Letteratura antologia 900

Letteratura antologia 900

 

 

 

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Letteratura antologia 900

Cesare Pavese

Nasce a Santo Stefano Belbo (Cuneo) nel 1908 da una famiglia originaria di quei luoghi, le Langhe, tanto cari allo stesso scrittore. Studia a Torino, dove si laurea con una tesi su Walt Whitman, divenendo un esperto di letteratura angloamericana. Nella città piemontese comincia a frequentare gli ambienti della casa editrice Einaudi, intorno alla quale si erano radunati molti antifascisti. In quel periodo comincia anche l'attività di traduttore di scrittori inglesi e americani classici e contemporanei, tra i quali Daniel Defoe, Charles Dickens, Herman Melville, Sherwood Anderson, Gertrude Stein, John Steinbeck e Ernest Hemingway.
Nel 1935 viene condannato al confino a Brancaleone Calabro; qui inizia a scrivere una specie di diario, che sarà pubblicato postumo, nel 1952, con il titolo "Il mestiere di vivere". Torna a Torino l'anno seguente e durante la guerra si nasconde in casa della sorella Maria, sulle colline del Monferrato. Anche da questa esperienza nasce uno dei suoi libri migliori, "La casa in collina" (1948).
Nell'ambito della poesia esordisce nel 1936 con "Lavorare stanca". Dopo questa pubblicazione, seguono altre produzioni in prosa, come il romanzo "Paesi tuoi "(1941) e i racconti lunghi e politicamente impegnati come "Il carcere" (1938-39), "La casa in collina" e "La spiaggia" (1941), seguiti dai racconti di "Feria d'agosto" (1946), il romanzo "Il compagno" (1947) e "La bella estate" (1949). Nel 1947 escono "I Dialoghi con Leucò", ma la consacrazione definitiva avviene con "La luna e i falò" nel 1950. Nell'Agosto del 1950, in un albergo di Torino, Pavese si toglie la vita oppresso da una grave forma di depressione che lo aveva accompagnato in quasi tutta la sua esistenza, cedendo a quello che aveva chiamato il "vizio assurdo". Dopo la sua morte viene pubblicata un'altra raccolta poetica, "Verrà la morte e avrà i tuoi occhi" (1951).
Da "Lavorare stanca": Lavorare stanca
Traversare una strada per scappare di casa
lo fa solo un ragazzo, ma quest’uomo che gira
tutto il giorno le strade, non è più un ragazzo
e non scappa di casa.
Ci sono d’estate
pomeriggi che fino le piazze son vuote, distese
sotto il sole che sta per calare, e quest’uomo, che giunge
per un viale d’inutili piante, si ferma.
Val la pena esser solo, per essere sempre più solo?
Solamente girarle, le piazze e le strade
sono vuote. Bisogna fermare una donna
e parlarle e deciderla a vivere insieme.
Altrimenti, uno parla da solo. È per questo che a volte
c’è lo sbronzo notturno che attacca discorsi
e racconta i progetti di tutta la vita.
Non è certo attendendo nella piazza deserta
che s’incontra qualcuno, ma chi gira le strade
si sofferma ogni tanto. Se fossero in due,
anche andando per strada, la casa sarebbe
dove c’è quella donna e varrebbe la pena.
Nella notte la piazza ritorna deserta
e quest’uomo, che passa, non vede le case
tra le inutili luci, non leva più gli occhi:
sente solo il selciato, che han fatto altri uomini
dalle mani indurite, come sono le sue.
Non è giusto restare sulla piazza deserta.
Ci sarà certamente quella donna per strada
che, pregata, vorrebbe dar mano alla casa.

”Così questo paese,
dove non sono nato,
ho creduto per molto tempo
che fosse tutto il mondo.
Adesso che il mondo l’ho visto davvero
e so che è fatto di tanti piccoli paesi,
non so se da ragazzo
mi sbagliavo poi di molto”

"Un paese ci vuole,
non fosse che per il gusto di andarsene via.
Un paese vuol dire non essere soli,
sapere che nella gente,
nelle piante,
nella terra
c'è qualcosa di tuo,
che anche quando non ci sei
resta ad aspettarti". (prosa da “La luna e i falò” . (capitolo I, p. 9).

Esterno
"Quel ragazzo scomparso al mattino non torna.
Ha lasciato la pala ancor fredda, all'uncino - era l'alba -
nessuno ha voluto seguirlo: si è buttato su certe colline.
Un ragazzo dell'età che comincia a staccare bestemmie
non sa fare discorsi. Nessuno
ha voluto seguirlo. Era un'alba bruciata di febbraio, ogni
tronco colore del sangue aggrumato. Nessuno sentiva
nell'aria
il tepore più duro.
Il mattino è trascorso
e la fabbrica libera ogni operaio.
Nel bel sole qualcuno - il lavoro riprende
fra mezz'ora - si stende a mangiare affamato. Ma c'è un
umido dolce che morde nel sangue e alla terra dà brividi
verdi. Si fuma
e si vede che il cielo è sereno e lontano le colline son
viola. Varrebbe la pena
di restarsene lunghi per terra nel sole.
Ma buon conto si mangia. Chissà se ha mangiato quel
ragazzo testardo? Dice un secco operaio,
che, va bene, la schiena si rompe al lavoro,
ma mangiare si mangia. Si fuma persino.
L'uomo è come una bestia, che vorrebbe far niente. Son le bestie
che sentono il tempo, e il ragazzo l'ha sentito all'alba. E ci sono
dei cani
che finiscono marci in un fosso. La terra prende tutto. Chi sa
se il ragazzo finisce dentro un fosso affamato? E' scappato
nell'alba senza fare discorsi, con quattro bestemmie, alto il
naso nell'aria.
Ci pensano tutti
aspettando il lavoro, come un gregge svogliato.".

Un ragazzo dunque, un giovane operaio di una fabbrica da cui fugge in una fredda mattina di febbraio. Fugge perché nell'aria ha sentito qualcosa che nessun altro poteva sentire ed è corso a sdraiarsi sulle colline. Aveva sentito l'arrivo della primavera. "Nessuno voleva seguirlo.". Gli ultimi versi di questa poesia, fan capire che i compagni della fabbrica, nonostante le parole dure, sentono che quel ragazzo ha fatto qualcosa che non sarà facilmente accantonabile; ora avvertono dentro una pena nuova, un sentimento inquieto che non conoscevano. Anche in questa poesia, come nella precedente, Pavese tiene ben evidenziato il titolo della raccolta originale, appunto Lavorare stanca, in quanto nella prima poesia, I mari del sud, vi è un sordo lamento, quasi una eco lontana che narra la tristezza e la depressione nel vedere il sole sorgere all'alba quando il lavoro è già iniziato da tempo e, nella seconda poesia, Esterno, con tono pesante, ma finemente sarcastico, facendo notare che il lavoro in fabbrica rompe sì la schiena, ma permette di mangiare e "addirittura" di fumare. Due tipi di stanchezza dunque: una di tipo fisico, accentuata maggiormente; l'altra una fatica mentale, l'arrugginirsi dei sentimenti verso la natura ed una rassegnazione alla propria condizione attuale, di stampo quasi leopardiano: "... e il naufragar m'è dolce in questo mar.".

