diventato una sorta di monumento vivente, un’incarnazione dell’Italia unita, appena nata come Stato nazionale. Quest’ultima svolta storica si riflette anche sul suo percorso intellettuale, facendolo tornare alla storia e facendogli progettare una vasta opera La Rivoluzione Francese e la Rivoluzione Italiana. Osservazioni comparative, a cui lavorerà dal 1861 al 1872, per poi lasciarla incompiuta. In questi anni infatti torna a farsi sentire l’esigenza di sistematizzare e pubblicare le riflessioni sulla lingua, esigenza stimolata da un’occasione pubblica, cioè la sua nomina, nel 1868, alla presidenza di una commissione nazionale per la diffusione della lingua italiana: spinto da queste circostanze Manzoni pubblica alcuni brevi scritti (brevi in confronto alla ricchezza dei materiali accumulati e alla vastità dei progetti), dei quali il principale è la relazione Dell’unità della lingua e dei mezzi di diffonderla (1868), dove ribadisce la sua posizione ‘fiorentinocentrica’, secondo la quale la lingua nazionale della nuova Italia deve essere il fiorentino secondo l’uso dei parlanti cólti, e tale modello fiorentino deve essere diffuso in tutta la nazione. Nei suoi ultimi anni, quindi, i progetti di saggi storici e quelli di riflessione linguistica s’intralciano a vicenda: l’ultimo breve lavoro scritto è il saggio Dell’indipendenza dell’Italia, del 1873(pubblicato dalla “Gazzetta Piemontese”). In quello stesso anno 1873 una caduta dagli scalini di una chiesa si rivelerà fatale: delle sue conseguenze morirà poche settimane dopo, il 22 maggio. Riceverà tutti gli omaggi riservati a una figura di primaria importanza nazionale (già dal 1872 era stato insignito della cittadinanza onoraria romana): il suo corpo sarà sepolto dopo funerali solenni a Milano (il 29 maggio) e, l’anno dopo, il primo anniversario della sua morte sarà commemorato dall’esecuzione di un capolavoro di un altro padre dell’Italia unita, Giuseppe Verdi, che dirigerà la sua Messa da Requiem, composta appunto alla memoria di Manzoni.
LA POETICA ROMANTICA DI MANZONI: LETTERATURA E VERITA’
Manzoni e la polemica classico-romantica: la lettera Sul Romanticismo.
L’Italia letteraria dei primi anni della Restaurazione è scossa dalla polemica tra classicisti e romantici, nata nel 1816 sulla rivista “La biblioteca italiana” e particolarmente viva a Milano intorno alla rivista “Il Conciliatore” portavoce del circolo romantico (e liberale in politica, quindi antiaustriaco) che Manzoni frequentava: lo scontro opponeva i difensori della tradizione classica italiana e di alcuni suoi elementi (l’imitazione dei classici, la mitologia antica) ai sostenitori di un rinnovamento fondato sulla letteratura moderna e in particolare sui generi, i temi e l’immaginario delle letterature inglese e tedesca. Nell’infuriare della polemica (1816-1821) Manzoni non intervenne mai direttamente nella discussione, ma con la sua opera (in quegli anni principalmente teatrale: Il conte di Carmagnola e Adelchi) o su questioni specifiche (la Lettera... sull’unità di tempo e di luogo nella tragedia, in difesa del Conte di Carmagnola); fu solo nel 1823, quando secondo lui la questione era di fatto risolta a favore dei romantici, che scrisse una lunga riflessione teorica in forma di lettera privata al nobile piemontese Cesare Taparelli d’Azeglio, una lettera che uscì poi su rivista nel 1846 senza il suo consenso e fu infine pubblicata, con la sua autorizzazione e in un testo riveduto, nel 1870, con il titolo Sul Romanticismo. Lettera al marchese Cesare d’Azeglio. Questo scritto è il manifesto programmatico più chiaro e sintetico del romanticismo italiano, ed anche il più profondo nei contenuti, perché è l’espressione teorica più riuscita non solo di un pensiero individuale, ma anche della cultura che ha nutrito la riflessione di Manzoni, una cultura nata nell’Illuminismo lombardo e arricchita dalla conversione religiosa e dalle discussioni della cultura europea intorno al romanticismo.
Il romanticismo secondo Manzoni: il vero, l’utile, l’interessante.
Il saggio è articolato in due parti: una distruttiva, più ampia (la critica delle tesi dei classicisti), e una costruttiva (i caratteri generali della concezione romantica della letteratura). Il rifiuto del classicismo è fondato sui seguenti argomenti principali:
a) rifiuto della mitologia classica, espressione di una religione anacronistica da secoli, ma soprattutto immorale perché pagana;
b) il rifiuto dell’imitazione pedissequa dei classici antichi, perché la letteratura deve essere originale (come lo erano anche quei classici);
c) il rifiuto delle regole che il classicismo ha tratto dai capolavori greci e latini (le famose unità di tempo, di luogo e di azione del teatro), perché arbitrarie, contrarie alla ragione.
La concezione romantica della letteratura secondo Manzoni viene riassunta in una definizione semplice nella forma quanto densa: «la poesia, e la letteratura in genere, [deve] proporsi l’utile per iscopo, il vero per soggetto [tema], e l’interessante per mezzo». Occorre sottolineare le conseguenze di questa definizione:
a) l’utile come fine: la letteratura ha una funzione educativa e quindi civile, non è un passatempo o una forma di intrattenimento, ma uno strumento con cui la società può essere migliorata;
b) il vero come tema: la letteratura è una forma di conoscenza autentica, perché, come precisa Manzoni subito dopo, deve «cercare di scoprire, e di esprimere il vero storico, e il vero morale», cioè la dimensione storica, collettiva, e la dimensione individuale, psicologica e morale, dell’uomo; dunque la letteratura è equiparata alla storia e alla morale come forma di indagine sulla vita umana;
c) l’interessante come mezzo: la letteratura nasce in stretta relazione con il suo pubblico, che non deve essere solo una cerchia di intenditori ma la grande maggioranza dei lettori, e deve scegliere argomenti che interessino e allarghino quel pubblico; quindi la letteratura deve nascere come letteratura contemporanea.
La sintesi di neoclassicismo e romanticismo: il piacere della conoscenza della verità
Le idee appena riassunte costituiscono la sintesi più matura non solo della riflessione manzoniana ma anche dello sviluppo della cultura letteraria italiana tra fine Settecento e primo Ottocento in uno dei suoi centri più importanti come Milano. L’originalità di Manzoni consiste proprio in questa sintesi di un elemento fondamentale del neoclassicismo (la funzione educativa e civile della letteratura: è la lezione di Parini), delle novità del romanticismo (l’esigenza di una letteratura nuova negli argomenti e nel pubblico allargato, non più limitata alla classe sociale più elevata e di educazione classica, dunque una letteratura “borghese” e “popolare”) e delle ragioni della fede cristiana (l’esigenza di conoscere la verità, il rifiuto di un immaginario e di valori pagani e quindi per Manzoni immorali), che dalla conversione in poi è il centro del pensiero manzoniano. La firma della personalità manzoniana è il risultato del tutto originale di questa sintesi, un risultato del tutto inedito nella letteratura italiana e accostabile solo alla concezione illuministica nata nel Settecento: la coincidenza di letteratura e verità, vale a dire la convergenza di piacere estetico (la funzione tradizionalmente considerata quella principale della letteratura) e di conoscenza della verità: come afferma Manzoni, la letteratura deve suscitare il «diletto» (il piacere) che nasce dalla «cognizione del vero», cioè dalla conoscenza della verità, un piacere della mente.
Romanticismo e romanzo storico: la sintesi di “storia” e “invenzione”
In base alla poetica manzoniana qui esposta, I promessi sposi sono anche l’espressione più alta di tale poetica. La scelta di scrivere un romanzo storico obbedisce infatti alle intenzioni fondamentali di tale poetica: il «vero storico» e il «vero morale», cioè la ricostruzione fedele di una società in un dato periodo storico e l’indagine sui meccanismi del cuore e dell’agire umano, e infine la verità più alta per Manzoni, quella della fede e dell’insegnamento cristiani, sono il tema dei Promessi sposi; la sua forma e il suo genere letterario, cioè la prosa e in particolare la prosa del romanzo, sono gli strumenti più idonei ad interessare e a raggiungere un pubblico che sia il più ampio possibile; lo scopo di quel romanzo, cioè non intrattenere o distrarre i suoi lettori ma insegnare loro dei contenuti veri, farli riflettere, aumentare la loro ricchezza conoscitiva e morale, è la migliore realizzazione possibile della funzione educativa della letteratura. Il romanzo storico, insomma, realizza le due caratteristiche fondamentali della letteratura secondo Manzoni, una relativa al contenuto e l’altra relativa alle sue funzioni: da una parte, infatti, un romanzo storico realizza la coincidenza (per usare due termini-chiave della riflessione manzoniana) di “storia” e “invenzione”, verità e immaginazione, cioè della fedeltà della ricostruzione storica e degli elementi immaginari nei personaggi e nella trama; inoltre, esso non è una forma di intrattenimento ma uno strumento di conoscenza della verità che deve migliorare la vita del suo lettore.
Presentazione dell’opera
Tra il 1821 e il 1823 Manzoni scrive un romanzo storico il cui titolo provvisorio è Fermo e Lucia, i nomi dei due protagonisti. Non appena lo ha terminato, però, Manzoni lo corregge così intensamente, dal 1824 al 1827, da ottenerne un vero e proprio rifacimento che infatti avrà anche un titolo diverso: I promessi sposi. Gli effetti principali del rifacimento sono: una struttura narrativa che diventa più complessa e intrecciata (nel Fermo e Lucia le vicende si susseguono invece per grandi blocchi paralleli, legati ai personaggi principali), una prevalenza netta della narrazione sulla digressione e sul commento del narratore (vengono eliminati parecchie lunghe digressioni e parecchi interventi espliciti del narratore), e una profonda trasformazione linguistica dalla lingua composita e quasi sperimentale del Fermo e Lucia («un composto indigesto di frasi un po’ lombarde, un po’ toscane, un po’ francesi, un po’ anche latine», come scrive lo stesso Manzoni nella seconda Introduzione) alla lingua molto più unitaria dei Promessi sposi, fondata sul toscano che è la lingua di base della tradizione letteraria italiana, ma allo stesso tempo la più vicina possibile a un lessico vivo e a una sintassi semplice, insomma una lingua a base toscano-letteraria ma non arcaica e non poetica, lontana quindi dalla lingua della letteratura classicistica. Infine, la seconda grande fase correttiva, dalla prima edizione (1827) alla seconda (1840) dei Promessi sposi, è esclusivamente linguistica: la lingua della seconda edizione e definitiva (il testo in cui il romanzo è stato letto e lo leggiamo anche oggi) è fondata sul fiorentino parlato dell’Ottocento, naturalmente non quello popolare ma quello delle classi cólte), dunque una lingua viva, effettivamente parlata, e non una lingua ricostruita attraverso la lettura di vocabolari e di testi letterari.
Queste profonde trasformazioni non toccano però il nucleo fondamentale della trama, che (salvo mutamenti non sostanziali di vicende e di nomi) è la medesima fino dal Fermo e Lucia. La vicenda è ambientata negli anni tra il 1628 e il 1630, nella Lombardia (soprattutto tra il territorio di Lecco e Milano), allora possesso dell’impero spagnolo e sullo sfondo di avvenimenti storici di rilievo per quello Stato come la peste che infuriò nel 1630 (in conseguenza di un episodio della guerra tra Francia e Spagna per il possesso di Casale di Monferrato). Manzoni finge (ricorrendo a un artificio tradizionale nel romanzo europeo fino dal Don Chisciotte) che il suo racconto sia la trascrizione di una storia realmente accaduta da un manoscritto di un anonimo seicentesco, al quale è dedicata l’Introduzione. La novità fondamentale dei Promessi sposi come romanzo storico è già affermata dal presunto anonimo: i protagonisti non sono, come tradizionalmente, personaggi di alto rango sociale ma «gente meccaniche, e di piccol affare» (nella lingua seicentesca dell’anonimo che Manzoni si diverte a ricostruire e a criticare nell’Introduzione), cioè due lavoratori di condizione sociale umile. Questa scelta di due personaggi socialmente anonimi e irrilevanti a protagonisti di un romanzo, e per di più la loro natura di personaggi seri che sono protagonisti di una storia seria, esprime il nucleo della rivoluzione letteraria dei Promessi sposi: un rovesciamento della gerarchia secolare della letteratura classicistica, una gerarchia insieme letteraria e sociale che riservava il ruolo di protagonisti e la letteratura seria alla classe al potere, cioè all’aristocrazia.
Il percorso testuale
Il romanzo si apre inquadrando la vicenda entro coordinate geografiche e cronologiche precisissime – il territorio di Lecco (nel braccio meridionale del lago di Como), la sera del 7 novembre 1628 – e cominciando dal primo incidente, il primo evento imprevisto che avvia tutta la trama: il matrimonio prossimo di due modesti operai del luogo, Renzo Tramaglino e Lucia Mondella, viene impedito dal signore feudale del luogo, don Rodrigo (ovviamente spagnolo, della nazione di cui il ducato di Milano era un possedimento) attraverso minacce al parroco del loro paese, don Abbondio.
TESTO 1. «Questo matrimonio non s’ha da fare, nè domani, nè mai» (dal cap. I)
Quel ramo del lago di Como, che volge a mezzogiorno , tra due catene non interrotte di monti, tutto a seni e a golfi , a seconda dello sporgere e del rientrare di quelli , vien, quasi a un tratto , a ristringersi, e a prender corso e figura di fiume , tra un promontorio a destra, e un'ampia costiera dall'altra parte; e il ponte, che ivi congiunge le due rive, par che renda ancor più sensibile all'occhio questa trasformazione, e segni il punto in cui il lago cessa, e l'Adda rincomincia, per ripigliar poi nome di lago dove le rive, allontanandosi di nuovo, lascian l'acqua distendersi e rallentarsi in nuovi golfi e in nuovi seni. La costiera, formata dal deposito di tre grossi torrenti, scende appoggiata a due monti contigui , l'uno detto di san Martino, l'altro, con voce lombarda, il Resegone, dai molti suoi cocuzzoli in fila, che in vero lo fanno somigliare a una sega: talché non è chi , al primo vederlo, purché sia di fronte, come per esempio di su le mura di Milano che guardano a settentrione , non lo discerna tosto , a un tal contrassegno , in quella lunga e vasta giogaia , dagli altri monti di nome più oscuro e di forma più comune. Per un buon pezzo, la costa sale con un pendìo lento e continuo; poi si rompe in poggi e in valloncelli, in erte e in ispianate , secondo l'ossatura de' due monti, e il lavoro dell'acque. Il lembo estremo, tagliato dalle foci de' torrenti, è quasi tutto ghiaia e ciottoloni; il resto, campi e vigne, sparse di terre, di ville, di casali ; in qualche parte boschi, che si prolungano su per la montagna. Lecco, la principale di quelle terre, e che dà nome al territorio, giace poco discosto dal ponte, alla riva del lago, anzi viene in parte a trovarsi nel lago stesso, quando questo ingrossa : un gran borgo al giorno d'oggi, e che s'incammina a diventar città. Ai tempi in cui accaddero i fatti che prendiamo a raccontare, quel borgo, già considerabile, era anche un castello, e aveva perciò l'onore d'alloggiare un comandante, e il vantaggio di possedere una stabile guarnigione di soldati spagnoli, che insegnavan la modestia alle fanciulle e alle donne del paese, accarezzavan di tempo in tempo le spalle a qualche marito, a qualche padre; e, sul finir dell'estate, non mancavan mai di spandersi nelle vigne, per diradar l'uve, e alleggerire a' contadini le fatiche della vendemmia. Dall'una all'altra di quelle terre, dall'alture alla riva, da un poggio all'altro, correvano, e corrono tuttavia, strade e stradette, più o men ripide, o piane; ogni tanto affondate, sepolte tra due muri, donde, alzando lo sguardo, non iscoprite che un pezzo di cielo e qualche vetta di monte; ogni tanto elevate su terrapieni aperti: e da qui la vista spazia per prospetti più o meno estesi, ma ricchi sempre e sempre qualcosa nuovi, secondo che i diversi punti piglian più o meno della vasta scena circostante, e secondo che questa o quella parte campeggia o si scorcia, spunta o sparisce a vicenda. Dove un pezzo, dove un altro, dove una lunga distesa di quel vasto e variato specchio dell'acqua; di qua lago, chiuso all'estremità o piuttosto smarrito in un gruppo, in un andirivieni di montagne, e di mano in mano più allargato tra altri monti che si spiegano, a uno a uno, allo sguardo, e che l'acqua riflette capovolti, co' paesetti posti sulle rive; di là braccio di fiume, poi lago, poi fiume ancora, che va a perdersi in lucido serpeggiamento pur tra' monti che l'accompagnano, degradando via via, e perdendosi quasi anch'essi nell'orizzonte. Il luogo stesso da dove contemplate que' vari spettacoli, vi fa spettacolo da ogni parte: il monte di cui passeggiate le falde, vi svolge, al di sopra, d'intorno, le sue cime e le balze, distinte, rilevate, mutabili quasi a ogni passo, aprendosi e contornandosi in gioghi ciò che v'era sembrato prima un sol giogo, e comparendo in vetta ciò che poco innanzi vi si rappresentava sulla costa: e l'ameno, il domestico di quelle falde tempera gradevolmente il selvaggio, e orna vie più il magnifico dell'altre vedute.
Per una di queste stradicciole , tornava bel bello dalla passeggiata verso casa, sulla sera del giorno 7 novembre dell'anno 1628, don Abbondio, curato d'una delle terre accennate di sopra: il nome di questa, né il casato del personaggio, non si trovan nel manoscritto , né a questo luogo né altrove. Diceva tranquillamente il suo ufizio , e talvolta, tra un salmo e l'altro, chiudeva il breviario , tenendovi dentro, per segno, l'indice della mano destra, e, messa poi questa nell'altra dietro la schiena, proseguiva il suo cammino, guardando a terra, e buttando con un piede verso il muro i ciottoli che facevano inciampo nel sentiero: poi alzava il viso, e, girati oziosamente gli occhi all'intorno, li fissava alla parte d'un monte, dove la luce del sole già scomparso, scappando per i fessi del monte opposto, si dipingeva qua e là sui massi sporgenti, come a larghe e inuguali pezze di porpora . Aperto poi di nuovo il breviario, e recitato un altro squarcio , giunse a una voltata della stradetta, dov'era solito d'alzar sempre gli occhi dal libro, e di guardarsi dinanzi: e così fece anche quel giorno. Dopo la voltata, la strada correva diritta, forse un sessanta passi, e poi si divideva in due viottole, a foggia d'un ipsilon: quella a destra saliva verso il monte, e menava alla cura: l'altra scendeva nella valle fino a un torrente; e da questa parte il muro non arrivava che all'anche del passeggiero. I muri interni delle due viottole, in vece di riunirsi ad angolo, terminavano in un tabernacolo, sul quale eran dipinte certe figure lunghe, serpeggianti, che finivano in punta, e che, nell'intenzion dell'artista, e agli occhi degli abitanti del vicinato, volevan dir fiamme; e, alternate con le fiamme, cert'altre figure da non potersi descrivere, che volevan dire anime del purgatorio: anime e fiamme a color di mattone, sur un fondo bigiognolo, con qualche scalcinatura qua e là. Il curato, voltata la stradetta, e dirizzando , com'era solito, lo sguardo al tabernacolo, vide una cosa che non s'aspettava, e che non avrebbe voluto vedere. Due uomini stavano, l'uno dirimpetto all'altro, al confluente, per dir così, delle due viottole: un di costoro, a cavalcioni sul muricciolo basso, con una gamba spenzolata al di fuori , e l'altro piede posato sul terreno della strada; il compagno, in piedi, appoggiato al muro, con le braccia incrociate sul petto. L'abito, il portamento , e quello che, dal luogo ov'era giunto il curato, si poteva distinguer dell'aspetto, non lasciavan dubbio intorno alla lor condizione. Avevano entrambi intorno al capo una reticella verde, che cadeva sull'omero sinistro, terminata in una gran nappa, e dalla quale usciva sulla fronte un enorme ciuffo: due lunghi mustacchi arricciati in punta: una cintura lucida di cuoio, e a quella attaccate due pistole: un piccol corno ripieno di polvere, cascante sul petto, come una collana: un manico di coltellaccio che spuntava fuori d'un taschino degli ampi e gonfi calzoni: uno spadone, con una gran guardia traforata a lamine d'ottone, congegnate come in cifra, forbite e lucenti: a prima vista si davano a conoscere per individui della specie de' bravi.
tutto... golfi: formato in tutta la sua lunghezza da insenature.
di quelli: dei monti.
a un tratto: all’improvviso.
a... fiume: ad assumere la velocità e la configurazione di un fiume.
costiera : zona della costa in pendìo.
ivi : lì.
l’Adda: l’affluente di sinistra del Po che entra nel lago di Como e ne esce a Lecco.
deposito : deposito alluvionale, accumulo di detriti (trasportati dai corsi d’acqua).
contigui : vicini
voce :parola.
cocuzzoli : cime.
in vero: in effetti.
talché... chi: ‘di modo che chiunque’
di su... settentrione: guardando dall’alto delle mura di Milano rivolte verso nord.
non lo discerna tosto: lo scorge subito.
contrassegno : segno di riconoscimento.
giogaia: catena montuosa.
poi... ispianate: poi diventa frastagliata, formando piccoli promontori e piccole valli dal fondo stresso, in pendii ripidi e tratti pianeggianti (in mezzo ai rilievi montuosi).
l’ossatura: la conformazione.
di terre... casali: di paesi, di villaggi, di cascinali.
discosto : lontano
quando... ingrossa: quando cresce il livello delle acque (del lago). :
stradicciole: stradine (sono le piccole strade di campagna, di cui il narratore ha appena parlato, che percorrono quel territorio).
bel bello: tranquillo.
curato: parroco.
terre: paesi
casato : famiglia
manoscritto : l’immaginario manoscritto anonimo seicentesco da cui Manzoni finge di trascrivere questo racconto.
diceva... ufizio: recitava tranquillamente le sue preghiere quotidiane (quelle contenute nel breviario che sta leggendo).
salmo : i salmi sono inni a Dio, poesie liriche dell’Antico Testamento.
breviario: libro delle preghiere da recitare a ore prescritte.
inciampo: ostacolo.
i fessi: le aperture, gli spazi vuoti (tra le pareti rocciose).
a... porpora: in grandi macchie diverse di colore rosso porpora.
squarcio : brano.
voltata : svolta.
dirizzando : alzando
dirimpetto : di fronte.
a cavalcioni... di fuori: seduto a cavallo sul muretto basso, con una gamba che pendeva sulla strada.
portamento: atteggiamento.
bravi : letteralmente ‘coraggiosi, arditi’: erano delle bande armate al servizio dei signori locali che spadroneggiavano violando la legge.
Questa specie, ora del tutto perduta, era allora floridissima in Lombardia, e già molto antica. Chi non ne avesse idea, ecco alcuni squarci autentici, che potranno darne una bastante de' suoi caratteri principali, degli sforzi fatti per ispegnerla, e della sua dura e rigogliosa vitalità.
Fino dall'otto aprile dell'anno 1583, l'Illustrissimo ed Eccellentissimo signor don Carlo d'Aragon, Principe di Castelvetrano, Duca di Terranuova, Marchese d'Avola, Conte di Burgeto, grande Ammiraglio, e gran Contestabile di Sicilia, Governatore di Milano e Capitan Generale di Sua Maestà Cattolica in Italia, pienamente informato della intollerabile miseria in che è vivuta e vive questa città di Milano, per cagione dei bravi e vagabondi, pubblica un bando contro di essi. Dichiara e diffinisce tutti coloro essere compresi in questo bando, e doversi ritenere bravi e vagabondi... i quali, essendo forestieri o del paese, non hanno esercizio alcuno, od avendolo, non lo fanno... ma, senza salario, o pur con esso, s'appoggiano a qualche cavaliere o gentiluomo, officiale o mercante... per fargli spalle e favore, o veramente, come si può presumere, per tendere insidie ad altri... A tutti costoro ordina che, nel termine di giorni sei, abbiano a sgomberare il paese, intima la galera a' renitenti, e dà a tutti gli ufiziali della giustizia le più stranamente ampie e indefinite facoltà, per l'esecuzione dell'ordine. Ma, nell'anno seguente, il 12 aprile, scorgendo il detto signore, che questa Città è tuttavia piena di detti bravi... tornati a vivere come prima vivevano, non punto mutato il costume loro, né scemato il numero, dà fuori un'altra grida, ancor più vigorosa e notabile, nella quale, tra l'altre ordinazioni, prescrive:
Che qualsivoglia persona, così di questa Città, come forestiera, che per due testimonj consterà esser tenuto, e comunemente riputato per bravo, et aver tal nome, ancorché non si verifichi aver fatto delitto alcuno... per questa sola riputazione di bravo, senza altri indizj, possa dai detti giudici e da ognuno di loro esser posto alla corda et al tormento, per processo informativo... et ancorché non confessi delitto alcuno, tuttavia sia mandato alla galea, per detto triennio, per la sola opinione e nome di bravo, come di sopra. Tutto ciò, e il di più che si tralascia, perché Sua Eccellenza è risoluta di voler essere obbedita da ognuno.
All'udir parole d'un tanto signore, così gagliarde e sicure, e accompagnate da tali ordini, viene una gran voglia di credere che, al solo rimbombo di esse, tutti i bravi siano scomparsi per sempre. Ma la testimonianza d'un signore non meno autorevole, né meno dotato di nomi, ci obbliga a credere tutto il contrario. È questi l'Illustrissimo ed Eccellentissimo Signor Juan Fernandez de Velasco, Contestabile di Castiglia, Cameriero maggiore di Sua Maestà, Duca della Città di Frias, Conte di Haro e Castelnovo, Signore della Casa di Velasco, e di quella delli sette Infanti di Lara, Governatore dello Stato di Milano, etc. Il 5 giugno dell'anno 1593, pienamente informato anche lui di quanto danno e rovine sieno... i bravi e vagabondi, e del pessimo effetto che tal sorta di gente, fa contra il ben pubblico, et in delusione della giustizia, intima loro di nuovo che, nel termine di giorni sei, abbiano a sbrattare il paese, ripetendo a un dipresso le prescrizioni e le minacce medesime del suo predecessore. Il 23 maggio poi dell'anno 1598, informato, con non poco dispiacere dell'animo suo, che... ogni dì più in questa Città e Stato va crescendo il numero di questi tali(bravi e vagabondi), né di loro, giorno e notte, altro si sente che ferite appostatamente date, omicidii e ruberie et ogni altra qualità di delitti, ai quali si rendono più facili, confidati essi bravi d'essere aiutati dai capi e fautori loro... prescrive di nuovo gli stessi rimedi, accrescendo la dose, come s'usa nelle malattie ostinate. Ognuno dunque, conchiude poi, onninamente si guardi di contravvenire in parte alcuna alla grida presente, perché, in luogo di provare la clemenza di Sua Eccellenza, proverà il rigore, e l'ira sua... essendo risoluta e determinata che questa sia l'ultima e perentoria monizione.
