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1) Quadro storico:
- I grandi mutamenti sociali
Il III secolo è un momento assai drammatico nella vita di Roma: la sopravvivenza stessa dell’Impero sembra in dubbio di fronte alle ricorrenti guerre civili — che comportavano decimazioni dei ceti dirigenti, impoverimenti del sistema produttivo nelle regioni attraversate dagli eserciti, indebolimenti delle difese che alle frontiere dovevano resistere contro la pressione dei barbari — e di fronte ai grossi cambiamenti interni — sul piano sociale, istituzionale, religioso — che rimettevano in discussione i cardini stessi dell’ordinamento statale. Ma contro ogni aspettativa, e in maniera che ancora stupisce lo storico moderno, l’Impero riuscì ad attraversare questa che senz’altro è la sua più grave crisi prima del definitivo sfaldamento alla fine del V secolo: da essa usci profondamente modificato, ma ben saldo, sostanzialmente riorganizzato nei punti nodali dell’apparato statale, e capace di affrontare ancora per due secoli tutti i pericoli esterni.
Una delle manifestazioni più evidenti di questa crisi è il sorgere di tendenze centrifughe e spinte separatiste, volte a sostituire le strutture centrali dello stato con amministrazioni autonome, decentrate, che talvolta pretendono addirittura di assurgere esse stesse a dignità statale: è il caso del regno di Palmira in Oriente e dell’imperium Galliarum in Occidente.
Con la fine delle dinastia dei Severi, nel 235, si apre il periodo più confuso di questo tormentato secolo, caratterizzato da un numero grandissimo di imperatori che rimangono in carica pochi mesi o addirittura solo pochi giorni, si contrappogono gli uni agli altri, danno vita ad effimere amministrazioni e ad ancor più effìmeri progetti politici. In questa situazione di disordine prevalgono naturalmente gli interessi particolari, le istanze regionali, le urgenze economiche o militari delle diverse zone dell’impero, che cercano di risolvete da sole i problemi che il potere centrale non è più in condizioni di affrontare con interventi concreti e credibili.
Intanto le due principali frontiere, europea ed asiatica, sono sottoposte ad una continua pressione, resa più grave dalla contemporaneità degli attacchi sui due fronti. Sul confine del Reno e del Danubio le popolazioni germaniche si presentano capaci di incursioni che arrivano ben dentro il territorio dell’impero, e che vengono arrestate solo a prezzo di grossi sforzi militari e di gravi sacrifici economici; sul confine orientale il nuovo regno persiano dei Sassànidi, succeduto nel 224 a quello dei Pani, si fa protagonista d un espansionismo militare che si avvale di armi moderne ed efficaci ed sorretto da una solida organizzazione statale, da una fiorente economia da un’indiscussa fede nei destini imperiali della nazione. Nello stesso tempo anche altre frontiere vengono insidiate: il confine inglese (Vallo di Adriano) dagli Scozzesi ed i territori africani dalle popolazioni provenienti dal sud.
L’importanza che in questa situazione aveva assunto l’esercito, garante della sopravvivenza dello stato, non fu priva di conseguenze per tutta l’organizzazione dell’Impero. Divenne sempre più normale che la scelta dell’imperatore fosse effettuata dalle truppe, anziché dal senato; contemporaneamente, il fatto che esperti ufficiali di carriera provenienti dai bassi ranghi dell’esercito si sostituissero ai giovani e meno giovani senatori nel comando delle truppe, anche se rispondeva all’inderogabile necessità di assicurare comandanti provetti e stimati dai loro soldati, spezzava però gli ultimi legami ancora esistenti fra il potere militare e gli organismi costituzionali, e creava di fatto un nuovo canale di reclutamento dei ceti dirigenti, destinato ad essere ampiamente praticato per tutta la tarda antichità.
Anche la composizione dell’esercito subì rilevanti cambiamenti: la necessità di leve militari sempre più numerose fece estendere il reclutamento ai cittadini di tutto l’Impero e perfino ai barbari che fossero disposti a militare sotto le insegne di Roma: di qui una mobilità sociale che vede soldati arabi arrivare al soglio imperiale e, in generale, militari, anche nati fuori dell’impero, percorrere invidiabili carriere e occupare cariche di fondamentale rilevanza.
Quanto ai problemi economici, essi erano in gran parte connessi con quelli militari: le campagne si spopolavano; le città costituivano un rifugio più sicuro, per le mura che le cingevano (perfino Roma, la capitale, sentì il bisogno di circondarsi di una nuova cinta di mura sotto Aureliano), ma erano esposte agli assedi e ai saccheggi; le vie di comunicazione erano insicure, e ne derivò una generale riduzione dei commerci; la necessità di spese per difendere lo stato dagli eserciti nemici comportò un inasprimento fiscale che mise in crisi molte attività economiche, soprattutto nei centri urbani, e la forte inflazione provocò aumenti dei prezzi che ancora una volta colpirono soprattutto le città. A questo quadro così negativo vanno aggiunte catastrofi naturali e terremoti (che colpirono anche la città di Roma) ed epidemie, più frequenti e micidiali che in altri periodi: ne consegue un impressionante calo della popolazione, che risulta in alcuni momenti quasi dimezzata rispetto alle medie dei decenni precedenti.
- L’affermarsi del Cristianesimo
Questo clima di insicurezza, esteso a tutte le aree dell’Impero ebbe riflessi non secondari anche sugli aspetti più specificamente culturali. Non va dimenticato l’intenso fervore di dottrina che agita il Mediterraneo orientale, e soprattutto l’Egitto, in un periodo in cui i testi in lingua latina sembrano invece — eccezion fatta per pochi scrittori cristiani — ripetere stancamente motivi di epoche precedenti. Gli sviluppi della dottrina neoplatonica, che informerà gli ultimi secoli del paganesimo e lascerà tracce profonde anche nel pensiero cristiano, sono tra gli avvenimenti di maggiore importanza; ma va anche ricordato quanto forti siano diventate, col venir meno della pacifica serenità del II secolo e della sua fede nella tradizionale, le istanze misteriche e la credenza in culti orientali. Si trattò di un rivolgimento religioso che investì, travolgendolo, l’antico paganesimo, progressivamente soppiantato dal culto di Mitra, da quello di Cibele, da quello di lside, da quello solare, dal Cristianesimo. Comune a tutte queste nuove religioni era la promessa di una salvezza futura, una prospettiva capace di garantire gli uomini dalle incertezze e dalle disgrazie del mondo terreno: tale redenzione non si basava su canoni razionali, ma su di una rivelazione fideistica che instaurava un rapporto individuale fra il credente e la divinità.
Fra tutti questi culti il più rilevante fu senz’altro quello cristiano, che nel giro di un paio di secoli riuscì a prevalere su tutti gli altri, e si mostrò capace di produrre un’imponente letteratura, segnata da opere di assoluto rilievo, e d’importanza non soltanto teologica o religiosa.
La cultura pagana non comprese, all’epoca, le particolari capacità di proselitismo e i caratteri peculiari che rendevano questa religione diversa dalle altre, più capace di offrire risposte alle esigenze avvertite dalle grandi masse: essa parve un culto superstizioso come tanti altri, magari con una strana ostinazione in più, per cui i suoi fedeli erano disposti ad affrontare persecuzioni anche dure pur di non rendere agli dei dell’impero le prestazioni liturgiche consuete.
Il cristianesimo invece si diffonde rapidamente in tutte le zone dell’impero, e durante il II secolo diviene una componente decisiva nell’equilibrio delle forze. Nato come religione dei ceti subalterni ( prevalentemente di quelli orientali, o tutt’al più di quelli inurbati della capitale), conta ora adepti in tutti i ceti della società, e soprattutto a Roma è riuscito a conquistare molte donne di famiglie ricche, le clarissimae feminae, che assicurano sostanziosi donativi e anche ascolto e prestigio perfino nelle fasce sociali più alte. Se in Oriente si afferma sempre più come corrente di pensiero, e dà vita a scuole filosofiche che raggiungono livelli tra i più alti nella storia della cultura del III secolo, in Occidente un certo ritardo nelle elaborazioni teoriche si accompagna ad una capacità organizzativa che impianta una struttura solida e capace di resistere alle ricorrenti persecuzioni del potere politico.
Per tutto il secolo i rapporti fra le comunità cristiane e le istituzioni furono complessi ed ambigui: a periodi di tolleranza, in cui i procedimenti contro i Cristiani erano rari o del tutto assenti, se ne alternavano altri in cui i martiri erano all’ordine del giorno; inoltre, non tutte le zone e non tutte le classi erano investite allo stesso modo da queste ondate di violenza: se le vittime delle persecuzioni furono relativamente poche in Italia, e pochissime fra gli appartenenti ai ceti più alti, la situazione fu invece assai più drammatica in Africa, dove i vertici della Chiesa furono ripetutamente colpiti. Di qui anche le differenze di atteggiamento che i Cristiani mostrarono nei confronti dell’Impero e delle sue tradizioni: a volte più rigoristi e intransigenti, a volte più disponibili ad una “secolarizzazione” che sarà più accentuata nella capitale, i Cristiani, fra ortodossia ed eresie, coprono un ventaglio assai vasto di posizioni, con divergenze assai notevoli, ma ben spiegabili nella tumultuosa crescita di quegli anni.