 

 

Montale
Forse un mattino
-Eugenio Montale

Forse un mattino andando in un'aria di vetro,
arida, rivolgendomi, vedrò compirsi il miracolo:
il nulla alle mie spalle, il vuoto dietro
di me, con un terrore da ubriaco.

Poi, come s'uno schermo, s'accamperanno di gitto
alberi, case, colli per l'inganno consueto.
Ma sarà troppo tardi; ed io me n'andrò zitto
tra gli uomini che non si voltano, col mio segreto.
Felicità raggiunta
-Eugenio Montale

Felicità raggiunta, si cammina
per te sul fil di lama.
Agli occhi sei barlume che vacilla
al piede, teso ghiaccio che s'incrina;
e dunque non ti tocchi chi più t'ama.

Se giungi sulle anime invase
di tristezza e le schiari, il tuo mattino
è dolce e turbatore come i nidi delle cimase.
Ma nulla paga il pianto di un bambino
a cui fugge il pallone tra le case.
Portami il girasole

Portami il girasole ch'io lo trapianti
Portami il girasole ch'io lo trapianti
nel mio terreno bruciato dal salino,
e mostri tutto il giorno agli azzurri specchianti
del cielo l'ansietà del suo volto giallino.
Tendono alla chiarità le cose oscure,
si esauriscono i corpi in un fluire
di tinte: queste in musiche. Svanire
é dunque la ventura delle venture.
Portami tu la pianta che conduce
dove sorgono bionde trasparenze
e vapora la vita quale essenza;
portami il girasole impazzito di luce.

Ti libero la fronte dai ghiaccioli
Ti libero la fronte dai ghiaccioli
che raccogliesti traversando l'alte
nebulose; hai le penne lacerate
dai cicloni, ti desti a soprassalti.
Mezzodì: allunga nel riquadro il nespolo
l'ombra nera, s'ostina in cielo un sole
freddoloso; e l'altre ombre che scantonano
nel vicolo non sanno che sei qui.
Il componimento è caratterizzato da un'apertura giambico-anapestica che deve esprime l'ampio movimento di una creatura che vola. I ghiaccioli costituiscono come una specie di corona (tra l'altro, "ghiaccio", in Inglese, si dice "ice", che richiama il vero nome di Clizia, Iris Brandais). L'unico elemento fisico è costituito dalla fronte (v. 1), alla maniera stilnovistica. Le "nebulose" sono le bufere (ci avviciniamo alla raccolta successiva, La Bufera e altro). E' mezzogiorno, eppure c'è un'ombra nera: "l'altre ombre che scantonano nel vicolo" sono gli uomini che non conoscono e non capiscono il messaggio di Clizia.
PIOVE

Tratto da Eugenio Montale, Tutte le poesie, Milano,
Arnoldo Mondadori Editore, 1996, pp. 345-34
Piove. È uno stillicidio
senza tonfi
di motorette o strilli
di bambini.
Piove
da un ciclo che non ha
nuvole.
Piove
sul nulla che si fa
in queste ore di sciopero
generale.
Piove
sulla tua tomba
a San Felice
a Ema
e la terra non trema
perché non c'è terremoto
né guerra.
Piove
non sulla favola bella
di lontane stagioni,
ma sulla cartella
esattoriale,
piove sugli ossi di seppia,
e sulla greppia nazionale.
Piove
sulla Gazzetta Ufficiale
qui dal balcone aperto,
piove sul Parlamento,
piove su via Solferino,
piove senza che il vento
smuova le carte.
Piove
in assenza di Ermione
se Dio vuole,
piove perché l'assenza
è universale
e se la terra non trema
è perché Arcetri a lei
non l'ha ordinato.
Piove sui nuovi epistèmi
del primate a due piedi,
sull'uomo indiato, sul cielo,
ottimizzato, sul ceffo
dei teologi in tuta
o paludati,
piove sul progresso
della contestazione,
piove sui works in regress,
piove
sui cipressi malati
del cimitero, sgocciola
sulla pubblica opinione.
Piove, ma dove appari
non è acqua né atmosfera,
piove perché se non sei
è solo la mancanza
e può affogare.
La Storia
-Eugenio Montale

La storia non si snoda
come una catena
di anelli ininterrotta.
In ogni caso
molti anelli non tengono.
La storia non contiene
il prima e il dopo,
nulla che in lei borbotti
a lento fuoco.
La storia non è prodotta
da chi la pensa e neppure
da chi l'ignora. La storia
non si fa strada, si ostina,
detesta il poco a poco, non procede
né recede, si sposta di binario
e la sua direzione
non è nell'orario.
La storia non giustifica
e non deplora,
la storia non è intrinseca
perché è fuori.
La storia non somministra carezze o colpi di frusta.
La storia non è magistra
di niente che ci riguardi. Accorgersene non serve
a farla più vera e più giusta.
La storia non è poi
la devastante ruspa che si dice.
Lascia sottopassaggi, cripte, buche
e nascondigli. C'è chi sopravvive.
La storia è anche benevola: distrugge
quanto più può: se esagerasse, certo
sarebbe meglio, ma la storia è a corto
di notizie, non compie tutte le sue vendette.
La storia gratta il fondo
come una rete a strascico
con qualche strappo e più di un pesce sfugge.
Qualche volta s'incontra l'ectoplasma
d'uno scampato e non sembra particolarmente felice.
Ignora di essere fuori, nessuno glie n'ha parlato.
Gli altri, nel sacco, si credono
più liberi di lui.

Satura
Ho sceso, dandoti il braccio, almeno milioni di scale
-Eugenio Montale

Ho sceso, dandoti il braccio, almeno milioni di scale
e ora che non ci sei è il vuoto ad ogni gradino.
Anche così è stato breve il nostro viaggio.
Il mio dura tuttora, né più mi occorrono
le coincidenze, le prenotazioni,
le trappole, gli scorni di chi crede
che la realtà sia quella che si vede.
Ho sceso milioni di scale dandoti il braccio
non già perché con quattr'occhi forse si vede di più.
Con te le ho scese perché sapevo che di noi due
le sole vere pupille, sebbene tanto offuscate,
erano le tue.