Non fu però di questo parere l'Illustrissimo ed Eccellentissimo Signore, il Signor Don Pietro Enriquez de Acevedo, Conte di Fuentes, Capitano, e Governatore dello Stato di Milano; non fu di questo parere, e per buone ragioni. Pienamente informato della miseria in che vive questa Città e Stato per cagione del gran numero di bravi che in esso abbonda... e risoluto di totalmente estirpare seme tanto pernizioso, dà fuori, il 5 decembre 1600, una nuova grida piena anch'essa di severissime comminazioni, con fermo proponimento che, con ogni rigore, e senza speranza di remissione, siano onninamente eseguite.
Convien credere però che non ci si mettesse con tutta quella buona voglia che sapeva impiegare nell'ordir cabale, e nel suscitar nemici al suo gran nemico Enrico IV; giacché, per questa parte, la storia attesta come riuscisse ad armare contro quel re il duca di Savoia, a cui fece perder più d'una città; come riuscisse a far congiurare il duca di Biron, a cui fece perder la testa; ma, per ciò che riguarda quel seme tanto pernizioso de' bravi, certo è che esso continuava a germogliare, il 22 settembre dell'anno 1612. In quel giorno l'Illustrissimo ed Eccellentissimo Signore, il Signor Don Giovanni de Mendozza, Marchese de la Hynojosa, Gentiluomo etc., Governatore etc., pensò seriamente ad estirparlo. A quest'effetto, spedì a Pandolfo e Marco Tullio Malatesti, stampatori regii camerali, la solita grida, corretta ed accresciuta, perché la stampassero ad esterminio de' bravi. Ma questi vissero ancora per ricevere, il 24 decembre dell'anno 1618, gli stessi e più forti colpi dall'Illustrissimo ed Eccellentissimo Signore, il Signor Don Gomez Suarez de Figueroa, Duca di Feria, etc., Governatore etc. Però, non essendo essi morti neppur di quelli, l'Illustrissimo ed Eccellentissimo Signore, il Signor Gonzalo Fernandez di Cordova, sotto il cui governo accadde la passeggiata di don Abbondio, s'era trovato costretto a ricorreggere e ripubblicare la solita grida contro i bravi, il giorno 5 ottobre del 1627, cioè un anno, un mese e due giorni prima di quel memorabile avvenimento.
Né fu questa l'ultima pubblicazione; ma noi delle posteriori non crediamo dover far menzione, come di cosa che esce dal periodo della nostra storia. Ne accenneremo soltanto una del 13 febbraio dell'anno 1632, nella quale l'Illustrissimo ed Eccellentissimo Signore, el Duque de Feria, per la seconda volta governatore, ci avvisa che le maggiori sceleraggini procedono da quelli che chiamano bravi. Questo basta ad assicurarci che, nel tempo di cui noi trattiamo, c'era de' bravi tuttavia.
Che i due descritti di sopra stessero ivi ad aspettar qualcheduno, era cosa troppo evidente; ma quel che più dispiacque a don Abbondio fu il dover accorgersi, per certi atti, che l'aspettato era lui. Perché, al suo apparire, coloro s'eran guardati in viso, alzando la testa, con un movimento dal quale si scorgeva che tutt'e due a un tratto avevan detto: è lui; quello che stava a cavalcioni s'era alzato, tirando la sua gamba sulla strada; l'altro s'era staccato dal muro; e tutt'e due gli s'avviavano incontro. Egli, tenendosi sempre il breviario aperto dinanzi, come se leggesse, spingeva lo sguardo in su, per ispiar le mosse di coloro; e, vedendoseli venir proprio incontro, fu assalito a un tratto da mille pensieri. Domandò subito in fretta a se stesso, se, tra i bravi e lui, ci fosse qualche uscita di strada, a destra o a sinistra; e gli sovvenne subito di no. Fece un rapido esame, se avesse peccato contro qualche potente, contro qualche vendicativo; ma, anche in quel turbamento, il testimonio consolante della coscienza lo rassicurava alquanto: i bravi però s'avvicinavano, guardandolo fisso. Mise l'indice e il medio della mano sinistra nel collare , come per raccomodarlo ; e, girando le due dita intorno al collo, volgeva intanto la faccia all'indietro, torcendo insieme la bocca, e guardando con la coda dell'occhio, fin dove poteva, se qualcheduno arrivasse; ma non vide nessuno. Diede un'occhiata, al di sopra del muricciolo, ne' campi: nessuno; un'altra più modesta sulla strada dinanzi; nessuno, fuorché i bravi. Che fare? tornare indietro, non era a tempo: darla a gambe, era lo stesso che dire, inseguitemi, o peggio. Non potendo schivare il pericolo, vi corse incontro, perché i momenti di quell'incertezza erano allora così penosi per lui, che non desiderava altro che d'abbreviarli. Affrettò il passo, recitò un versetto a voce più alta, compose la faccia a tutta quella quiete e ilarità che poté, fece ogni sforzo per preparare un sorriso; quando si trovò a fronte dei due galantuomini , disse mentalmente: ci siamo; e si fermò su due piedi.
- Signor curato, - disse un di que' due, piantandogli gli occhi in faccia.
- Cosa comanda? - rispose subito don Abbondio, alzando i suoi dal libro, che gli restò spalancato nelle mani, come sur un leggìo.
- Lei ha intenzione, - proseguì l'altro, con l'atto minaccioso e iracondo di chi coglie un suo inferiore sull'intraprendere una ribalderia , - lei ha intenzione di maritar domani Renzo Tramaglino e Lucia Mondella!
- Cioè... - rispose, con voce tremolante, don Abbondio: - cioè. Lor signori son uomini di mondo, e sanno benissimo come vanno queste faccende. Il povero curato non c'entra: fanno i loro pasticci tra loro, e poi... e poi, vengon da noi, come s'anderebbe a un banco a riscotere ; e noi... noi siamo i servitori del comune .
- Or bene, - gli disse il bravo, all'orecchio, ma in tono solenne di comando, - questo matrimonio non s'ha da fare, né domani, né mai.
- Ma, signori miei, - replicò don Abbondio, con la voce mansueta e gentile di chi vuol persuadere un impaziente, - ma, signori miei, si degnino di mettersi ne' miei panni. Se la cosa dipendesse da me,... vedon bene che a me non me ne vien nulla in tasca...
- Orsù, - interruppe il bravo, - se la cosa avesse a decidersi a ciarle , lei ci metterebbe in sacco. Noi non ne sappiamo, né vogliam saperne di più. Uomo avvertito... lei c'intende.
- Ma lor signori son troppo giusti, troppo ragionevoli...
- Ma, - interruppe questa volta l'altro compagnone, che non aveva parlato fin allora, - ma il matrimonio non si farà, o... - e qui una buona bestemmia, - o chi lo farà non se ne pentirà, perché non ne avrà tempo, e... - un'altra bestemmia.
- Zitto, zitto, - riprese il primo oratore: - il signor curato è un uomo che sa il viver del mondo; e noi siam galantuomini, che non vogliam fargli del male, purché abbia giudizio. Signor curato, l'illustrissimo signor don Rodrigo nostro padrone la riverisce caramente.
Questo nome fu, nella mente di don Abbondio, come, nel forte d'un temporale notturno, un lampo che illumina momentaneamente e in confuso gli oggetti, e accresce il terrore. Fece, come per istinto, un grand'inchino, e disse: - se mi sapessero suggerire...
- Oh! suggerire a lei che sa di latino! - interruppe ancora il bravo, con un riso tra lo sguaiato e il feroce. - A lei tocca. E sopra tutto, non si lasci uscir parola su questo avviso che le abbiam dato per suo bene; altrimenti... ehm... sarebbe lo stesso che fare quel tal matrimonio. Via, che vuol che si dica in suo nome all'illustrissimo signor don Rodrigo?
- Il mio rispetto...
- Si spieghi meglio!
-... Disposto... disposto sempre all'ubbidienza -. E, proferendo queste parole, non sapeva nemmen lui se faceva una promessa, o un complimento. I bravi le presero, o mostraron di prenderle nel significato più serio.
- Benissimo, e buona notte, messere , - disse l'un d'essi, in atto di partir col compagno. Don Abbondio, che, pochi momenti prima, avrebbe dato un occhio per iscansarli, allora avrebbe voluto prolungar la conversazione e le trattative. - Signori... - cominciò, chiudendo il libro con le due mani; ma quelli, senza più dargli udienza , presero la strada dond'era lui venuto, e s'allontanarono, cantando una canzonaccia che non voglio trascrivere. Il povero don Abbondio rimase un momento a bocca aperta, come incantato; poi prese quella delle due stradette che conduceva a casa sua, mettendo innanzi a stento una gamba dopo l'altra, che parevano aggranchiate . Come stesse di dentro, s'intenderà meglio, quando avrem detto qualche cosa del suo naturale , e de' tempi in cui gli era toccato di vivere.
Don Abbondio (il lettore se n'è già avveduto) non era nato con un cuor di leone. Ma, fin da' primi suoi anni, aveva dovuto comprendere che la peggior condizione, a que' tempi, era quella d'un animale senza artigli e senza zanne, e che pure non si sentisse inclinazione d'esser divorato. La forza legale non proteggeva in alcun conto l'uomo tranquillo, inoffensivo, e che non avesse altri mezzi di far paura altrui. Non già che mancassero leggi e pene contro le violenze private. Le leggi anzi diluviavano; i delitti erano enumerati, e particolareggiati, con minuta prolissità; le pene, pazzamente esorbitanti e, se non basta, aumentabili, quasi per ogni caso, ad arbitrio del legislatore stesso e di cento esecutori; le procedure, studiate soltanto a liberare il giudice da ogni cosa che potesse essergli d'impedimento a proferire una condanna: gli squarci che abbiam riportati delle gride contro i bravi, ne sono un piccolo, ma fedel saggio . Con tutto ciò, anzi in gran parte a cagion di ciò, quelle gride, ripubblicate e rinforzate di governo in governo, non servivano ad altro che ad attestare ampollosamente l'impotenza de' loro autori; o, se producevan qualche effetto immediato, era principalmente d'aggiunger molte vessazioni a quelle che i pacifici e i deboli già soffrivano da' perturbatori, e d'accrescer le violenze e l'astuzia di questi. L'impunità era organizzata, e aveva radici che le gride non toccavano, o non potevano smovere. Tali eran gli asili , tali i privilegi d'alcune classi, in parte riconosciuti dalla forza legale, in parte tollerati con astioso silenzio, o impugnati . con vane proteste, ma sostenuti in fatto e difesi da quelle classi, con attività d'interesse, e con gelosia di puntiglio. Ora, quest'impunità minacciata e insultata, ma non distrutta dalle gride, doveva naturalmente, a ogni minaccia, e a ogni insulto, adoperar nuovi sforzi e nuove invenzioni, per conservarsi. Così accadeva in effetto; e, all'apparire delle gride dirette a comprimere i violenti, questi cercavano nella loro forza reale i nuovi mezzi più opportuni, per continuare a far ciò che le gride venivano a proibire. Potevan ben esse inceppare a ogni passo, e molestare l'uomo bonario, che fosse senza forza propria e senza protezione; perché, col fine d'aver sotto la mano ogni uomo, per prevenire o per punire ogni delitto, assoggettavano ogni mossa del privato al volere arbitrario d'esecutori d'ogni genere. Ma chi, prima di commettere il delitto, aveva prese le sue misure per ricoverarsi a tempo in un convento, in un palazzo, dove i birri non avrebber mai osato metter piede; chi, senz'altre precauzioni, portava una livrea che impegnasse a difenderlo la vanità e l'interesse d'una famiglia potente, di tutto un ceto, era libero nelle sue operazioni, e poteva ridersi di tutto quel fracasso delle gride. Di quegli stessi ch'eran deputati a farle eseguire, alcuni appartenevano per nascita alla parte privilegiata, alcuni ne dipendevano per clientela; gli uni e gli altri, per educazione, per interesse, per consuetudine, per imitazione, ne avevano abbracciate le massime, e si sarebbero ben guardati dall'offenderle, per amor d'un pezzo di carta attaccato sulle cantonate. Gli uomini poi incaricati dell'esecuzione immediata, quando fossero stati intraprendenti come eroi, ubbidienti come monaci, e pronti a sacrificarsi come martiri, non avrebber però potuto venirne alla fine, inferiori com'eran di numero a quelli che si trattava di sottomettere, e con una gran probabilità d'essere abbandonati da chi, in astratto e, per così dire, in teoria, imponeva loro di operare. Ma, oltre di ciò, costoro eran generalmente de' più abbietti e ribaldi soggetti del loro tempo; l'incarico loro era tenuto a vile anche da quelli che potevano averne terrore, e il loro titolo un improperio. Era quindi ben naturale che costoro, in vece d'arrischiare, anzi di gettar la vita in un'impresa disperata, vendessero la loro inazione, o anche la loro connivenza ai potenti, e si riservassero a esercitare la loro esecrata autorità e la forza che pure avevano, in quelle occasioni dove non c'era pericolo; nell'opprimer cioè, e nel vessare gli uomini pacifici e senza difesa.
L'uomo che vuole offendere, o che teme, ogni momento, d'essere offeso, cerca naturalmente alleati e compagni. Quindi era, in que' tempi, portata al massimo punto la tendenza degl'individui a tenersi collegati in classi , a formarne delle nuove, e a procurare ognuno la maggior potenza di quella a cui apparteneva. Il clero vegliava a sostenere e ad estendere le sue immunità, la nobiltà i suoi privilegi, il militare le sue esenzioni. I mercanti, gli artigiani erano arrolati in maestranze e in confraternite, i giurisperiti formavano una lega, i medici stessi una corporazione. Ognuna di queste piccole oligarchie aveva una sua forza speciale e propria; in ognuna l'individuo trovava il vantaggio d'impiegar per sé, a proporzione della sua autorità e della sua destrezza, le forze riunite di molti. I più onesti si valevan di questo vantaggio a difesa soltanto; gli astuti e i facinorosi ne approfittavano, per condurre a termine ribalderie, alle quali i loro mezzi personali non sarebber bastati, e per assicurarsene l'impunità. Le forze però di queste varie leghe eran molto disuguali; e, nelle campagne principalmente, il nobile dovizioso e violento, con intorno uno stuolo di bravi, e una popolazione di contadini avvezzi , per tradizione famigliare, e interessati o forzati a riguardarsi quasi come sudditi e soldati del padrone, esercitava un potere, a cui difficilmente nessun'altra frazione di lega avrebbe ivi potuto resistere.
Il nostro Abbondio non nobile, non ricco, coraggioso ancor meno, s'era dunque accorto, prima quasi di toccar gli anni della discrezione , d'essere, in quella società, come un vaso di terra cotta, costretto a viaggiare in compagnia di molti vasi di ferro. Aveva quindi, assai di buon grado , ubbidito ai parenti , che lo vollero prete. Per dir la verità, non aveva gran fatto pensato agli obblighi e ai nobili fini del ministero al quale si dedicava: procacciarsi di che vivere con qualche agio, e mettersi in una classe riverita e forte, gli eran sembrate due ragioni più che sufficienti per una tale scelta. Ma una classe qualunque non protegge un individuo, non lo assicura, che fino a un certo segno : nessuna lo dispensa dal farsi un suo sistema particolare . Don Abbondio, assorbito continuamente ne' pensieri della propria quiete , non si curava di que' vantaggi, per ottenere i quali facesse bisogno d'adoperarsi molto, o d'arrischiarsi un poco. Il suo sistema consisteva principalmente nello scansar tutti i contrasti, e nel cedere, in quelli che non poteva scansare. Neutralità disarmata in tutte le guerre che scoppiavano intorno a lui, dalle contese, allora frequentissime, tra il clero e le podestà laiche, tra il militare e il civile, tra nobili e nobili, fino alle questioni tra due contadini, nate da una parola, e decise coi pugni, o con le coltellate. Se si trovava assolutamente costretto a prender parte tra due contendenti, stava col più forte, sempre però alla retroguardia, e procurando di far vedere all'altro ch'egli non gli era volontariamente nemico: pareva che gli dicesse: ma perché non avete saputo esser voi il più forte? ch'io mi sarei messo dalla vostra parte. Stando alla larga da' prepotenti, dissimulando le loro soverchierie passeggiere e capricciose, corrispondendo con sommissioni a quelle che venissero da un'intenzione più seria e più meditata, costringendo, a forza d'inchini e di rispetto gioviale, anche i più burberi e sdegnosi, a fargli un sorriso, quando gl'incontrava per la strada, il pover'uomo era riuscito a passare i sessant'anni, senza gran burrasche.
Non è però che non avesse anche lui il suo po' di fiele in corpo; e quel continuo esercitar la pazienza, quel dar così spesso ragione agli altri, que' tanti bocconi amari inghiottiti in silenzio, glielo avevano esacerbato a segno che, se non avesse, di tanto in tanto, potuto dargli un po' di sfogo, la sua salute n'avrebbe certamente sofferto. Ma siccome v'eran poi finalmente al mondo, e vicino a lui, persone ch'egli conosceva ben bene per incapaci di far male, così poteva con quelle sfogare qualche volta il mal umore lungamente represso, e cavarsi anche lui la voglia d'essere un po' fantastico, e di gridare a torto. Era poi un rigido censore degli uomini che non si regolavan come lui, quando però la censura potesse esercitarsi senza alcuno, anche lontano, pericolo. Il battuto era almeno un imprudente; l'ammazzato era sempre stato un uomo torbido. A chi, messosi a sostener le sue ragioni contro un potente, rimaneva col capo rotto, don Abbondio sapeva trovar sempre qualche torto; cosa non difficile, perché la ragione e il torto non si dividon mai con un taglio così netto, che ogni parte abbia soltanto dell'una o dell'altro. Sopra tutto poi, declamava contro que' suoi confratelli che, a loro rischio, prendevan le parti d'un debole oppresso, contro un soverchiatore potente. Questo chiamava un comprarsi gl'impicci a contanti, un voler raddirizzar le gambe ai cani; diceva anche severamente, ch'era un mischiarsi nelle cose profane, a danno della dignità del sacro ministero. E contro questi predicava, sempre però a quattr'occhi, o in un piccolissimo crocchio, con tanto più di veemenza, quanto più essi eran conosciuti per alieni dal risentirsi, in cosa che li toccasse personalmente. Aveva poi una sua sentenza prediletta, con la quale sigillava sempre i discorsi su queste materie: che a un galantuomo, il qual badi a sé, e stia ne' suoi panni, non accadon mai brutti incontri.
Pensino ora i miei venticinque lettori che impressione dovesse fare sull'animo del poveretto, quello che s'è raccontato. Lo spavento di que' visacci e di quelle parolacce, la minaccia d'un signore noto per non minacciare invano, un sistema di quieto vivere, ch'era costato tant'anni di studio e di pazienza, sconcertato in un punto, e un passo dal quale non si poteva veder come uscirne: tutti questi pensieri ronzavano tumultuariamente nel capo basso di don Abbondio. "Se Renzo si potesse mandare in pace con un bel no, via; ma vorrà delle ragioni; e cosa ho da rispondergli, per amor del cielo? E, e, e, anche costui è una testa: un agnello se nessun lo tocca, ma se uno vuol contraddirgli... ih! E poi, e poi, perduto dietro a quella Lucia, innamorato come... Ragazzacci, che, per non saper che fare, s'innamorano, voglion maritarsi, e non pensano ad altro; non si fanno carico de' travagli in che mettono un povero galantuomo. Oh povero me! vedete se quelle due figuracce dovevan proprio piantarsi sulla mia strada, e prenderla con me! Che c'entro io? Son io che voglio maritarmi? Perché non son andati piuttosto a parlare... Oh vedete un poco: gran destino è il mio, che le cose a proposito mi vengan sempre in mente un momento dopo l'occasione. Se avessi pensato di suggerir loro che andassero a portar la loro imbasciata..." Ma, a questo punto, s'accorse che il pentirsi di non essere stato consigliere e cooperatore dell'iniquità era cosa troppo iniqua ; e rivolse tutta la stizza de' suoi pensieri contro quell'altro che veniva così a togliergli la sua pace. Non conosceva don Rodrigo che di vista e di fama, né aveva mai avuto che far con lui, altro che di toccare il petto col mento, e la terra con la punta del suo cappello, quelle poche volte che l'aveva incontrato per la strada. Gli era occorso di difendere, in più d'un'occasione, la riputazione di quel signore, contro coloro che, a bassa voce, sospirando, e alzando gli occhi al cielo, maledicevano qualche suo fatto: aveva detto cento volte ch'era un rispettabile cavaliere. Ma, in quel momento gli diede in cuor suo tutti que' titoli che non aveva mai udito applicargli da altri, senza interrompere in fretta con un oibò. Giunto, tra il tumulto di questi pensieri, alla porta di casa sua, ch'era in fondo del paesello, mise in fretta nella toppa la chiave, che già teneva in mano; aprì, entrò, richiuse diligentemente; e, ansioso di trovarsi in una compagnia fidata, chiamò subito: - Perpetua! Perpetua! -, avviandosi pure verso il salotto, dove questa doveva esser certamente ad apparecchiar la tavola per la cena. Era Perpetua, come ognun se n'avvede , la serva di don Abbondio: serva affezionata e fedele, che sapeva ubbidire e comandare, secondo l'occasione, tollerare a tempo il brontolìo e le fantasticaggini del padrone, e fargli a tempo tollerar le proprie, che divenivan di giorno in giorno più frequenti, da che aveva passata l'età sinodale dei quaranta, rimanendo celibe, per aver rifiutati tutti i partiti che le si erano offerti, come diceva lei, o per non aver mai trovato un cane che la volesse, come dicevan le sue amiche.
(Alessandro Manzoni, I promessi sposi, a cura di Angelo Stella e Cesare Repossi, Torino, Einaudi 1995, pp. 7-20, con tagli)
Leggiamo insieme. L’ingiustizia storica e la responsabilità individuale.
Il piano della storia: le coordinate geografico-cronologiche, storiche e narrative (una società ingiusta).
Il primo capitolo inquadra la vicenda entro le sue coordinate geografiche, storiche e in senso ampio narrative, cioè fornisce al lettore le informazioni essenziali per la comprensione dei fatti e dei personaggi qui presentati, ed avvia la trama dopo aver fornito tali informazioni. La precisione della collocazione geografica e cronologica (che qui arriva fino al giorno esatto, perché, come è stato notato, nei Promessi sposi le vicende narrate vengono concentrate soprattutto in alcuni giorni decisivi, e per questo il giorno costituisce l’unità di misura narrativa di questo romanzo) sono elementi tipici del romanzo storico del primo Ottocento, così come la collocazione storica della trama, vale a dire che il comportamento dei personaggi e le vicende che accadono loro sono spiegati in rapporto alla storia del loro tempo. In questo caso, il meccanismo che innesca la trama è comprensibile pienamente solo se si conoscono le condizioni storico-sociali della Lombardia spagnola nel primo Seicento, e da tale necessità nasce l’alternanza di due grandi procedimenti narrativi: la narrazione dei fatti e le digressioni sulle premesse storico-sociali. Il lettore è messo così pienamente in grado di cogliere i nessi tra i fatti e i comportamenti in primo piano (la storia che comincia in un paesino sulla sponda meridionale dl lago di Como) e il quadro storico-sociale che si trova sullo sfondo: il Seicento lombardo è un periodo di illegalità diffusa e incontenibile a causa dell’impotenza dell’autorità pubblica ---> tale vuoto di potere pubblico (solo aggravato dal proliferare di leggi inefficaci) è allo stesso tempo accresciuto e contrastato dalla diffusione di forme di giustizia e di privilegio ristrette a singole classi o categorie sociali, ciascuna in lotta con le altre (la nobiltà, il clero, etc.) ---> un nobile locale (posto quindi al vertice della gerarchia sociale di un certo territorio) può violare la legge a suo comodo servendosi di un piccolo esercito privato (come oggi fa un boss mafioso o di qualsiasi organizzazione criminale) come strumento di ricatto e di omicidio ---> un uomo socialmente debole (e per di più caratterialmente vigliacco) come un anonimo parroco di campagna è vittima della suddetta situazione di illegalità diffusa che, dietro la facciata di una legislazione sovrabbondante, costituisce l’anima di quella società. Dunque le oscure vicende di un matrimonio tra un Renzo e una Lucia qualunque, che deve essere celebrato da un altrettanto oscuro don Abbondio parroco di provincia, ma che viene impedito dalle minacce di morte del nobile più potente dei dintorni, don Rodrigo, sono all’altro capo di questi nessi che percorrono tutta la società in cui è immersa la vicenda, sono un piccolo esempio (uno tra i tanti possibili) dei meccanismi socio-politici della società del Seicento: una società fortemente gerarchica (organizzata come una piramide di classi e categorie sociali) e dominata da una disuguaglianza e da un’illegalità profonde, è quindi fortemente polarizzata in potenti, oppressori (le classi alte, in questo caso don Rodrigo) e vittime, oppressi (don Abbondio, Renzo e Lucia). Questa è quindi un’epoca esemplarmente incivile secondo Manzoni, e tanto secondo il Manzoni giovane, illuminista (una società senza leggi giuste è una mostruosità), quanto secondo il Manzoni maturo, cattolico (una società dove regnano l’ingiustizia e la disuguaglianza sociale è lontana dall’insegnamento del Vangelo). La scelta del Seicento lombardo come epoca di ambientazione del romanzo, in quanto modello negativo di società, è quindi un primo esempio importante della continuità profonda tra illuminismo e cattolicesimo nella personalità di Manzoni.
Le coordinate del giudizio morale: ingiustizia storica e ingiustizie individuali.
Ma questa concatenazione storico-sociale tra un quadro sociale complessivo e delle vicende di alcuni personaggi non è lo scopo ultimo dei Promessi sposi, anche se questa ricostruzione di una società del passato e i nessi di causa-effetto tra la dimensione collettiva (il quadro sociale nel suo insieme, le tendenze collettive profonde) e le vicende individuali è già l’obiettivo di un romanzo storico primo-ottocentesco e dei modelli di tale genere letterario a cui Manzoni si ispira. E tuttavia bisogna sottolineare che, come si capisce fin dal primo capitolo, I promessi sposi sono sì un romanzo storico, ma non solo questo: la ricostruzione della storia collettiva e della storia individuale è un punto di partenza, un grande piano del racconto sul quale Manzoni costruisce un altro piano, che possiamo definire quello del giudizio da un punto di vista superiore, un punto di vista espresso dal narratore e che deve essere condiviso dal lettore. Dunque sulla rappresentazione fedele e su una spiegazione storica dei fatti (il primo obiettivo di un romanzo storico) si fonda un giudizio su quei fatti. Tale giudizio è il risultato dell’analisi (compiuta dal narratore) dei meccanismi collettivi che fanno della società qui rappresentata una società ingiusta, ma anche dell’analisi dei comportamenti individuali: in questo modo, il rapporto tra società e individuo è ridefinito non in relazioni di causa e di effetto, ma in termini di scelta, di libertà, di responsabilità individuale. Così l’esistenza delle leggi offre la possibilità di rispettarle, tanto più a chi è in grado di farlo come gli uomini appartenenti alla classe sociale dominante, come don Rodrigo, il quale è dunque pienamente responsabile delle ingiustizie che commette spadroneggiando con l’arma del ricatto e delle minacce di morte. Allo stesso modo, seppure molto più in basso nella gerarchia sociale, anche l’inerme don Abbondio, che è destinato ad essere una vittima anche per il suo carattere, ha la possibilità di compiere delle scelte; e queste scelte sono anch’esse alla base del suo agire, quindi della trama del romanzo, ed esemplificano e complicano la relazione tra società e individuo, tra situazione collettiva e azione individuale.