La loro letteratura costituisce comunque, a tutti gli effetti, il principale avvenimento culturale di un’età per il resto non molto ricca di significative personalità di scrittori o di importanti movimenti letterari, almeno nell’Occidente latino. Sia che i testi cristiani diano voce a ceti subalterni, prima esclusi dalla produzione di opere letterarie, sia che si rivolgano ai tradizionali gruppi colti, ma con obiettivi e messaggi nuovi, ci si trova sempre davanti a fatti dirompenti e rivoluzionari.
Nel grande rimescolamento culturale e sociale di quegli anni, tra le migrazioni interne e le rapide ascese di alcuni ceti ai danni di altri, tra l’appannarsi degli ideali classici e l’emergere di preoccupazioni escatologiche (col preavviso di imminenti fini del mondo), la cultura cristiana diviene punto di convergenza di molte delle tradizioni disperse qua e là nell’Impero, costituendo un tratto unificante dei successivi decenni, atto a tenere ancora insieme una compagine statale turbata da tante vicende, ma tuttora sufficientemente solida per amministrare tutta l’area mediterranea ancora per più di un secolo.
- Alle origini di una letteratura cristiana
Per molti decenni il Cristianesimo crebbe come una delle tante sette più o meno ereticali che movimentavano il panorama della componente giudaica dell’Impero romano. Nonostante gli influssi ellenizzanti introdotti da Paolo o da Luca l’evangelista, le posizioni di fondo in campo religioso e culturale del Cristianesimo restano legate, in un primo tempo, al Giudaismo. Quest’ultimo, sia in Palestina sia soprattutto ad Alessandria, dove vivevano centinaia di migliaia di ebrei, aveva da tempo stretto rapporti con le teorie di pensiero dominanti nel bacino orientale del Mediterraneo, ma non aveva mai rischiato di perdere i propri caratteri di originalità: gli Ebrei (e quindi i Cristiani) scrivevano spesso, o addirittura prevalentemente, in greco, parlavano di logos e di pneuma, ma le loro elaborazioni discendevano sempre dal libro nazionale, l’Antico Testamento, che costituiva un punto di riferimento indiscusso, pur fra le tante diverse interpretazioni che ne venivano suggerite.
All’interno di questo variegato mondo giudaico i Cristiani si segnalano presto per uno spiccato attivismo: compongono testi di notevole rilevanza, sia quelli che poi verranno uniti nel Nuovo Testamento (i quattro Vangeli canonici, gli Atti degli apostoli, le Lettere canoniche, l’Apocalisse) sia vari altri che le generazioni successive non accoglieranno con la medesima devozione (vari altri vangeli, detti apocrifi, altre Lettere, una letteratura cosiddetta criptocristiana, nella quale i rapporti con l’insegnamento di Gesù sono meno evidenti). Viene inoltre creata un’organizzazione di solidarietà, caratterizzata da una particolare efficienza, che risulta assai utile agli affiliati: ne traggono beneficio la solidità del gruppo e le sue potenzialità espansive, che si indirizzano non solo alla conversione degli altri Ebrei, ma anche di tutti quei popoli sui quali la nuova religione avesse buone probabilità di attecchire, prima quelli subalterni (che costituivano i settori di maggiore emarginazione nelle grandi metropoli dell’Impero), poi gli stessi Greci e i Romani.
In Occidente lo sviluppo è relativamente più lento: certamente il cristianesimo arrivò in Italia già verso la metà del I secolo, a Roma, a Pompei e probabilmente in altri centri commerciali o marittimi, ma le possibilità di espansione erano notevolmente ridotte dalla scarsa considerazione in cui venivano tenute le comunità orientali, disprezzate come diverse, temute come potenziali portatrici di disordini e calamità.
Sotto Nerone, l’uccisione di molti Cristiani, pretestuosamente incolpati dell’incendio che colpì Roma, è una prova di come il potere politico e l’opinione pubblica vedessero in loro soltanto dei criminali, o dei potenziali sovvertitori, da estirpare senza riguardi. Le difficoltà derivanti da questa emarginazione quasi totale, e la lenta diffusione, legata per più di un secolo a quei gruppi che anche a Roma e in Italia parlavano greco, spiegano perché il greco sia stato per lungo tempo, anche in Occidente, lingua del Cristianesimo; per di più, in greco erano scritti quelli che si cominciavano ad individuare come testi di fede: per tali motivi i primi scritti cristiani composti in Occidente sono anch’essi in lingua greca, come le cosiddette lettere di Clemente (Clemente fu il vescovo di Roma, ma le lettere sono — quasi tutte — sicuramente di epoca più tarda) o il Pastore di Erma, un’opera di un certo interesse anche letterario, che racconta cinque visioni simboliche in un greco ricco di ebraismi e di latinismi. Ed a scrivere in greco si continuerà fino agli inizi del III secolo, quando l’esigenza di comunicare con gruppi più vasti, di lingua latina, aveva già da tempo fatto nascere, in parallelo, una letteratura latina cristiana.
2) Le traduzioni dei testi sacri
Alle origini di questa letteratura si è soliti collocare le traduzioni dei testi sacri effettuate in Africa e in Italia. A partire già dal II secolo, comunità cristiane che non parlavano il greco –dapprima più numerose in Africa, poi sempre più presenti anche in Europa, man mano che nel corso del III secolo si riduceva in Occidente la conoscenza di quella lingua — avvertirono l’esigenza di disporre di una Bibbia in latino.
Questa antica traduzione del libro sacro viene comunemente indicata come Vetus Latina, cioè (la “Vecchia traduzione latina”: “vecchia” rispetto a quella di Girolamo, che diventerà poi ufficiale). Ma non è esatto pensare ad un’unica traduzione, diffusa presso i Cristiani di tutto l’Occidente: tanto per cominciare, c’erano sicuramente delle differenze fra i testi africani, la Vetus Afra, e quelli italici, la Vetus Itala; ma anche all’interno di queste due aree geografiche le traduzioni furono ben più d’una, a volte anche abbastanza discordanti tra loro.
Queste prime Bibbie in latino non ci sono pervenute direttamente, perché la Vulgata di Girolamo le soppiantò tutte, ma ne abbiamo numerosi campioni, per le citazioni che ne traevano gli scrittori cristiani fioriti prima che la Vulgata divenisse l’unico testo ufficiale.
Per le esigenze dei Cristiani di lingua latina, accanto alla Bibbia venivano tradotte anche altre opere che non fanno ora parte del Nuovo Testamento, ma che a quei tempi erano considerate assai autorevoli: delle lettere di Clemente e del Pastore abbiamo traduzioni latine che risalgono al II secolo.
Evangelario latino, Codex Eusebi, Biblioteca Capitolare, Vercelli. Questo manoscritto è il testimone più antico dei quattro Vangeli nel testo detto “europeo”, anteriore alla Vulgata di Girolamo.
La prima letteratura cristiana si esprime in greco, sulle orme dei testi del Nuovo Testamento, e mantenendosi anche sul piano formale piuttosto vicina al livello linguistico e stilistico di quei testi, non senza un parallelo forte influsso del Vecchio Testamento e di tratti della mentalità e delle forme espressive del Giudaismo. Per questo motivo, la letteratura cristiana in latino comincia per noi soltanto con la fine del II secolo d.C. Le sue prime espressioni sono soprattutto legate al problema dell'intolleranza nei riguardi del Cristianesimo.
Sono stati proprio i primi storiografi cristiani a impostare sul concetto di persecuzione il racconto dei primi tre secoli del rapporto fra cristiani e pagani. È stata la tradizione cristiana, con centro nella Storia ecclesiastica di Eusebio di Cesarea, a fondare l'idea di una ostilità serrata e continuativa dei pagani verso i cristiani, con persecuzioni sistematiche da Nerone (64) fino alla «pace della Chiesa» intervenuta con l'editto di Costantino (313). E, per converso, manca del tutto una parallela storia delle "persecuzioni" che a loro volta i cristiani, ormai vincitori, inaugurarono contro i culti pagani.
Nella ricostruzione storica dei cristiani, al tempo dell'ostilità, degli imperatori malvagi, del sacrificio dei martiri, faceva seguito con Costantino il tempo degli imperatori buoni e pii, del trionfo. A maggior gloria dei santi che vi erano caduti si iniziò a cercare di catalogare con precisione le persecuzioni. Per gradi, e semplificando una fenomenologia complessa e geograficamente diversificata, i cristiani elaborarono dunque una lista di imperatori malvagi e persecutori, alle cui responsabilità ricondurre le nefandezze subite.
In realtà, il concetto va sfumato. Le "persecuzioni" iniziarono piuttosto tardi e per lo più furono legate a iniziative di magistrati locali. Fino a metà del III secolo, non ci fu in merito una vera e propria legislazione cui rifarsi, e in mancanza di essa il Cristianesimo poté diffondersi e penetrare anche in strati alti della popolazione.
3) Le più importanti persecuzioni e i loro legami con la letteratura cristiana
Sotto i Severi (193-235), il Cristianesimo sembra fosse penetrato addirittura nella famiglia imperiale. Favore e ostilità nei suoi confronti potevano tranquillamente coesistere. La "persecuzione" avveniva in seguito a specifica denuncia presso un magistrato che, altrimenti, non avrebbe preso l'iniziativa di ricercare un cristiano perché reo in quanto tale. Fu solo sotto Decio che venne formalizzato, in autentica legislazione e con intento persecutorio, un conflitto che si agitava più genericamente a livello di attriti quotidiani nelle singole società, e che si esprimeva ora in opere pole miche (come il Discorso vero contro i cristiani di Celso a fine II sec. sotto Marco Aurelio; o Frontone sul versante latino), ora in denuncie imbarazzanti per le stesse autorità.