Analisi del testo
La poesia appartiene alla sezione "Xenia" della raccolta "Satura", edita nel 1971 ma comprendente poesie scritte nell’arco di tempo che va dal 1956 a tutti gli anni sessanta, occasionate nella gran parte dal ricordo della moglie Drusilla Tanzi, cui sono dedicati appunto gli "Xenia", letteralmente doni fatti agli ospiti che partono. Montale compie, con questa raccolta, un passaggio che lo porta a superare, ma non a rinnegare, l’esperienza precedente, per assumere un tono colloquiale, prosastico, apparentemente più dimesso e con una larga disponibilità verso l’ironia pungente, la parodia, talvolta la polemica. Una disponibilità comunicativa tout court che non disdegna di prendere parte, con un notevole scarto rispetto all’atteggiamento tenuto da Montale verso la "storia" e il mondo esterno, anche a temi contemporanei, facendo riferimenti talora velati talaltra espliciti, a fatti di attualità, dispute, personaggi del mondo intellettuale o politico.
Il titolo stesso della raccolta, che rinvia ad un genere dal forte valore metastorico, è indicativo in tal senso: e qui andranno messi in evidenza, come elementi che accomunano la ricerca montaliana alla tradizione, il carattere autobiografico e la varietà dei temi trattati, l’attitudine soggettiva con cui sono trattati, la maggiore libertà delle soluzioni formali e metriche adottate, soluzioni che pure continano ad operare, quasi a riaffermare, a dispetto dell’impressione superficiale che si può trarre dalla lettura, la riaffermazione della poesia sulla prosa, una poesia i cui artifici, ridotti all’essenziale, sono "celati", come nella poesia "Ho sceso, dandoti il braccio".
In una struttura metrica sostanzialmente libera, formata per la gran parte da versi lunghi, tipici di uno stile discorsivo, e con due sole rime (quella dei vv. 6-7 "crede / vede" e quella dei vv. 10-12 "due / tue"), poste tuttavia entrambe in fine di strofa, la poesia, divisibile in due parti segnate dalla ripresa, con leggera modifica, dello stesso incipit ("Ho sceso..."), si caratterizza prima di tutto per la forte valenza della sua tessitura lessicale, incentrata in particolare sui campi semantici relativi al "viaggio" e al "vedere".
Il viaggio, o per estensione, il cammino si snoda attraverso tre diversi passaggi. Si tratta di un viaggio che il poeta immagina di avere compiuto, con il sostegno della moglie ("dandoti il braccio") attraverso "un milione di scale", metafora della vita. Un viaggio che, con efficace contrasto ossimorico, è stato breve nonostante i tanti gradini: "è stato breve / il nostro lungo viaggio". Questi primi quattro versi celano un parallelismo presenza/assenza, giocato su un rimando dall’asserzione iniziale, metaforica, dove al "dandoti il braccio" segue il "vuoto ad ogni gradino", all’asserzione esplicita dei vv. 3-4: "il nostro... viaggio / il mio dura tuttora". Questo paralellismo ne contiene un altro tra un prima e un dopo che trova la sua esplicitazione nel doppio passaggio dal passato prossimo al presente ("Ho sceso... / ... è", "è stato... / ...dura"). Al viaggio che il poeta compie nel presente non occorrono più coincidenze o prenotazioni. Qui si allude ad un tratto significativo del rapporto con la moglie scomparsa, che trova riscontro in molti degli "Xenia", dove Drusilla Tanzi è affettuosamente ritratta come una donna premurosa, dotata di senso pratico e capace di quel sereno rapporto con il mondo esterno (e gli Xenia sono, in questo senso, una galleria di personaggi che la moglie avrebbe accolto in virtù di questa sua maggiore disponibilità: Celia la filippina, il signor Capp, le telefoniste del Saint James), che permetteva a Montale di non sentirsi spaesato di fronte a quelle che subito dopo chiama "le trappole, gli scorni di chi crede / che la realtà sia quella che si vede", con un significativo passaggio dal concreto all’astratto, da un tono discorsivo ad uno più riflessivo, passaggio sottolineato anche dalla struttura dei versi: dalla dilatazione del v. 5, formato da due sole parole lunghe, si salta alla concentrazione dei vv. 6-7, dove il ritmo è dato dalla presenza di parole più brevi, anche monosillabiche e dalla rima perfetta "crede / vede".
Il tema del vedere, anch’esso presente negli "Xenia", in particolare nel componimento dove Montale immagina un incontro "metafisico" mancato con la moglie, che non può vederlo perché non ha occhiali, che ha un ironico contrappunto qui nel "sebben tanto offuscate" del v. 11, è strettamente connesso a quello del viaggio: il "braccio" altro non è che quella "vista" che permette al poeta di scendere le scale, come esemplificato nella seconda parte della poesia.
Qui domina un accumulo lessicale relativo ai campi semantici del vedere e dello scendere: l’atto di vedere è successivamente espresso con "occhi", "vede", "pupille... offuscate"; l’atto di scendere ("Ho sceso... / le ho scese") ricorre ai vv. 8 e 10. A livello sintattico, l’andamento ipotattico, che contempla due proposizioni causali di cui una negativa ("non già perché...") e una concessiva, ha un esito prosaico che contrasta con la linearità della prima parte, basata sulla giustapposizione di elementi e sulla coordinazione. Tale esito è però contraddetto dal senario finale, "erano le tue", che cade come una sentenza spezzando il ritmo dei versi precedenti.
"Ho sceso, dandoti il braccio", non diversamente dagli altri componimenti che fanno parte della raccolta "Satura", è una poesia malinconica e leggera al tempo stesso. Il suo tono dimesso non cade mai nella retorica, così come il tono ironico di certi passaggi non scade mai nel frivolo, non diventa mai parodia. Il personaggio di "mosca", il caro piccolo insetto della prima poesia degli "Xenia", è una presenza calda e affettuosa, ma non ha nulla di ideale né di trascendente, eppure non perde nulla della sua forza lirica nell’accostamento a oggetti e situazioni di tipo quotidiano. L’ironia di Montale agisce, a ben vedere, in profondità, con uno scarto appena accennato dal discorso che ne ribalta, inaspettatamente, l’apparente assertività: è così per la chiusura della prima strofa dove improvvisamente i piccoli gesti quotidiani della donna, quelli che riempiono di senso la discesa di un milione di scale diventano trappole, scorni, sono ricondotti a una mentalità che ritiene la realtà di tali gesti l’unica possibile. Lo stesso si può dire di due punti della seconda strofa: il "forse" del v. 9, che limita l’enunciato "con quattr’occhi... si vede di più" è a sua volta inserito in una frase che sembra essa stessa una preterizione, un negare per affermare; il "sebbene tanto offuscate" limita la sentenziosità dell’ultima asserzione.
(Eugenio Montale, Satura; Xenia II )

Dopo lunghe ricerche

Scritta nel 1967, questa poesia appartiene agli «Xenia» (il titolo è quello di un gruppo di epigrammi di Marziale; «xenia» erano piccoli doni fatti agli ospiti). I versi sono dedicati alla memoria della moglie Drusilla detta Mosca, morta nel 1963. La situazione qui rievocata è un felice ricordo di un soggiorno in Portogallo, ove Montale si era recato con la moglie per essere insignito di un'onorificenza, raccontato in toni scherzosi e con nostalgia appena malinconica, che accentua il registro neocrepuscolare tipico dell'intera sezione.

Dopo lunghe ricerche
ti trovai in un bar dell'Avenida
da Liberdade; non sapevi un acca
di portoghese o meglio una parola
sola; Madeira. E venne il bicchierino
con un contorno di aragostine.