Le coordinate del giudizio morale: la complicità degli oppressi.
Come il narratore spiega ricostruendo la sua biografia personale, don Abbondio è un prete senza vocazione, un uomo nato vigliacco che ha analizzato la società dei suoi tempi e ha razionalmente scelto la carriera ecclesiastica in base a un criterio estraneo ad essa, cioè la sicurezza personale, ed anche il suo comportamento quotidiano (fino al 7 novembre 1628 in cui comincia la trama) è stato sempre, come dice il narratore, di neutralità disarmata, che è una forma più raffinata di sottomissione al potere anzi ai poteri (perché in una società ingiusta, come quella in cui vive don Abbondio, non esiste un solo potere, ma un conflitto di diversi poteri), un metodo per vivere tranquillo dimostrandosi sempre obbediente a qualunque forma di potere fondato sulla forza e sull’illegalità: disposto sempre all’ubbidienza, come dice ai bravi, e come suona la regola della sua condotta nei riguardi dei potenti. Ora, non è precisamente questo, per Manzoni e quindi per il suo lettore, la regola di condotta di un prete che dovrebbe consacrare la sua missione, come insegna il Vangelo, a lavorare per la giustizia e per la fede, non certo a farsi strumento degli oppressori e dell’illegalità. Ma se don Abbondio agisce in questo modo non è solo perché vive in una società ingiusta; è anche perché ha scelto, non di essere vigliacco com’è nato (come dice il narratore, si nasce o non si nasce con un cuor di leone, dunque qui non è questione di responsabilità individuale), ma di avere abbracciato una carriera incompatibile con il suo carattere: il risultato è che don Abbondio aggiunge all’ingiustizia collettiva, all’ingiustizia della società in cui si trova a vivere e ai crimini di un don Rodrigo, l’ingiustizia individuale, cioè la sua collaborazione ai piani dello stesso don Rodrigo.
L’introduzione del primo personaggio importante del romanzo, don Abbondio, introduce quindi una prima importante conclusione che incrocia analisi storica e analisi morale, e che può anche definirsi paradossale, o almeno problematica: una vittima come don Abbondio, un oppresso, che per di più è anche vigliacco e impotente di fronte all’illegalità e all’ingiustizia storica, può diventare anche lui un complice degli oppressori, sia pure un complice costretto dalle minacce di morte. Lo stesso don Abbondio si rende conto di essere quasi passato dall’altra parte, quando pensa, ma troppo tardi, che avrebbe dovuto suggerire ai due bravi di portare le loro minacce direttamente alle loro vittime, Renzo e Lucia: «Ma, a questo punto, s’accorse che il pentirsi di non essere stato consigliere e cooperatore dell’iniquità era cosa troppo iniqua [...]». Ma il fatto è che, mostrandosi pronto a obbedire all’ingiustizia, don Abbondio si fa collaboratore dell’ingiustizia anche se non l’ha voluto; tutto quel che desidera dalla vita è vivere al sicuro, ma questo criterio può anche comportare la collaborazione con l’ingiustizia, il ritrovarsi dalla parte degli oppressori contro gli oppressi. Il caso di don Abbondio è dunque importante sotto diversi punti di vista: la trama comincia proprio da una suo gesto (obbedire subito a don Rodrigo) che gli fa in un certo senso condividere con don Rodrigo la responsabilità per il matrimonio impedito che darà origine a sviluppi e complicazioni per ora imprevedibili. E poi questo gesto dimostra che l’illegalità e il crimine sono efficaci quando sono alimentati da due fonti, la responsabilità di una società dove la forza delle legge è impotente, ma anche la responsabilità dei singoli individui che assicurano la trasmissione dell’abuso e della violazione della legge. Inoltre, il comportamento di don Abbondio dimostra che la distinzione tra potenti e vittime, tra oppressori e oppressi, non è elementare e definitiva. L’atteggiamento indulgente e comprensivo del narratore nei confronti di don Abbondio, una figura che non può non suscitare divertimento e compassione anche nei lettori, non deve però far dimenticare che il suo comportamento è del tutto negativo, per quanto pienamente comprensibile, che si fonda su scelte sbagliate che ne fanno un cattivo prete, e su una responsabilità pesante, quella di farsi complice forzato dell’ingiustizia.
Insomma, I promessi sposi cominciano come un romanzo storico (il vero storico, nei termini della lettera Sul Romanticismo del 1823) ma, allo stesso tempo, anche come un’indagine sulla psicologia individuale e sulle sue relazioni con la società (il vero morale, sempre nella terminologia del Manzoni di quegli anni), un’indagine che diventa poi indagine morale e quindi religiosa (per un cristiano come Manzoni non c’è separazione tra i due piani). La storia di un matrimonio tra due paesani impedito dai soprusi di un potente vale quindi come storia esemplare, perché insieme ad essa comincia, per il narratore e per il lettore, un discorso che è ben più ampio di questa vicenda, ma che è allo stesso tempo alla base di questa vicenda: un discorso sulla giustizia e sui suoi nemici, sui condizionamenti storici collettivi e su quel che i singoli possono o non possono fare, sulla responsabilità e quindi sulla libertà individuale.
Don Abbondio, spaventato a morte, rivela solo alla sua domestica, Perpetua, le minacce ricevute. Il giorno dopo, quando riceve Renzo, un filatore di seta (professione allora tipica delle campagne lombarde), gli spiega, senza fornirgli ragioni precise, che il matrimonio deve essere rinviato, ma poi messo alle strette confessa anche a lui che l’ostacolo viene da don Rodrigo. Renzo, sorpreso e sconvolto, corre da Lucia (anche lei un’operaia in una filanda) e interrompe i preparativi della vestizione della sposa per comunicare la notizia improvvisa e per apprendere da Lucia quel che lei non gli aveva mai detto: don Rodrigo l’aveva avvicinata più volte (nonostante lei non avesse mai fatto cenno di rispondere) per sedurla. Cominciano allora i tentativi per trovare un rimedio, ma tutti falliti: la consultazione dell’avvocato Azzecca-Garbugli, su consiglio di Agnese, la madre di Lucia (l’avvocato scambia Renzo per un bravo, e quando capisce che la vittima è lui, lo caccia via in malo modo), e, su consiglio di Lucia, la richiesta d’aiuto a padre Cristoforo, un cappuccino del vicino convento di Pescarenico, ben noto nella zona come un sant’uomo che aiuta i poveri in tutti i modi. Egli è diventato frate cappuccino per espiare un delitto di gioventù: nato in una classe sociale elevata (in quanto figlio di un mercante arricchitosi e diventato nobile), il giovane Lodovico ha ucciso un servitore di un suo nemico in una rissa nata da un motivo futilissimo di puntiglio aristocratico; da allora ha scelto, consapevolmente e non per vigliaccheria, di farsi frate e ha convertito il suo orgoglio e la sua sete di giustizia innati in un ministero attivo, tutto dedicato a consolare ed aiutare i poveri e in genere le vittime. Padre Cristoforo arriva fino a farsi ricevere da don Rodrigo per chiedergli sinceramente di lasciare in pace Lucia; ma don Rodrigo, che con la sua falsità e la sua arroganza suscita lo sdegno di padre Cristoforo, insieme spaventato ed esacerbato dalle parole del frate (che tuonano l’annuncio di una prossima giustizia di Dio («Verrà un giorno...»), lo caccia via. Allora Agnese propone un tentativo all’insaputa di padre Cristoforo: presentarsi di sorpresa davanti a don Abbondio con due testimoni, dichiararsi marito e moglie e quindi obbligare in questo modo il parroco a unirli in matrimonio; Lucia si oppone, la sua coscienza le dice che una soluzione trovata con l’inganno e nascosta a padre Cristoforo non può essere una buona soluzione, ma alla fine si lascia convincere da Renzo. La notte in cui Renzo e Lucia sorprendono don Abbondio nella canonica è «la notte degl’imbrogli e dei sotterfugi», perché in quegli stessi momenti don Rodrigo ha inviato i suoi sgherri in paese per rapire Lucia, perché ha scommesso con suo cugino, il conte Attilio, che si sarebbe impadronito di Lucia prima del giorno ormai prossimo di San Martino; e sempre in quella notte padre Cristoforo, che è stato informato di questo piano da un servitore del castello di don Rodrigo, ha inviato un suo messaggero a Lucia per farle fuggire nel convento di Pescarenico. I due piani opposti falliscono entrambi: don Abbondio, all’ultimo momento, fugge, caccia via Renzo e Lucia e chiama aiuto, svegliando il paese; gli sgherri di don Rodrigo trovano deserta la casa di Agnese e Lucia e tornano scornati al castello del loro padrone. Renzo, Lucia ed Agnese, nello scompiglio generale, incontrano il messaggero di padre Cristoforo e si avviano, secondo il messaggio, verso il convento di Pescarenico. |
Testo 2: «Addio, monti... »: la fuga dal paese (dal capitolo VIII)
Chi accorre, chi sguizza tra uomo e uomo, e se la batte; il tumulto era grande, quando arriva un altro, che gli aveva veduti partire in fretta, e grida: - correte, figliuoli: ladri, o banditi che scappano con un pellegrino: son già fuori del paese: addosso! addosso! - A quest'avviso, senza aspettar gli ordini del capitano, si movono in massa, e giù alla rinfusa per la strada; di mano in mano che l'esercito s'avanza, qualcheduno di quei della vanguardia rallenta il passo, si lascia sopravanzare, e si ficca nel corpo della battaglia: gli ultimi spingono innanzi: lo sciame confuso giunge finalmente al luogo indicato. Le tracce dell'invasione eran fresche e manifeste: l'uscio spalancato, la serratura sconficcata; ma gl'invasori erano spariti. S'entra nel cortile; si va all'uscio del terreno: aperto e sconficcato anche quello: si chiama: - Agnese! Lucia! Il pellegrino! Dov'è il pellegrino? L'avrà sognato Stefano, il pellegrino. - No, no: l'ha visto anche Carlandrea. Ohe, pellegrino! - Agnese! Lucia! - Nessuno risponde. - Le hanno portate via! Le hanno portate via! - Ci fu allora di quelli che, alzando la voce, proposero d'inseguire i rapitori: che era un'infamità; e sarebbe una vergogna per il paese, se ogni birbone potesse a man salva venire a portar via le donne, come il nibbio i pulcini da un'aia deserta. Nuova consulta e più tumultuosa: ma uno (e non si seppe mai bene chi fosse stato) gettò nella brigata una voce, che Agnese e Lucia s'eran messe in salvo in una casa. La voce corse rapidamente, ottenne credenza; non si parlò più di dar la caccia ai fuggitivi; e la brigata si sparpagliò, andando ognuno a casa sua. Era un bisbiglio, uno strepito, un picchiare e un aprir d'usci, un apparire e uno sparir di lucerne, un interrogare di donne dalle finestre, un rispondere dalla strada. Tornata questa deserta e silenziosa, i discorsi continuaron nelle case, e moriron negli sbadigli, per ricominciar poi la mattina. Fatti però, non ce ne fu altri; se non che, quella medesima mattina, il console, stando nel suo campo, col mento in una mano, e il gomito appoggiato sul manico della vanga mezza ficcata nel terreno, e con un piede sul vangile; stando, dico, a speculare tra sé sui misteri della notte passata, e sulla ragion composta di ciò che gli toccase a fare, e di ciò che gli convenisse fare, vide venirsi incontro due uomini d'assai gagliarda presenza, chiomati come due re de' Franchi della prima razza, e somigliantissimi nel resto a que' due che cinque giorni prima avevano affrontato don Abbondio, se pur non eran que' medesimi. Costoro, con un fare ancor men cerimonioso, intimarono al console che guardasse bene di non far deposizione al podestà dell'accaduto, di non rispondere il vero, caso che ne venisse interrogato, di non ciarlare, di non fomentar le ciarle de' villani, per quanto aveva cara la speranza di morir di malattia.
I nostri fuggiaschi camminarono un pezzo di buon trotto, in silenzio, voltandosi, ora l'uno ora l'altro, a guardare se nessuno gl'inseguiva , tutti in affanno per la fatica della fuga, per il batticuore e per la sospensione in cui erano stati, per il dolore della cattiva riuscita , per l'apprensione confusa del nuovo oscuro pericolo. E ancor più in affanno li teneva l'incalzare continuo di que' rintocchi , i quali, quanto, per l'allontanarsi, venivan più fiochi e ottusi , tanto pareva che prendessero un non so che di più lugubre e sinistro. Finalmente cessarono. I fuggiaschi allora, trovandosi in un campo disabitato, e non sentendo un alito all'intorno, rallentarono il passo; e fu la prima Agnese che, ripreso fiato, ruppe il silenzio, domandando a Renzo com'era andata, domandando a Menico cosa fosse quel diavolo in casa . Renzo raccontò brevemente la sua trista storia; e tutt'e tre si voltarono al fanciullo, il quale riferì più espressamente l'avviso del padre, e raccontò quello ch'egli stesso aveva veduto e rischiato, e che pur troppo confermava l'avviso. Gli ascoltatori compresero più di quel che Menico avesse saputo dire: a quella scoperta, si sentiron rabbrividire; si fermaron tutt'e tre a un tratto, si guardarono in viso l'un con l'altro, spaventati; e subito, con un movimento unanime, tutt'e tre posero una mano, chi sul capo, chi sulle spalle del ragazzo, come per accarezzarlo, per ringraziarlo tacitamente che fosse stato per loro un angelo tutelare , per dimostrargli la compassione che sentivano dell'angoscia da lui sofferta, e del pericolo corso per la loro salvezza; e quasi per chiedergliene scusa. - Ora torna a casa, perché i tuoi non abbiano a star più in pena per te, - gli disse Agnese; e rammentandosi delle due parpagliole promesse, se ne levò quattro di tasca, e gliele diede, aggiungendo: - basta; prega il Signore che ci rivediamo presto: e allora... - Renzo gli diede una berlinga nuova, e gli raccomandò molto di non dir nulla della commissione avuta dal frate; Lucia l'accarezzò di nuovo, lo salutò con voce accorata; il ragazzo li salutò tutti, intenerito; e tornò indietro. Quelli ripresero la loro strada, tutti pensierosi; le donne innanzi, e Renzo dietro, come per guardia. Lucia stava stretta al braccio della madre, e scansava dolcemente, e con destrezza, l'aiuto che il giovine le offriva ne' passi malagevoli di quel viaggio fuor di strada; vergognosa in sé, anche in un tale turbamento, d'esser già stata tanto sola con lui, e tanto famigliarmente, quando s'aspettava di divenir sua moglie, tra pochi momenti. Ora, svanito così dolorosamente quel sogno, si pentiva d'essere andata troppo avanti, e, tra tante cagioni di tremare, tremava anche per quel pudore che non nasce dalla trista scienza del male , per quel pudore che ignora se stesso, somigliante alla paura del fanciullo, che trema nelle tenebre, senza saper di che.
- E la casa? - disse a un tratto Agnese. Ma, per quanto la domanda fosse importante, nessuno rispose, perché nessuno poteva darle una risposta soddisfacente. Continuarono in silenzio la loro strada, e poco dopo, sboccarono finalmente sulla piazzetta davanti alla chiesa del convento.
Renzo s'affacciò alla porta, e la sospinse bel bello . La porta di fatto s'aprì; e la luna, entrando per lo spiraglio, illuminò la faccia pallida, e la barba d'argento del padre Cristoforo, che stava quivi ritto in aspettativa . Visto che non ci mancava nessuno, - Dio sia benedetto! - disse, e fece lor cenno ch'entrassero. Accanto a lui, stava un altro cappuccino; ed era il laico sagrestano, ch'egli, con preghiere e con ragioni, aveva persuaso a vegliar con lui, a lasciar socchiusa la porta, e a starci in sentinella, per accogliere que' poveri minacciati: e non si richiedeva meno dell'autorità del padre, della sua fama di santo, per ottener dal laico una condiscendenza incomoda, pericolosa e irregolare . Entrati che furono, il padre Cristoforo riaccostò la porta adagio adagio. Allora il sagrestano non poté più reggere, e, chiamato il padre da una parte, gli andava susurrando all'orecchio: - ma padre, padre! di notte... in chiesa... con donne... chiudere... la regola... ma padre! - E tentennava la testa. Mentre diceva stentatamente quelle parole, "vedete un poco!" pensava il padre Cristoforo, "se fosse un masnadiero inseguito, fra Fazio non gli farebbe una difficoltà al mondo; e una povera innocente, che scappa dagli artigli del lupo..." - Omnia munda mundis, - disse poi, voltandosi tutt'a un tratto a fra Fazio, e dimenticando che questo non intendeva il latino. Ma una tale dimenticanza fu appunto quella che fece l'effetto. Se il padre si fosse messo a questionare con ragioni, a fra Fazio non sarebber mancate altre ragioni da opporre; e sa il cielo quando e come la cosa sarebbe finita. Ma, al sentir quelle parole gravide d'un senso misterioso, e proferite così risolutamente , gli parve che in quelle dovesse contenersi la soluzione di tutti i suoi dubbi. S'acquietò, e disse: - basta! lei ne sa più di me.
- Fidatevi pure, - rispose il padre Cristoforo; e, all'incerto chiarore della lampada che ardeva davanti all'altare, s'accostò ai ricoverati , i quali stavano sospesi aspettando, e disse loro: - figliuoli! ringraziate il Signore, che v'ha scampati da un gran pericolo. Forse in questo momento...! - E qui si mise a spiegare ciò che aveva fatto accennare dal piccol messo : giacché non sospettava ch'essi ne sapesser più di lui, e supponeva che Menico gli avesse trovati tranquilli in casa, prima che arrivassero i malandrini . Nessuno lo disingannò , nemmeno Lucia, la quale però sentiva un rimorso segreto d'una tale dissimulazione , con un tal uomo; ma era la notte degl'imbrogli e de' sotterfugi .
- Dopo di ciò, - continuò egli, - vedete bene, figliuoli, che ora questo paese non è sicuro per voi. È il vostro; ci siete nati; non avete fatto male a nessuno; ma Dio vuol così. È una prova, figliuoli: sopportatela con pazienza , con fiducia, senza odio, e siate sicuri che verrà un tempo in cui vi troverete contenti di ciò che ora accade. Io ho pensato a trovarvi un rifugio, per questi primi momenti. Presto, io spero, potrete ritornar sicuri a casa vostra; a ogni modo, Dio vi provvederà , per il vostro meglio; e io certo mi studierò di non mancare alla grazia che mi fa, scegliendomi per suo ministro , nel servizio di voi suoi poveri cari tribolati . Voi, - continuò volgendosi alle due donne, - potrete fermarvi a ***. Là sarete abbastanza fuori d'ogni pericolo, e, nello stesso tempo, non troppo lontane da casa vostra. Cercate del nostro convento, fate chiamare il padre guardiano, dategli questa lettera: sarà per voi un altro fra Cristoforo. E anche tu, il mio Renzo, anche tu devi metterti, per ora, in salvo dalla rabbia degli altri, e dalla tua. Porta questa lettera al padre Bonaventura da Lodi, nel nostro convento di Porta Orientale in Milano. Egli ti farà da padre, ti guiderà, ti troverà del lavoro, per fin che tu non possa tornare a viver qui tranquillamente. Andate alla riva del lago, vicino allo sbocco del Bione -. È un torrente a pochi passi da Pescarenico. - Lì vedrete un battello fermo; direte: barca; vi sarà domandato per chi; risponderete: san Francesco. La barca vi riceverà, vi trasporterà all'altra riva, dove troverete un baroccio che vi condurrà addirittura fino a ***.
Chi domandasse come fra Cristoforo avesse così subito a sua disposizione que' mezzi di trasporto, per acqua e per terra, farebbe vedere di non conoscere qual fosse il potere d'un cappuccino tenuto in concetto di santo.
Restava da pensare alla custodia delle case. Il padre ne ricevette le chiavi, incaricandosi di consegnarle a quelli che Renzo e Agnese gl'indicarono. Quest'ultima, levandosi di tasca la sua, mise un gran sospiro, pensando che, in quel momento, la casa era aperta, che c'era stato il diavolo, e chi sa cosa ci rimaneva da custodire!
- Prima che partiate, - disse il padre, - preghiamo tutti insieme il Signore, perché sia con voi, in codesto viaggio, e sempre; e sopra tutto vi dia forza, vi dia amore di volere ciò ch'Egli ha voluto -. Così dicendo s'inginocchiò nel mezzo della chiesa; e tutti fecer lo stesso. Dopo ch'ebbero pregato, alcuni momenti, in silenzio, il padre, con voce sommessa, ma distinta , articolò queste parole: - noi vi preghiamo ancora per quel poveretto che ci ha condotti a questo passo . Noi saremmo indegni della vostra misericordia, se non ve la chiedessimo di cuore per lui; ne ha tanto bisogno! Noi, nella nostra tribolazione , abbiamo questo conforto, che siamo nella strada dove ci avete messi Voi: possiamo offrirvi i nostri guai; e diventano un guadagno. Ma lui!... è vostro nemico. Oh disgraziato! compete con Voi! Abbiate pietà di lui, o Signore, toccategli il cuore, rendetelo vostro amico, concedetegli tutti i beni che noi possiamo desiderare a noi stessi.
Alzatosi poi, come in fretta, disse: - via, figliuoli, non c'è tempo da perdere: Dio vi guardi, il suo angelo v'accompagni: andate -. E mentre s'avviavano, con quella commozione che non trova parole, e che si manifesta senza di esse, il padre soggiunse, con voce alterata: - il cuor mi dice che ci rivedremo presto.
Certo, il cuore, chi gli dà retta, ha sempre qualche cosa da dire su quello che sarà. Ma che sa il cuore? Appena un poco di quello che è già accaduto.
ispiar : spiare.
collare : colletto.
raccomodarlo: aggiustarlo.
compose... poté: atteggiò il volto all’espressione più tranquilla e allegra che gli fu possibile.
galantuomioni : uomini perbene (definizione ironica).
ribalderia : sopruso, atto illegale.
a... riscotere: da una banca a ritirare i propri beni.
del comune: della gente, della comunità.
ciarle : chiacchiere.
il primo oratore: colui che aveva tenuto il primo discorso solenne (definizione ironica).
nel forte: nelle fasi più violente.
sa di latino: sa il latino.
proferendo : pronunciando.
messere : signore.
udienza : ascolto.
dond’era: dalla quale era.
aggranchiate : paralizzate.
naturale : carattere.
e che... inclinazione: e che tuttavia non si sentisse disposto a.
legale : della legge, dell’autorità legale.
con minuta prolissità: con discorsi troppo lunghi a furia di essere precisi.
pazzamente esorbitanti: assurdamente sproporzionate (al crimine).
gride: nella legislazione dell’epoca, i bandi pubblici emanati dall’autorità che elencavano crimini e pene (prima Manzoni ha citato ampiamente da gride dell’epoca relative ai bravi).
saggio : esempio.
cagion : causa.
ampollosamente: con discorsi gonfi, retorici nel peggior senso del termine.
L’impunità: la violazione impunita delle leggi, l’illegalità vincente e sicura dalla legge.
asili : luoghi di rifugio.
impugnati : contestati.
classi: ordini sociali, raggruppamenti riconosciuti dalla legge.
arrolati in maestranze: iscritti in associazioni di categoria professionale.
giurisperiti : avvocati e uomini di legge in genere.
oligarchie : piccoli gruppi di potere.
facinorosi : criminali.
dovizioso : ricco.
avvezzi : abituati.
toccar... discrezione: arrivare all’età della ragione.
di buon grado: volentieri.
parenti : genitori.
ministero : il servizio del sacerdozio e i suoi obblighi.
Procacciarsi : procurarsi.
segno : limite.
lo dispensa... particolare: gli impedisce di crearsi una sua personale regola di condotta nella vita.
Assorbito... quiete: sempre occupato a pensare al suo quieto vivere.
facesse : ci fosse.
podestà : autorità.
sommissioni : gesti di sottomissione.
gl’incontrava: li incontrava.
tumultuariamente : tumultuosamente.
non... in che: non pensano ai guai in cui.
cooperatore dell’iniquità: complice dell’ingiustizia e della criminalità.
iniqua : ingiusta.
occorso : capitato.
se n’avvede: si accorge.
fantasticaggini : capricci.
età sinodale: quarant’anni, età prescritta da un concilio ecclesiastico (sinodale, da sinodo, ‘consiglio, assemblea ecclesiastica’) per le domestiche dei preti.
I nostri fuggiaschi : Agnese, Renzo e Lucia, che stanno fuggendo dal loro paese (dove sono appena scampati, per caso, ai bravi inviati da don Rodrigo) e si stanno dirigendo verso il convento di Pescarenico, dove padre Cristoforo li sta aspettando.
gl’inseguiva: li inseguiva.
sospensione : incertezza, confusione angosciosa.
cattiva riuscita: l’esito negativo dell’’imbroglio’ architettato da Agnese e Renzo ai danni di don Abbondio per costringerlo a dichiararli marito e moglie.
apprensione: conoscenza.
que’ rintocchi: quei rintocchi (la campana della chiesa, che il sagrestano, alle grida di don Abbondio, ha suonato a martello per dare l’allarme in paese.
fiochi e ottusi: deboli e attutiti.
Menico : il ragazzino che padre Cristoforo ha inviato come messaggero ad Agnese Renzo e Lucia per avvertirli dei piani di don Rodrigo ai loro danni.
quel... in casa: poco prima Menico, recatosi a casa di Agnese a portare il messaggio di padre Cristoforo, era finito nelle mani nei bravi di don Rodrigo che erano già penetrati in quella casa ed era riuscito fortunosamente a fuggire terrorizzato, annunciando ad Agnese:«C’è il diavolo in casa».
tacitamente : senza parole.
tutelare: protettore.
parpagliole : monete da dieci quattrini; Agnese le ha promesse a Menico quando lo ha inviato al convento di Pescarenico per cercare padre Cristoforo.
berlinga : lira milanese.
malagevoli : difficoltosi.
cagioni : cause.
trista scienza del male: triste conoscenza del male per esperienza diretta, per averlo commesso.
bel bello: tranquillamente.
di fatto: in effetti.
quivi : lì.
aspettativa : attesa.
laico: in un convento, un frate che non ha ricevuto l’ordinazione sacerdotale..
vegliar : restare sveglio.
si richiedeva: bisognava, era necessario.
una... irregolare: un consenso faticoso, fonte di pericolo potenziale e contrario alla regola del convento.
masnadiero : bandito.