Plinio il Giovane, proconsole di Bitinia e Ponto (110 o 112-113). si: trovò di fronte ad accuse di Cristianesimo e ne restò in difficoltà. Dapprima, agì di sua iniziativa, assolvendo chi rinnegava il Cristianesimo e sacrificava agli idoli, e facendo giustiziare quelli che continuavano a professare la loro fede. «Ero convinto, infatti, - scrive - che qualunque cosa essi confessassero bisognasse in ogni caso punire quella loro insistenza e quella inflessibile ostinazione». Poi, complicandosi l'inchiesta, chiese un parere a Traiano; questi rispose col famoso "rescritto", che, in quanto pronunciamento ufficiale, valeva per tutto l'Impero e fino ai già citati provvedimenti di Decio valse come punto di riferimento:
«Nell'esame delle cause di coloro che ti venivano denunciati come cristiani ti sei comportato come era opportuno, mio caro Plinio. In effetti, non si può stabilire una regola precisa che abbia valore universale e che possegga, se così si può dire, la funzione di una norma. Non bisogna ricercare i cristiani; se ti vengono portati in giudizio e se vengono accusati in tua presenza, debbono essere puniti, con la limitazione, tuttavia, che se uno negherà di essere cristiano e se renderà manifesta questa sua dichiarazione comportandosi di conseguenza, vale a dire, supplicando ai nostri dèi, costui, sebbene sia stato sospettato per quanto riguarda il suo passato, possa ottenere perdono in seguito alla sua penitenza. Però le accuse anonime non debbono avere alcun peso in questi processi, perché tali procedimenti costituiscono un pessimo esempio e non si confanno con la morale della nostra epoca» (trad. Claudio Moreschini).
Il carattere empirico, ambiguo e giuridicamente assurdo di questa disposizione è evidente, e riflette bene un atteggiamento corrente. Sostanziale ignoranza del vero profilo del fenomeno, indifferenza ad approfondirne i connotati, generica insofferenza per esso fomentata da false dicerie, e portata a riposare su ragioni di pietà religiosa tradizionale o di ordine pubblico.
È a questo plesso di atteggiamenti che intese far fronte l'attività dei «difensori»: gli apologeti. Il mondo greco conobbe presto una fioritura di scritti apologetici: a parte i discorsi dello stesso San Paolo a Listri ed Atene riferiti dagli Atti degli Apostoli, vanno ricordati gli scritti di Quadrato (125 ca.), Aristide di Atene (sotto Adriano), Giustino (che ne scrisse due, nel 153 e poco dopo), il Discorso ai Greci di Taziano (attorno a metà II secolo), Atenagora (177 ca.).
Il mondo latino si mosse in ritardo:i primi sono Tertulliano (197) e Minucio Felice (poco dopo). Al fenomeno delle persecuzioni sono legati alcuni fra i più antichi documenti letterari del Cristianesimo occidentale delle persecuzioni: evento,traumatico, ma al contempo occasione di eroica testimonianza della propria fede.
Ora, non tutti i fedeli delle prime comunità ebbero la stoffa dell’eroe. E difatti, quando le autorità romane tentarono una lotta specifica e organizzata contro i membri della nuova setta, convocandoli per un interrogatorio e costringendoli a sacrificare agli dèi tradizionali, molti cedettero, rimanendo esclusi dalle comunità appunto in quanto lapsi, vale a dire «caduti». Altri si sottrassero alla persecuzione con la fuga, appellandosi a un detto dello stesso Gesù: «se vi perseguiteranno in una città, fuggite in un'altra» (Matteo 10, 23).
Molti, tuttavia, si opposero alle pretese delle autorità persecutrici, rimanendo saldi nelle proprie convinzioni anche a costo di sopportare le violenze del carcere (i confessores). Altri, infine, spinsero la loro testimonianza di fede - martyres significa appunto «testimoni» - fino al sacrificio della propria vita: esso veniva accettato con gioia e considerato il più alto dei possibili onori in quanto realizzava la perfetta identificazione con il Cristo, la più piena adesione, in un unico gesto, al suo messaggio e all'alto esempio della sua Passione. Tanto che per 96 il martire si usano gli stessi termini pati e passio (in greco paschein e pathos) che il Cristianesimo aveva usato per Cristo, piegandoli, con una innovazione semantica rispetto alla loro storia precedente, a indicare la sofferenza protratta fino alla morte.
Nello stesso momento in cui entra nella prospettiva di un tanto eccelso privilegio, il martire si circonfonde di un'aura di santità. Il giorno della sua morte diviene il giorno della sua nascita alle beatitudini celesti (dies natalis) e viene celebrato da chi resta come e più di quanto i pagani non usassero fare per il dies natalis della loro avventura terrena. Tutto ciò che riguarda il martire diviene sacro: il suo corpo e le sue vesti sono preziose reliquie; il luogo del suo supplizio, per lo più fuori dalle mura urbane, si fa centro di devozione e all'occasione futura sede di luoghi di culto.
4) Gli Acta martyrum e le Passiones
Le prime opere autonome composte direttamente in latino provengono dall’Africa e sono della seconda metà del II secolo.
C’è qualche dubbio sulla precisa cronologia di alcuni discorsi che ci sono stati tramandati fra le opere di Cipriano, ma sono certamente più antichi di questo scrittore: nessuna incertezza, invece, sugli Acta martyrum Scillitarnorum, del 180, con cui si apre anche nella produzione in lingua latina un genere che aveva già attestazioni in greco: i resoconti dei processi che si concludono con la con danna a morte dei martiri e con la loro passione.
Tra la fine del II secolo e i primi anni del IV si alternarono periodi di tolleranza (in cui si verificarono tutt’al più singoli episodi di repressione) e vere e proprie persecuzioni organizzate; non mancarono alcuni che, per paura, si pentirono delle loro scelte e accettarono di cambiare religione, o almeno di fare i sacrifici formali richiesti in cambio dell’assoluzione.
Ma la resistenza della maggior pane dei Cristiani e la loro determinazione nell’andare incontro alle torture e alla morte furono assai utili alla causa, perché testimoniavano la sincerità della fede e l’attendibilità della dottrina: di qui il nome di martiri, che in greco vuol dire “testimoni”, dato alle vittime di queste vicende giudiziarie.
Per far meglio conoscere il coraggio dei martiri, e al tempo stesso per conservarne e venerarne il ricordo, si curavano resoconti dei loro processi e delle loro ultime ore. Le narrazioni venivano a volte redatte dagli stessi martiri finché era loro possibile, e completate da altri fedeli per le ultime ore di vita, per la descrizione della morte. Si tratta quasi sempre di opere assai efficaci, essenziali, che devono soprattutto alla brevità dell’esposizione e all’apparente distacco della scrittura la loro capacità di colpire ed emozionare il lettore.
Gli Acta martyrum Scillitanorum riguardano una vicenda giudiziaria isolata, che vide alcuni cristiani della cittadina africana di Scillum processati e condannati a morte dal proconsole Saturnino, il quale aveva in ogni modo tentato di convincere gli imputati a dichiararsi non cristiani, per poterli assolvere, ma si era visto costretto a condannarli per la fermezza con cui essi avevano ribadito il loro cristianesimo.
Dopo quella di Scillum — la prima, come si diceva, in lingua latina abbiamo varie altre descrizioni, sempre più complesse e a volte abilmente rimaneggiate per risultare più efficaci: vi emerge la contrapposizione fra i Cristiani portatori del nuovo, non violenti, sicuri della loro vita dopo la morte, e i magistrati di Roma, difensori dei vecchi ordinamenti, costretti a servirsi della forza e ad essere crudeli anche al di là delle loro personali intenzioni, privi di speranze per il futuro.
La produzione di questi Atti copre tutto il III secolo. Agli Atti scritti originariamente in latino si affiancano anche traduzioni dal greco, di testi ritenuti particolarmente adatti ai fini della propaganda antipagana.
Meno legate al resoconto ufficiale sono le Passioni, opere di narrazione, quasi romanzi autobiografici, che consentono agli autori l’inserzione di scene toccanti e di particolari edificanti. Anche qui i testi più antichi sono in greco, ma è latino il capolavoro del genere la Passio Perpetuae et Felicitatis, sul martirio di una giovane signora piuttosto agiata e di buona famiglia, l’africana Perpetua, della sua schiava Felicita e del loro confessore Sàturo, avvenuto a Cartagine nel 202.
Il testo è presentato, nella prima parte, come opera della stessa Perpetua, che racconta i tentativi del padre per farle rinnegare il Cristianesimo in cambio della libertà promessa dai giudici, o le difficoltà che il carcere comportava per una giovane madre, che aveva con sé il figlio ancora lattante, o i sogni premonitori del futuro martirio e della gioia in paradiso; seguono alcune parti composte verosimilmente da Sàturo, il quale racconta alcune sue visioni; l’opera si conclude con la narrazione del martirio nei giochi dell’anfiteatro fatta da un redattore, a cui va anche attribuito il coordinamento fra le diverse parti di cui questa Passio si compone.