La sera fui paragonato ai massimi
lusitani dai nomi impronunciabili
e al Carducci in aggiunta.
Per nulla impressionata io ti vedevo piangere
dal ridere nascosta in una folla
forse annoiata ma compunta

(Eugenio Montale, Satura; Xenia II )

 

NEOAVANGUARDIA
Sull’esempio di Pasolini, dopo il 1960, proliferarono le neo-avanguardie impegnate in un vivace quanto confuso sperimentalismo tendente a ricercare nuove forme di poesia capace di interpretare la spiritualità dell'età post-industriale e dei computer. Dei numerosi movimenti di neo-avanguardia, che son giunti fino ai giorni nostri formulando varie proposte (poesia visiva, poesia visuale, poesia concreta, poesia spaziale, poesia cinetica, scrittura simbiotica, ecc.), merita un cenno il “Gruppo '63”, che rimase unito fino al 1970. Gli esponenti di questo Gruppo tentarono di mettere in evidenza la “non-comunicabilità”, il “non-senso” delle parole nell'ambito di una società massificata dal potere capitalistico, e per tale motivo si impegnarono coscientemente in un'opera di dissolvimento del linguaggio poetico tradizionale, nell’attesa di una rifondazione etico-ideologica della società capace di promuovere l’avvento di un nuovo e più autentico linguaggio.
Tra i poeti del “Gruppo '63” ricordiamo Nanni Balestrini, Alfredo Giuliani, Angelo Guglielmi, Elio Pagliarani, Antonio Porta e - certamente il più interessante e giustamente il più noto - Edoardo Sanguineti, del quale citiamo una lirica che facciamo seguire da un breve commento di Mario Pazzaglia:
SANGUINETI
PURGATORIO DE L'INFERNO, 10
questo è il gatto con gli stivali, questa è la pace di Barcellona
fra Carlo V e Clemente VII, è la locomotiva, è il pesco
fiorito, è il cavalluccio marino: ma se volti pagina, Alessandro,
ci vedi il denaro:
questi sono i satelliti di Giove, questa è l'autostrada
del Sole, è la lavagna quadrettata, è il primo volume dei Poetae
Latini Aevi Carolini, sono le scarpe, sono le bugie, è la scuola di Atene, è il burro,
è una cartolina che mi è arrivata oggi dalla Finlandia, è il muscolo massetere,
è il parto: ma se volti foglio, Alessandro, ci vedi
il denaro:
e questo è il denaro,
e questi sono i generali con le loro mitragliatrici, e sono i cimiteri
con le loro tombe, e sono le casse di risparmio con le loro cassette
di sicurezza, e sono i libri di storia con le loro storie:
ma se volti il foglio, Alessandro, non ci vedi niente.
«Lo scopo di questa lirica è didascalico; il poeta si improvvisa maestro del figlio Alessandro, gli insegna i nomi delle cose. Ma queste cose giacciono nel caos quotidiano d’un tavolo, dal libro di storia al burro, resto della colazione, così come si affollano caoticamente in un mondo alienato, e i loro nomi sono labili, provvisori, tranne quello comune a tutti che è “il denaro”. Le opere dell'uomo, il suo lavoro, la sua civiltà, la sua filosofia, il pensiero, l’azione fanno parte del mondo mercificato dal capitalismo. Ma a questo punto il magistero si rovescia in demistificazione. Ecco il denaro, i generali che per esso fanno la guerra, le banche, il trionfo pieno, cioè, del capitalismo, le strutture, attraverso le quali domina il mondo. Ebbene, dietro il loro significato apparente, c’è in realtà il nulla, il non-umano».

piangi piangi, che ti compero una lunga spada blu di plastica, un frigorifero
Bosch in miniatura, un salvadanaio di terra cotta, un quaderno
Con tredici righe, un'azione della Montecatini:
piangi piangi, che ti compero
una piccola maschera antigas, un flacone di sciroppo ricostituente,
un robot, un catechismo con illustrazioni a colori, una carta geografica
con bandierine vittoriose:
piangi piangi, che ti compero un grosso capidoglio
di gomma piuma, un albero di Natale, un pirata con una gamba
di legno, un coltello a serramanico, una bella scheggia di una bella
bomba a mano:
piangi piangi, che ti compero tanti francobolli
dell'Algeria francese, tanti succhi di frutta, tante teste di legno,
tante teste di moro, tante teste di morto:
oh ridi ridi, che ti compero
un fratellino che così tu lo chiami per nome: che così tu lo chiami
Michele:

da Purgatorio de l'inferno

GIORGIO CAPRONI
L’uscita mattutina
Come scendeva fina
e giovane le scale Annina!
Mordendosi la catenina
d’oro, usciva via
lasciando nel buio una scia
di cipria, che non finiva.

L’ora era di mattina
presto, ancora albina.
Ma come s’illuminava
la strada dove lei passava!

Tutto Cors’Amedeo,
sentendola, si destava.
Ne conosceva il neo
sul labbro, e sottile
la nuca e l’andatura
ilare - la cintura
stretta, che acre e gentile
(Annina si voltava)
all’opera stimolava.

Andava in alba e in trina
pari a un’operaia regina.
Andava col volto franco
(ma cauto, e vergine, il fianco)
e tutta di lei risuonava
al suo tacchettio la contrada.
(Giorgio Caproni)

Preghiera
Anima mia leggera,
va’ a Livorno, ti prego.
E con la tua candela
timida, di nottetempo
fa’ un giro; e, se n’hai il tempo,
perlustra e scruta, e scrivi
se per caso Anna Picchi
è ancora viva tra i vivi.
Proprio quest’oggi torno,
deluso, da Livorno.
Ma tu, tanto più netta
di me, la camicetta
ricorderai, e il rubino
di sangue, sul serpentino
d’oro che lei portava
sul petto, dove s’appannava.