Omnia... mundis: ‘ogni cosa è pura per i puri’: citazione, dalla Bibbia in latino, da un passo della Lettere di san Paolo (A Tito, 1, 15)
intendeva : capiva.
gravide : cariche.
proferite... risolutamente: pronunciate con tanta decisione.
ricoverati: accolti (nel convento)
messo : messaggero (Menico).
gli : li.
malandrini : malfattori, delinquenti (i bravi inviati da don Rodrigo in casa di Agnese).
disingannò: corresse.(raccontandogli, tra l’altro, del tentativo di matrimonio clandestino).
dissimulazione: occultamento della verità.
degl’imbrogli e de’ sotterfugi: della confusione e degli intrighi.
pazienza : sopportazione rassegnata.
vi provvederà: ci penserà, agirà a questo scopo.
mi studierò: mi impegnerò.
mancare alla: essere indegno della.
ministro : esecutore.
nel... voi:al servizio di
tribolati : sofferenti.
Per... possa: per tutto il tempo fino a quando potrai.
baroccio: carretto a due ruote.
tenuto in concetto di: considerato un.
sommessa, ma distinta: bassa, ma chiara.
quel poveretto: don Rodrigo.
passo: decisione.
tribolazione : dolore.
data... la parola: data la parola d’ordine e ricevuta quella in risposta.
proda : sponda.
il tremolare... della luna: l’immagine (riflessa sul lago calmo) della luna, che oscillava e ondeggiava sull’acqua.
da mezzo il: dal.
il fiotto morto: l’onda dell’acqua di lago (morta perché non è agitata dalla corrente).
lido : spiaggia.
dell’acqua rotta: delle onde che si infrangevano.
pile : pilastri.
grondanti: bagnati e gocciolanti.
variato : ricoperto in modo irregolare.
alla falde: ai piedi, all’inizio del declivio.
un feroce: un uomo sanguinario.
la china: il pendio.
la chioma: il fogliame.
sopravanzava il: sporgeva sul.
la sponda: il parapetto della barca.
Addio, monti sorgenti dall'acque, ed elevati al cielo; cime inuguali, note a chi è cresciuto tra voi, e impresse nella sua mente, non meno che lo sia l'aspetto de' suoi più familiari ; torrenti, de' quali distingue lo scroscio, come il suono delle voci domestiche ; ville sparse e biancheggianti sul pendìo, come branchi di pecore pascenti ; addio! Quanto è tristo il passo di chi, cresciuto tra voi, se ne allontana! Alla fantasia di quello stesso che se ne parte volontariamente, tratto dalla speranza di fare altrove fortuna, si disabbelliscono , in quel momento, i sogni della ricchezza; egli si maraviglia d'essersi potuto risolvere , e tornerebbe allora indietro, se non pensasse che, un giorno, tornerà dovizioso . Quanto più si avanza nel piano , il suo occhio si ritira, disgustato e stanco, da quell'ampiezza uniforme; l'aria gli par gravosa e morta ; s'inoltra mesto e disattento nelle città tumultuose ; le case aggiunte a case, le strade che sboccano nelle strade, pare che gli levino il respiro; e davanti agli edifizi ammirati dallo straniero, pensa, con desiderio inquieto, al campicello del suo paese, alla casuccia a cui ha già messo gli occhi addosso, da gran tempo, e che comprerà, tornando ricco a' suoi monti.
Ma chi non aveva mai spinto al di là di quelli neppure un desiderio fuggitivo, chi aveva composti in essi tutti i disegni dell'avvenire , e n'è sbalzato lontano, da una forza perversa! Chi, staccato a un tempo dalle più care abitudini, e disturbato nelle più care speranze, lascia que' monti, per avviarsi in traccia di sconosciuti che non ha mai desiderato di conoscere, e non può con l'immaginazione arrivare a un momento stabilito per il ritorno! Addio, casa natìa , dove, sedendo, con un pensiero occulto , s'imparò a distinguere dal rumore de' passi comuni il rumore d'un passo aspettato con un misterioso timore. Addio, casa ancora straniera , casa sogguardata tante volte alla sfuggita, passando, e non senza rossore; nella quale la mente si figurava un soggiorno tranquillo e perpetuo di sposa. Addio, chiesa, dove l'animo tornò tante volte sereno, cantando le lodi del Signore; dov'era promesso, preparato un rito ; dove il sospiro segreto del cuore doveva essere solennemente benedetto, e l'amore venir comandato, e chiamarsi santo ; addio! Chi dava a voi tanta giocondità è per tutto ; e non turba mai la gioia de' suoi figli, se non per prepararne loro una più certa e più grande.
Di tal genere, se non tali appunto , erano i pensieri di Lucia, e poco diversi i pensieri degli altri due pellegrini , mentre la barca gli andava avvicinando alla riva destra dell'Adda.
(Alessandro Manzoni, I promessi sposi, a cura di Angelo Stella e Cesare Repossi, Torino, Einaudi 1995, pp. 119-125)
Leggiamo insieme. «È una prova»: la fede davanti al dolore innocente.
Una svolta nella trama: l’abbandono dei luoghi familiari
L’ottavo capitolo chiude una prima grande sequenza narrativa del romanzo, quella ambientata nel paese natale di Renzo e Lucia, e in cui i due protagonisti sono ancora insieme prima di una lunga separazione che comincia proprio dal capitolo successivo. Gli eventi che si sono prodotti per azioni e reazioni fino ad ora (l’impedimento del matrimonio da parte di don Rodrigo, e i tentativi tutti falliti di Renzo e Lucia e di padre Cristoforo per rimuovere tale ostacolo) hanno prodotto una crisi che determina la prima grande svolta nella trama, costituita dalla fuga (ormai resa necessaria dal tentativo di rapimento di Lucia messo in atto da don Rodrigo); tale fuga è, dopo la scoperta del matrimonio impedito, uno degli eventi più traumatici per i protagonisti: il dolore di cui essa è carica e viene infatti preparato e pienamente espresso nella conclusione del capitolo, dominata da un tono grave e solenne in netta antitesi alla prima parte della «notte degl’imbrogli e de’ sotterfugi» (una parte vivace e piena di avvenimenti imprevisti come una commedia), un tono che accompagna il silenzio dei tre fuggitivi, l’incontro con padre Cristoforo e le sue parole, e infine sfocia in un vero e proprio passo lirico, l’addio ai monti di Lucia: anche per questa varietà di registro il capitolo VIII è una delle espressioni più perfette dell’arte narrativa dei Promessi sposi.
Il senso del dolore degli innocenti: la fede messa alla prova
A una svolta di tale importanza corrisponde anche una pausa meditativa sul senso di questi avvenimenti imprevedibili e soprattutto immeritati (Renzo e Lucia sono del tutto innocenti), e sul modo in cui bisogna affrontarli. Tale compito essenziale è affidato a padre Cristoforo, che è, lungo tutto il romanzo, uno dei portatori del messaggio cristiano che costituisce il senso profondo della vicenda di Renzo e Lucia, e che perciò costituisce, nella tipologia dei personaggi del romanzo, l’antitesi di don Abbondio, cioè il rappresentante della Chiesa autentica, quella che concretizza l’insegnamento del Vangelo e sta dalla parte di chiunque soffra e sia perseguitato. Il nucleo dell’insegnamento cristiano, e quindi la spiegazione profonda di tutto quello che sta accadendo, è concentrato in poche quanto dense parole di padre Cristoforo: «ora questo paese non è sicuro per voi. È il vostro; ci siete nati; non avete fatto male a nessuno; ma Dio vuol così. È una prova, figliuoli: sopportatela con pazienza, con fiducia, senza odio, e siate sicuri che verrà un tempo in cui vi troverete contenti di ciò che ora accade». Gli elementi essenziali di questo insegnamento sono il riconoscimento che anche il dolore degli innocenti è la volontà di Dio, che bisogna abbandonarsi alla sua volontà con forza e rassegnazione, amore e speranza che da queste sofferenze nascerà una gioia futura. In particolare la parola-chiave di quest’interpretazione cristiana della persecuzione e del dolore degli innocenti è «prova»: il dolore che non ha colpe e la sofferenza degli innocenti sono una prova della fede; soltanto la fede dà la possibilità di sopportare tale dolore nel modo giusto (non con l’odio ma con l’amore, non nella disperazione ma nella speranza e nella fiducia in Dio) e allo stesso tempo fornisce una spiegazione («Dio vuole così»). Dunque la lezione fondamentale di questa prima parte del romanzo, e poi anche di tutta l’opera, è che il livello degli eventi terreni è incomprensibile e ingiustificabile se affidato a se stesso, ed è anzi il piano del trionfo del male e dell’ingiustizia (gli innocenti vengono perseguitati e devono fuggire, i colpevoli sono potenti e impuniti); esso trova un suo significato e un suo riscatto solo sul piano trascendente di quella che nel romanzo si chiama la Provvidenza, cioè la volontà di Dio che agisce nel mondo umano; gli uomini non possono capire le ragioni profonde del loro dolore, ma possono, per così dire, entrare in sintonia con la volontà di Dio attraverso la fede e quindi non solo accettare con fiducia quel dolore, ma farne un fondamento di speranza e di vita giusta.
La preghiera, la fede in Dio e le speranze fragili del cuore.
Questa lezione viene esplicitata e come applicata nella preghiera di padre Cristoforo, quando, parlando a nome di tutti, egli esplicita i sentimenti che il cristiano deve provare nella sofferenza che non ha meritato: il perdono per il persecutore («saremmo indegni della vostra misericordia se non ve la chiedessimo di cuore per lui»), la preghiera per il bene del persecutore («Abbiate pietà di lui, o Signore, toccategli il cuore, rendetelo vostro amico, concedetegli tutti i beni che noi possiamo desiderare a noi stessi»), e, al centro della preghiera (non a caso), la certezza che la fede trasforma il significato del dolore e lo rende un bene («Noi, nella nostra tribolazione, abbiamo questo conforto, che siamo nella strada dove ci avete messi Voi: possiamo offrirvi i nostri guai; e diventano un guadagno»): in questo modo il rapporto tra il male, il dolore e Dio trova un senso nell’interpretazione del dolore come la strada su cui Dio colloca i suoi fedeli per metterli alla prova e trasformare la loro sconfitta apparente in un «guadagno».
Ma se il cristiano, grazie alla fede, deve essere sicuro del significato nuovo che il suo dolore incomprensibile trova nei disegni di Dio, non può avere nessuna certezza assoluta sulla manifestazione concreta di questi disegni sul piano della vita terrena, come si impara dalle ultime parole di padre Cristoforo, che vengono sottolineate da un commento discreto quando profondo del narratore: la speranza relativa agli eventi di questa vita è fragile e ingannevole, il cuore umano si augura il bene ma non può pensare di intravedere in quali modi concreti si tradurrà la volontà di Dio, e resta quindi confinato nelle sue speranze, queste, illusorie, perché l’uomo conosce solo il passato, e solo Dio il futuro: «- il cuor mi dice che ci rivedremo presto.
Certo, il cuore, chi gli dà retta, ha sempre qualche cosa da dire su quello che sarà. Ma che sa il cuore? Appena un poco di quello che è già accaduto.»
Un canto di dolore e di fede
Il capitolo si conclude con una pagina eccezionale nel romanzo, anche in senso letterario: si tratta di una sorta di lungo inserto lirico (è stato anche definito un coro, come se il romanzo per un attimo diventasse un’opera teatrale dove interviene il coro, come appunto succede nel teatro di Manzoni), in cui il narratore sovrappone evidentemente la sua voce a quella del personaggio, che non potrebbe mai parlare in questo stile così elevato e patetico (come viene precisato dalle ultime parole del capitolo), allo scopo di parlare non solo per la sola Lucia (cioè per esprimere il suo stato d’animo nel lasciare i suoi monti), ma anche per Renzo e Agnese e, in genere, per tutti i fuggitivi innocenti, per i perseguitati che devono abbandonare senza colpa la loro terra, ma anche per chi sceglie di farlo per poi pentirsene amaramente. Proprio per queste sue ambizioni che superano la sua stretta funzione narrativa, la pagina è costruita come un canto: un canto di dolore, scandito dalla ripetizione di «addio», che ne costituisce la nota ossessiva e malinconica, e dall’indugio su tutte le speranze perse, la vita felice immaginata da Lucia che ora si è distrutta, spazzata via da un futuro incerto e angoscioso; ma si conclude come un canto di fede, perché la sua ultima affermazione esprime la certezza che anche questo dolore straziante viene da Dio e che la distruzione della gioia sperata a breve tempo è la premessa, la preparazione di un’altra «più certa e più grande». Anche i pensieri di Lucia, o meglio il senso e il nucleo di quei pensieri così come sono stati trasfigurati in una voce lirica e di stile sublime dal narratore, assimilano e ribadiscono l’insegnamento che i personaggi e il lettore hanno appena ascoltato da padre Cristoforo: il rovesciamento del dolore presente nella certezza della gioia futura, reso possibile solo dalla fede.
Arrivati a Monza, dove li ha indirizzati padre Cristoforo, Lucia ed Agnese si separano da Renzo (diretto a Milano) e vanno al convento dei Cappuccini a recapitare il messaggio di padre Cristoforo ad un suo amico, che decide di affidare il loro caso alla «signora»: con questo nome tutti a Monza chiamano una giovane monaca in un convento di quella città, giovane ma già potente nel suo monastero perché figlia di una famiglia illustre e potente a Milano e tanto più a Monza. E così Agnese e Lucia vengono presentate direttamente a lei, nel parlatorio del convento. |
Testo 3. «La signora»: ritratto e storia di Gertrude (dai capitoli IX-X, con tagli)
Quando fu vicino alla porta del borgo, fiancheggiata allora da un antico torracchione mezzo rovinato, e da un pezzo di castellaccio, diroccato anch'esso, che forse dieci de' miei lettori possono ancor rammentarsi d'aver veduto in piedi, il guardiano si fermò, e si voltò a guardar se gli altri venivano; quindi entrò, e s'avviò al monastero, dove arrivato, si fermò di nuovo sulla soglia, aspettando la piccola brigata. Pregò il barocciaio che, tra un par d'ore, tornasse da lui, a prender la risposta: questo lo promise, e si licenziò dalle donne, che lo caricaron di ringraziamenti, e di commissioni per il padre Cristoforo. Il guardiano fece entrare la madre e la figlia nel primo cortile del monastero, le introdusse nelle camere della fattoressa; e andò solo a chieder la grazia. Dopo qualche tempo, ricomparve giulivo, a dir loro che venissero avanti con lui; ed era ora, perché la figlia e la madre non sapevan più come fare a distrigarsi dall'interrogazioni pressanti della fattoressa. Attraversando un secondo cortile, diede qualche avvertimento alle donne, sul modo di portarsi con la signora. - E ben disposta per voi altre, - disse, - e vi può far del bene quanto vuole. Siate umili e rispettose, rispondete con sincerità alle domande che le piacerà di farvi, e quando non siete interrogate, lasciate fare a me -. Entrarono in una stanza terrena, dalla quale si passava nel parlatorio: prima di mettervi il piede, il guardiano, accennando l'uscio, disse sottovoce alle donne: - è qui, - come per rammentar loro tutti quegli avvertimenti. Lucia, che non aveva mai visto un monastero, quando fu nel parlatorio , guardò in giro dove fosse la signora a cui fare il suo inchino, e, non iscorgendo persona , stava come incantata; quando, visto il padre e Agnese andar verso un angolo, guardò da quella parte, e vide una finestra d'una forma singolare, con due grosse e fitte grate di ferro, distanti l'una dall'altra un palmo; e dietro quelle una monaca ritta. Il suo aspetto, che poteva dimostrar venticinque anni, faceva a prima vista un'impressione di bellezza, ma d'una bellezza sbattuta , sfiorita e, direi quasi, scomposta. Un velo nero, sospeso e stirato orizzontalmente sulla testa, cadeva dalle due parti, discosto alquanto dal viso; sotto il velo, una bianchissima benda di lino cingeva, fino al mezzo, una fronte di diversa, ma non d'inferiore bianchezza; un'altra benda a pieghe circondava il viso, e terminava sotto il mento in un soggolo , che si stendeva alquanto sul petto, a coprire lo scollo d'un nero saio . Ma quella fronte si raggrinzava spesso, come per una contrazione dolorosa; e allora due sopraccigli neri si ravvicinavano, con un rapido movimento. Due occhi, neri neri anch'essi, si fissavano talora in viso alle persone, con un'investigazione superba; talora si chinavano in fretta, come per cercare un nascondiglio; in certi momenti, un attento osservatore avrebbe argomentato che chiedessero affetto, corrispondenza , pietà; altre volte avrebbe creduto coglierci la rivelazione istantanea d'un odio inveterato e compresso , un non so che di minaccioso e di feroce: quando restavano immobili e fissi senza attenzione, chi ci avrebbe immaginata una svogliatezza orgogliosa, chi avrebbe potuto sospettarci il travaglio d'un pensiero nascosto, d'una preoccupazione familiare all'animo, e più forte su quello che gli oggetti circostanti. Le gote pallidissime scendevano con un contorno delicato e grazioso, ma alterato e reso mancante da una lenta estenuazione . Le labbra, quantunque appena tinte d'un roseo sbiadito , pure, spiccavano in quel pallore: i loro moti erano, come quelli degli occhi, subitanei, vivi, pieni d'espressione e di mistero. La grandezza ben formata della persona scompariva in un certo abbandono del portamento , o compariva sfigurata in certe mosse repentine , irregolari e troppo risolute per una donna, non che per una monaca. Nel vestire stesso c'era qua e là qualcosa di studiato o di negletto , che annunziava una monaca singolare : la vita era attillata con una certa cura secolaresca , e dalla benda usciva sur una tempia una ciocchettina di neri capelli; cosa che dimostrava o dimenticanza o disprezzo della regola che prescriveva di tenerli sempre corti, da quando erano stati tagliati, nella cerimonia solenne del vestimento .
Queste cose non facevano specie alle due donne, non esercitate a distinguer monaca da monaca: e il padre guardiano, che non vedeva la signora per la prima volta, era già avvezzo, come tant'altri, a quel non so che di strano, che appariva nella sua persona, come nelle sue maniere.
Era essa, in quel momento, come abbiam detto, ritta vicino alla grata, con una mano appoggiata languidamente a quella, e le bianchissime dita intrecciate ne' vòti; e guardava fisso Lucia, che veniva avanti esitando. - Reverenda madre, e signora illustrissima, - disse il guardiano, a capo basso, e con la mano al petto: - questa è quella povera giovine, per la quale m'ha fatto sperare la sua valida protezione; e questa è la madre.
Le due presentate facevano grand'inchini: la signora accennò loro con la mano, che bastava, e disse, voltandosi, al padre: - è una fortuna per me il poter fare un piacere a' nostri buoni amici i padri cappuccini. Ma, - continuò; - mi dica un po' più particolarmente il caso di questa giovine, per veder meglio cosa si possa fare per lei.
Lucia diventò rossa, e abbassò la testa.
- Deve sapere, reverenda madre... - incominciava Agnese; ma il guardiano le troncò, con un'occhiata, le parole in bocca, e rispose: - questa giovine, signora illustrissima, mi vien raccomandata, come le ho detto, da un mio confratello. Essa ha dovuto partir di nascosto dal suo paese, per sottrarsi a de' gravi pericoli; e ha bisogno, per qualche tempo, d'un asilo nel quale possa vivere sconosciuta, e dove nessuno ardisca venire a disturbarla, quand'anche...
- Quali pericoli? - interruppe la signora. - Di grazia, padre guardiano, non mi dica la cosa così in enimma. Lei sa che noi altre monache, ci piace di sentir le storie per minuto.
- Sono pericoli, - rispose il guardiano, - che all'orecchie purissime della reverenda madre devon essere appena leggermente accennati...
- Oh certamente, - disse in fretta la signora, arrossendo alquanto. Era verecondia? Chi avesse osservata una rapida espressione di dispetto che accompagnava quel rossore, avrebbe potuto dubitarne; e tanto più se l'avesse paragonato con quello che di tanto in tanto si spandeva sulle gote di Lucia.
- Basterà dire, - riprese il guardiano, - che un cavalier prepotente... non tutti i grandi del mondo si servono dei doni di Dio, a gloria sua, e in vantaggio del prossimo, come vossignoria illustrissima: un cavalier prepotente, dopo aver perseguitata qualche tempo questa creatura con indegne lusinghe, vedendo ch'erano inutili, ebbe cuore di perseguitarla apertamente con la forza, di modo che la poveretta è stata ridotta a fuggir da casa sua.
- Accostatevi, quella giovine, - disse la signora a Lucia, facendole cenno col dito. - So che il padre guardiano è la bocca della verità; ma nessuno può esser meglio informato di voi, in quest'affare. Tocca a voi a dirci se questo cavaliere era un persecutore odioso -. In quanto all'accostarsi, Lucia ubbidì subito; ma rispondere era un'altra faccenda. Una domanda su quella materia, quand'anche le fosse stata fatta da una persona sua pari, l'avrebbe imbrogliata non poco: proferita da quella signora, e con una cert'aria di dubbio maligno, le levò ogni coraggio a rispondere. - Signora... madre... reverenda... - balbettò, e non dava segno d'aver altro a dire. Qui Agnese, come quella che, dopo di lei, era certamente la meglio informata, si credé autorizzata a venirle in aiuto. - Illustrissima signora, - disse, - io posso far testimonianza che questa mia figlia aveva in odio quel cavaliere, come il diavolo l'acqua santa: voglio dire, il diavolo era lui; ma mi perdonerà se parlo male, perché noi siam gente alla buona. Il fatto sta che questa povera ragazza era promessa a un giovine nostro pari, timorato di Dio, e ben avviato; e se il signor curato fosse stato un po' più un uomo di quelli che m'intendo io... so che parlo d'un religioso, ma il padre Cristoforo, amico qui del padre guardiano, è religioso al par di lui, e quello è un uomo pieno di carità, e, se fosse qui, potrebbe attestare...
- Siete ben pronta a parlare senz'essere interrogata, - interruppe la signora, con un atto altero e iracondo, che la fece quasi parer brutta. - State zitta voi: già lo so che i parenti hanno sempre una risposta da dare in nome de' loro figliuoli!
Agnese mortificata diede a Lucia una occhiata che voleva dire: vedi quel che mi tocca, per esser tu tanto impicciata. Anche il guardiano accennava alla giovine, dandole d'occhio e tentennando il capo, che quello era il momento di sgranchirsi, e di non lasciare in secco la povera mamma.
- Reverenda signora, - disse Lucia, - quanto le ha detto mia madre è la pura verità. Il giovine che mi discorreva, - e qui diventò rossa rossa, - lo prendevo io di mia volontà. Mi scusi se parlo da sfacciata, ma è per non lasciar pensar male di mia madre. E in quanto a quel signore (Dio gli perdoni!) vorrei piuttosto morire, che cader nelle sue mani. E se lei fa questa carità di metterci al sicuro, giacché siam ridotte a far questa faccia di chieder ricovero, e ad incomodare le persone dabbene; ma sia fatta la volontà di Dio; sia certa, signora, che nessuno potrà pregare per lei più di cuore che noi povere donne.
- A voi credo, - disse la signora con voce raddolcita. - Ma avrò piacere di sentirvi da solo a solo. Non che abbia bisogno d'altri schiarimenti, né d'altri motivi, per servire alle premure del padre guardiano, - aggiunse subito, rivolgendosi a lui, con una compitezza studiata. - Anzi, - continuò, - ci ho già pensato; ed ecco ciò che mi pare di poter far di meglio, per ora. La fattoressa del monastero ha maritata, pochi giorni sono, l'ultima sua figliuola. Queste donne potranno occupar la camera lasciata in libertà da quella, e supplire a que' pochi servizi che faceva lei. Veramente... - e qui accennò al guardiano che s'avvicinasse alla grata, e continuò sottovoce: - veramente, attesa la scarsezza dell'annate, non si pensava di sostituir nessuno a quella giovine; ma parlerò io alla madre badessa, e una mia parola... e per una premura del padre guardiano... In somma do la cosa per fatta.
Il guardiano cominciava a ringraziare, ma la signora l'interruppe: - non occorron cerimonie: anch'io, in un caso, in un bisogno, saprei far capitale dell'assistenza de' padri cappuccini. Alla fine, - continuò, con un sorriso, nel quale traspariva un non so che d'ironico e d'amaro, - alla fine, non siam noi fratelli e sorelle?
Così detto, chiamò una conversa (due di queste erano, per una distinzione singolare, assegnate al suo servizio privato), e le ordinò che avvertisse di ciò la badessa, e prendesse poi i concerti opportuni, con la fattoressa e con Agnese. Licenziò questa, accommiatò il guardiano, e ritenne Lucia. Il guardiano accompagnò Agnese alla porta, dandole nuove istruzioni, e se n'andò a scriver la lettera di ragguaglio all'amico Cristoforo. "Gran cervellino che è questa signora!" pensava tra sé, per la strada: "curiosa davvero! Ma chi la sa prendere per il suo verso, le fa far ciò che vuole. Il mio Cristoforo non s'aspetterà certamente ch'io l'abbia servito così presto e bene. Quel brav'uomo! non c'è rimedio: bisogna che si prenda sempre qualche impegno; ma lo fa per bene. Buon per lui questa volta, che ha trovato un amico, il quale, senza tanto strepito, senza tanto apparato, senza tante faccende, ha condotto l'aflare a buon porto, in un batter d'occhio. Sarà contento quel buon Cristoforo, e s'accorgerà che, anche noi qui, siam buoni a qualche cosa".
La signora, che, alla presenza d'un provetto cappuccino, aveva studiati gli atti e le parole, rimasta poi sola con una giovine contadina inesperta, non pensava più tanto a contenersi; e i suoi discorsi divennero a poco a poco così strani, che, in vece di riferirli, noi crediam più opportuno di raccontar brevemente la storia antecedente di questa infelice; quel tanto cioè che basti a render ragione dell'insolito e del misterioso che abbiam veduto in lei, e a far comprendere i motivi della sua condotta, in quello che avvenne dopo.
Era essa l'ultima figlia del principe ***, gran gentiluomo milanese, che poteva contarsi tra i più doviziosi della città. Ma l'alta opinione che aveva del suo titolo gli faceva parer le sue sostanze appena sufficienti, anzi scarse, a sostenerne il decoro; e tutto il suo pensiero era di conservarle, almeno quali erano, unite in perpetuo , per quanto dipendeva da lui. Quanti figliuoli avesse, la storia non lo dice espressamente; fa solamente intendere che aveva destinati al chiostro tutti i cadetti dell'uno e dell'altro sesso, per lasciare intatta la sostanza al primogenito, destinato a conservar la famiglia, a procrear cioè de' figliuoli, per tormentarsi a tormentarli nella stessa maniera. La nostra infelice era ancor nascosta nel ventre della madre, che la sua condizione era già irrevocabilmente stabilita. Rimaneva soltanto da decidersi se sarebbe un monaco o una monaca; decisione per la quale faceva bisogno , non il suo consenso, ma la sua presenza. Quando venne alla luce, il principe suo padre, volendo darle un nome che risvegliasse immediatamente l'idea del chiostro, e che fosse stato portato da una santa d'alti natali , la chiamò Gertrude . Bambole vestite da monaca furono i primi balocchi che le si diedero in mano; poi santini che rappresentavan monache; e que' regali eran sempre accompagnati con gran raccomandazioni di tenerli ben di conto ; come cosa preziosa, e con quell'interrogare affermativo: - bello eh? - Quando il principe, o la principessa o il principino, che solo de' maschi veniva allevato in casa, volevano lodar l'aspetto prosperoso della fanciullina, pareva che non trovasser modo d'esprimer bene la loro idea, se non con le parole: - che madre badessa! - Nessuno però le disse mai direttamente: tu devi farti monaca. Era un'idea sottintesa e toccata incidentemente , in ogni discorso che riguardasse i suoi destini futuri. Se qualche volta la Gertrudina trascorreva a qualche atto un po' arrogante e imperioso , al che la sua indole la portava molto facilmente, - tu sei una ragazzina, - le si diceva: - queste maniere non ti convengono: quando sarai madre badessa, allora comanderai a bacchetta, farai alto e basso -. Qualche altra volta il principe, riprendendola di cert'altre maniere troppo libere e famigliari alle quali essa trascorreva con uguale facilità, - ehi! ehi! - le diceva; - non è questo il fare d'una par tua: se vuoi che un giorno ti si porti il rispetto che ti sarà dovuto, impara fin d'ora a star sopra di te: ricordati che tu devi essere, in ogni cosa, la prima del monastero; perché il sangue si porta per tutto dove si va.