È problema in fondo secondario se il ruolo del redattore vada oltre la semplice cucitura dei testi di Perpetua e Sàturo, e l’aggiunta della parte conclusiva: anche se, come qualcuno ha pensato, Perpetua e Sàturo non hanno lasciato niente, e dobbiamo tutto alla penna e alla fantasia di quest’unico autore, che per qualcuno potrebbe anche essere Tertulliano (ma non c’è nessun valido motivo per questa attribuzione), la Passio Perpetuae non perde nulla dei suoi caratteri di umanità ed immediatezza.
La descrizione della vita nel carcere, impensabile, in quelle forme, per uno scrittore classico, è un’ innovazione introdotta dal Cristianesimo in letteratura, e il personaggio del fratello di Perpetua, un bambino morto a sette anni per un cancro alla faccia, poteva acquistare la rilevanza che ha qui soltanto in una letteratura venata di forti esigenze popolari, e educata a quella fucina di invenzioni che è la scuola di retorica con le sue controversie e declamazioni.
L’efficacia della Passio Perpetuae, evidente a qualunque lettore moderno, che non può non rimanere affascinato dalla semplicità e dal candore delle descrizioni — poco importa se sia genuino, o, come è più probabile, derivi da un raffinato esercizio retorico — viene confermata dal suo successo presso i Cristiani: su di essa furono modellate altre successive passioni africane, composte da gruppi ereticali e se ne fece addirittura una traduzione greca.
E’ questo un evento molto raro, per quei tempi, in cui il mondo latino cristiano era considerato debitore di quello greco per elaborazioni di pensiero e opere letterarie: la passio Perpetuae è senz’altro uno dei primissimi e dei pochissimi testi latini che gli orientali ritenessero opportuno conoscere. In epoca più tarda il genere delle passioni subì un’evoluzione che lo accostò progressivamente ad altri componimenti narrativi, soprattutto il romanzo; nasce così la Passione epica, prevalentemente greca.
Ora il martire assume il ruolo dell’eroe vincitore che, pur morendo, in realtà sconfigge il proprio carnefice, attraverso una serie di vicende fantasiose, di colpi di scena, di veri e propri miracoli. Ma la produzione di questi testi fiorisce dopo Costantino, quando il martirio non è più una realtà: e per questo i fedeli si compiacciono idi rappresentazioni appesantite ed inverosimili di fatti mai avvenuti, ma capaci di stimolare sentimenti di trionfalistica rivalsa verso lo sconfitto avversario pagano.
5) Le prime eresie
Parallelamente alla prima letteratura, per così dire, ortodossa si svilupparono correnti di pensiero autonome e movimenti che, con le loro speculazioni e i loro scritti, vennero a collocarsi fuori degli orientamenti comuni alle singole comunità che andavano organizzandosi in una Chiesa unitaria. Siamo, in altre parole, alle origini dei movimenti ereticali.
Ne scorgiamo una varia fioritura lungo il II secolo: il marcionismo, il montanismo, quella corrente eterodossa che va sotto il nome di millenarismo, e vari altri. Fra questi movimenti assunse un rilievo particolare quello della «gnosi», letteralmente la «conoscenza», cioè quel complesso di segreti sulla salvezza dell'anima e la vita eterna, rivelato dal figlio di Dio (per lo più identificato con Cristo) a pochi iniziati che ne sono divenuti depositari.
Il movimento ebbe una rilevante pericolosità per le primitive comunità cristiane. Infatti, segnava una sorta di compromesso con le strutture intellettualistiche del pensiero greco e si presentava alle cerchie di più elevata cultura non già come una aberrazione, ma come un approfondimento di quella fede elementare cui erano chiamate ad attenersi le masse incolte, una sistemazione dottrinale sorretta da uno studio sistematico delle scritture.
Questo spiega la notevole portata della reazione antignostica presso gli scrittori cristiani. La netta chiusura da parte della Chiesa fece sì che presto la gnosi cominciasse a declinare; fra III e IV secolo le frange sopravvissute confluirono per lo più in una setta dai contorni affini, quella del manicheismo.
6) Gli apologisti
Accanto a queste forme di letteratura a volte popolare, ma non per questo meno interessante anche sul piano della resa stilistica, intorno alla fine del Il secolo compaiono anche i primi scrittori latini cristiani sui quali si posseggono informazioni sufficienti perché siano presentati con un immagine più compiuta.
La produzione letteraria che si propone la diffusione delle teorie cristiane e la loro difesa dagli attacchi dei pagani va sotto il nome di apologetica, ed apologisti sono comunemente chiamati questi scrittori che operano tra gli ultimi anni del II secolo ed i primi del IV.
Anche per queste opere c’è da segnalare un più rapido sviluppo nel mondo orientale, ed un relativo ritardo in quello occidentale: le prime Apologie scritte latino a Roma sono opera di Giustino, martire nel 165, ma sono scritte in greco, e ancora in greco sono varie altre opere di poco più tarde scritte con le medesime intenzioni in diverse parti dell’Impero.
I primi a scrivere in latino sono Minucio Felice e Tertulliano, ai quali spetta il titolo di primi autori latini cristiani. Quale dei due sia più antico è problema pressoché insolubile: di Tertulliano conosciamo bene molte vicende, e possiamo ragionevolmente ricostruirne la cronologia; tutto più incerto è invece per Minucio Felice, e gli argomenti su cui ci si basa per considerarlo più o meno recente di Terlulliano sono prevalentemente soggettivi e reversibili, o interpretabili in maniera diversa, a seconda delle tesi sostenute dagli studiosi.
- Tertulliano
Quinto Settimio Fiorente Tertulliano nacque a Cartagine intorno alla metà del II secolo da genitori pagani; studiò retorica e diritto nelle scuole tradizionali. dove apprese anche il greco, esercitò la professione di avvocato in Africa, e per un certo periodo anche a Roma, prima del rientro in patria e della conversione, che avvenne soltanto in età piuttosto avanzata, probabilmente verso il 195.
Fu anche prete, e le sue posizioni religiose si dimostrarono molto rigorose, tanto che nel 213 finì con l’aderire ad una delle sette ereticali più note per l’intransigenza e il fanatismo, quella dei Montanisti; negli ultimi anni di vita abbandonò anche questo gruppo, e ne fondò uno nuovo, che si chiamò dei Tertullianisti. Morì dopo il 220, anno a cui risalgono le ultime notizie che abbiamo su di lui.
Codex Balliolensis, contiene opere di Tertulliano, manoscritto del XV secolo, Balliol College Library, Oxford.
Di Tertulliano ci sono pervenuti oltre trenta scritti, a orientamento teologico e critico; polemiche contro i pagani e contro i cristiani che non condividevano le sue tesi. Fra i più notevoli vanno ricordati l’Ad martyras, con l’esortazione ad un gruppo di cristiani incarcerati e in attesa del martirio; l’Ad nationes e il De testimonio animae, per difendere il Cristianesimo dagli attacchi dei pagani; il De praescriptione haeretocorum , del 200 circa, contro i Cristiani che contaminano la loro fede con dottrine pagane e propugnano interpretazioni del testo biblico;l’Ad sapulam del 212, indirizzato al governatore dell’Africa proconsolare che conduceva una campagna contro i Cristiani.
Accanto a queste vanno ricordete opere che affrontano problemi morali e di del Cristiano nella vita quotidiana, offrendo pertanto al lettore anche spunti interessanti sulla società africana tra Il e lii secolo: De spectaculis, contro la partecipazione agli spettacoli del teatro, dell’anfiteatro e del circo; De cultu feminarum, sui vestiti delle donne, che debbono essere particolarmente discreti; De virginibus velandis, sull’opportunità che le donne non escano di casa a volto scoperto; De pudicitia, contro i rapporti sessuali al di fuori del matrimonio; De corona, contro il servizio militare, dichiarato incompatibile con l’appartenenza alla fede cristiana; De idololatria, contro tutte le attività economiche che siano in qualche modo connesse con i culti pagani. Altre opere riguardano argomenti di carattere liturgico e teologico e altre infine sono dedicate a violente polemiche contro avversari religiosi (Adversus Marcionem, Adversus Praxean, ecc.).
L’esperienza professionale dell’avvocato, lo spirito battagliero e pronto a trasformare in durissimi attacchi agli avversari ogni opera che nasceva da esigenze difensive, il gusto per l’improperio, per la descrizione sgradevole e pesante, per uno stile “barocco” e nutrito di efficacissima strumentazione retorica sono caratteristiche comuni a quasi tutti gli scritti di Tertulliano, a qualunque periodo appartengano.
Se ne può ricavare l’impressione di un personaggio arrogante, disposto a sostenere le proprie tesi con qualsiasi tipo di argomentazioni, a volte anche con ragionamenti discutibili e prove chiaramente false. Questa immagine complessivamente non positiva è aggravata da alcune posizioni che, fuori del loro contesto, risultano del tutto inaccettabili, come la pervicace demonizzazione di tutto ciò che è femminile e la convinzione che la donna sia il più pericoloso strumento di Satana.
Simili pregiudiziali antipatie devono essere però superate, se si vuole capire il ruolo e la posizione di un personaggio certamente focoso, ma non privo di coraggio, trascinato spesso da una violenta carica di rigore e di moralismo. In ultima analisi Tertulliano appare una figura tragica, che non riesce ad amare l’umanità, che si compiace ad immaginare e a descrivere tutte le disgrazie che prima o poi capiteranno ai suoi nemici; un uomo che non sa trovare un momento di pace e di tranquillità, almeno in questa vita.