Anima mia, sii brava
e va’ in cerca di lei.
Tu sai cosa darei
se la incontrassi per strada.
(Giorgio Caproni)
Per lei
Per lei voglio rime chiare,
usuali, in –are.
Rime magari vietate,
ma aperte: ventilate.
Rime con suoni fini
(di mare) dei suoi orecchini.
O che abbiano, coralline,
le tinte delle sue collanine.
Rime che a distanza
(Annina era così schietta)
conservino l’eleganza
povera, ma altrettanto netta.
Rime che non siano labili,
anche se orecchiabili.
Rime non crepuscolari,
ma verdi, elementari.
(Giorgio Caproni)
La madre
GIUSEPPE UNGARETTI, La madre
La lirica, datata 1930, appartiene alla raccolta "Sentimento del tempo". Essa segna un ritorno del poeta alla tradizione, attraverso il recupero della versificazione tradizionale, di una sintassi più complessa e della punteggiatura.
E il cuore quando d’un ultimo battito
Avrà fatto cadere il muro d’ombra,
Per condurmi, Madre, sino al Signore,
Come una volta mi darai la mano.
In ginocchio, decisa,
Sarai una statua di fronte all’Eterno,
Come già ti vedeva
Quando eri ancora in vita.
Alzerai tremante le vecchie braccia,
Come quando spirasti
Dicendo: Mio Dio, eccomi.
E solo quando m’avrà perdonato,
Ti verrà desiderio di guardarmi.
Ricorderai d’avermi atteso tanto,
E avrai negli occhi un rapido sospiro.
Modigliani, Maternità (1919)
Nel componimento, composto di due quartine, una terzina e due distici, il poeta affronta il tema della propria morte, esprimendo il desiderio che la propria madre, defunta, supplichi Dio per la salvezza del figlio. L’uso dell’indicativo nei versi di Ungaretti ci rende nota la certezza che l’autore ha della compassione della propria genitrice. Ella sarà incrollabile nella propria fede davanti al Signore, mentre implora il perdono per i peccati del figlio; alzerà tremante le vecchie braccia, ripetendo il gesto di abbandono alla volontà divina già compiuto in punto di morte. Nelle ultime due strofe(distici), si descrive la riconciliazione della madre con il figlio, perdonato e quindi avente portato a termine il processo di catarsi dal peccato: solo a quel punto la madre lo accoglierà, felice di aver portato la propria creatura vicina alla gloria di Dio.
P.P.PASOLINI
Supplica a mia madre
E' difficile dire con parole di figlio
ciò a cui nel cuore ben poco assomiglio.

Tu sei la sola al mondo che sa, del mio cuore,
ciò che è stato sempre, prima d'ogni altro amore.

Per questo devo dirti ciò ch'è orrendo conoscere:
è dentro la tua grazia che nasce la mia angoscia.

Sei insostituibile. Per questo è dannata
alla solitudine la vita che mi hai data.

E non voglio esser solo. Ho un'infinita fame
d'amore, dell'amore di corpi senza anima.

Perché l'anima è in te, sei tu, ma tu
sei mia madre e il tuo amore è la mia schiavitù:

ho passato l'infanzia schiavo di questo senso
alto, irrimediabile, di un impegno immenso.

Era l'unico modo per sentire la vita,
l'unica tinta, l'unica forma: ora è finita.

Sopravviviamo: ed è la confusione
di una vita rinata fuori dalla ragione.

Ti supplico, ah, ti supplico: non voler morire.
Sono qui, solo, con te, in un futuro aprile…
(Pier Paolo Pasolini)

 

Salvatore Quasimodo
Lettera alla madre
<<Mater dulcissima, ora scendono le nebbie,
il Naviglio urta confusamente sulle dighe,
gli alberi si gonfiano d’acqua, bruciano di neve;
non sono triste nel Nord: non sono
in pace con me, ma non aspetto
perdono da nessuno, molti mi devono lacrime
da uomo a uomo. So che non stai bene, che vivi,
come tutte le madri dei poeti, povera
e giusta nella misura d’amore
per i figli lontani. Oggi sono io
che ti scrivo.>> - Finalmente, dirai, due parole
di quel ragazzo che fuggì di notte con un mantello corto
e alcuni versi in tasca. Povero, così pronto di cuore,
lo uccideranno un giorno in qualche luogo. -
<<Certo, ricordo, fu da quel grigio scalo
di treni lenti che portavano mandorle e arance,
alla foce dell’Imera, il fiume pieno di gazze,
di sale, d’eucalyptus. Ma ora ti ringrazio,
questo voglio, dell’ironia che hai messo
sul mio labbro, mite come la tua.
Quel sorriso m’ha salvato da pianti e da dolori.
E non importa se ora ho qualche lacrima per te,
per tutti quelli che come te aspettano,
e non sanno che cosa. Ah, gentile morte,
non toccare l’orologio in cucina che batte sopra il muro,
tutta la mia infanzia è passata sullo smalto
del suo quadrante, su quei fiori dipinti:
non toccare le mani, il cuore dei vecchi.
Ma forse qualcuno risponde? O morte di pietà,
morte di pudore. Addio, cara, addio, mia dulcissima mater.>>
(Salvatore Quasimodo)

[…]
Io tento una vita:
ognuno si scalza e vacilla
in ricerca.
(Salvatore Quasimodo (1901-1968)
Ed è subito sera

Ognuno sta solo sul cuor della terra
trafitto da un raggio di sole:
ed è subito sera.
La lirica originariamente costituiva la strofa finale di un testo più ampio dal titolo "Solitudini", poi ridotto a questi tre versi, risultato della ricerca ermetica del poeta. La lirica è una riflessione fulminea sulla condizione esistenziale dell'uomo. La solitudine, la pena del vivere, la brevità dell'esistenza sono i temi espressi in tre versi incisivi, secondo un modello di essenzialità e di ambiguità semantica, tipici della corrente ermetica. I nuclei tematici sono: solitudine, pena del vivere, morte.
Solitudine = nel primo verso acquista un particolare rilievo il sintagma "nel cuor della terra", che contrappone alla grandezza della terra la limitatezza e lo smarrimento di uomo che, pur vivendo al centro delle cose, si sente tragicamente solo, incapace di comunicare con i suoi simili.
Pena del vivere = nel secondo verso l'immagine del cuore di ogni individuo "trafitto da un raggio di sole" evoca analogicamente la dimensione della vita umana oscillante tra l'attesa della felicità (il raggio di sole) e il sentimento del dolore (trafitto): il raggio di sole non illumina l'uomo ma lo trafigge, poiché la speranza di appagamento lascia presto il posto alla delusione.
Morte = la brevità del terzo verso, rispetto ai due precedenti, accentua la drammaticità della conclusione: le illusioni crollano in fretta al sopraggiungere della sera, metafora della morte.
Il tempo e lo spazio = allo spazio cosmico, rappresentato dal sole e dalla terra, corrisponde la contrazione del tempo, ridotto a quel subito, a un attimo che spegne la vita dell'uomo.
Lo stile = la forma metrica è di versi liberi di varia misura, un dodecasillabo, un novenario, un settenario. Le due frasi coordinate presentano un lessico semplice e ridotto all'essenziale, ma ricchissimo di allusioni. Il senso complessivo si ricava da alcune parole chiave, che alludono alle caratteristiche della vita: solo (solitudine), raggio di sole (speranza di felicità), subito sera (precarietà della vita). I tre versi sono legati dalla consonanza solo-sole, l'assonanza terra-sera e dall'allitterazione, che accentua l'intensità ritmica (sta, solo, sul, sole, subito, sera).