Tutte le parole di questo genere stampavano nel cervello della fanciullina l'idea che già lei doveva esser monaca; ma quelle che venivan dalla bocca del padre, facevan più effetto di tutte l'altre insieme. Il contegno del principe era abitualmente quello d'un padrone austero; ma quando si trattava dello stato futuro de' suoi figli, dal suo volto e da ogni sua parola traspariva un'immobilità di risoluzione, una ombrosa gelosia di comando , che imprimeva il sentimento d'una necessità fatale .
A sei anni, Gertrude fu collocata, per educazione e ancor più per istradamento alla vocazione impostale, nel monastero dove l'abbiamo veduta: e la scelta del luogo non fu senza disegno . Il buon conduttore delle due donne ha detto che il padre della signora era il primo in Monza: e, accozzando questa qualsisia testimonianza con alcune altre indicazioni che l'anonimo lascia scappare sbadatamente qua e là, noi potremmo anche asserire che fosse il feudatario di quel paese. Comunque sia, vi godeva d'una grandissima autorità; e pensò che lì, meglio che altrove, la sua figlia sarebbe trattata con quelle distinzioni e con quelle finezze che potesser più allettarla a scegliere quel monastero per sua perpetua dimora. Né s'ingannava: la badessa e alcune altre monache faccendiere , che avevano, come si suol dire, il mestolo in mano, esultarono nel vedersi offerto il pegno d'una protezione tanto utile in ogni occorrenza , tanto gloriosa in ogni momento; accettaron la proposta, con espressioni di riconoscenza, non esagerate, per quanto fossero forti; e corrisposero pienamente all'intenzioni che il principe aveva lasciate trasparire sul collocamento stabile della figliuola: intenzioni che andavan così d'accordo con le loro. Gertrude, appena entrata nel monastero, fu chiamata per antonomasia la signorina; posto distinto a tavola, nel dormitorio; la sua condotta proposta all'altre per esemplare; chicche e carezze senza fine, e condite con quella famigliarità un po' rispettosa, che tanto adesca i fanciulli, quando la trovano in coloro che vedon trattare gli altri fanciulli con un contegno abituale di superiorità. Non che tutte le monache fossero congiurate a tirar la poverina nel laccio; ce n'eran molte delle semplici e lontane da ogni intrigo, alle quali il pensiero di sacrificare una figlia a mire interessate avrebbe fatto ribrezzo; ma queste, tutte attente alle loro occupazioni particolari, parte non s'accorgevan bene di tutti que' maneggi, parte non distinguevano quanto vi fosse di cattivo, parte s'astenevano dal farvi sopra esame, parte stavano zitte, per non fare scandoli inutili. Qualcheduna anche, rammentandosi d'essere stata, con simili arti, condotta a quello di cui s'era pentita poi, sentiva compassione della povera innocentina, e si sfogava col farle carezze tenere e malinconiche: ma questa era ben lontana dal sospettare che ci fosse sotto mistero; e la faccenda camminava. Sarebbe forse camminata così fino alla fine, se Gertrude fosse stata la sola ragazza in quel monastero. Ma, tra le sue compagne d'educazione, ce n'erano alcune che sapevano d'esser destinate al matrimonio. Gertrudina, nudrita nelle idee della sua superiorità, parlava magnificamente de' suoi destini futuri di badessa, di principessa del monastero, voleva a ogni conto esser per le altre un soggetto d'invidia; e vedeva con maraviglia e con dispetto, che alcune di quelle non ne sentivano punto . All'immagini maestose, ma circoscritte e fredde, che può somministrare il primato in un monastero , contrapponevan esse le immagini varie e luccicanti, di nozze, di pranzi, di conversazioni, di festini, come dicevano allora, di villeggiature, di vestiti, di carrozze. Queste immagini cagionarono nel cervello di Gertrude quel movimento, quel brulichìo che produrrebbe un gran paniere di fiori appena colti, messo davanti a un alveare. I parenti e l'educatrici avevan coltivata e accresciuta in lei la vanità naturale , per farle piacere il chiostro; ma quando questa passione fu stuzzicata da idee tanto più omogenee ad essa , si gettò su quelle, con un ardore ben più vivo e più spontaneo. Per non restare al di sotto di quelle sue compagne, e per condiscendere nello stesso tempo al suo nuovo genio , rispondeva che, alla fin de' conti, nessuno le poteva mettere il velo in capo senza il suo consenso, che anche lei poteva maritarsi, abitare un palazzo, godersi il mondo, e meglio di tutte loro; che lo poteva, pur che l'avesse voluto, che lo vorrebbe, che lo voleva; e lo voleva in fatti. L'idea della necessità del suo consenso, idea che, fino a quel tempo, era stata come inosservata e rannicchiata in un angolo della sua mente, si sviluppò allora, e si manifestò, con tutta la sua importanza. Essa la chiamava ogni momento in aiuto, per godersi più tranquillamente l'immagini d'un avvenire gradito. Dietro questa idea però, ne compariva sempre infallibilmente un'altra: che quel consenso si trattava di negarlo al principe padre, il quale lo teneva già, o mostrava di tenerlo per dato; e, a questa idea, l'animo della figlia era ben lontano dalla sicurezza che ostentavano le sue parole. Si paragonava allora con le compagne, ch'erano ben altrimenti sicure, e provava per esse dolorosamente l'invidia che, da principio, aveva creduto di far loro provare. Invidiandole, le odiava: talvolta l'odio s'esalava in dispetti, in isgarbatezze, in motti pungenti; talvolta l'uniformità dell'inclinazioni e delle speranze lo sopiva, e faceva nascere un'intrinsichezza apparente e passeggiera . Talvolta, volendo pure godersi intanto qualche cosa di reale e di presente, si compiaceva delle preferenze che le venivano accordate, e faceva sentire all'altre quella sua superiorità; talvolta, non potendo più tollerar la solitudine de' suoi timori e de' suoi desidèri, andava, tutta buona, in cerca di quelle, quasi ad implorar benevolenza, consigli, coraggio. Tra queste deplorabili guerricciole con sé e con gli altri, aveva varcata la puerizia , e s'inoltrava in quell'età così critica, nella quale par che entri nell'animo quasi una potenza misteriosa, che solleva, adorna, rinvigorisce tutte l'inclinazioni , tutte l'idee, e qualche volta le trasforma, o le rivolge a un corso impreveduto. Ciò che Gertrude aveva fino allora più distintamente vagheggiato in que' sogni dell'avvenire, era lo splendore esterno e la pompa: un non so che di molle e d'affettuoso, che da prima v'era diffuso leggermente e come in nebbia, cominciò allora a spiegarsi e a primeggiare nelle sue fantasie. S'era fatto, nella parte più riposta della mente, come uno splendido ritiro: ivi si rifugiava dagli oggetti presenti , ivi accoglieva certi personaggi stranamente composti di confuse memorie della puerizia, di quel poco che poteva vedere del mondo esteriore, di ciò che aveva imparato dai discorsi delle compagne; si tratteneva con essi, parlava loro, e si rispondeva in loro nome; ivi dava ordini, e riceveva omaggi d'ogni genere. Di quando in quando, i pensieri della religione venivano a disturbare quelle feste brillanti e faticose. Ma la religione, come l'avevano insegnata alla nostra poveretta, e come essa l'aveva ricevuta, non bandiva l'orgoglio, anzi lo santificava e lo proponeva come un mezzo per ottenere una felicità terrena. Privata così della sua essenza, non era più la religione, ma una larva come l'altre. Negl'intervalli in cui questa larva prendeva il primo posto, e grandeggiava nella fantasia di Gertrude, l'infelice, sopraffatta da terrori confusi, e compresa da una confusa idea di doveri, s'immaginava che la sua ripugnanza al chiostro, e la resistenza all'insinuazioni de' suoi maggiori , nella scelta dello stato , fossero una colpa; e prometteva in cuor suo d'espiarla, chiudendosi volontariamente nel chiostro.
Gertrude, al momento di uscire dal monastero per trascorrere un mese a casa come vuole la regola per le future novizie, scrive una lettera al padre in cui gli spiega la sua nuova decisione di abbandonare per sempre il monastero. Ma il trattamento che l’aspetta a casa è una sorta di prigionia umiliante, di isolamento da ogni affetto e confidenza, che in pochi giorni vincono la resistenza di Gertrude e la spingono a scrivere una seconda lettera al padre in cui invoca il suo perdono. Il padre allora, approfittando del disperato bisogno di affetto della figlia, la fa tornare a vivere circondata dall’affetto della sua famiglia ma annunciando a tutti la sua decisione definitiva di farsi monaca, senza nemmeno strappargliela a parole, ma dandola per scontata. E così comincia per Gertrude il cammino di avvicinamento al rientro definitivo nel monastero, scandito dalle cerimonie di rito, e infine dai festeggiamenti dedicati a lei, circondata, ora che si è sottomessa per sempre alla volontà del padre, da innumerevoli segni di affetto da parte della famiglia. |
Era legge che una giovine non potesse venire accettata monaca, prima d'essere stata esaminata da un ecclesiastico, chiamato il vicario delle monache, o da qualche altro deputato a ciò, affinché fosse certo che ci andava di sua libera scelta: e questo esame non poteva aver luogo, se non un anno dopo ch'ella avesse esposto a quel vicario il suo desiderio, con una supplica in iscritto. Quelle monache che avevan preso il tristo incarico di far che Gertrude s'obbligasse per sempre, con la minor possibile cognizione di ciò che faceva, colsero un de' momenti che abbiam detto, per farle trascrivere e sottoscrivere una tal supplica. E a fine d'indurla più facilmente a ciò, non mancaron di dirle e di ripeterle, che finalmente era una mera formalità, la quale (e questo era vero) non poteva avere efficacia, se non da altri atti posteriori, che dipenderebbero dalla sua volontà. Con tutto ciò, la supplica non era forse ancor giunta al suo destino, che Gertrude s'era già pentita d'averla sottoscritta. Si pentiva poi d'essersi pentita, passando così i giorni e i mesi in un'incessante vicenda di sentimenti contrari. Tenne lungo tempo nascosto alle compagne quel passo, ora per timore d'esporre alle contraddizioni una buona risoluzione, ora per vergogna di palesare uno sproposito. Vinse finalmente il desiderio di sfogar l'animo, e d'accattar consiglio e coraggio. C'era un'altra legge, che una giovine non fosse ammessa a quell'esame della vocazione, se non dopo aver dimorato almeno un mese fuori del monastero dove era stata in educazione. Era già scorso l'anno da che la supplica era stata mandata; e Gertrude fu avvertita che tra poco verrebbe levata dal monastero, e condotta nella casa paterna, per rimanervi quel mese, e far tutti i passi necessari al compimento dell'opera che aveva di fatto cominciata. Il principe e il resto della famiglia tenevano tutto ciò per certo, come se fosse già avvenuto; ma la giovine aveva tutt'altro in testa: in vece di far gli altri passi pensava alla maniera di tirare indietro il primo. In tali angustie, si risolvette d'aprirsi con una delle sue compagne, la più franca, e pronta sempre a dar consigli risoluti. Questa suggerì a Gertrude d'informar con una lettera il padre della sua nuova risoluzione; giacché non le bastava l'animo di spiattellargli sul viso un bravo: non voglio. E perché i pareri gratuiti, in questo mondo, son molto rari, la consigliera fece pagar questo a Gertrude, con tante beffe sulla sua dappocaggine. La lettera fu concertata tra quattro o cinque confidenti, scritta di nascosto, e fatta ricapitare per via d'artifizi molto studiati. Gertrude stava con grand'ansietà, aspettando una risposta che non venne mai. Se non che, alcuni giorni dopo, la badessa, la fece venir nella sua cella, è, con un contegno di mistero, di disgusto e di compassione, le diede un cenno oscuro d'una gran collera del principe, e d'un fallo ch'ella doveva aver commesso, lasciandole però intendere che, portandosi bene, poteva sperare che tutto sarebbe dimenticato. La giovinetta intese, e non osò domandar più in là.
Venne finalmente il giorno tanto temuto e bramato. Quantunque Gertrude sapesse che andava a un combattimento, pure l'uscir di monastero, il lasciar quelle mura nelle quali era stata ott'anni rinchiusa, lo scorrere in carrozza per l'aperta campagna, il riveder la città, la casa, furon sensazioni piene d'una gioia tumultuosa. In quanto al combattimento, la poveretta, con la direzione di quelle confidenti, aveva già prese le sue misure, e fatto, com'ora si direbbe, il suo piano. "O mi vorranno forzare", pensava, "e io starò dura; sarò umile, rispettosa, ma non acconsentirò: non si tratta che di non dire un altro sì; e non lo dirò. Ovvero mi prenderanno con le buone; e io sarò più buona di loro; piangerò, pregherò, li moverò a compassione: finalmente non pretendo altro che di non esser sacrificata". Ma, come accade spesso di simili previdenze, non avvenne né una cosa né l'altra. I giorni passavano, senza che il padre né altri le parlasse della supplica, né della ritrattazione, senza che le venisse fatta proposta nessuna, né con carezze, né con minacce. I parenti eran seri, tristi, burberi con lei, senza mai dirne il perché. Si vedeva solamente che la riguardavano come una rea, come un'indegna: un anatema misterioso pareva che pesasse sopra di lei, e la segregasse dalla famiglia, lasciandovela soltanto unita quanto bisognava per farle sentire la sua suggezione. Di rado, e solo a certe ore stabilite, era ammessa alla compagnia de' parenti e del primogenito. Tra loro tre pareva che regnasse una gran confidenza, la quale rendeva più sensibile e più doloroso l'abbandono in cui era lasciata Gertrude. Nessuno le rivolgeva il discorso; e quando essa arrischiava timidamente qualche parola, che non fosse per cosa necessaria, o non attaccava, o veniva corrisposta con uno sguardo distratto, o sprezzante, o severo. Che se, non potendo più soffrire una così amara e umiliante distinzione, insisteva, e tentava di famigliarizzarsi; se implorava un po' d'amore, si sentiva subito toccare, in maniera indiretta ma chiara, quel tasto della scelta dello stato; le si faceva copertamente sentire che c'era un mezzo di riacquistar l'affetto della famiglia. Allora Gertrude, che non l'avrebbe voluto a quella condizione, era costretta di tirarsi indietro, di rifiutar quasi i primi segni di benevolenza che aveva tanto desiderati, di rimettersi da sé al suo posto di scomunicata; e per di più, vi rimaneva con una certa apparenza del torto.
Tali sensazioni d'oggetti presenti facevano un contrasto doloroso con quelle ridenti visioni delle quali Gertrude s'era già tanto occupata, e s'occupava tuttavia, nel segreto della sua mente. Aveva sperato che, nella splendida e frequentata casa paterna, avrebbe potuto godere almeno qualche saggio reale delle cose immaginate; ma si trovò del tutto ingannata. La clausura era stretta e intera, come nel monastero; d'andare a spasso non si parlava neppure; e un coretto che, dalla casa, guardava in una chiesa contigua, toglieva anche l'unica necessità che ci sarebbe stata d'uscire. La compagnia era più trista, più scarsa, meno variata che nel monastero. A ogni annunzio d'una visita, Gertrude doveva salire all'ultimo piano, per chiudersi con alcune vecchie donne di servizio: e lì anche desinava, quando c'era invito. I servitori s'uniformavano, nelle maniere e ne' discorsi, all'esempio e all'intenzioni de' padroni: e Gertrude, che, per sua inclinazione, avrebbe voluto trattarli con una famigliarità signorile, e che, nello stato in cui si trovava, avrebbe avuto di grazia che le facessero qualche dimostrazione d'affetto, come a una loro pari, e scendeva anche a mendicarne, rimaneva poi umiliata, e sempre più afflitta di vedersi corrisposta con una noncuranza manifesta, benché accompagnata da un leggiero ossequio di formalità. Dovette però accorgersi che un paggio, ben diverso da coloro, le portava un rispetto, e sentiva per lei una compassione d'un genere particolare. Il contegno di quel ragazzotto era ciò che Gertrude aveva fino allora visto di più somigliante a quell'ordine di cose tanto contemplato nella sua immaginativa, al contegno di quelle sue creature ideali. A poco a poco si scoprì un non so che di nuovo nelle maniere della giovinetta: una tranquillità e un'inquietudine diversa dalla solita, un fare di chi ha trovato qualche cosa che gli preme, che vorrebbe guardare ogni momento, e non lasciar vedere agli altri. Le furon tenuti gli occhi addosso più che mai: che è che non è, una mattina, fu sorpresa da una di quelle cameriere, mentre stava piegando alla sfuggita una carta, sulla quale avrebbe fatto meglio a non iscriver nulla. Dopo un breve tira tira, la carta rimase nelle mani della cameriera, e da queste passò in quelle del principe.
Il terrore di Gertrude, al rumor de' passi di lui, non si può descrivere né immaginare: era quel padre, era irritato, e lei si sentiva colpevole. Ma quando lo vide comparire, con quel cipiglio, con quella carta in mano, avrebbe voluto esser cento braccia sotto terra, non che in un chiostro. Le parole non furon molte, ma terribili: il gastigo intimato subito non fu che d'esser rinchiusa in quella camera, sotto la guardia della donna che aveva fatta la scoperta; ma questo non era che un principio, che un ripiego del momento; si prometteva, si lasciava vedere per aria, un altro gastigo oscuro, indeterminato, e quindi più spaventoso.
Il paggio fu subito sfrattato, com'era naturale; e fu minacciato anche a lui qualcosa di terribile, se, in qualunque tempo, avesse osato fiatar nulla dell'avvenuto. Nel fargli questa intimazione, il principe gli appoggiò due solenni schiaffi, per associare a quell'avventura un ricordo, che togliesse al ragazzaccio ogni tentazion di vantarsene. Un pretesto qualunque, per coonestare la licenza data a un paggio, non era difficile a trovarsi; in quanto alla figlia, si disse ch'era incomodata.
Rimase essa dunque col batticuore, con la vergogna, col rimorso, col terrore dell'avvenire, e con la sola compagnia di quella donna odiata da lei, come il testimonio della sua colpa, e la cagione della sua disgrazia. Costei odiava poi a vicenda Gertrude, per la quale si trovava ridotta, senza saper per quanto tempo, alla vita noiosa di carceriera, e divenuta per sempre custode d'un segreto pericoloso.
Il primo confuso tumulto di que' sentimenti s'acquietò a poco a poco; ma tornando essi poi a uno per volta nell'animo, vi s'ingrandivano, e si fermavano a tormentarlo più distintamente e a bell'agio. Che poteva mai esser quella punizione minacciata in enimma? Molte e varie e strane se ne affacciavano alla fantasia ardente e inesperta di Gertrude. Quella che pareva più probabile, era di venir ricondotta al monastero di Monza, di ricomparirvi, non più come la signorina, ma in forma di colpevole, e di starvi rinchiusa, chi sa fino a quando! chi sa con quali trattamenti! Ciò che una tale immaginazione, tutta piena di dolori, aveva forse di più doloroso per lei, era l'apprensione della vergogna. Le frasi, le parole, le virgole di quel foglio sciagurato, passavano e ripassavano nella sua memoria: le immaginava osservate, pesate da un lettore tanto impreveduto, tanto diverso da quello a cui eran destinate; si figurava che avesser potuto cader sotto gli occhi anche della madre o del fratello, o di chi sa altri: e, al paragon di ciò, tutto il rimanente le pareva quasi un nulla. L'immagine di colui ch'era stato la prima origine di tutto lo scandolo, non lasciava di venire spesso anch'essa ad infestar la povera rinchiusa: e pensate che strana comparsa doveva far quel fantasma, tra quegli altri così diversi da lui, seri, freddi, minacciosi. Ma, appunto perché non poteva separarlo da essi, né tornare un momento a quelle fuggitive compiacenze, senza che subito non le s'affacciassero i dolori presenti che n'erano la conseguenza, cominciò a poco a poco a tornarci più di rado, a rispingerne la rimembranza, a divezzarsene. Né più a lungo, o più volentieri, si fermava in quelle liete e brillanti fantasie d'una volta: eran troppo opposte alle circostanze reali, a ogni probabilità dell'avvenire. Il solo castello nel quale Gertrude potesse immaginare un rifugio tranquillo e onorevole, e che non fosse in aria, era il monastero, quando si risolvesse d'entrarci per sempre. Una tal risoluzione (non poteva dubitarne) avrebbe accomodato ogni cosa, saldato ogni debito, e cambiata in un attimo la sua situazione. Contro questo proposito insorgevano, è vero, i pensieri di tutta la sua vita: ma i tempi eran mutati; e, nell'abisso in cui Gertrude era caduta, e al paragone di ciò che poteva temere in certi momenti, la condizione di monaca festeggiata, ossequiata, ubbidita, le pareva uno zuccherino. Due sentimenti di ben diverso genere contribuivan pure a intervalli a scemare quella sua antica avversione: talvolta il rimorso del fallo, e una tenerezza fantastica di divozione; talvolta l'orgoglio amareggiato e irritato dalle maniere della carceriera, la quale (spesso, a dire il vero, provocata da lei) si vendicava, ora facendole paura di quel minacciato gastigo, ora svergognandola del fallo. Quando poi voleva mostrarsi benigna, prendeva un tono di protezione, più odioso ancora dell'insulto. In tali diverse occasioni, il desiderio che Gertrude sentiva d'uscir dall'unghie di colei, e di comparirle in uno stato al di sopra della sua collera e della sua pietà, questo desiderio abituale diveniva tanto vivo e pungente, da far parere amabile ogni cosa che potesse condurre ad appagarlo.
In capo a quattro o cinque lunghi giorni di prigionia, una mattina, Gertrude stuccata ed invelenita all'eccesso, per un di que' dispetti della sua guardiana, andò a cacciarsi in un angolo della camera, e lì, con la faccia nascosta tra le mani, stette qualche tempo a divorar la sua rabbia. Sentì allora un bisogno prepotente di vedere altri visi, di sentire altre parole, d'esser trattata diversamente. Pensò al padre, alla famiglia: il pensiero se ne arretrava spaventato. Ma le venne in mente che dipendeva da lei di trovare in loro degli amici; e provò una gioia improvvisa. Dietro questa, una confusione e un pentimento straordinario del suo fallo, e un ugual desiderio d'espiarlo. Non già che la sua volontà si fermasse in quel proponimento, ma giammai non c'era entrata con tanto ardore. S'alzò di lì, andò a un tavolino, riprese quella penna fatale, e scrisse al padre una lettera piena d'entusiasmo e d'abbattimento, d'afflizione e di speranza, implorando il perdono, e mostrandosi indeterminatamente pronta a tutto ciò che potesse piacere a chi doveva accordarlo.
Capitolo X
Vi son de' momenti in cui l'animo, particolarmente de' giovani, è disposto in maniera che ogni poco d'istanza basta a ottenerne ogni cosa che abbia un'apparenza di bene e di sacrifizio: come un fiore appena sbocciato, s'abbandona mollemente sul suo fragile stelo, pronto a concedere le sue fragranze alla prim'aria che gli aliti punto d'intorno. Questi momenti, che si dovrebbero dagli altri ammirare con timido rispetto, son quelli appunto che l'astuzia interessata spia attentamente, e coglie di volo, per legare una volontà che non si guarda.
Al legger quella lettera, il principe *** vide subito lo spiraglio aperto alle sue antiche e costanti mire. Mandò a dire a Gertrude che venisse da lui; e aspettandola, si dispose a batter il ferro, mentre era caldo. Gertrude comparve, e, senza alzar gli occhi in viso al padre, gli si buttò in ginocchioni davanti, ed ebbe appena fiato di dire: - perdono! - Egli le fece cenno che s'alzasse; ma, con una voce poco atta a rincorare, le rispose che il perdono non bastava desiderarlo né chiederlo; ch'era cosa troppo agevole e troppo naturale a chiunque sia trovato in colpa, e tema la punizione; che in somma bisognava meritarlo. Gertrude domando, sommessamente e tremando, che cosa dovesse fare. Il principe (non ci regge il cuore di dargli in questo momento il titolo di padre) non rispose direttamente, ma cominciò a parlare a lungo del fallo di Gertrude: e quelle parole frizzavano sull'animo della poveretta, come lo scorrere d'una mano ruvida sur una ferita. Continuò dicendo che, quand'anche... caso mai... che avesse avuto prima qualche intenzione di collocarla nel secolo, lei stessa ci aveva messo ora un ostacolo insuperabile; giacché a un cavalier d'onore, com'era lui, non sarebbe mai bastato l'animo di regalare a un galantuomo una signorina che aveva dato un tal saggio di sé. La misera ascoltatrice era annichilata: allora il principe, raddolcendo a grado a grado la voce e le parole, proseguì dicendo che però a ogni fallo c'era rimedio e misericordia; che il suo era di quelli per i quali il rimedio è più chiaramente indicato: ch'essa doveva vedere, in questo tristo accidente, come un avviso che la vita del secolo era troppo piena di pericoli per lei...
- Ah sì! - esclamò Gertrude, scossa dal timore, preparata dalla vergogna, e mossa in quel punto da una tenerezza istantanea.
- Ah! lo capite anche voi, - riprese incontanente il principe. - Ebbene, non si parli più del passato: tutto è cancellato. Avete preso il solo partito onorevole, conveniente, che vi rimanesse; ma perché l'avete preso di buona voglia, e con buona maniera, tocca a me a farvelo riuscir gradito in tutto e per tutto: tocca a me a farne tornare tutto il vantaggio e tutto il merito sopra di voi. Ne prendo io la cura -. Così dicendo, scosse un campanello che stava sul tavolino, e al servitore che entrò, disse: - la principessa e il principino subito -. E seguitò poi con Gertrude: - voglio metterli subito a parte della mia consolazione; voglio che tutti comincin subito a trattarvi come si conviene. Avete sperimentato in parte il padre severo; ma da qui innanzi proverete tutto il padre amoroso.
A queste parole, Gertrude rimaneva come sbalordita. Ora ripensava come mai quel sì che le era scappato, avesse potuto significar tanto, ora cercava se ci fosse maniera di riprenderlo, di ristringerne il senso; ma la persuasione del principe pareva così intera, la sua gioia così gelosa, la benignità così condizionata, che Gertrude non osò proferire una parola che potesse turbarle menomamente.