Ma accanto a questi limiti ci sono anche la grandezza del teorico e l’acume del pensatore: tralasciando le questioni più strettamente dottrinali, che qui hanno un rilievo secondario, si pensi all’importanza che ha nell’Apologeticum la definizione del rapporto giuridico tra religione e stato, impostato con la chiarezza e la professionalità di un avvocato romano.
Come se avesse appena delibato la materia, torna quindi sull'argomento con maggiore efficacia nell' Apologeticum, che è anche uno dei suoi capolavori.
Questa volta, Tertulliano si indirizza a un destinatario ben preciso: i Romani imperii antistites, cioè le autorità. E lo fa nella specifica forma di una veemente orazione che si immagina tenuta al loro cospetto. Non potendone più dell'assurda ingiustizia, si erge ad avvocato e anzi a giudice, senza rivestire l'atteggiamento conciliante del politico, ma la passione di un idealista ferito, dell'uomo che, innanzitutto da se stesso, pretende la più rigorosa perfezione.
Con piglio fermo, Tertulliano respinge le accuse di sacrilegio, misantropia e attività contro la società romana rinfacciate ai cristiani; illustra la vera natura dello stile di vita cristiano; conclude sul tema «il sangue dei cristiani è un seme»: versarlo non significa altro che provocare nuove conversioni, contribuire cioè — con un esito paradossalmente contrario alle intenzioni — alla diffusione del loro messaggio sulla spinta del loro eroismo.
Nello stesso tempo, riconosce la funzione terrena dell'impero romano che costituisce nel suo pensiero una mora finis, un «ritardo», con la sua salda compagine strutturale, alla fine del mondo.
I cristiani sono leali all'impero e all'imperatore, pregano per la loro prosperità, e tuttavia sono rivolti col pensiero a quella fine, che verrà a instaurare il regno dei giusti. Tertulliano vive ancora in modo fervido l'attesa escatologica che fu propria delle prime comunità cristiane e tanto più vi aderirà successivamente, quando passerà al montanismo.
Nell'esaltare al contempo la lealtà verso l'impero e l'attesa per la fine che lo supererà, lo scorgiamo — come spesso altrove — procedere nella sua tumultuosa baldanza ai limiti della contraddittorietà.
Tertulliano intende spuntare le armi dell'avversario non già riducendo la distanza fra pagani e cristiani, ma anzi sottolineandola, rovesciando sui pagani le accuse di uno stile di vita immorale e di una religiosità assurda e crudele, per esaltare invece la purezza e la bontà della condotta e della spiritualità cristiane. L'apologia si ribalta fra le sue mani in una sfida, condotta in toni accesi e aggressivi, grazie al fuoco di una vivace facondia e di una solida competenza giuridica.
Sempre nell’Apologetico, è famosa l’argomentazione dell’anima naturaliter Christiana, che tanto successo ebbe nei secoli seguenti: l’anima stessa, se non addottrinata in senso contrario, dimostrerebbe il primato del monoteismo con le invocazioni ad un unico dio nei momenti di difficoltà.
Su questi temi Tertulliano interverrà ancora vari anni più tardi, dirigendo al proconsole persecutore Scapula una sorta di lettera aperta sul diritto dei cristiani a professare la loro religione.
La novità è, questa volta, nella netta apertura alla minaccia. Prendendo spunto da un'eclissi di sole, Tertulliano, nella prospettiva escatologica del montanismo, richiama l'ormai imminente vendetta divina contro i persecutori: un tema che in seguito sarà più volte ripreso, ad esempio da Lattanzio e da Orosio.
Anche sul fronte della lotta interna contro le deviazioni dell'eresia, Tertulliano prende le mosse dall'illustre genere letterario dell'oratoria forense; e, anzi, nel suo impianto rigorosamente giuridico e nel suo svolgimento incalzante e stringente, il De praescriptione haereticorum ce ne offre un nuovo singolare episodio.
Ma il brillante tour de farce, teso a strappare dalle mani degli eretici il ricorso ai Sacri Testi della Bibbia, non poteva restare, per riconoscimento dello stesso autore, che un punto di partenza, da cui Tertulliano muove poi un attacco sistematico alle singole posizioni eterodosse, in particolare quelle degli «gnostici».
In queste polemiche, Tertulliano tende a seguire un metodo uniforme: a un attacco "filosofico" al nucleo centrale delle teorie avversate segue una discussione di passi delle Scritture afferenti alla materia.
Fu, dunque, essenzialmente la vocazione polemica a trascinare Tertulliano verso positive esposizioni dottrinali, come ad esempio quelle trinitario e cristologiche che si colgono fra l'Adversus Marcionem e le opere sulla carne di Cristo e la sua resurrezione.
In quest'ambito si collocano le opere dedicate a singoli momenti della vita e del culto delle comunità cristiane.
Ad esempio, quelle sulla disciplina penitenziale, come il De paenitentia, e la sua correzione in senso rigoristico rappresentata dal successivo De pudicitia, secondo cui la Chiesa, dopo la remissione dei peccati avvenuta col battesimo, non può più perdonare cadute tanto gravi come l'idolatria, la fornicazione e l'omicidio.
Nelle opere di Tertulliano emerge di frequente un problema centrale per la vita delle comunità cristiane del tempo: quello del difficile inserimento dei credenti nel tessuto della società civile. Si tratta anzi di una questione che lo scrittore africano affronta sotto diverse prospettive.
Vengono così alla luce i contrasti fra il modo di vivere del credente e quello dei pagani, nei più diversi contesti: non solo quelli della vita pubblica, ma anche quelli legati alla vita di ogni giorno (i divertimenti, l'alimentazione, e così via).
La società dei cristiani è concepita come un unico corpus, tenuto assieme dalla fede comune e da rapporti interni particolari. I cristiani si riconoscono figli di un unico padre (Dio) e di un'unica madre (la natura) e quindi possono considerarsi tra loro fratelli. Questa forma di "parentela spirituale" si sovrappone e si impone a quella del sangue, delineando dei confini nuovi e potenzialmente universali per la società dei credenti.
D'altra parte, la società dei cristiani si presentava anche come una società esclusiva, che ammetteva al proprio interno solo i credenti, e che rifiutava di mescolarsi alle pratiche culturali tipiche del paganesimo: così, ad esempio, un cristiano poteva sposare solo una donna cristiana, e una cristiana non poteva andare sposa a un pagano, che l'avrebbe costretta a praticare una vita e una religione lontane dalla fede, rendendola schiava del demonio.
La società dei pagani è concepita da Tertulliano come un mondo corrotto e pieno delle più varie insidie.
Nella condanna dei costumi, ormai irrimediabilmente decaduti, egli non si riconnette soltanto a un ben collaudato filone moralistico, che attraversa la letteratura romana fin dall'epoca repubblicana, ma immagina anche che tutto ciò sia l'effetto dell'azione di forze demoniache, costantemente all'opera per attirare gli uomini nella loro sfera di influenza.
I Romani smaniano per il lusso, manifestano gli appetiti più sfrenati per la violenza, la gola, il sesso, praticano una religione falsa e talvolta persino crudele, amministrano la giustizia in modo partigiano e incoerente, e così via: e tutto questo perché la loro vita obbedisce alle regole imposte dai falsi dèi, i quali altro non sono che dèmoni, ispiratori di una società che drasticamente si contrappone a quella di Dio.
Dunque, fra i due mondi non può esserci conciliazione. È questo un atteggiamento che Tertulliano ribadisce in più occasioni, spingendolo fino alle estreme conseguenze, allorché arriverà a vietare radicalmente ogni contatto con forme di vita sociale come quelle dei teatri e del circo (De spectaculis), in cui si venerano gli idoli della religione pagana e si praticano sport e divertimenti sciocchi e privi di senso, quando non palesemente crudeli e disumani.
Nel De idololatrìa, poi, la diffusa presenza del culto degli dèi pagani nelle varie manifestazioni dell'attività sociale spinge Tertulliano a vietare ai cristiani praticamente ogni professione, per evitare di scendere a compromessi con un mondo blasfemo e impuro.
Il cristiano dovrà, dunque, affermare la propria speciale identità, non solo nel modo di concepire l'etica e la religione, ma anche nel comportamento e nelle manifestazioni esteriori come l'abbigliamento.
In questo campo, in particolare, molte prescrizioni vengono impartite alle donne, sul cui modo di vestire Tertulliano insiste molto, considerandolo un aspetto importante della moralità femminile (De virginibus velandis, De cultu feminarum}. Le donne cristiane, fra l'altro, sono chiamate a distinguersi dalle donne pagane, che ormai esibiscono un lusso talmente esagerato da aver abolito completamente ogni differenza fra l'abbigliamento tradizionale delle matrone e quello delle prostitute. In questo e in altri campi, i cristiani vengono così presentati come depositari di una moralità decisamente superiore a quella dei pagani: come coloro che, grazie alla loro moderazione e alla loro parsimonia, possono addirittura ristabilire un certo nesso di continuità con la tradizione dei costumi severi di un tempo vantata dal moralismo romano.