Uomo del mio tempo

Sei ancora quello della pietra e della fionda,
uomo del mio tempo. Eri nella carlinga,
con le ali maligne, le meridiane di morte,
-t'ho visto- dentro il carro di fuoco, alle forche,
alle ruote di tortura. T'ho visto: eri tu,
con la tua scienza esatta persuasa allo sterminio,
senza amore, senza Cristo. Hai ucciso ancora,
come sempre, come uccisero i padri, come uccisero,
gli animali che ti videro per la prima volta.
E questo sangue odora come nel giorno
quando il fratello disse all'altro fratello:
"Andiamo ai campi". E quell'eco fredda, tenace,
è giunta fino a te, dentro la tua giornata.
Dimenticate, o figli, le nuvole di sangue
salite dalla terra, dimenticate i padri:
le loro tombe affondano nella cenere,
gli uccelli neri, il vento, coprono il loro cuore.

Specchio
di S. Quasimodo
Ed ecco sul tronco
si rompono gemme:
un verde più nuovo dell'erba
che il cuore riposa:
il tronco pareva già morto,
piegato sul botro.
E tutto mi sa di miracolo;
e sono quell'acqua di nube
che oggi rispecchia nei fossi
più azzurro il suo pezzo di cielo,
quel verde che spacca la scorza
che pure stanotte non c'era.
Gabbiani
di V. Cardarelli
Non so dove i gabbiani abbiano il nido,
ove trovino pace.
Io son come loro
in perpetuo volo.
La vita la sfioro
com'essi l'acqua ad acciuffare il cibo.
E come forse anch'essi amo la quiete,
la gran quiete marina,
ma il mio destino è vivere
balenando in burrasca.
Se questo è un uomo
di Primo Levi
«Voi che vivete sicuri
Nelle vostre tiepide case,
Voi che trovate tornando a sera
Il cibo caldo e visi amici:
Considerate se questo è un uomo
Che lavora nel fango
Che non conosce pace
Che lotta per mezzo pane
Che muore per un sì o per un no.
Considerate se questa è una donna,
Senza capelli e senza nome
Senza più forza di ricordare
Vuoti gli occhi e freddo il grembo
Come una rana d'inverno.
Meditate che questo è stato:
Vi comando queste parole.
Scolpitele nel vostro cuore
Stando in casa andando per via,
Coricandovi, alzandovi;
Ripetetele ai vostri figli.
O vi si sfaccia la casa,
La malattia vi impedisca,
I vostri nati torcano il viso da voi».

Per Cristina Bugio - tesina

Messaggio di tenerezza
(anonimo)
Ho sognato
che camminavo in riva al mare
con il Signore
e rivedevo sullo schermo del cielo
tutti i giorni della mia vita passata.
E per ogni giorno trascorso,
apparivano sulla sabbia due orme:
le mie e quelle del Signore.
Ma in alcuni tratti ho visto una sola orma,
proprio nei giorni più difficili della mia vita.
Allora ho detto: "Signore,
io ho scelto di vivere con te
e tu mi avevi promesso
che saresti stato sempre con me.
Perché mi hai lasciato solo
proprio nei momenti più difficili?"
E Lui mi ha risposto:
"Figlio, tu lo sai che io ti amo
e non ti ho abbandonato mai:
i giorni nei quali
c'è soltanto un'orma sulla sabbia
sono proprio quelli
in cui ti ho portato in braccio".

Dicono?
Dimenticano.
Non dicono?
Hanno detto.

Fanno?
E' fatale.
Non fanno?
E' uguale.

Perché
aspettare?
- Tutto è
sognare.
(Fernando Pessoa)

 

Io vivere vorrei addormentato
Io vivere vorrei addormentato
entro il dolce rumore della vita.
(Sandro Penna)

Stefano Benni
Stefano Benni è nato a Bologna nel 1947.
Tra le altre opere, ha pubblicato, nel 1983 il romanzo Terra!, poi i racconti Il bar sotto il mare, i romanzi Baol, La compagnia dei Celestini; nel 1994 la raccolta di racconti L'Ultima lacrima e nel 1996 Elianto.
Stefano Benni, Fratello Bancomat
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- Inoltre il suo conto è in rosso.-
- Mi scusi infinitamente. Ma sa, per me è un periodaccio-
- E allora perché ha inserito la tessera?-
- Mah... sa, nella disperazione... contavo magari in un suo sbaglio-
- Noi non sbagliamo mai, signor Piero.
E' a causa di sua moglie, vero?-
- Come fa a saperlo?-
- La signora ha appena estinto il suo conto.-
- Sì. Se n'è andata in un'altra città.-
- Col dottor Vanini, vero?-
- Come fa a sapere anche questo?-
- Vanini ha spostato metà del suo conto sul conto di sua moglie.-
- Sapevo tutto. Povera Laura, che vita misera le ho fatto fare....-
- Di quanto ha bisogno, signor Piero?-
- Beh, tre o quattrocentomila lire. Per arrivare alla fine del mese.-
- Poi le rimetterà sul conto?-
-Non so se sarò in grado-
- Evviva la sincerità. Reinserisca la tessera.-
- Procedo-
- Componga in fretta questo numero: nove nove tre sei due.-
- Ma non è il mio!-
- Infatti è quello di Vanini.-
- Ma io non so se...-
- Componga! Non posso tenere un collegamento irregolare a lungo.-
- Nove nove tre sei due...-
Operazione in corso. Attendere prego.
- Attendo, ma... -
Operazione momentaneamente non disponibile.
- Ritiro subito la tessera. -
- Fermo, signor Piero. Era un messaggio falso per ingannare il servo-computer di controllo. Apra la borsa.-
- Perché?-
--Apra la borsa e stia zitto. Ora le sparo fuori sedici milioni in contanti.-
- Oddio... ma cosa fa?... è incredibile... vada piano... mi volano via tutti....Ma quanti sono? oddio, tutti biglietti da centomila, non stanno neanche più nella borsa..
Io non so come ringraziarla-
Lo sportello è pronto per una nuova operazione
- Insomma, sono commosso, capisce...-
Lo sportello è pronto per una nuova operazione
- Se ne vada. Ci sono due persone alle sue spalle e non posso più parlare.-
- Capisco, grazie ancora.-
Banco di San Francesco. Lo sportello è pronto per una nuova operazione. Buongiorno, signora Masini. Come sta sua figlia?

 