Dopo pochi momenti, vennero i due chiamati, e vedendo lì Gertrude, la guardarono in viso, incerti e maravigliati. Ma il principe, con un contegno lieto e amorevole, che ne prescriveva loro un somigliante, - ecco, - disse, - la pecora smarrita: e sia questa l'ultima parola che richiami triste memorie. Ecco la consolazione della famiglia. Gertrude non ha più bisogno di consigli; ciò che noi desideravamo per suo bene, l'ha voluto lei spontaneamente. È risoluta, m'ha fatto intendere che è risoluta... - A questo passo, alzò essa verso il padre uno sguardo tra atterrito e supplichevole, come per chiedergli che sospendesse, ma egli proseguì francamente: - che è risoluta di prendere il velo.
- Brava! bene! - esclamarono, a una voce, la madre e il figlio, e l'uno dopo l'altra abbracciaron Gertrude; la quale ricevette queste accoglienze con lacrime, che furono interpretate per lacrime di consolazione. Allora il principe si diffuse a spiegar ciò che farebbe per render lieta e splendida la sorte della figlia. Parlò delle distinzioni di cui goderebbe nel monastero e nel paese; che, là sarebbe come una principessa, come la rappresentante della famiglia; che, appena l'età l'avrebbe permesso, sarebbe innalzata alla prima dignità; e, intanto, non sarebbe soggetta che di nome. La principessa e il principino rinnovavano, ogni momento, le congratulazioni e gli applausi: Gertrude era come dominata da un sogno.
- Converrà poi fissare il giorno, per andare a Monza, a far la richiesta alla badessa, - disse il principe. - Come sarà contenta! Vi so dire che tutto il monastero saprà valutar l'onore che Gertrude gli fa. Anzi... perché non ci andiamo oggi? Gertrude prenderà volentieri un po' d'aria.
- Andiamo pure, - disse la principessa.
- Vo a dar gli ordini, - disse il principino.
- Ma... - proferì sommessamente Gertrude.
- Piano, piano, - riprese il principe: - lasciam decidere a lei: forse oggi non si sente abbastanza disposta, e le piacerebbe più aspettar fino a domani. Dite: volete che andiamo oggi o domani?
- Domani, - rispose, con voce fiacca, Gertrude, alla quale pareva ancora di far qualche cosa, prendendo un po' di tempo.
- Domani, - disse solennemente il principe: - ha stabilito che si vada domani. Intanto io vo dal vicario delle monache, a fissare un giorno per l'esame -. Detto fatto, il principe uscì, e andò veramente (che non fu piccola degnazione) dal detto vicario; e concertarono che verrebbe di lì a due giorni.
In tutto il resto di quella giornata, Gertrude non ebbe un minuto di bene. Avrebbe desiderato riposar l'animo da tante commozioni, lasciar, per dir così, chiarire i suoi pensieri, render conto a se stessa di ciò che aveva fatto, di ciò che le rimaneva da fare, sapere ciò che volesse, rallentare un momento quella macchina che, appena avviata, andava così precipitosamente; ma non ci fu verso. L'occupazioni si succedevano senza interruzione, s'incastravano l'una con l'altra. Subito dopo partito il principe, fu condotta nel gabinetto della principessa, per essere, sotto la sua direzione, pettinata e rivestita dalla sua propria cameriera. Non era ancor terminato di dar l'ultima mano, che furon avvertite ch'era in tavola. Gertrude passò in mezzo agl'inchini della servitù, che accennava di congratularsi per la guarigione, e trovò alcuni parenti più prossimi, ch'erano stati invitati in fretta, per farle onore, e per rallegrarsi con lei de' due felici avvenimenti, la ricuperata salute, e la spiegata vocazione.
La sposina (così si chiamavan le giovani monacande, e Gertrude, al suo apparire, fu da tutti salutata con quel nome), la sposina ebbe da dire e da fare a rispondere a' complimenti che le fioccavan da tutte le parti. Sentiva bene che ognuna delle sue risposte era come un'accettazione e una conferma; ma come rispondere diversamente? Poco dopo alzati da tavola, venne l'ora della trottata. Gertrude entrò in carrozza con la madre, e con due zii ch'erano stati al pranzo. Dopo un solito giro, si riuscì alla strada Marina, che allora attraversava lo spazio occupato ora dal giardin pubblico, ed era il luogo dove i signori venivano in carrozza a ricrearsi delle fatiche della giornata. Gli zii parlarono anche a Gertrude, come portava la convenienza in quel giorno: e uno di loro, il qual pareva che, più dell'altro, conoscesse ogni persona, ogni carrozza, ogni livrea, e aveva ogni momento qualcosa da dire del signor tale e della signora tal altra, si voltò a lei tutt'a un tratto, e le disse: - ah furbetta! voi date un calcio a tutte queste corbellerie; siete una dirittona voi; piantate negl'impicci noi poveri mondani, vi ritirate a fare una vita beata, e andate in paradiso in carrozza.
Sul tardi, si tornò a casa; e i servitori, scendendo in fretta con le torce, avvertirono che molte visite stavano aspettando. La voce era corsa; e i parenti e gli amici venivano a fare il loro dovere. S'entrò nella sala della conversazione. La sposina ne fu l'idolo, il trastullo, la vittima. Ognuno la voleva per sé: chi si faceva prometter dolci, chi prometteva visite, chi parlava della madre tale sua parente, chi della madre tal altra sua conoscente, chi lodava il cielo di Monza, chi discorreva, con gran sapore, della gran figura ch'essa avrebbe fatta là. Altri, che non avevan potuto ancora avvicinarsi a Gertrude così assediata, stavano spiando l'occasione di farsi innanzi, e sentivano un certo rimorso, fin che non avessero fatto il loro dovere. A poco a poco, la compagnia s'andò dileguando; tutti se n'andarono senza rimorso, e Gertrude rimase sola co' genitori e il fratello.
- Finalmente, - disse il principe, - ho avuto la consolazione di veder mia figlia trattata da par sua. Bisogna però confessare che anche lei s'è portata benone, e ha fatto vedere che non sarà impicciata a far la prima figura, e a sostenere il decoro della famiglia.
Si cenò in fretta, per ritirarsi subito, ed esser pronti presto la mattina seguente.
Gertrude contristata, indispettita e, nello stesso tempo, un po' gonfiata da tutti que' complimenti, si rammentò in quel punto ciò che aveva patito dalla sua carceriera; e, vedendo il padre così disposto a compiacerla in tutto, fuor che in una cosa, volle approfittare dell'auge in cui si trovava, per acquietare almeno una delle passioni che la tormentavano. Mostrò quindi una gran ripugnanza a trovarsi con colei, lagnandosi fortemente delle sue maniere.
- Come! - disse il principe: - v'ha mancato di rispetto colei! Domani, domani, le laverò il capo come va. Lasciate fare a me, che le farò conoscere chi è lei, e chi siete voi. E a ogni modo, una figlia della quale io son contento, non deve vedersi intorno una persona che le dispiaccia -. Così detto, fece chiamare un'altra donna, e le ordinò di servir Gertrude; la quale intanto, masticando e assaporando la soddisfazione che aveva ricevuta, si stupiva di trovarci così poco sugo, in paragone del desiderio che n'aveva avuto. Ciò che, anche suo malgrado, s'impossessava di tutto il suo animo, era il sentimento de' gran progressi che aveva fatti, in quella giornata, sulla strada del chiostro, il pensiero che a ritirarsene ora ci vorrebbe molta più forza e risolutezza di quella che sarebbe bastata pochi giorni prima, e che pure non s'era sentita d'avere.
La donna che andò ad accompagnarla in camera, era una vecchia di casa, stata già governante del principino, che aveva ricevuto appena uscito dalle fasce, e tirato su fino all'adolescenza, e nel quale aveva riposte tutte le sue compiacenze, le sue speranze, la sua gloria. Era essa contenta della decisione fatta in quel giorno, come d'una sua propria fortuna; e Gertrude, per ultimo divertimento, dovette succiarsi le congratulazioni, le lodi, i consigli della vecchia, e sentir parlare di certe sue zie e prozie, le quali s'eran trovate ben contente d'esser monache, perché, essendo di quella casa, avevan sempre goduto i primi onori, avevan sempre saputo tenere uno zampino di fuori, e, dal loro parlatorio, avevano ottenuto cose che le più gran dame, nelle loro sale, non c'eran potute arrivare. Le parlò delle visite che avrebbe ricevute: un giorno poi, verrebbe il signor principino con la sua sposa, la quale doveva esser certamente una gran signorona; e allora, non solo il monastero, ma tutto il paese sarebbe in moto. La vecchia aveva parlato mentre spogliava Gertrude, quando Gertrude era a letto; parlava ancora, che Gertrude dormiva. La giovinezza e la fatica erano state più forti de' pensieri. Il sonno fu affannoso, torbido, pieno di sogni penosi, ma non fu rotto che dalla voce strillante della vecchia, che venne a svegliarla, perché si preparasse per la gita di Monza.
- Andiamo, andiamo, signora sposina: è giorno fatto; e prima che sia vestita e pettinata, ci vorrà un'ora almeno. La signora principessa si sta vestendo; e l'hanno svegliata quattr'ore prima del solito. Il signor principino è già sceso alle scuderie, poi è tornato su, ed è all'ordine per partire quando si sia. Vispo come una lepre, quel diavoletto: ma! è stato così fin da bambino; e io posso dirlo, che l'ho portato in collo. Ma quand'è pronto, non bisogna farlo aspettare, perché, sebbene sia della miglior pasta del mondo, allora s'impazientisce e strepita. Poveretto! bisogna compatirlo: è il suo naturale; e poi questa volta avrebbe anche un po' di ragione, perché s'incomoda per lei. Guai chi lo tocca in que' momenti! non ha riguardo per nessuno, fuorché per il signor principe. Ma finalmente non ha sopra di sé che il signor principe, e un giorno, il signor principe sarà lui; più tardi che sia possibile, però. Lesta, lesta, signorina! Perché mi guarda così incantata? A quest'ora dovrebbe esser fuor della cuccia.
All'immagine del principino impaziente, tutti gli altri pensieri che s'erano affollati alla mente risvegliata di Gertrude, si levaron subito, come uno stormo di passere all'apparir del nibbio. Ubbidì, si vestì in fretta, si lasciò pettinare, e comparve nella sala, dove i genitori e il fratello eran radunati. Fu fatta sedere sur una sedia a braccioli, e le fu portata una chicchera di cioccolata: il che, a que' tempi, era quel che già presso i Romani il dare la veste virile.
Quando vennero a avvertir ch'era attaccato, il principe tirò la figlia in disparte, e le disse: - orsù, Gertrude, ieri vi siete fatta onore: oggi dovete superar voi medesima. Si tratta di fare una comparsa solenne nel monastero e nel paese dove siete destinata a far la prima figura. V'aspettano... - È inutile dire che il principe aveva spedito un avviso alla badessa, il giorno avanti. - V'aspettano, e tutti gli occhi saranno sopra di voi. Dignità e disinvoltura. La badessa vi domanderà cosa volete: è una formalità. Potete rispondere che chiedete d'essere ammessa a vestir l'abito in quel monastero, dove siete stata educata così amorevolmente, dove avete ricevute tante finezze: che è la pura verità. Dite quelle poche parole, con un fare sciolto: che non s'avesse a dire che v'hanno imboccata, e che non sapete parlare da voi. Quelle buone madri non sanno nulla dell'accaduto: è un segreto che deve restar sepolto nella famiglia; e perciò non fate una faccia contrita e dubbiosa, che potesse dar qualche sospetto. Fate vedere di che sangue uscite: manierosa, modesta; ma ricordatevi che, in quel luogo, fuor della famiglia, non ci sarà nessuno sopra di voi.
Senza aspettar risposta, il principe si mosse; Gertrude, la principessa e il principino lo seguirono; scesero tutti le scale, e montarono in carrozza. Gl'impicci e le noie del mondo, e la vita beata del chiostro, principalmente per le giovani di sangue nobilissimo, furono il tema della conversazione, durante il tragitto. Sul finir della strada, il principe rinnovò l'istruzioni alla figlia, e le ripeté più volte la formola della risposta. All'entrare in Monza, Gertrude si sentì stringere il cuore; ma la sua attenzione fu attirata per un istante da non so quali signori che, fatta fermar la carrozza, recitarono non so qual complimento. Ripreso il cammino, s'andò quasi di passo al monastero, tra gli sguardi de' curiosi, che accorrevano da tutte le parti sulla strada. Al fermarsi della carrozza, davanti a quelle mura, davanti a quella porta, il cuore si strinse ancor più a Gertrude. Si smontò tra due ale di popolo, che i servitori facevano stare indietro. Tutti quegli occhi addosso alla poveretta l'obbligavano a studiar continuamente il suo contegno: ma più di tutti quelli insieme, la tenevano in suggezione i due del padre, a' quali essa, quantunque ne avesse così gran paura, non poteva lasciar di rivolgere i suoi, ogni momento. E quegli occhi governavano le sue mosse e il suo volto, come per mezzo di redini invisibili. Attraversato il primo cortile, s'entrò in un altro, e lì si vide la porta del chiostro interno, spalancata e tutta occupata da monache. Nella prima fila, la badessa circondata da anziane; dietro, altre monache alla rinfusa, alcune in punta di piedi; in ultimo le converse ritte sopra panchetti. Si vedevan pure qua e là luccicare a mezz'aria alcuni occhietti, spuntar qualche visino tra le tonache: eran le più destre, e le più coraggiose tra l'educande, che, ficcandosi e penetrando tra monaca e monaca, eran riuscite a farsi un po' di pertugio, per vedere anch'esse qualche cosa. Da quella calca uscivano acclamazioni; si vedevan molte braccia dimenarsi, in segno d'accoglienza e di gioia. Giunsero alla porta; Gertrude si trovò a viso a viso con la madre badessa. Dopo i primi complimenti, questa, con una maniera tra il giulivo e il solenne, le domandò cosa desiderasse in quel luogo, dove non c'era chi le potesse negar nulla.
- Son qui..., - cominciò Gertrude; ma, al punto di proferir le parole che dovevano decider quasi irrevocabilmente del suo destino, esitò un momento, e rimase con gli occhi fissi sulla folla che le stava davanti. Vide, in quel momento, una di quelle sue note compagne, che la guardava con un'aria di compassione e di malizia insieme, e pareva che dicesse: ah! la c'è cascata la brava. Quella vista, risvegliando più vivi nell'animo suo tutti gli antichi sentimenti, le restituì anche un po' di quel poco antico coraggio: e già stava cercando una risposta qualunque, diversa da quella che le era stata dettata; quando, alzato lo sguardo alla faccia del padre, quasi per esperimentar le sue forze, scorse su quella un'inquietudine così cupa, un'impazienza così minaccevole, che, risoluta per paura, con la stessa prontezza che avrebbe preso la fuga dinanzi un oggetto terribile, proseguì: - son qui a chiedere d'esser ammessa a vestir l'abito religioso, in questo monastero, dove sono stata allevata così amorevolmente -. La badessa rispose subito, che le dispiaceva molto, in una tale occasione, che le regole non le permettessero di dare immediatamente una risposta, la quale doveva venire dai voti comuni delle suore, e alla quale doveva precedere la licenza de' superiori. Che però Gertrude, conoscendo i sentimenti che s'avevan per lei in quel luogo, poteva preveder con certezza qual sarebbe questa risposta; e che intanto nessuna regola proibiva alla badessa e alle suore di manifestare la consolazione che sentivano di quella richiesta. S'alzò allora un frastono confuso di congratulazioni e d'acclamazioni. Vennero subito gran guantiere colme di dolci, che furon presentati, prima alla sposina, e dopo ai parenti. Mentre alcune monache facevano a rubarsela, e altre complimentavan la madre, altre il principino, la badessa fece pregare il principe che volesse venire alla grata del parlatorio, dove l'attendeva. Era accompagnata da due anziane; e quando lo vide comparire, - signor principe, - disse: - per ubbidire alle regole... per adempire una formalità indispensabile, sebbene in questo caso... pure devo dirle... che, ogni volta che una figlia chiede d'essere ammessa a vestir l'abito,... la superiora, quale io sono indegnamente,... è obbligata d'avvertire i genitori... che se, per caso... forzassero la volontà della figlia, incorrerebbero nella scomunica. Mi scuserà...
- Benissimo, benissimo, reverenda madre. Lodo la sua esattezza: è troppo giusto... Ma lei non può dubitare... - Oh! pensi, signor principe,... ho parlato per obbligo preciso,... del resto...
- Certo, certo, madre badessa.
Barattate queste poche parole, i due interlocutori s'inchinarono vicendevolmente, e si separarono, come se a tutt'e due pesasse di rimaner lì testa testa; e andarono a riunirsi ciascuno alla sua compagnia, l'uno fuori, l'altra dentro la soglia claustrale. Dato luogo a un po' d'altre ciarle, - Oh via, - disse il principe: - Gertrude potrà presto godersi a suo bell'agio la compagnia di queste madri. Per ora le abbiamo incomodate abbastanza -. Così detto, fece un inchino; la famiglia si mosse con lui; si rinnovarono i complimenti, e si partì.
Gertrude, nel tornare, non aveva troppa voglia di discorrere. Spaventata del passo che aveva fatto, vergognosa della sua dappocaggine, indispettita contro gli altri e contro sé stessa, faceva tristamente il conto dell'occasioni, che le rimanevano ancora di dir di no; e prometteva debolmente e confusamente a sé stessa che, in questa, o in quella, o in quell'altra, sarebbe più destra e più forte. Con tutti questi pensieri, non le era però cessato affatto il terrore di quel cipiglio del padre; talché, quando, con un'occhiata datagli alla sfuggita, poté chiarirsi che sul volto di lui non c'era più alcun vestigio di collera, quando anzi vide che si mostrava soddisfattissimo di lei, le parve una bella cosa, e fu, per un istante, tutta contenta.
Appena arrivati, bisognò rivestirsi e rilisciarsi; poi il desinare, poi alcune visite, poi la trottata, poi la conversazione, poi la cena. Sulla fine di questa, il principe mise in campo un altro affare, la scelta della madrina. Così si chiamava una dama, la quale, pregata da' genitori, diventava custode e scorta della giovane monacanda, nel tempo tra la richiesta e l'entratura nel monastero; tempo che veniva speso in visitar le chiese, i palazzi pubblici, le conversazioni, le ville, i santuari: tutte le cose in somma più notabili della città e de' contorni; affinché le giovani, prima di proferire un voto irrevocabile, vedessero bene a cosa davano un calcio. - Bisognerà pensare a una madrina, - disse il principe: - perché domani verrà il vicario delle monache, per la formalità dell'esame, e subito dopo, Gertrude verrà proposta in capitolo, per esser accettata dalle madri -. Nel dir questo, s'era voltato verso la principessa; e questa, credendo che fosse un invito a proporre, cominciava: - ci sarebbe... - Ma il principe interruppe: - No, no, signora principessa: la madrina deve prima di tutto piacere alla sposina; e benché l'uso universale dia la scelta ai parenti, pure Gertrude ha tanto giudizio, tanta assennatezza, che merita bene che si faccia un'eccezione per lei -. E qui, voltandosi a Gertrude, in atto di chi annunzia una grazia singolare, continuò: - ognuna delle dame che si son trovate questa sera alla conversazione, ha quel che si richiede per esser madrina d'una figlia della nostra casa; non ce n'è nessuna, crederei, che non sia per tenersi onorata della preferenza: scegliete voi.
Gertrude vedeva bene che far questa scelta era dare un nuovo consenso; ma la proposta veniva fatta con tanto apparato, che il rifiuto, per quanto fosse umile, poteva parer disprezzo, o almeno capriccio e leziosaggine. Fece dunque anche quel passo; e nominò la dama che, in quella sera, le era andata più a genio; quella cioè che le aveva fatto più carezze, che l'aveva più lodata, che l'aveva trattata con quelle maniere famigliari, affettuose e premurose, che, ne' primi momenti d'una conoscenza, contraffanno una antica amicizia. - Ottima scelta, - disse il principe, che desiderava e aspettava appunto quella. Fosse arte o caso, era avvenuto come quando il giocator di bussolotti facendovi scorrere davanti agli occhi le carte d'un mazzo, vi dice che ne pensiate una, e lui poi ve la indovinerà; ma le ha fatte scorrere in maniera che ne vediate una sola. Quella dama era stata tanto intorno a Gertrude tutta la sera, l'aveva tanto occupata di sé, che a questa sarebbe bisognato uno sforzo di fantasia per pensarne un'altra. Tante premure poi non eran senza motivo: la dama aveva, da molto tempo, messo gli occhi addosso al principino, per farlo suo genero: quindi riguardava le cose di quella casa come sue proprie; ed era ben naturale che s'interessasse per quella cara Gertrude, niente meno de' suoi parenti più prossimi.
Il giorno dopo, Gertrude si svegliò col pensiero dell'esaminatore che doveva venire; e mentre stava ruminando se potesse cogliere quella occasione così decisiva, per tornare indietro, e in qual maniera, il principe la fece chiamare. - Orsù, figliuola, - le disse: - finora vi siete portata egregiamente: oggi si tratta di coronar l'opera. Tutto quel che s'è fatto finora, s'è fatto di vostro consenso. Se in questo tempo vi fosse nato qualche dubbio, qualche pentimentuccio, grilli di gioventù, avreste dovuto spiegarvi; ma al punto a cui sono ora le cose, non è più tempo di far ragazzate. Quell'uomo dabbene che deve venire stamattina, vi farà cento domande sulla vostra vocazione: e se vi fate monaca di vostra volontà, e il perché e il per come, e che so io? Se voi titubate nel rispondere, vi terrà sulla corda chi sa quanto. Sarebbe un'uggia, un tormento per voi; ma ne potrebbe anche venire un altro guaio più serio. Dopo tutte le dimostrazioni pubbliche che si son fatte, ogni più piccola esitazione che si vedesse in voi, metterebbe a repentaglio il mio onore, potrebbe far credere ch'io avessi presa una vostra leggerezza per una ferma risoluzione, che avessi precipitato la cosa, che avessi... che so io? In questo caso, mi troverei nella necessità di scegliere tra due partiti dolorosi: o lasciar che il mondo formi un tristo concetto della mia condotta: partito che non può stare assolutamente con ciò che devo a me stesso. O svelare il vero motivo della vostra risoluzione e... - Ma qui, vedendo che Gertrude era diventata scarlatta, che le si gonfiavan gli occhi, e il viso si contraeva, come le foglie d'un fiore, nell'afa che precede la burrasca, troncò quel discorso, e, con aria serena, riprese: - via, via, tutto dipende da voi, dal vostro buon giudizio. So che n'avete molto, e non siete ragazza da guastar sulla fine una cosa fatta bene; ma io doveva preveder tutti i casi. Non se ne parli più; e restiam d'accordo che voi risponderete con franchezza, in maniera di non far nascer dubbi nella testa di quell'uomo dabbene. Così anche voi ne sarete fuori più presto -. E qui, dopo aver suggerita qualche risposta all'interrogazioni più probabili, entrò nel solito discorso delle dolcezze e de' godimenti ch'eran preparati a Gertrude nel monastero; e la trattenne in quello, fin che venne un servitore ad annunziare il vicario. Il principe rinnovò in fretta gli avvertimenti più importanti, e lasciò la figlia sola con lui, com'era prescritto.
L'uomo dabbene veniva con un po' d'opinione già fatta che Gertrude avesse una gran vocazione al chiostro: perché così gli aveva detto il principe, quando era stato a invitarlo. È vero che il buon prete, il quale sapeva che la diffidenza era una delle virtù più necessarie nel suo ufizio, aveva per massima d'andar adagio nel credere a simili proteste, e di stare in guardia contro le preoccupazioni; ma ben di rado avviene che le parole affermative e sicure d'una persona autorevole, in qualsivoglia genere, non tingano del loro colore la mente di chi le ascolta.
Dopo i primi complimenti, - signorina, - le disse, - io vengo a far la parte del diavolo; vengo a mettere in dubbio ciò che, nella sua supplica lei ha dato per certo; vengo a metterle davanti agli occhi le difficoltà, e ad accertarmi se le ha ben considerate. Si contenti ch'io le faccia qualche interrogazione.
- Dica pure, - rispose Gertrude.
Il buon prete cominciò allora a interrogarla, nella forma prescritta dalle regole. - Sente lei in cuor suo una libera, spontanea risoluzione di farsi monaca? Non sono state adoperate minacce, o lusinghe? Non s'è fatto uso di nessuna autorità, per indurla a questo? Parli senza riguardi, e con sincerità, a un uomo il cui dovere è di conoscere la sua vera volontà, per impedire che non le venga usata violenza in nessun modo.
La vera risposta a una tale domanda s'affacciò subito alla mente di Gertrude, con un'evidenza terribile. Per dare quella risposta, bisognava venire a una spiegazione, dire di che era stata minacciata, raccontare una storia... L'infelice rifuggì spaventata da questa idea; cercò in fretta un'altra risposta; ne trovò una sola che potesse liberarla presto e sicuramente da quel supplizio, la più contraria al vero. - Mi fo monaca, - disse, nascondendo il suo turbamento, - mi fo monaca, di mio genio, liberamente.
- Da quanto tempo le è nato codesto pensiero? - domandò ancora il buon prete.
- L'ho sempre avuto, - rispose Gertrude, divenuta, dopo quel primo passo, più franca a mentire contro se stessa.
- Ma quale è il motivo principale che la induce a farsi monaca?
Il buon prete non sapeva che terribile tasto toccasse; e Gertrude si fece una gran forza per non lasciar trasparire sul viso l'effetto che quelle parole le producevano nell'animo. - Il motivo, - disse, - è di servire a Dio, e di fuggire i pericoli del mondo.
- Non sarebbe mai qualche disgusto? qualche... mi scusi... capriccio? Alle volte, una cagione momentanea può fare un'impressione che par che deva durar sempre; e quando poi la cagione cessa, e l'animo si muta, allora...
- No, no, - rispose precipitosamente Gertrude: - la cagione è quella che le ho detto.
Il vicario, più per adempire interamente il suo obbligo, che per la persuasione che ce ne fosse bisogno, insistette con le domande; ma Gertrude era determinata d'ingannarlo. Oltre il ribrezzo che le cagionava il pensiero di render consapevole della sua debolezza quel grave e dabben prete, che pareva così lontano dal sospettar tal cosa di lei; la poveretta pensava poi anche ch'egli poteva bene impedire che si facesse monaca; ma lì finiva la sua autorità sopra di lei, e la sua protezione. Partito che fosse, essa rimarrebbe sola col principe. E qualunque cosa avesse poi a patire in quella casa, il buon prete non n'avrebbe saputo nulla, o sapendolo, con tutta la sua buona intenzione, non avrebbe potuto far altro che aver compassione di lei, quella compassione tranquilla e misurata, che, in generale, s'accorda, come per cortesia, a chi abbia dato cagione o pretesto al male che gli fanno. L'esaminatore fu prima stanco d'interrogare, che la sventurata di mentire: e, sentendo quelle risposte sempre conformi, e non avendo alcun motivo di dubitare della loro schiettezza, mutò finalmente linguaggio; si rallegrò con lei, le chiese, in certo modo, scusa d'aver tardato tanto a far questo suo dovere; aggiunse ciò che credeva più atto a confermarla nel buon proposito; e si licenziò.