Nella sua proiezione escatologica e nella sua visione assolutistica della fede, Tertulliano voleva impedire che il cristianesimo perdesse tensione, scendendo a compromessi col mondo; trovasse, insomma, una sua via "laica". Nei suoi scritti, dunque, si stabiliscono dei confini netti per le concessioni che un cristiano può fare alle esigenze della vita sociale. Se, in linea generale, viene dichiarato un sostanziale e generico lealismo nei confronti dello Stato, d'altra parte, ci sono pratiche inammissibili per il credente, come la pratica della violenza richiesta dalla vita militare (De corona), cui il cristiano deve sottrarsi.
Talvolta, però, l'estraneità dei cristiani rispetto alla società romana tradizionale è un valore che Tertulliano rivendica, nella consapevolezza di appartenere a una società più grande e più vera, che può vantare una dignità religiosa e persino una storia di fronte alla quale il mondo romano acquista i contorni di una cultura precaria e corrotta. Alla luce della testimonianza dei testi sacri, infatti, il mondo pagano si rivela piccolo e meschino: la sua religione è chiaramente più recente, i suoi dèi non sono altro che personalità diaboliche, oppure semplici uomini divinizzati dalla credulità degli antichi; persino la sua letteratura, nella prospettiva di Tertulliano, si dimostrerebbe di qualità nettamente inferiore a quella dell'Antico Testamento.
Nell'ambito della letteratura cristiana occidentale, Tertulliano svolge opera di pioniere e si può dire che fondi la tradizione patristica in lingua latina. Ma se, al di là di approfondimenti personali sporadici, attinse soprattutto a posizioni già acquisite dalla teologia dei padri greci, ebbe il merito di gettare le basi del pensiero successivo, trattando grandi temi come quelli trinitario, cristologico e del male. E, soprattutto, di coglierne formulazioni lapidarie grazie alle sue altissime doti di artista della parola.
Infatti, di nuovo come Cicerone in quello filosofico, Tertulliano ha nel dominio della teologia e della morale cristiana un ruolo cruciale per ciò che concerne l'affinamento dello strumento linguistico, quando non la sua stessa formazione.
Egli portò a dignità letteraria il particolare universo espressivo dei cristiani, così come lo trovava nel vivo parlato delle comunità, e cioè infarcito di grecismi, termini tecnici, riadattamenti semantici di vecchie parole, novità morfologiche e sintattiche correnti in comuni nel latino volgare. E scrisse a un tempo con assoluta libertà e con sovrana padronanza di ogni livello e di ogni registro, a seconda di quanto dettassero la piena dei sentimenti e la fervidissima immaginazione.
La sua lingua è particolarmente innovativa nel campo del lessico. Uno studioso (H. Hoppe) ha contato nelle sue opere ben 982 nuove formazioni fra verbi (161), sostantivi (509), aggettivi (284), avverbi (28); di esse 438 si trovano nel solo Tertulliano, 544 anche in autori posteriori. E fra queste vi sono coniazioni destinate a un ricco futuro, come persona per le «persone» trinitarie e lo stesso trinitas. Esse non vanno tutte ritenute sue personali creazioni; in buona parte, lo furono certamente, per il resto, egli venne a conferire a materiali linguistici d'uso corrente un nuovo diritto di cittadinanza nella circolazione scritta della cultura.
- Minucio Felice
Anche lui avvocato ed africano (era nato probabilmente a Cirta, la patria di Frontone), Marco Minucio Felice esercitava la sua attività a Roma, dove godeva di condizioni di buona agiatezza economica. Contemporaneo di Tertulliano, secondo alcuni scrisse qualche anno prima di lui, sul finire del II secolo, secondo altri invece la sua opera va collocata nei primi decenni del III secolo, fra la produzione di Tertulliano e quella di Cipriano.
Per quanto si sa, scrisse una sola opera, Octavius, che è anche l'unica opera dialogica dell'apologetica latina. Tale unicità dipende dall'unicità stessa della destinazione, del tutto insolita per uno scritto apologetico: non il cristiano da rafforzare nella fede, bensì il pagano colto da convenire. Per far breccia nel suo animo, Octavius si ispira al modello del dialogo filosofico ciceroniano, tratta argomenti comprensibili a un pagano, evita qualsiasi sfoggio di erudiziene biblica.
Commosso dalla recente scomparsa di Ottavio, «uomo esimio e santo», suo amico e compagno di conversione, l'autore rievoca un episodio di cui era stato testimone e nel quale Ottavio, cristiano di umilissimi natali, si era misurato vittoriosamente con Cecilie, pagano altolocato. Essendo i tribunali chiusi per la festa della vendemmia, Minucio e Ottavio si sono recati in gita a Ostia.
Qui si imbattono in Cecilie: un suo gesto di devozione (un bacio inviato a una statua di Serapide) provoca le rimostranze di Ottavio. Nel corso della passeggiata che segue, lungo la spiaggia, tra bimbetti che giocano a far rimbalzare i ciottoli sulla superficie del mare, barche tirate in secco e giochi d'acqua sulla battigia, Cecilie, ferito dal rimbrotto di Ottavio, propone un confronto tra la vecchia e la nuova religione: Minucio farà da giudice. Ottavio accetta.
Cecilie espone le sue ragioni per primo: tutto nella vita è incerto, nemmeno i migliori filosofi sono riusciti a trovare risposte certe, nulla di ciò che sta al di fuori di noi è realmente conoscibile, già è fortunato chi può dire di conoscere in qualche misura se stesso; l'uomo, del resto, non è che un agglomerato spontaneo e casuale di sostanze elementari; un dio provvidenziale come quello dei cristiani non c'è, altrimenti non avrebbe permesso che uomini come Socrate fossero costretti a bere la cicuta; ne è possibile dar credito ad esseri empi, depravati, volgari e dediti a pratiche nascoste e sanguinose come sono i cristiani; i vecchi dèi della religione romana e quelli delle altre religioni via via accolti nel pantheon romano hanno dato ottima prova di sé, i Romani, rispettandoli scrupolosamente, sono diventati signori del mondo; mentre il dio unico dei cristiani è una palese assurdità, incapace com'è, in ogni caso, di soccorrere e aiutare i suoi adoratori; i quali vivendo in funzione della vita dopo la morte, dimenticano di vivere in questa vita.
Con ferma e serena convinzione replica Ottavio: l'uomo non è qualcosa di casuale, ma la creatura per eccellenza, diversa da tutte le altre, come dimostra il fatto che è in grado di guardare verso il cielo, e ha l'uso della parola e della ragione; l'esistenza di Dio è provata da ogni particolare dell'universo, il cui Creatore non può essere che uno solo, come in ogni settore della natura è sempre uno solo a comandare; gli dèi pagani non hanno in realtà alcuna vera forza, esigono viceversa pratiche sanguinarie, e i Romani stessi che li venerano vantano un progenitore, Romolo, macchiatesi del sangue del fratello; non è vero che la fortuna arrida unicamente a chi si attiene scrupolosamente ai segni inviati da questi presunti dèi, gli auspici e gli auguri: molti casi della storia dimostrano il contrario; molto migliore è del resto il comportamento di chi ha fede nel Dio dei cristiani, i quali, non solo non sono affatto sanguinari, ma anzi sono nemici di qualsiasi forma di violenza, mentre la loro purezza è, prima ancora che esteriore, un profondo fatto inferiore, e purissimo è l'amore che li lega gli uni agli altri; che poi questo Dio non si possa direttamente vedere, non basta a dedurre che non c'è, giacché anche il sole non possiamo fissarlo, eppure c'è; la povertà dei cristiani non è miseria e trascuratezza, ma solo ricchezza inferiore; e la sofferenza dei cristiani è una prova d'amore offerta a Dio; gioioso amore in perfetta serenità contraddistingue il cristiano che vive e quello che muore, al pensiero della felicità futura; la grandezza del cristiano non è nei discorsi, ma nella sua stessa vita .
Trascinato dagli argomenti del rivale, Cecilie si dichiara vinto, proclamandosi però a sua volta vincitore: su se stesso e sul proprio errore di pagano. Conversione di Cecilie.
Gli argomenti discussi sono quelli che compaiono anche negli altri apologeti, compreso Tertulliano: il monoteismo è preferibile, anche razionalmente, al politeismo; i Cristiani non sono colpevoli dei misfatti che vengono loro imputati, anzi spesso sono proprio i loro accusatori ad essere macchiati da tali colpe; se i pagani comprendessero le istanze di pace e di amore del Cristianesimo non lo avverserebbero, anzi si convertirebbero subito.
La differenza fra la trattazione impostata da Minucio e quella di Tertulliano, ad esempio nell''Apologetico, non potrebbe però essere più evidente: Minucio è scrittore fine e delicato, rifugge dalle grossolanità che Tertulliano invece ama; Minucio fonda la sua argomentazione sulla logica e sul ragionamento pacato, mentre Tertulliano cerca di emozionare e di colpire i sentimenti.
Minucio si rivolge ai pagani colti, per convertirli, e cita quindi con abbondanza gli scrittori classici, astenendosi dai riferimenti alla Bibbia; Tertulliano si scaglia contro i pagani per consolidare i Cristiani nella loro fede, e tutt'al più può pensare di conquistare al Cristianesimo le future generazioni che non si siano ancora macchiate del peccato di idolatria.
In conclusione se Tertulliano colpisce il lettore per il suo gusto dell'esasperazione, Minucio Felice appare al contrario un modello di equilibrio e di buon senso.