Italo Calvino
L’AVVENTURA DI DUE SPOSI (1958)
(fotocopia)
TEMI: Il racconto rappresenta la vita quotidiana di due giovani sposi, due operai, una vita familiare vincolata e condizionata dai rispettivi orari di lavoro. Lui, Arturo Massolari,esercita il turno di notte; di conseguenza rientra a casa nel momento in cui lei, Elide, deve svegliarsi per andare al lavoro. Il tempo per scambiarsi qualche parola, qualche sguardo, qualche tenero abbraccio è limitato. Il semplice intreccio fa emergere l’inesorabile gioco di incontri con cui si articolano le giornate dei due sposi, ma anche i loro gesti delicati di affetto che ne alleggeriscono la durezza.
LUOGHI E AMBIENTI: L’ambiente operaio delle fabbriche e l’ambiente esterno della città, delle botteghe,della fermata del tram non è rappresentato, ma ricostruito e immaginato tramite i pensieri dei protagonisti.
PERSONAGGI: Due sono i personaggi del racconto,entrambi protagonisti, entrambi operai: Arturo Massolari e sua moglie Elide. La cronometrica meccanicità a cui sono costretti dal ritmo del lavoro in fabbrica non impedisce loro di esprimere una sensibilità delicata che rivelano attraverso gesti di affetto semplici ma intensi, come quello di cercare il calore che l’altro ha lasciato nel letto e ricavarne “una grande tenerezza”.
FORME E PROCEDIMENTI NARRATIVI: Questo racconto presenta elementi che si richiamano esplicitamente alla poetica neorealista: la scelta di un ambiente operaio, il tono sobrio con cui è descritta la dignitosa povertà dei protagonisti, il registro quotidiano e colloquiale dell’espressione (inserimenti di forme popolari o dialettali, lessico volutamente dimesso, strutture paratattiche). Tuttavia la prospettiva della narrazione è ormai molto lontana dall’oggettività neorealista.
La vita esterna dei due sposi non è infatti rappresentata attraverso la narrazione degli eventi che essi vivono durante la giornata ma è raccontata indirettamente tramite i pensieri, le allusioni, le percezioni dei due protagonisti. Arturo ricostruisce il ritorno di Elide grazie ai suoni che gli giungono dall’esterno (il rumore dei tacchi giù per i gradini, lo stridere, il fermarsi e lo sbattere della pedana del tram ); lo stesso accade ad Elide quando pensa al marito diretto al lavoro (ora lui correva sulle strade buie, tra i radi fanali…). Il mondo non è visto ma immaginato, ricostruito e quindi inevitabilmente deformato.
Leonardo SCIASCIA
Il lungo viaggio

Era una notte che pareva fatta apposta, un’oscurità cagliata che a muoversi quasi se ne sentiva il peso. E faceva spavento, respiro di quella belva che era il mondo, il suono del mare: un respiro che veniva a spegnersi ai loro piedi.
Stavano, con le loro valige di cartone e i loro fagotti, su un tratto di spiaggia pietrosa, riparata da colline, tra Gela e Licata; vi erano arrivati all’imbrunire, ed erano partiti all’alba dai loro paesi; paesi interni, lontani dal mare, aggrumati nell’arida plaga del feudo. Qualcuno di loro, era la prima volta che vedeva il mare: e sgomentava il pensiero di dover attraversarlo tutto, da quella deserta spiaggia della Sicilia, di notte, ad un’altra deserta spiaggia dell’America, pure di notte. Perché i patti erano questi - Io di notte vi imbarco - aveva detto l’uomo: una specie di commesso viaggiatore per la parlantina, ma serio e onesto nel volto - e di notte vi sbarco: sulla spiaggia del Nugioirsi, vi sbarco; a due passi da Nuovaiorche... E chi ha parenti in America, può scrivergli che aspettino alla stazione di Trenton, dodici giorni dopo l’imbarco... Fatevi il conto da voi... Certo, il giorno preciso non posso assicurarvelo: mettiamo che c’è mare grosso, mettiamo che la guardia costiera stia a vigilare... Un giorno più o un giorno meno, non vi fa niente: l’importante è sbarcare in America.
L’importante era davvero sbarcare in America: come e quando non aveva poi importanza. Se ai loro parenti arrivavano le lettere, con quegli indirizzi confusi e sgorbi che riuscivano a tracciare sulle buste, sarebbero arrivati anche loro; «chi ha lingua passa il mare», giustamente diceva il proverbio. E avrebbero passato il mare, quel grande mare oscuro; e sarebbero approdati agli stori alle farme dell’America, all’affetto dei loro fratelli zii nipoti cugini, alle calde ricche abbondanti case, alle automobili grandi come case.
Duecentocinquantamila lire: metà alla partenza, metà all’arrivo. Le tenevano, a modo di scapolari, tra la pelle e la camicia. Avevano venduto tutto quello che avevano da vendere, per racimolarle: la casa terragna il mulo l’asino le provviste dell’annata il canterano le coltri. I più furbi avevano fatto ricorso agli usurai, con la segreta intenzione di fregarli; una volta almeno, dopo anni che ne subivano angaria: e ne aveva soddisfazione, al pensiero della faccia che avrebbero fatta nell’apprendere la notizia. «Vieni a cercarmi in America, sanguisuga: magari ti ridò i tuoi soldi, ma senza interesse, se ti riesce di trovarmi». Il sogno dell’America traboccava di dollari: non più, il denaro, custodito nel logoro portafogli o nascosto tra la camicia e la pelle, ma cacciato con noncuranza nelle tasche dei pantaloni, tirato fuori a manciate: come avevano visto fare ai loro parenti, che erano partiti morti di fame, magri e cotti dal sole; e dopo venti o trent’anni tornavano, ma per una breve vacanza, con la faccia piena e rosea che faceva bel contrasto coi capelli candidi.
Erano già le undici. Uno di loro accese la lampadina tascabile: il segnale che potevano venire a prenderli per portarli sul piroscafo. Quando la spense, l’oscurità sembrò più spessa e paurosa. Ma qualche minuto dopo, dal respiro ossessivo del mare affiorò un più umano, domestico suono d’acqua: quasi che vi si riempissero e vuotassero, con ritmo, dei secchi. Poi venne un brusìo, un parlottare sommesso. Si trovarono davanti il signor Melfa, che con questo nome conoscevano l’impresario della loro avventura, prima ancora di aver capito che la barca aveva toccato terra.
- Ci siamo tutti? - domandò il signor Melfa. Accese la lampadina, fece la conta. Ne mancavano due. - Forse ci hanno ripensato, forse arriveranno più tardi... Peggio per loro, in ogni caso. E che ci mettiamo ad aspettarli, col rischio che corriamo?
Tutti dissero che non era il caso di aspettarli.
- Se qualcuno di voi non ha il contante pronto - ammonì il signor Melfa - è meglio si metta la strada tra le gambe e se ne torni a casa: che se pensa di farmi a bordo la sorpresa, sbaglia di grosso: io vi riporto a terra com’è vero dio, tutti quanti siete. E che per uno debbano pagare tutti, non è cosa giusta: e dunque chi ne avrà colpa la pagherà per mano mia e per mano dei compagni, una pestata che se ne ricorderà mentre campa; se gli va bene...
Tutti assicurarono e giurarono che il contante c’era, fino all’ultimo soldo.
- In barca - disse il signor Melfa. E di colpo ciascuno dei partenti diventò una informe massa, un confuso grappolo di bagagli.
- Cristo! E che vi siete portata la casa appresso? – cominciò a sgranare bestemmie, e finì quando tutto il carico, uomini e bagagli, si ammucchiò nella barca: col rischio che un uomo o un fagotto ne traboccasse fuori. E la differenza tra un uomo e un fagotto era per il signor Melfa nel fatto che l’uomo si portava appresso le duecentocinquatamila lire; addosso, cucite nella giacca o tra la camicia e la pelle. Li conosceva, lui, li conosceva bene: questi contadini zaurri, questi villani.