Attraversando le sale per uscire, s'abbatté nel principe, il quale pareva che passasse di là a caso; e con lui pure si congratulò delle buone disposizioni in cui aveva trovata la sua figliuola. Il principe era stato fino allora in una sospensione molto penosa: a quella notizia, respirò, e dimenticando la sua gravità consueta, andò quasi di corsa da Gertrude, la ricolmò di lodi, di carezze e di promesse, con un giubilo cordiale, con una tenerezza in gran parte sincera: così fatto è questo guazzabuglio del cuore umano.
Noi non seguiremo Gertrude in quel giro continuato di spettacoli e di divertimenti. E neppure descriveremo, in particolare e per ordine, i sentimenti dell'animo suo in tutto quel tempo: sarebbe una storia di dolori e di fluttuazioni , troppo monotona, e troppo somigliante alle cose già dette. L'amenità de' luoghi, la varietà degli oggetti , quello svago che pur trovava nello scorrere in qua e in là all'aria aperta, le rendevan più odiosa l'idea del luogo dove alla fine si smonterebbe per l'ultima volta, per sempre. Più pungenti ancora eran l'impressioni che riceveva nelle conversazioni e nelle feste. La vista delle spose alle quali si dava questo titolo nel senso più ovvio e più usitato , le cagionava un'invidia, un rodimento intollerabile; e talvolta l'aspetto di qualche altro personaggio le faceva parere che, nel sentirsi dare quel titolo, dovesse trovarsi il colmo d'ogni felicità. Talvolta la pompa de' palazzi, lo splendore degli addobbi , il brulichìo e il fracasso giulivo delle feste, le comunicavano un'ebbrezza, un ardor tale di viver lieto , che prometteva a se stessa di disdirsi , di soffrir tutto, piuttosto che tornare all'ombra fredda e morta del chiostro. Ma tutte quelle risoluzioni sfumavano alla considerazione più riposata delle difficoltà, al solo fissar gli occhi in viso al principe. Talvolta anche, il pensiero di dover abbandonare per sempre que' godimenti, gliene rendeva arnaro e penoso quel piccol saggio; come l'infermo assetato guarda con rabbia, e quasi rispinge con dispetto il cucchiaio d'acqua che il medico gli concede a fatica. Intanto il vicario delle monache ebbe rilasciata l'attestazione necessaria, e venne la licenza di tenere il capitolo per l'accettazione di Gertrude. Il capitolo si tenne; concorsero, com'era da aspettarsi, i due terzi de' voti segreti ch'eran richiesti da' regolamenti; e Gertrude fu accettata. Lei medesima, stanca di quel lungo strazio, chiese allora d'entrar più presto che fosse possibile, nel monastero. Non c'era sicuramente chi volesse frenare una tale impazienza. Fu dunque fatta la sua volontà; e, condotta pomposamente al monastero, vestì l'abito. Dopo dodici mesi di noviziato , pieni di pentimenti e di ripentimenti, si trovò al momento della professione , al momento cioè in cui conveniva , o dire un no più strano, più inaspettato, più scandaloso che mai, o ripetere un sì tante volte detto; lo ripeté, e fu monaca per sempre.
È una delle facoltà singolari e incomunicabili della religione cristiana, il poter indirizzare e consolare chiunque, in qualsivoglia congiuntura , a qualsivoglia termine , ricorra ad essa. Se al passato c'è rimedio, essa lo prescrive , lo somministra , dà lume e vigore per metterlo in opera, a qualunque costo; se non c'è, essa dà il modo di far realmente e in effetto , ciò che si dice in proverbio , di necessita virtù. Insegna a continuare con sapienza ciò ch'è stato intrapreso per leggerezza; piega l'animo ad abbracciar con propensione ciò che è stato imposto dalla prepotenza, e dà a una scelta che fu temeraria , ma che è irrevocabile, tutta la santità, tutta la saviezza , diciamolo pur francamente, tutte le gioie della vocazione . È una strada così fatta che, da qualunque laberinto , da qualunque precipizio, l'uomo capiti ad essa, e vi faccia un passo, può d'allora in poi camminare con sicurezza e di buona voglia, e arrivar lietamente a un lieto fine . Con questo mezzo, Gertrude avrebbe potuto essere una monaca santa e contenta, comunque lo fosse divenuta. Ma l'infelice si dibatteva in vece sotto il giogo , e così ne sentiva più forte il peso e le scosse. Un rammarico incessante della libertà perduta, l'abborrimento dello stato presente, un vagar faticoso dietro a desidèri che non sarebbero mai soddisfatti, tali erano le principali occupazioni dell'animo suo. Rimasticava quell'amaro passato, ricomponeva nella memoria tutte le circostanze per le quali si trovava lì; e disfaceva mille volte inutilmente col pensiero ciò che aveva fatto con l'opera; accusava sé di dappocaggine , altri di tirannia e di perfidia; e si rodeva. Idolatrava insieme e piangeva la sua bellezza, deplorava una gioventù destinata a struggersi in un lento martirio, e invidiava, in certi momenti, qualunque donna, in qualunque condizione, con qualunque coscienza, potesse liberamente godersi nel mondo que' doni.
La vista di quelle monache che avevan tenuto di mano a tirarla là dentro, le era odiosa. Si ricordava l'arti e i raggiri che avevan messi in opera , e le pagava con tante sgarbatezze, con tanti dispetti, e anche con aperti rinfacciamenti. A quelle conveniva le più volte mandar giù e tacere: perché il principe aveva ben voluto tiranneggiar la figlia quanto era necessario per ispingerla al chiostro; ma ottenuto l'intento, non avrebbe così facilmente sofferto che altri pretendesse d'aver ragione contro il suo sangue: e ogni po' di rumore che avesser fatto, poteva esser cagione di far loro perdere quella gran protezione, o cambiar per avventura il protettore in nemico. Pare che Gertrude avrebbe dovuto sentire una certa propensione per l'altre suore, che non avevano avuto parte in quegl'intrighi, e che, senza averla desiderata per compagna, l'amavano come tale; e pie , occupate e ilari , le mostravano col loro esempio come anche là dentro si potesse non solo vivere, ma starci bene. Ma queste pure le erano odiose, per un altro verso . La loro aria di pietà e di contentezza le riusciva come un rimprovero della sua inquietudine, e della sua condotta bisbetica; e non lasciava sfuggire occasione di deriderle dietro le spalle, come pinzochere , o di morderle come ipocrite. Forse sarebbe stata meno avversa ad esse, se avesse saputo o indovinato che le poche palle nere , trovate nel bossolo che decise della sua accettazione, c'erano appunto state messe da quelle.
sorgenti : che vi innalzate.
che: di quanto.
de’... familiari: delle persone a lui più note e care.
domestiche : di casa, familiari.
ville : villaggi.
pascenti : che pascolano.
tristo: triste, segnato dal dolore.
passo : per alcuni ‘passo’ in senso letterale, per altri ‘decisione, scelta’.
tratto : attirato.
si disabbelliscono: perdono tutta la loro attrattiva.
d’essersi... risolvere: di aver potuto decidere.
dovizioso : ricco.
piano : pianura.
ampiezza : vastità
gravosa e morta: pesante e soffocante.
tumultuose: caotiche.
desiderio : nostalgia.
quelli : i monti.
aveva... avvenire: aveva riposto tutte le sue speranze per il futuro in una vita in mezzo ai monti in cui è nato e cresciuto.
n’è sbalzato: ne è (dai monti) cacciato con la violenza.
perversa: crudele.
in traccia: alla ricerca.
natìa : dove si è nati.
occulto : tenuto nascosto.
d’un passo: dei passi di Renzo.
straniera. estranea (la casa di Renzo, ancora estranea per Lucia, che non vi è ancora entrata come sua moglie).
un rito: il matrimonio con Renzo.
sospiro : desiderio.
e l’amore... santo: e l’amore (tra Renzo e Lucia) avrebbe dovuto essere prescritto e santificato (dalla Chiesa, con il matrimonio religioso).
Chi : Dio (soggetto dei periodi conclusivi dei pensieri di Lucia).
giocondità : gioia.
per tutto: ovunque.
appunto : precisamente.
pellegrini : viaggiatori (ma con la sfumatura di ‘uomini che si allontanano dalla loro terra’)..
gli : li.
parlatorio: stanza del convento riservata alle visite.
non iscorggendo persona: non vedendo nessuno.
il padre : il padre guardiano del convento dei Cappuccini di Monza, l’amico di padre Cristoforo a cui Agnese e Lucia sono state affifate.
sbattuta : abbattuta.
sospeso e stirato: posto al di sopra della testa e teso (sulla benda nominata subito dopo).
discosto alquanto: separato di poco.
soggolo: nell’abito di una monaca, panno bianco che fascia la gola e arriva fino al petto.
scollo : scollatura.
saio: tonaca che costituisce l’abito monacale.
Si raggrinziva: si corrugava.
investigazione espressione indagatoria.
argomentato: dedotto.
corrispondenza: comprensione.
inveterato e compresso: risalente a tanto tempo fa e represso.
travaglio: tormento.
familiare: consueta, ossessiva.
gote: guance.
reso mancante: scavato.
estenuazione: debolezza.
quantunque... sbiadito: sebbene appena colorate di un colore rosa pallido.
moti: movimenti.
la... persona: la figura imponente e proporzionata del corpo.
portamento: modo di atteggiare il corpo e di camminare.
repentine: improvvise.
risolute: decise.
negletto: trascurato.
singolare: strana, diversa.
attillata: acconciata con eleganza.
secolaresca: mondana, estranea al modo di vestire di una religiosa.
cerimonia... vestimento: la cerimonia solenne della vestizione dell’abito monacale.
gentiluomo: nobile.
doviziosi :ricchi
sostanze: beni, patrimonio.
in perpetuo: per sempre.
al chiostro: al convento, alla condizione monacale.
cadetti: figli nati dopo il primogenito.
irrevocabilmente: senza appello.
faceva bisogno: era necessario.
d’alti natali: di famiglia nobile.
Gertude: Gertrude era un nome di alcune sante medievali.
santini: immagini sacre.
tenerli ben di conto: conservarli con cura.
madre badessa: la superiora di un monastero di monache (madre è il titolo con cui ci si rivolge a lei).
incidentemente: di passaggio.
trascorreva a: arrivava fino a.
imperioso: superbo.
indole: carattere, natura.
riprendendola di: rimproverandola per.
star sopra di te: dominarti.
il sangue: il sangue nobile, la nobiltà di sangue.
contegno: comportamento, modi di agire.
stato: condizione sociale.
un’ombrosa... comando: un’ambizione esclusiva di comandare, espressa in modo non chiaro ma sottintesa.
fatale: voluta dal destino.
disegno: scelta.
conduttore: il padre guardiano amico di padre Cristoforo.
accozzando... testimonianza: combinando questa testimonianza, una tra le tante.
feudatario: signore feudale
distinzioni: privilegi nel trattamento.
finezze: maniere squisite, cortesi.
allettarla: indurla, spingerla.
faccendiere: intriganti, maneggione.
il pegno... occorrenza: la possibilità di disporre di una persona così influente come Getrrude (grazie alla sua famiglia), che avrebbe potuto essere utilissima in ogni circostanza dove ce ne fosse stato bisogno.
gloriosa: illustre, che avrebbe dato fama al monastero.
per antonomasia la signorina: sostituendo al suo nome di battesimo quello di signorina.
proposta per: indicata come.
chicche: caramelle e dolciumi simili.
condite con: accompagnate da.
congiunte... laccio: d’accordo tra loro nel far cadere in trappola la poverina.
mire: obiettivi.
parte: alcune.
scandoli: scandali.
nudrita: educata.
soggetto: argomento.
punto: affatto.
All’immagini... monastero: alle immaginazioni legate al potere, ma legate anche a funzioni limitate, e che non danno alcuna gioia profonda, che faceva nascere l’idea di essere a capo di un monastero.
parenti: genitori.
naturale: innata.
ma quando... ad essa: ma quando la vanità fu stimolata da pensieri e immaginazioni molto più coerenti con una tale passione, cioè le idee legate al matrimonio e ai piaceri della vita di una nobildonna sposata.
ardore: intensità.
per condiscendere... genio: per rassicurarsi di poter realizzare quel suo nuovo desiderio (quello di sposarsi).
inosservata e rannicchiata: dimenticata e lasciata da parte.
ben altrimenti: su basi ben più solide, con ragioni molto più sicure.
isgarbatezze: sgarbi.
motti pungenti: battute cattive.
l’uniformità... passeggiera: l’identità di desideri e speranze (tra Gertrude e le sue compagne che sarebbero state mogli) attenuava quell’odio che lei provava per loro e generava una confidenza superficiale e di breve durata.
aveva... puerizia: era uscita dall’infanzia.
rinvigorisce tutte l’inclinazioni: ridà forza a tutti i desideri.
la pompa: il lusso, lo stile di vita sfarzoso di un aristocratico.
ritiro: luogo appartato.
oggetti presenti: i luoghi, le persone e le idee della vita reale che Gertrude stava vivendo in monastero.
una larva: un fantasma, un’immagine inconsistente.
compresa: assalita.
all’insinuazioni de’maggiori: ai suggerimenti dei parenti più vecchi di lei.
nella... stato: per quanto riguarda la scelta della sua condizione sociale.
fluttuazioni: oscillazioni da un sentimento all’altro.
oggetti: occupazioni.
si smonterebbe: sarebbe scesa.
usitato: usato; anche a Gertrude, in quanto novizia, veniva dato infatti il titolo di sposa.
cagionava: causava.
addobbi: decorazioni per le feste.
brulichìo: moltitudine di persone.
giulivo: gioioso.
un ardor... lieto: un tale desiderio intenso di una vita felice.
disdirsi: ritirare la sua promessa (di farsi monaca).
risoluzioni: decisioni immaginate.
riposata: tranquilla, fredda.
saggio: esempio (le feste e in genere la vita mondana in cui Gertrude è immersa per l’ultima volta prima di entrare per sempre in monastero).
rispinge: respinge.
il vicario delle monache: il sacerdote che per incarico del monastero ha esaminato Gertrude per verificare la sincerità e la libertà della sua scelta di farsi monaca.
tenere il capitolo: riunire le monache in consiglio.
noviziato: periodo di prova di una futura monaca (novizia), da trascorrere in convento.
professione: la cerimonia della dichiarazione, da parte di una monaca, della sua promessa e della sua accettazione dei voti monacali.
conveniva: era necessario.
facoltà... incomunicabili: capacità specifiche, uniche e originali
indirizzare: guidare sulla strada giusta.
congiuntura: circostanza.
a... termine: a qualsiasi estremo (sia giunto chi ricorre alla religione cristiana).
prescrive: ordina.
somministra: porge (questi due verbi sviluppano la metafora del rimedio, letteralmente ‘medicina’)
lume: intelligenza, chiarezza mentale.
in effetto: nei fatti.
ciò... proverbio: come dice il proverbio
sapienza: consapevolezza e saggezza.
intrapreso: cominciato
propensione: buona disposizione.
temeraria: avventata.
saviezza: saggezza.
vocazione: letteralmente ‘la chiamata’ di Dio all’uomo, la disposizione dell’anima a una scelta di vita religiosa.
così fatta: tale.
laberinto: labirinto.
fine: conclusione.
comunque: in qualsiasi modo.
il giogo: la necessità, le regole e gli impegni della vita monacale, che Gertrude sentiva come una costrizione intollerabile.
rammarico incessante: rimpianto ossessivo.
abborrimento: orrore.
stato: condizione.
sarebbero: sarebbero stati.
l’opera: l’azione.
dappocaggine: debolezza.
idolatrava: esaltava compiacendosene.
piangeva: compiangeva.
deplorava: si impietosiva su
que’: quei.
avevan tenuto di mano: erano state complici.
l’arti... in opera: le tecniche e gli inganni che avevano usati.
pagava: ripagava, puniva.
le più volte: nella maggior parte dei casi.
ben: certo, sì (rafforzativo).
sofferto: tollerato.
cagione: causa.
per avventura: eventualmente.
propensione: simpatia.
pie: sinceramente religiose.
ilari: liete, contente.
verso: causa.
pinzochere: bigotte.
morderle: aggredirle, accusarle.
avversa: ostile.
palle nere: voti contrari (all’ingresso di Gertrude in convento).
bossolo: piccolo contenitore (per raccogliere i voti)..
corteggiata: ricercata, adulata.
spuntar qualche impegno: averla vinta in qualche sfida, vincere qualche difficoltà.
spendere: impiegare facendone sfoggio, ostentandola..
d’istinto: istintiva.
Poco dopo la professione, Gertrude era stata fatta maestra dell'educande ; ora pensate come dovevano stare quelle giovinette, sotto una tal disciplina. Le sue antiche confidenti eran tutte uscite; ma lei serbava vive tutte le passioni di quel tempo; e, in un modo o in un altro, l'allieve dovevan portarne il peso. Quando le veniva in mente che molte di loro eran destinate a vivere in quel mondo dal quale essa era esclusa per sempre, provava contro quelle poverine un astio, un desiderio quasi di vendetta; e le teneva sotto, le bistrattava, faceva loro scontare anticipatamente i piaceri che avrebber goduti un giorno. Chi avesse sentito, in que' momenti, con che sdegno magistrale le gridava, per ogni piccola scappatella, l'avrebbe creduta una donna d'una spiritualità salvatica e indiscreta . In altri momenti, lo stesso orrore per il chiostro, per la regola, per l'ubbidienza, scoppiava in accessi d'umore tutto opposto. Allora, non solo sopportava la svagatezza clamorosa delle sue allieve, ma l'eccitava; si mischiava ne' loro giochi, e li rendeva più sregolati; entrava a parte de' loro discorsi, e li spingeva più in là dell'intenzioni con le quali esse gli avevano incominciati. Se qualcheduna diceva una parola sul cicalìo della madre badessa, la maestra lo imitava lungamente, e ne faceva una scena di commedia; contraffaceva il volto d'una monaca, l'andatura d'un'altra: rideva allora sgangheratamente; ma eran risa che non la lasciavano più allegra di prima. Così era vissuta alcuni anni, non avendo comodo, né occasione di far di più; quando la sua disgrazia volle che un'occasione si presentasse.
Tra l'altre distinzioni e privilegi che le erano stati concessi, per compensarla di non poter esser badessa, c'era anche quello di stare in un quartiere a parte. Quel lato del monastero era contiguo a una casa abitata da un giovine, scellerato di professione, uno de' tanti, che, in que' tempi, e co' loro sgherri , e con l'alleanze d'altri scellerati, potevano, fino a un certo segno, ridersi della forza pubblica e delle leggi. Il nostro manoscritto lo nomina Egidio, senza parlar del casato . Costui, da una sua finestrina che dominava un cortiletto di quel quartiere, avendo veduta Gertrude qualche volta passare o girandolar lì, per ozio, allettato anzi che atterrito dai pericoli e dall'empietà dell'impresa, un giorno osò rivolgerle il discorso. La sventurata rispose.
(Alessandro Manzoni, I promessi sposi, a cura di Angelo Stella e Cesare Repossi, Torino, Einaudi 1995, pp. 129-160, con tagli)
Leggiamo insieme. La storia di Gertrude: uno studio sul peccato
Un ritratto unico e una storia esemplare
La prima presentazione che il lettore riceve di Gertrude (dopo alcune vaghe parole sulla sua elevatissima condizione sociale e sulla posizione privilegiata che di conseguenza occupa, per quanto giovane, nel convento di Monza) è un ritratto al tempo stesso fisico e psicologico che fissa una personalità ‘diversa’, conturbante e complessa. Tale ritratto è, infatti, costruito principalmente sull’eccesso, sull’antitesi, sull’accostamento di caratteri opposti e sull’ambiguità: non solo i contrasti di colore (il bianco e il nero), ma anche i contrasti e le ambiguità di fondo fisiche e psicologiche (la bellezza è innegabile, ma è come minata da un male morale interiore, il corpo è maestoso, ma il volto è scavato; lo sguardo p a volte sfuggente a volte implorante, a volte sembra lanciare odio, a volte sembra chiedere pietà); infine, si noti, sul piano del linguaggio, la frequenza della congiunzione avversativa “ma” per collegare i vari elementi del ritratto. Dalla figura di Gertrude emerge così un fascino inquietante ma al fondo pauroso (è questa l’impressione che ne riceverà Lucia); la sua apparenza fisica e la sua fisionomia psicologica, così come viene tradotta dal suo corpo e dal suo modo di vestire, esprimono un animo e una vita tormentati da un fondo oscuro inconfessabile, un’antitesi paurosa tra il suo ruolo (una giovane monaca pronta ad usare la sua potente influenza per aiutare i deboli) e la sua vera natura, per qual che se ne indovina da questo suo ritratto. Questi tormenti e la devastazione psicologica e morale che essi nascondono, questi segreti inconfessabili, vengono rivelati analiticamente nella lunga biografia che occupa quasi due capitoli.
La biografia di Gertrude è la digressione retrospettiva (cioè al passato, o, come si direbbe in inglese, un flash-back) più ampia nei Promessi sposi, cioè la più ampia ricostruzione della vita di alcuni personaggi (padre Cristoforo, l’innominato, il cardinale Federigo Borromeo) prima del novembre 1628 da cui prende le mosse la trama (e nel Fermo e Lucia lo spazio dedicato alla sua vita era ancora più ampio). Un tale privilegio dimostra che questo personaggio, benché in fondo sia solo un comprimario nella vicenda, ha un’importanza superiore alla sua funzione nella trama, tant’è vero che quasi tutte le pagine dedicate a Gertrude sono occupate dalla sua biografia, dunque da avvenimenti precedenti al tempo narrativo principale. Si può cercare di spiegare una tale importanza in questo modo: la vicenda di Gertrude (non il suo intervento nella vita di Renzo e Lucia, ma la personalità e la vita di Gertrude in se stessa) è una storia allo stesso tempo eccezionale ed esemplare; eccezionale per l’intreccio di rango sociale aristocratico, di criminalità e di religione che la costituisce, esemplare perché questo caso aberrante (una monaca, illustre per condizione sociale e per l’importanza di cui gode nel suo monastero, che conduce un’esistenza criminale e peccaminosa) è allo stesso tempo per Manzoni una storia esemplare proprio per condurre un’indagine attenta, una ricostruzione storica, psicologica ed etica sul delitto e sul peccato, sul rapporto tra il male, la storia e il singolo individuo, tra la volontà altrui, il caso o il destino storico e la responsabilità individuale. Anche in questo caso (come per lo sfondo storico-sociale in cui si svolge la trama), l’origine di questo personaggio è storica (Marianna de Leyva poi monaca col nome di suor Virginia, processata e condannata nel 1609 per l’assassinio di una sua compagna di monastero e la sua relazione con un criminale di cui lei fu complice nel delitto), ma Manzoni ha alterato la cronologia perché non gli interessava affatto una riproduzione documentaria della vita di un personaggio realmente esistito, ma un fondamento storico per la ricostruzione di una vita individuale e di un caso esemplare. Tale ricostruzione, nei suoi scopi ultimi, non deve nulla di sostanziale alle sue fonti storiche, ma è un’espressione tra le più riuscite di un’indagine, tipicamente manzoniana, sui rapporti tra l’individuo, il suo contesto storico-sociale, e le sue scelte etiche; un’indagine che si articola su tre piani fondamentali, evidenti anche nei passi che abbiamo scelto: una requisitoria contro un costume socio-economico tipico dell’ancien régime (la monacazione forzata delle figlie cadette); una requisitoria contro la violenza psicologica e l’oppressione familiare che usano l’educazione dei figli come strumento di pregiudizio e di violenza sulla volontà dei figli stessi; una ricerca sul rapporto tra peccato e responsabilità personale fondata sulla libertà che, nonostante tutti i condizionamenti, ogni individuo possiede sempre quando si tratta di scegliere tra il bene e il male.
Il male nella società e nella famiglia: pregiudizi sociali ed educazione perversa
Nella prima parte della sua vita (l’infanzia e l’adolescenza, raccontate Gertrude è una vittima, e i suoi carnefici sono almeno due: il primo, collettivo e impersonale, è la società in cui è nata, precisamente il costume socio-economico che per impedire la dispersione degli ingenti patrimoni nobiliari riserva il matrimonio al primogenito e condanna tutti i figli cadetti allo stato ecclesiastico; il secondo, ben più vicino a Gertrude, è la sua famiglia cioè suo padre in quanto incarnazione dell’autorità della famiglia stessa. Il padre, in particolare, costituisce il meccanismo di trasmissione del pregiudizio sociale sul terreno dell’educazione familiare, un’educazione che è fin dall’inizio una violenza psicologica, una coazione, una lotta impari (una famiglia intera contro una bambina) contro una personalità e una volontà, quelle di Gertrude, che sono deboli perché in formazione, e quindi esposte senza rimedio ai condizionamenti di un’educazione perversa che ha un solo scopo, senza tenere alcun conto della personalità della bambina: inculcarle l’idea che il suo destino, la sua condizione ‘naturale’ è l’essere una monaca. Tale educazione oppressiva mostrerà il suo vero volto nell’adolescenza di Gertrude, quando la sua volontà, per quanto debole, comincia a fare resistenza in modo esplicito, e perciò viene schiacciata non più dal condizionamento subdolo ma dalla violenza psicologica esplicita, dalle minacce, dal ricatto. Insomma, l’educazione di Gertrude è un caso esemplare di una stortura sociale, collettiva (la conservazione del patrimonio in un unico erede), che si traduce in tante storie di perversione familiare e di infelicità individuale, come la storia di Gertrude. Dunque la società è responsabile, in questo caso, dell’infelicità che essa genera attraverso il suo costume socioeconomico e le sue conseguenze; la società, e la famiglia che si fa esecutrice dei suoi costumi, tortura le sue vittime innocenti: la Gertrude bambina e poi adolescente ha dalla sua parte tutta la simpatia e la pietà del narratore (e del lettore), che fin dall’inizio è chiarissimo sulle responsabilità indiretta della società e su quella diretta della famiglia cioè del padre, quando afferma che «aveva destinati al chiostro tutti i cadetti dell’uno e dell’altro sesso, per lasciare intatta la sostanza al primogenito, a procrear cioè de’ figliuoli, per tormentarsi a tormentarli nella stessa maniera», e quando subito dopo nomina per la prima volta la bambina (che non è ancora nata) chiamandola «la nostra infelice», per chiarire fin da subito la divisione dei ruoli tra i torturatori colpevoli e pienamente responsabili (la famiglia, l’ambiente sociale) e la vittima inconsapevole e innocente (Gertrude bambina e poi adolescente). La biografia dell’infanzia e dell’adolescenza di Gertrude è quindi anche l’espressione di una critica sociale, una requisitoria contro un costume particolarmente diffuso nella società aristocratica dell’ancien régime e che nel Settecento era un obiettivo polemico della critica sociale illuministica; il Manzoni che mette a nudo le origini sociali dell’infelicità individuale dimostra nel modo più chiaro possibile la componente illuministica della sua cultura, cioè l’analisi – e la critica, quando è necessario – dell’influenza della società sulla formazione, sul destino e sull’infelicità degli individui.