Questa differenza ha spesso comportato per Minucio accuse di debolezza e di incapacità, di incertezza nella fede, di prevalenza degli interessi letterari su quelli religiosi; ma chi abbia sufficiente sensibilità per cogliere le sfumature ed i mezzi toni, e sufficiente buon gusto per apprezzare un'opera che rifiuta programmaticamente ogni caduta di tono, ogni concessione al patetico, dovrà apprezzare la serenità e la dignità della discussione.
Ciò non toglie, certo, che molta attenzione sia anche riservata all'aspetto letterario:
Cicerone è un modello sempre presente nella costruzione del periodo. Alcune scene della cornice che inquadra il dialogo sono pezzi di bravura giustamente apprezzati, come la famosa descrizione dei ragazzi che giocano sulla spiaggia facendo rimbalzare sull'acqua dei sassi piatti, la passeggiata sull'estremo lembo di sabbia bagnato dalle onde, la sosta sulla scogliera, dove i protagonisti si siedono a parlare nella fresca mattina d'autunno, la conclusione con i tre amici che si salutano contenti della bella discussione, e felici di aver appianato le divergenze.
Col suo tono sereno e al tempo stesso malinconico, con la sua composta razionalità, L’Octavius segna la fine del mondo classico e il passaggio al Cristianesimo sulla linea della continuità, non della rottura, come auspicava Tertulliano. È il Cristianesimo dei ceti dirigenti, i quali non vogliono che il cambiamento di religione sia accompagnato da sommovimenti sociali, e sono convinti che debbano comunque sopravvivere la finezza e l'equilibrio costruiti da secoli di civiltà greco-latina; nel progetto di Minucio non c'è spazio per le «stranezze» giudaiche e per gli estremismi dei Cristiani radicali.
Non si può negare che il suo Cristianesimo sia autentico e sincero, ma certamente ha perso la carica rivoluzionaria che ne aveva facilitato la diffusione fra i ceti subalterni, e che per alcuni intellettuali costituiva ancora il fascino principale della nuova religione.
- Cipriano
Cipriano nacque nell'Africa romana, probabilmente a Cartagine, fra il 200 e il 210. I suoi erano pagani; fu educato secondo la tradizione e divenne insegnante di retorica.
Attorno al 245, si convertì al Cristianesimo per opera di un prete di Cartagine, Cecilie, e in segno di riconoscenza ne assunse il nome: divenne, dunque, C. Caecilius Cyprianus, cui si aggiungeva anche il soprannome Thascius, forse d'origine punica, il cui significato ci sfugge. Si votò alla castità e vendette i suoi beni, o almeno una parte, investendo il ricavato in beneficenze. Attorno al 248, fu battezzato e ordinato prete; nel 249, fu ordinato vescovo di Cartagine.
San Cipriano, particolare del mosaico del VI secolo raffigurante la processione dei martiri, Basilica di Sant’Apollinare Nuovo, Ravenna.
Ma, nel 250, iniziò la persecuzione di Decio, e Cipriano vi si sottrasse nascondendosi nei pressi della città: un comportamento che gli fruttò molte critiche, sebbene venisse da lui più volte giustificato con esigenze pastorali. In effetti, dal luogo del suo volontario esilio durato circa due anni, continuò a seguire tramite lettere e messi le vicende della sua comunità. Con il 252, si diffuse in Africa una grave pestilenza, durante la quale Cipriano e i suoi collaboratori si distinsero per il pietoso operato in favore di tutti, cristiani come pagani.
Frattanto, la nuova persecuzione degli imperatori Gallo e Volusiano (251-253) vedeva cadere il papa Cornelio (14 settembre 252) e il successore Lucio (253-254). Con il nuovo papa Stefano, Cipriano ebbe un'accesa controversia dottrinale sul problema se si dovessero ribattezzare coloro che, battezzati da eretici, avessero successivamente abbandonata l'eresia per la Chiesa cattolica. Cipriano sosteneva il valore della tradizione africana che imponeva il nuovo battesimo. Stefano era dell'opinione opposta. Ma il 257 segnò l'inizio di una nuova persecuzione, quella di Valeriane (253-60), in cui entrambi furono martirizzati.
Cipriano fu arrestato nel 257 e, interrogato, fu esiliato a Cùrubi, piccola cittadina sul mare. L'anno successivo un rescritto di Valeriane al senato inaspriva le pene contro i vescovi. Cipriano fu richiamato dal nuovo proconsole Galerio Massimo, nuovamente processato e condannato a morte per decapitazione. Sul luogo dell'esecuzione, avvenuta il 14 settembre 258 con un concorso di folla tale da assimilare davvero il martirio a un trionfo, i fedeli avevano disseminato panni e fazzoletti perché restassero intrisi del suo santo sangue, preziosa reliquia.
L'opera più importante di Cipriano è il suo Epistolario, che consta di ottantuno lettere, sedici delle quali non sue, ma di corrispondenti. Possediamo, inoltre, una serie di brevi scritti che possiamo così classificare:Ad Donatum, un trattatello in forma di dialogus di tipo ciceroniano, scritto poco dopo la conversione, contro il paganesimo e la vita dissipata di chi non è cristiano.
Intento catechistico e moralistico; non mancano spunti autobiografici. Ad Demetrianum, scritto all'epoca della peste per scagionare i cristiani dall'accusa di esserne la causa: è ancora un fermo attacco ai pagani, che tiene presenti argomenti dell' Apologeticum di Tertulliano.
Testimonia ad Quirìnum adversus ludaeos: è una vasta raccolta di passi biblici per dimostrare ai Giudei come la legge mosaica sia stata superata dal cristianesimo, che poggia sull'avvento del Messia promesso; consta di due libri, cui se ne aggiunge un terzo di testimonianze scritturali di diverso contenuto, prevalentemente morale.
EVANGELARIO LATINO
Evangelario latino, Codex Palatinus 1589, fine del V secolo, Musei e collezioni provinciali, Castello del Buon Consiglio, Trento. I Vangeli purpurei di Trento trasmettono un testo latino antegeronimiano corrispondente a un’edizione dei Vangeli diffusa in Africa nel III secolo, che fu utilizzata da Cipriano.
A proposito di apostasie e martirio, scrisse il Delapsis fra il 250 e il 251 e l'Ad Fortunatum, una esortazione al martirio in forma di raccolta di passi scritturali con brevi annotazioni di commento, composta poco prima della morte. Sui conflitti ecclesiastici, scrisse il De catholicae ecclesiae imitate che ha per sfondo, oltre alle sue personali esperienze, lo scisma romano di Novaziano.
Al comportamento del cristiano si interessano le operette De bono patientiae («II pregio della pazienza») e De zelo et livore («Sull'invidia e malevolenza») scritte attorno al 256 in margine alla controversia battesimale; De habitu virginum, sullo stile di vita delle fanciulle consacratesi a Dio, scritto nel 249-250 ad imitazione degli analoghi trattati di Tertulliano; De dominica oratione («La preghiera del Signore»), sul Padre Nostro, i suoi contenuti anche allegorici e i tempi e i modi della preghiera; De opere et eleemosynis che raccomanda il sacrificio dei propri beni in opere di carità, senza accampare timori per l'esaurirsi del patrimonio o per il mantenimento di una famiglia numerosa, e tratta diffusamente del loro valore ai fini della salvezza: fu scritto probabilmente ai tempi della peste del 256, come il De mortalitate («Sull'epidemia») che conforta i fedeli di fronte alle calamità del contagio e dei conseguenti lutti subiti e alla paura della morte.
Cipriano fu il prosatore cristiano stilisticamente più influente prima di Agostino: per questo motivo ci è pervenuto con il suo nome un nutrito gruppo di opere per varie ragioni a lui non attribuibili, di diversi autori per lo più sconosciuti, appartenenti a epoche differenti.
L'ottantina di lettere, fra quelle del vescovo e quelle dei suoi corrispondenti, che formano la raccolta epistolare di Cipriano, sono per noi un prezioso documento della vita della comunità cristiana negli anni Cinquanta del III secolo. Molti sono i temi che l'attraversano e, in primo luogo, quelli più o meno direttamente connessi alla condizione "di trincea" della Chiesa in quegli anni segnati da ben tré persecuzioni. Conserviamo commossi messaggi ai «confessori» d'ogni sesso ed età rinchiusi in carcere in attesa del supplizio e il congedo di Cipriano stesso alle soglie del martirio.
Particolare attenzione merita la questione di quei fedeli più deboli che avevano ceduto alle pressioni delle autorità pagane. Questi lapsi a cui è dedicato anche lo specifico trattatello De lapsis — vengono da Cipriano distinti in due categorie: quelli che si erano piegati a offrire sacrifici di vittime o d'incenso ai falsi dèi (sono i sacrificati o thurificai) e quelli, meno colpevoli, che si erano limitati a procurarsi tramite corruzione un "certificato" di paganesimo.
La loro apostasia li aveva automaticamente scomunicati, ma premevano ora per essere riammessi in seno alla Chiesa, spesso esibendo nuovi libelli, cioè attestati di buona fede, questa volta ad opera dei martiri o dei «confessori», cioè quei fedeli che per non aver ceduto erano stati incarcerati. In alcuni casi, avevano trovato sacerdoti che li avevano prontamente assolti senza difficoltà.