Il viaggio durò meno del previsto: undici notti, quella della partenza compresa. E contavano le notti invece che i giorni, poiché le notti erano di atroce promiscuità, soffocanti. Si sentivano immersi nell’odore di pesce di nafta e di vomito come in un liquido caldo nero bitume. Ne grondavano all’alba, stremati, quando salivano ad abbeverarsi di luce e di vento. Ma come l’idea del mare era per loro il piano verdeggiante di messe quando il vento lo sommuove, il mare vero li atterriva: e le viscere gli si strizzavano, gli occhi dolorosamente verminavano di luce se appena indugiavano a guardare.
Ma all’undicesima notte il signor Melfa li chiamò in coperta: e credettero dapprima che fìtte costellazioni fossero scese al mare come greggi; ed erano invece paesi, paesi della ricca America che come gioielli brillavano nella notte. E la notte stessa era un incanto: serena e dolce, una mezza luna che trascorreva tra una trasparente fauna di nuvole, una brezza che dislagava i polmoni.
- Ecco l’America - disse il signor Melfa.
- Non c’è pericolo che sia un altro posto? - domandò uno: poiché per tutto il viaggio aveva pensato che nel mare non ci sono nè strade nè trazzere, ed era da dio fare la via giusta, senza sgarrare, conducendo una nave tra cielo ed acqua.
Il signor Melfa lo guardò con compassione, domandò a tutti - E lo avete mai visto, dalle vostre parti, un orizzonte come questo? E non lo sentite che l’aria è diversa? Non vedete come splendono questi paesi?
Tutti convennero, con compassione e risentimento guardarono quel loro compagno che aveva osato una
così stupida domanda.
- Liquidiamo il conto - disse il signor Melfa.
Si frugarono sotto la camicia, tirarono fuori i soldi.
- Preparate le vostre cose - disse il signor Melfa dopo avere incassato.
Gli ci vollero pochi minuti: avendo quasi consumato le provviste di viaggio, che per patto avevano dovuto portarsi, non restava loro che un po’ di biancheria e i regali per i parenti d’America: qualche forma di pecorino qualche bottiglia di vino vecchio qualche ricamo da mettere in centro alla tavola o alle spalliere dei sofà. Scesero nella barca leggeri leggeri, ridendo e canticchiando; e uno si mise a cantare a gola aperta, appena la barca si mosse.
- E dunque non avete capito niente? - si arrabbiò il signor Melfa. - E dunque mi volete fare passare il guaio?... Appena vi avrò lasciati a terra potete correre dal primo sbirro che incontrate, e farvi rimpatriare con la prima corsa: io me ne fotto, ognuno è libero di ammazzarsi come vuole... E poi, sono stato ai patti: qui c’è l’America, il dovere mio di buttarvici l’ho assolto... Ma datemi il tempo di tornare a bordo, Cristo di Dio!
Gli diedero più del tempo di tornare a bordo: che rimasero seduti sulla fresca sabbia, indecisi, senza saper che fare, benedicendo e maledicendo la notte: la cui protezione, mentre stavano fermi sulla spiaggia, si sarebbe mutata in terribile agguato se avessero osato allontanarsene.
Il signor Melfa aveva raccomandato - sparpagliatevi - ma nessuno se la sentiva di dividersi dagli altri. E Trenton chi sa quant’era lontana, chi sa quando ci voleva per arrivarci.
Sentirono, lontano e irreale, un canto. «Sembra un carrettiere nostro», pensarono: e che il mondo è ovunque lo stesso, ovunque l’uomo spreme in canto la stessa malinconia, la stessa pena. Ma erano in America, le città che baluginavano dietro l’orizzonte di sabbia e d’alberi erano città dell’America.
Due di loro decisero di andare in avanscoperta. Camminarono in direzione della luce che il paese più vicino riverberava nel cielo. Trovarono quasi subito la strada: «asfaltata, ben tenuta; qui è diverso che da noi», ma per la verità se l’aspettavano più ampia, più dritta. Se ne tennero fuori, ad evitare incontri: la seguivano camminando tra gli alberi.
Passò un’automobile: «pare una seicento»; e poi un’altra che pareva una millecento, e un’altra ancora: «le nostre macchine loro le tengono per capriccio, le comprano ai ragazzi come da noi le biciclette». Poi passarono, assordanti, due motociclette, una dietro l’altra. Era la polizia, non c’era da sbagliare: meno male che si erano tenuti fuori della strada.
Ed ecco che finalmente c’erano le frecce. Guardarono avanti e indietro, entrarono nella strada, si avvicinarono a leggere: Santa Croce Camerina - Scoglitti.
- Santa Croce Camerina: non mi è nuovo, questo nome.
- Pare anche a me; e nemmeno Scoglitti mi è nuovo.

- Forse qualcuno dei nostri parenti ci abitava, forse mio zio prima di trasferirsi a Filadelfìa: che io ricordo stava in un’altra città, prima di passare a Filadelfìa.
- Anche mio fratello: stava in un altro posto, prima di andarsene a Brucchilin... Ma come si chiamasse, proprio non lo ricordo: e poi, noi leggiamo Santa Croce Camerina, leggiamo Scoglitti; ma come leggono loro non lo sappiamo, l’americano non si legge come è scritto.
- Già, il bello dell’italiano è questo: che tu come è scritto lo leggi... Ma non è che possiamo passare qui la nottata, bisogna farsi coraggio... Io la prima macchina che passa, la fermo: domanderò solo «Trenton?»... Qui la gente è più educata. Anche a non capire quello che dice, gli scapperà un gesto, un segnale: e almeno capiremo da che parte è, questa maledetta Trenton.
Dalla curva, a venti metri, sbucò una cinquecento: l’automobilista se li vide guizzare davanti, le mani alzate a fermarlo. Frenò bestemmiando: non pensò a una rapina, che la zona era tra le più calme; credette volessero un passaggio, aprì lo sportello.
- Trenton? - domandò uno dei due.
- Che? - fece l’automobilista.
- Trenton?
- Che trenton della madonna - imprecò l’uomo dell’ automobile.
- Parla italiano - si dissero i due, guardandosi per consultarsi: se non era il caso di rivelare a un compatriota la loro condizione.

L’automobilista chiuse lo sportello, rimise in moto. L’automobile balzò in avanti: e solo allora gridò ai due che rimanevano sulla strada come statue - ubriaconi, cornuti ubriaconi, cornuti e figli di... - il resto si perse nella corsa.
Il silenzio dilagò.
- Mi sto ricordando - disse dopo un momento quello cui il nome di Santa Croce non suonava nuovo - a Santa Croce Camerina, un’annata che dalle nostre parti andò male, mio padre ci venne per la mietitura.
Si buttarono come schiantati sull’orlo della cunetta ché non c’era fretta di portare agli altri la notizia che erano sbarcati in Sicilia.

(Tratto da Il mare colore del vino, Torino, 1973, pp. 19-26)

 

Fonte: http://www.mlbianchi.altervista.org/antologia_900.doc

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