Il male, la religione cristiana, la libertà e la responsabilità individuale
Tuttavia la seconda parte della biografia di Gertrude (a partire arricchisce e modifica profondamente la parte precedente di questa ricostruzione storico-sociale. Potremmo dire (per semplificare) che se fino ad ora ha parlato il Manzoni illuminista, ora parla il Manzoni cristiano; se prima l’analisi era storico-sociologica, centrata sulle responsabilità degli altri e sull’innocenza di Gertrude vittima della società e della famiglia, ora è psicologica ed etica, e il suo àmbito è solo la psicologia di Gertrude ormai ragazza e monaca senza volerlo, per debolezza di volontà. Eppure, paradossalmente, Gertrude non è mai così libera quando si ritrova prigioniera di una condizione monacale che non ha scelto lei e di un monastero in cui non avrebbe voluto mai più tornare: non è mai stata così libera perché ora, secondo il punto di vista cristiano di Manzoni, ha la possibilità di trovare nella religione cristiana una fonte di consolazione e addirittura di santità. Per quanto questa tesi possa apparire discutibile a un lettore non cristiano, per Manzoni essa è innegabile: come dichiara esplicitamente, da una monacazione forzata e da una costrizione subita con rabbia e dolore può nascere una vocazione autentica se ci si abbandona a Dio e alle consolazioni della religione cristiana: «Gertrude avrebbe potuto essere una monaca santa e contenta, comunque lo fosse divenuta». Questa tesi per Manzoni è fondamentale per almeno due ragioni: non solo essa afferma la superiorità e l’unicità della religione cristiana e la possibilità che essa offre agli uomini di trovare la salvezza in qualsiasi circostanza, ma essa afferma la libertà individuale nella scelta etica, dove non esistono mai condizionamenti decisivi; in altre parole, Gertrude non è mai stata libera di scegliere il suo destino sociale, ma è sempre libera di scegliere il destino della sua anima, di compiere cioè la scelta essenziale nella vita di ogni uomo secondo la prospettiva religiosa.
Da queste due tesi deriva una conseguenza altrettanto decisiva per la vita di Gertrude e per la prospettiva da cui il narratore (e il lettore) la analizzano: se Gertrude è libera di trovare la consolazione, e forse anche la felicità, nell’accettazione del suo stato monacale per quanto forzato, allora è anche pienamente responsabile del bene e del male che da ora in poi farà. Dunque l’analisi per così dire illuministica del male, della criminalità e del delitto, cioè la ricerca delle cause sociali dell’infelicità e di conseguenza delle scelte criminali compiute dai singoli individui, è arricchita e integrata da un’analisi etica dai fondamenti religiosi, cioè cristiana, del rapporto individuale tra ogni persona e le proprie scelte etiche, un’analisi che, affermando la libertà e quindi la responsabilità individuale al di fuori di ogni condizionamento sociale, esclude ogni tesi deterministica (cioè ogni idea di condizionamento meccanico, inevitabile) sul nesso tra società e comportamento individuale. Dunque anche la storia infelice e tenebrosa di Gertrude non è una tragedia del fato (cioè, in questo caso, della condizione femminile o di un destino sociale), ma una tragedia tipicamente cristiana perché sempre fondata sull’idea di libertà e di responsabilità dell’individuo. E infatti il preludio alla vita criminale di Gertrude (gli ultimi due capoversi dei passi qui scelti) ribadisce questa prospettiva: Gertrude non ha accettato la possibilità di trovare una consolazione nella sua nuova vita religiosa, al contrario ha ingaggiato una lotta psicologica (tanto rabbiosa quanto impotente nei fatti) contro la sua condizione perpetua e forzata; quindi si espone alla rivolta, al peccato, al male, non appena interviene il caso, «quando la sua disgrazia volle che un’occasione si presentasse». Ma l’occasione non è mai decisiva. Quando il criminale senza scrupoli rivolge la parola a Gertrude, Manzoni concentra tutto il presagio e l’orrore della vita futura di lei (il delitto, il rimorso, la parte più ‘tenebrosa’ della sua biografia, che però, nel passaggio dal Fermo e Lucia ai Promessi sposi, riceve uno spazio assai minore di quella che precede) in una frase piena di allusioni rimasta giustamente celebre: «La sventurata rispose»; come a dire che nessuno viene catturato dal male, ma al male si va incontro, si risponde alla sua chiamata; e Gertrude, che non ha voluto accettare la possibilità di rispondere a una chiamata da Dio (letteralmente è questo il significato di vocazione religiosa), ha risposto a quella di un giovane criminale.
«La signora» fa alloggiare Agnese e Lucia (per la quale specialmente sente una particolare simpatia) presso il monastero a Monza. Intanto don Rodrigo, frustrato per la spedizione dei suoi bravi andata a vuoto, riesce a sapere dov’è nascosta Lucia. Lo stesso giorno dell’arrivo di Lucia a Monza, il mattino dell’11 novembre 1628, Renzo si avvia verso Milano, dove non riesce a parlare subito con il frate cappuccino a cui lo ha indirizzato padre Cristoforo, e allora segue incuriosito gli eventi straordinari di cui vede i segni evidenti: gente del popolo che gira per la città trascinando con sé e gettando pane e farina,, mentre Renzo sa che dovrebbe esserci la carestia. In effetti quel giorno di San Martino è per Milano un giorno di rivolta popolare e di assalto e di distruzione di alcuni forni, una rivolta che è la reazione della popolazione urbana affamata alla carestia di pane (è il secondo anno di cattiva raccolta) e a una politica economica errata da parte delle autorità cittadine. Renzo si ritrova coinvolto in un altro episodio dei tumulti, l’assalto della folla alla casa del vicario di provvisione (il magistrato responsabile dei rifornimenti alimentari), ma vi si comporta con saggezza, schierandosi con la minoranza che cerca di impedirne il linciaggio. A sera, quando la folla comincia a dividersi e quando è ormai troppo tardi per andare al convento dei cappuccini, Renzo invece si comporta in modo ben più ingenuo: si improvvisa oratore popolare e, improvvisando un discorso in cui mescola allusioni al suo caso e idee nate dalla giornata a cui ha assistito, arringa un gruppetto sulla necessità di fare giustizia, di aiutare l’autorità onesta e di punire i prepotenti che agiscono a sua insaputa (Renzo pensa a don Rodrigo senza farne il nome); col risultato di attirare l’attenzione di un bargello (un ufficiale di polizia) dissimulato in mezzo alla folla, il quale si presenta a Renzo, gli si offre come guida e lo porta a cenare a un osteria scelta da lui, con l’intenzione di farlo arrestare il giorno dopo. |
Renzo a Milano
La folla rimasta indietro cominciò a sbandarsi, a diramarsi a destra e a sinistra, per questa e per quella strada. Chi andava a casa, a accudire anche alle sue faccende; chi s'allontanava, per respirare un po' al largo, dopo tante ore di stretta; chi, in cerca d'amici, per ciarlare de' gran fatti della giornata. Lo stesso sgombero s'andava facendo dall'altro sbocco della strada, nella quale la gente restò abbastanza rada perché quel drappello di spagnoli potesse, senza trovar resistenza, avanzarsi, e postarsi alla casa del vicario. Accosto a quella stava ancor condensato il fondaccio, per dir così, del tumulto; un branco di birboni, che malcontenti d'una fine così fredda e così imperfetta d'un così grand'apparato, parte brontolavano, parte bestemmiavano, parte tenevan consiglio, per veder se qualche cosa si potesse ancora intraprendere; e, come per provare, andavano urtacchiando e pigiando quella povera porta, ch'era stata di nuovo appuntellata alla meglio. All'arrivar del drappello, tutti coloro, chi diritto diritto, chi baloccandosi, e come a stento, se n'andarono dalla parte opposta, lasciando il campo libero a' soldati, che lo presero, e vi si postarono, a guardia della casa e della strada. Ma tutte le strade del contorno erano seminate di crocchi: dove c'eran due o tre persone ferme, se ne fermavano tre, quattro, venti altre: qui qualcheduno si staccava; là tutto un crocchio si moveva insieme: era come quella nuvolaglia che talvolta rimane sparsa, e gira per l'azzurro del cielo, dopo una burrasca; e fa dire a chi guarda in su: questo tempo non è rimesso bene. Pensate poi che babilonia di discorsi. Chi raccontava con enfasi i casi particolari che aveva visti; chi raccontava ciò che lui stesso aveva fatto; chi si rallegrava che la cosa fosse finita bene, e lodava Ferrer, e pronosticava guai seri per il vicario; chi, sghignazzando, diceva: - non abbiate paura, che non l'ammazzeranno: il lupo non mangia la carne del lupo -; chi più stizzosamente mormorava che non s'eran fatte le cose a dovere, ch'era un inganno, e ch'era stata una pazzia il far tanto chiasso, per lasciarsi poi canzonare in quella maniera.
Intanto il sole era andato sotto, le cose diventavan tutte d'un colore; e molti, stanchi della giornata e annoiati di ciarlare al buio, tornavano verso casa. Il nostro giovine, dopo avere aiutato il passaggio della carrozza, finché c'era stato bisogno d'aiuto, e esser passato anche lui dietro a quella, tra le file de' soldati, come in trionfo, si rallegrò quando la vide correr liberamente, e fuor di pericolo; fece un po' di strada con la folla, e n'uscì, alla prima cantonata, per respirare anche lui un po' liberamente. Fatto ch'ebbe pochi passi al largo, in mezzo all'agitazione di tanti sentimenti, di tante immagini, recenti e confuse, sentì un gran bisogno di mangiare e di riposarsi; e cominciò a guardare in su, da una parte e dall'altra, cercando un'insegna d'osteria; giacché, per andare al convento de' cappuccini, era troppo tardi. Camminando così con la testa per aria, si trovò a ridosso a un crocchio; e fermatosi, sentì che vi discorrevan di congetture, di disegni, per il giorno dopo. Stato un momento a sentire, non poté tenersi di non dire anche lui la sua; parendogli che potesse senza presunzione proporre qualche cosa chi aveva fatto tanto. E persuaso, per tutto ciò che aveva visto in quel giorno, che ormal, per mandare a effetto una cosa, bastasse farla entrare in grazia a quelli che giravano per le strade, - signori miei! - gridò, in tono d'esordio: - devo dire anch'io il mio debol parere? Il mio debol parere è questo: che non è solamente nell'affare del pane che si fanno delle bricconerie: e giacché oggi s'è visto chiaro che, a farsi sentire, s'ottiene quel che è giusto; bisogna andar avanti così, fin che non si sia messo rimedio a tutte quelle altre scelleratezze, e che il mondo vada un po' più da cristiani. Non è vero, signori miei, che c'è una mano di tiranni, che fanno proprio al rovescio de' dieci comandamenti, e vanno a cercar la gente quieta, che non pensa a loro, per farle ogni male, e poi hanno sempre ragione? anzi quando n'hanno fatta una più grossa del solito, camminano con la testa più alta, che par che gli s'abbia a rifare il resto? Già anche in Milano ce ne dev'essere la sua parte.
- Pur troppo, - disse una voce.
- Lo dicevo io, - riprese Renzo: - già le storie si raccontano anche da noi. E poi la cosa parla da sé. Mettiamo, per esempio, che qualcheduno di costoro che voglio dir io stia un po' in campagna, un po' in Milano: se è un diavolo là, non vorrà esser un angiolo qui; mi pare. Dunque mi dicano un poco, signori miei, se hanno mai visto uno di questi col muso all'inferriata. E quel che è peggio (e questo lo posso dir io di sicuro), è che le gride ci sono, stampate, per gastigarli: e non già gride senza costrutto; fatte benissimo, che noi non potremmo trovar niente di meglio; ci son nominate le bricconerie chiare, proprio come succedono; e a ciascheduna, il suo buon gastigo. E dice: sia chi si sia, vili e plebei, e che so io. Ora, andate a dire ai dottori, scribi e farisei, che vi facciano far giustizia, secondo che canta la grida: vi dànno retta come il papa ai furfanti: cose da far girare il cervello a qualunque galantuomo. Si vede dunque chiaramente che il re, e quelli che comandano, vorrebbero che i birboni fossero gastigati; ma non se ne fa nulla, perché c'è una lega. Dunque bisogna romperla; bisogna andar domattina da Ferrer, che quello è un galantuomo, un signore alla mano; e oggi s'è potuto vedere com'era contento di trovarsi con la povera gente, e come cercava di sentir le ragioni che gli venivan dette, e rispondeva con buona grazia. Bisogna andar da Ferrer, e dirgli come stanno le cose; e io, per la parte mia, gliene posso raccontar delle belle; che ho visto io, co' miei occhi, una grida con tanto d'arme in cima, ed era stata fatta da tre di quelli che possono, che d'ognuno c'era sotto il suo nome bell'e stampato, e uno di questi nomi era Ferrer, visto da me, co' miei occhi: ora, questa grida diceva proprio le cose giuste per me; e un dottore al quale io gli dissi che dunque mi facesse render giustizia, com'era l'intenzione di que' tre signori, tra i quali c'era anche Ferrer, questo signor dottore, che m'aveva fatto veder la grida lui medesimo, che è il più bello, ah! ah! pareva che gli dicessi delle pazzie. Son sicuro che, quando quel caro vecchione sentirà queste belle cose; che lui non le può saper tutte, specialmente quelle di fuori; non vorrà più che il mondo vada così, e ci metterà un buon rimedio. E poi, anche loro, se fanno le gride, devono aver piacere che s'ubbidisca: che è anche un disprezzo, un pitaffio col loro nome, contarlo per nulla. E se i prepotenti non vogliono abbassar la testa, e fanno il pazzo, siam qui noi per aiutarlo, come s'è fatto oggi. Non dico che deva andar lui in giro, in carrozza, ad acchiappar tutti i birboni, prepotenti e tiranni: sì; ci vorrebbe l'arca di Noè. Bisogna che lui comandi a chi tocca, e non solamente in Milano, ma per tutto, che faccian le cose conforme dicon le gride; e formare un buon processo addosso a tutti quelli che hanno commesso di quelle bricconerie; e dove dice prigione, prigione; dove dice galera, galera; e dire ai podestà che faccian davvero; se no, mandarli a spasso, e metterne de' meglio: e poi, come dico, ci saremo anche noi a dare una mano. E ordinare a' dottori che stiano a sentire i poveri e parlino in difesa della ragione. Dico bene, signori miei?
Renzo aveva parlato tanto di cuore, che, fin dall'esordio, una gran parte de' radunati, sospeso ogni altro discorso, s'eran rivoltati a lui; e, a un certo punto, tutti erano divenuti suoi uditori. Un grido confuso d'applausi, di - bravo: sicuro: ha ragione: è vero pur troppo, - fu come la risposta dell'udienza. Non mancaron però i critici. - Eh sì, - diceva uno: - dar retta a' montanari: son tutti avvocati -; e se ne andava. - Ora, - mormorava un altro, - ogni scalzacane vorrà dir la sua; e a furia di metter carne a fuoco, non s'avrà il pane a buon mercato; che è quello per cui ci siam mossi -. Renzo però non sentì che i complimenti; chi gli prendeva una mano, chi gli prendeva l'altra. - A rivederci a domani. - Dove? - Sulla piazza del duomo. - Va bene. - Va bene. - E qualcosa si farà. - E qualcosa si farà.
- Chi è di questi bravi signori che voglia insegnarmi un'osteria, per mangiare un boccone, e dormire da povero figliuolo? - disse Renzo.
- Son qui io a servirvi, quel bravo giovine, - disse uno, che aveva ascoltata attentamente la predica, e non aveva detto ancor nulla. - Conosco appunto un'osteria che farà al caso vostro; e vi raccomanderò al padrone, che è mio amico, e galantuomo.
- Qui vicino? - domandò Renzo. - Poco distante, - rispose colui.
La radunata si sciolse; e Renzo, dopo molte strette di mani sconosciute, s'avviò con lo sconosciuto, ringraziandolo della sua cortesia.
- Di che cosa? - diceva colui: - una mano lava l'altra, e tutt'e due lavano il viso. Non siamo obbligati a far servizio al prossimo? - E camminando, faceva a Renzo, in aria di discorso, ora una, ora un'altra domanda. - Non per sapere i fatti vostri; ma voi mi parete molto stracco: da che paese venite?
- Vengo, - rispose Renzo, - fino, fino da Lecco.
- Fin da Lecco? Di Lecco siete?
- Di Lecco... cioè del territorio.
- Povero giovine! per quanto ho potuto intendere da' vostri discorsi, ve n'hanno fatte delle grosse.
- Eh! caro il mio galantuomo! ho dovuto parlare con un po' di politica, per non dire in pubblico i fatti miei; ma... basta, qualche giorno si saprà; e allora... Ma qui vedo un'insegna d'osteria; e, in fede mia, non ho voglia d'andar più lontano.
- No, no! venite dov'ho detto io, che c'è poco, - disse la guida: - qui non istareste bene.
- Eh, sì; - rispose il giovine: - non sono un signorino avvezzo a star nel cotone: qualcosa alla buona da mettere in castello, e un saccone, mi basta: quel che mi preme è di trovar presto l'uno e l'altro. Alla provvidenza! - Ed entrò in un usciaccio, sopra il quale pendeva l'insegna della luna piena. - Bene; vi condurrò qui, giacché vi piace così, - disse lo sconosciuto; e gli andò dietro.
- Non occorre che v'incomodiate di più, - rispose Renzo. - Però, - soggiunse, - se venite a bere un bicchiere con me, mi fate piacere.
- Accetterò le vostre grazie, - rispose colui; e andò, come più pratico del luogo, innanzi a Renzo, per un cortiletto; s'accostò all'uscio che metteva in cucina, alzò il saliscendi, aprì, e v'entrò col suo compagno. Due lumi a mano, pendenti da due pertiche attaccate alla trave del palco, vi spandevano una mezza luce. Molta gente era seduta, non però in ozio, su due panche, di qua e di là d'una tavola stretta e lunga, che teneva quasi tutta una parte della stanza: a intervalli, tovaglie e piatti; a intervalli, carte voltate e rivoltate, dadi buttati e raccolti; fiaschi e bicchieri per tutto. Si vedevano anche correre berlinghe, reali e parpagliole, che, se avessero potuto parlare, avrebbero detto probabilmente: "noi eravamo stamattina nella ciotola d'un fornaio, o nelle tasche di qualche spettatore del tumulto, che tutt'intento a vedere come andassero gli affari pubblici, si dimenticava di vigilar le sue faccendole private". Il chiasso era grande. Un garzone girava innanzi e indietro, in fretta e in furia, al servizio di quella tavola insieme e tavoliere: l'oste era a sedere sur una piccola panca, sotto la cappa del cammino, occupato, in apparenza, in certe figure che faceva e disfaceva nella cenere, con le molle; ma in realtà intento a tutto ciò che accadeva intorno a lui. S'alzò, al rumore del saliscendi; e andò incontro ai soprarrivati. Vista ch'ebbe la guida, "maledetto!" disse tra sé: "che tu m'abbia a venir sempre tra' piedi, quando meno ti vorrei!" Data poi un'occhiata in fretta a Renzo, disse, ancora tra sé: "non ti conosco; ma venendo con un tal cacciatore, o cane o lepre sarai: quando avrai detto due parole, ti conoscerò". Però, di queste riflessioni nulla trasparve sulla faccia dell'oste, la quale stava immobile come un ritratto: una faccia pienotta e lucente, con una barbetta folta, rossiccia, e due occhietti chiari e fissi.
- Cosa comandan questi signori? - disse ad alta voce.
- Prima di tutto, un buon fiasco di vino sincero, - disse Renzo: - e poi un boccone -. Così dicendo, si buttò a sedere sur una panca, verso la cima della tavola, e mandò un - ah! - sonoro, come se volesse dire: fa bene un po' di panca, dopo essere stato, tanto tempo, ritto e in faccende. Ma gli venne subito in mente quella panca e quella tavola, a cui era stato seduto l'ultima volta, con Lucia e con Agnese: e mise un sospiro. Scosse poi la testa, come per iscacciar quel pensiero: e vide venir l'oste col vino. Il compagno s'era messo a sedere in faccia a Renzo. Questo gli mescé subito da bere, dicendo: per bagnar le labbra -. E riempito l'altro bicchiere, lo tracannò in un sorso.
- Cosa mi darete da mangiare? - disse poi all'oste.
- Ho dello stufato: vi piace? - disse questo.
- Sì, bravo; dello stufato.
- Sarete servito, - disse l'oste a Renzo; e al garzone: - servite questo forestiero -. E s'avviò verso il cammino. - Ma... - riprese poi, tornando verso Renzo: - ma pane, non ce n'ho in questa giornata.
- Al pane, - disse Renzo, ad alta voce e ridendo, - ci ha pensato la provvidenza -. E tirato fuori il terzo e ultimo di que' pani raccolti sotto la croce di san Dionigi, l'alzò per aria, gridando: - ecco il pane della provvidenza!
All'esclamazione, molti si voltarono; e vedendo quel trofeo in aria, uno gridò: - viva il pane a buon mercato!
- A buon mercato? - disse Renzo: - gratis et amore.
- Meglio, meglio.
- Ma, - soggiunse subito Renzo, - non vorrei che lor signori pensassero a male. Non è ch'io l'abbia, come si suol dire, sgraffignato. L'ho trovato in terra; e se potessi trovare anche il padrone, son pronto a pagarglielo.
- Bravo! bravo! - gridarono, sghignazzando più forte, i compagnoni; a nessuno de' quali passò per la mente che quelle parole fossero dette davvero.
- Credono ch'io canzoni; ma l'è proprio così, - disse Renzo alla sua guida; e, girando in mano quel pane, soggiunse: - vedete come l'hanno accomodato; pare una schiacciata: ma ce n'era del prossimo! Se ci si trovavan di quelli che han l'ossa un po' tenere, saranno stati freschi -. E subito, divorati tre o quattro bocconi di quel pane, gli mandò dietro un secondo bicchier di vino; e soggiunse: - da sé non vuol andar giù questo pane. Non ho avuto mai la gola tanto secca. S'è fatto un gran gridare!
- Preparate un buon letto a questo bravo giovine, - disse la guida: - perché ha intenzione di dormir qui.
- Volete dormir qui? - domandò l'oste a Renzo, avvicinandosi alla tavola.
- Sicuro, - rispose Renzo: - un letto alla buona; basta che i lenzoli sian di bucato; perché son povero figliuolo, ma avvezzo alla pulizia.
- Oh, in quanto a questo! - disse l'oste: andò al banco, ch'era in un angolo della cucina; e ritornò, con un calamaio e un pezzetto di carta bianca in una mano, e una penna nell'altra.
- Cosa vuol dir questo? - esclamò Renzo, ingoiando un boccone dello stufato che il garzone gli aveva messo davanti, e sorridendo poi con maraviglia, soggiunse: - è il lenzolo di bucato, codesto?
L'oste, senza rispondere, posò sulla tavola il calamaio e la carta; poi appoggiò sulla tavola medesima il braccio sinistro e il gomito destro; e, con la penna in aria, e il viso alzato verso Renzo, gli disse: - fatemi il piacere di dirmi il vostro nome, cognome e patria.
- Cosa? - disse Renzo: - cosa c'entrano codeste storie col letto?
- Io fo il mio dovere, - disse l'oste, guardando in viso alla guida: - noi siamo obbligati a render conto di tutte le persone che vengono a alloggiar da noi: nome e cognome, e di che nazione sarà, a che negozio viene, se ha seco armi... quanto tempo ha di fermarsi in questa città... Son parole della grida.
Prima di rispondere, Renzo votò un altro bicchiere: era il terzo; e d'ora in poi ho paura che non li potremo più contare. Poi disse: - ah ah! avete la grida! E io fo conto d'esser dottor di legge; e allora so subito che caso si fa delle gride.
- Dico davvero, - disse l'oste, sempre guardando il muto compagno di Renzo; e, andato di nuovo al banco, ne levò dalla cassetta un gran foglio, un proprio esemplare della grida; e venne a spiegarlo davanti agli occhi di Renzo.
- Ah! ecco! - esclamò questo, alzando con una mano il bicchiere riempito di nuovo, e rivotandolo subito, e stendendo poi l'altra mano, con un dito teso, verso la grida: - ecco quel bel foglio di messale. Me ne rallegro moltissimo. La conosco quell'arme; so cosa vuol dire quella faccia d'ariano, con la corda al collo -. (In cima alle gride si metteva allora l'arme del governatore; e in quella di don Gonzalo Fernandez de Cordova, spiccava un re moro incatenato per la gola). - Vuol dire, quella faccia: comanda chi può, e ubbidisce chi vuole. Quando questa faccia avrà fatto andare in galera il signor don... basta, lo so io; come dice in un altro foglio di messale compagno a questo; quando avrà fatto in maniera che un giovine onesto possa sposare una giovine onesta che è contenta di sposarlo, allora le dirò il mio nome a questa faccia; le darò anche un bacio per di più. Posso aver delle buone ragioni per non dirlo, il mio nome. Oh bella! E se un furfantone, che avesse al suo comando una mano d'altri furfanti: perché se fosse solo... - e qui finì la frase con un gesto: - se un furfantone volesse saper dov'io sono, per farmi qualche brutto tiro, domando io se questa faccia si moverebbe per aiutarmi. Devo dire i fatti miei! Anche questa è nuova. Son venuto a Milano per confessarmi, supponiamo; ma voglio confessarmi da un padre cappuccino, per modo di dire, e non da un oste.
L'oste stava zitto, e seguitava a guardar la guida, la quale non faceva dimostrazione di sorte veruna. Renzo, ci dispiace il dirlo, tracannò un altro bicchiere, e proseguì: - ti porterò una ragione, il mio caro oste, che ti capaciterà. Se le gride che parlan bene, in favore de' buoni cristiani, non contano; tanto meno devon contare quelle che parlan male. Dunque leva tutti quest'imbrogli, e porta in vece un altro fiasco; perché questo è fesso -. Così dicendo, lo percosse leggermente con le nocca, e soggiunse: - senti, senti, oste, come crocchia.
Anche questa volta, Renzo aveva, a poco a poco, attirata l'attenzione di quelli che gli stavan d'intorno: e anche questa volta, fu applaudito dal suo uditorio.
- Cosa devo fare? - disse l'oste, guardando quello sconosciuto, che non era tale per lui.
- Via, via, - gridaron molti di que' compagnoni: - ha ragione quel giovine: son tutte angherie, trappole, impicci: legge nuova Oggi, legge nuova. In mezzo a queste grida, lo sconosciuto, dando all'oste un'occhiata di rimprovero, per quell'interrogazione troppo scoperta, disse: - lasciatelo un po' fare a suo modo: non fate scene.
- Ho fatto il mio dovere, - disse l'oste, forte; e poi tra se: "ora ho le spalle al muro". E prese la carta, la penna, il calamaio, la grida, e il fiasco voto, per consegnarlo al garzone.
- Porta del medesimo, - disse Renzo: - che lo trovo galantuomo; e lo metteremo a letto come l'altro, senza domandargli nome e cognome, e di che nazione sarà, e cosa viene a fare, e se ha a stare un pezzo in questa città.
- Del medesimo, - disse l'oste al garzon