Il problema era scottante e assai delicato: si andava dalle pressioni anche violente dei diretti interessati per una pronta riammissione alla comunione, alle posizioni più intransigenti come quelle di Novaziano in Roma che rifiutava ogni forma di riparazione. Veniva, così, profilandosi nelle _ comunità un acceso contrasto fra le istanze di gran parte del popolo dei 97 fedeli, con la loro religiosità semplice e non sempre necessariamente vocata al martirio, e la fascia del clero che opponeva riserve e difficoltà.
Cipriano sostenne una soluzione di compromesso sintomatica del suo carattere dolce ma fermo e la impose in un concilio di vescovi apicani da lui organizzato nel 251: i lapsi si sarebbero dovuti sì riammettere, ma dopo una lunga penitenza, con l'imposizione delle mani da parte del vescovo; solo in caso di una nuova persecuzione si sarebbe dovuto anticipare loro il perdono.
Si nota nel De lapsis, trattatello che è probabilmente lo sviluppo di un'omelia, qualche tratto vicino alla situazione personale di Cipriano. Egli asserisce che il primo titolo di gloria è confessare, il secondo sottrar-si alla persecuzione, e aggiunge: «Quegli, all'avvicinarsi della sua ora, fu trovato già maturo, mentre è forse rinviato ad altro tempo quest'altro, che ha abbandonato il suo patrimonio e si è allontanato proprio perché non intendeva abiurare, mentre avrebbe senza dubbio proclamato la propria fede, se fosse stato anche lui arrestato» (cap. 3). Cipriano usava appellarsi, a propria giustificazione, al detto evangelico «Quando poi vi perseguiteranno in questa città, fuggite in un'altra» (Matteo 10,23).
Non meno vivo nell'epistolario è il riflesso di altri eventi che sconvolgevano la vita cristiana del tempo, come le spinte scismatiche a Cartagine e a Roma e la controversia battesimale con Stefano I, sulle cui dure espressioni nei confronti di Cipriano ci informano le lettere 74 e 75.
Ma ciò che più da vicino ci colpisce è la possibilità di scendere nei particolari della vita quotidiana di una comunità di allora, ripercorrendo le figure che ne erano protagoniste (poveri, vedove, vergini, bimbi orfani o abbandonati, confessori incarcerati) e le strutture del soccorso reciproco morale e materiale. E fra queste figure il clero stesso con le norme cui si doveva ispirare: come quella di non curare eredità, per tenersi lontani dal sospetto di derogare da un'evangelica povertà. O anche l'uomo comune che, se cristiano, non doveva ad esempio esercitare la professione di attore, che l'avrebbe costretto a indossare panni femminili e ad assumere pose sconvenienti (Epistulae, 2).
Vari spunti di interesse presentano anche le singole operette polemiche e quelle di contenuto pratico e morale. È possibile che, in qualche caso, queste ultime si siano sviluppate da omelie: Cipriano fu il primo vescovo oratore della Chiesa occidentale.
In questi lavori scorgiamo un uomo pratico, un «principe della chiesa» tagliato non tanto per le teoriche questioni di teologia, quanto per la concreta direzione della comunità; un autore i cui scritti non tengono in alcuna considerazione il pubblico secolare, ma si rivolgono interamente ed esclusivamente all'interno del suo mondo cristiano.
Fra essi, il De habitu virginum raccomanda non solo la castità, ma la stessa modestia nel vestire: un cristiano non deve in alcun modo sottolineare le grazie del proprio corpo, come a vantarsene. Come già aveva sostenuto Tertulliano, suo modello, è profanazione alterare i lineamenti creati da Dio. Le vergini non devono frequentare i festini nuziali e tanto meno i pubblici bagni.
Il De mortalitate ci porta nel cuore di quella prospettiva escatologica che fu propria delle prime comunità cristiane. La peste viene presentata da Cipriano come una delle tante calamità preannunciate da Dio per la fine dei tempi. Il regno di Dio è vicino, «già stanno subentrando a realtà terrene quelle celesti, grandi alle piccole e alle caduche le eterne» .
E non ci deve stupire che il cristiano muoia come il pagano, il giusto con il perverso: su questa terra siamo tutti legati a un comune destino. Gli orribili sintomi della peste, rapidamente ripercorsi, sono altrettante prove per la nostra fede.
Il De mortalitate è un'opera significativa per ciò che ci fa intravedere circa l'idea della morte e del lutto diffusa fra gli intellettuali e i temi di consolazione che venivano di conseguenza sviluppati nel popolo.
Particolarmente importanti ai nostri occhi sono le raccolte di Testimonia, ovverosia di citazioni bibliche, perché costituiscono una delle nostre principali fonti di conoscenza delle più antiche traduzioni latine della Bibbia in area africana, specie per l'Antico Testamento.
Uomo di formazione classica ed ex professore di retorica, Cipriano scrive un latino di buon livello, e il suo stile è sempre stato lodato come uno stile semplice ma armonico, modello di prosa cristiana in equilibrio fra le esigenze della sobria chiarezza e dell'eleganza. Sebbene ammirasse Tertulliano, non lo seguì dunque nello stile mosso, risentito e baroccheggiante.
Ricorse invece a un periodare fluente e manierato, in cui si inseriscono con naturalezza cospicue citazioni bibliche chiamate in soccorso all'argomentazione; viceversa non cita mai alcun autore profano.
- Commodiano
Le notizie sono talmente incerte che alcuni studiosi lo collocano addirittura nel V secolo, ma sembra più probabile una datazione alla metà del III secolo, quando scoppiarono le persecuzioni di Decio e di Valeriano, alle quali fanno forse riferimento alcuni suoi versi. Da un altro suo passo si ricava che era originario di Gaza in Palestina, da dove però doveva essere partito per recarsi in Occidente, probabilmente in Africa, come dimostrerebbero le somiglianze di contenuto con le opere dei contemporanei apologisti africani e le particolarità metriche, che compaiono piuttosto simili in molte iscrizioni africane del III-IV secolo. Ma anche su questi punti gli studiosi sono in disaccordo, e c'è chi esclude la sua origine orientale, e chi pensa che la sua attività si sia svolta nella Gallia meridionale, o anche a Roma.
Instructiones in due libri, per complessivi 80 componimenti in esametri, di varia lunghezza, da un minimo di 6 ad un massimo di 48 versi. Il primo libro comprende i carmi contro i pagani e quelli contro gli ebrei; il secondo le composizioni per i Cristiani, rimproverati per i loro peccati ed esortati ad una vita più devota. I carmi sono degli acrostici: le prime lettere dei singoli versi, lette tutte di seguito, formano il titolo del carme stesso, come ad esempio De infantibus, con il primo verso che comincia per d, il secondo per e, il terzo per i,il quarto per n e così via.
Carmen apologeticum, in 1060 esametri, il cui vero titolo era probabilmente Carmen adversus ludaeos et Graecos, o Carmen de duobus populis: l'opera è tramandata senza indicazione dell'autore, ma l'attribuzione a Commodiano è ormai ritenuta indiscutibile. Argomento del carme è la storia del mondo, quella dell'Antico Testamento e quella di Roma, vista come scontro fra Dio e il diavolo, fino alla distruzione dell'Impero, all'apocalisse e al giudizio universale.
Il Carmen apologeticum è un poema continuo di oltre mille versi;illustra sommariamente la verità del Cristianesimo a beneficio di chi ancora la ignora, rivolgendosi pertanto a Giudei e pagani, soprattutto ai pagani esposti al rischio di convertirsi al giudaismo.
Commodiano esordisce ricordando il proprio passato di peccatore. Parla quindi della Trinità, della resurrezione dei corpi, del peccato originale, di come i pagani siano subentrati ai Giudei nel ruolo di popolo eletto.
Passa quindi a trattare della redenzione: il Padre si fa Figlio e muore così per la nostra salvazione.
Nel seguito, Commodiano attacca con violenza i Giudei per non aver voluto riconoscere in Gesù il Signore. Infine, si slancia con spirito profetico a dipingere gli ultimi tempi, contrassegnati dall'avvento di due anticristi: uno è Ne-rone redivivo, anticristo «per noi», accanito persecutore dei cristiani, destinato a provocare la perdizione dell’Urbs, cioè di Roma; l'altro è un anticristo «per i Giudei» nella persona di un rè venuto dalla Persia destinato a provocare la perdizione di tutta la terra. Alla loro azione seguirà la violenta punizione di Dio che si abbatterà sui malvagi in forma di fuoco, mentre i giusti godranno del ritorno di Cristo.
Fra tanti scrittori in prosa il Cristianesimo delle origini produce un solo ma significativo poeta, Commodiano. Egli è per molti aspetti un poeta strano, una voce anomala nel panorama della poesia latina. Sembra appartenere alle fasce meno alte della società, e nelle sue opere rappresenta le credenze e le aspirazioni dei diseredati, le loro passioni forti e senza sfumature, avvalendosi di un latino che risente degli sviluppi del parlato e di una metrica priva ormai di continuità con quella dei classici. Anche nel campo della dottrina cristiana le sue conoscenze sono piuttosto approssimative e grossolane, lontane dalle ricche elaborazioni degli apologisti occidentali e dalle raffinate elucubrazioni di quelli orientali: non si spiega bene il ruolo dello Spirito Santo, pensa che gli dei pagani siano figli degli angeli e di donne mortali, è convinto che la fine del mondo sarà preceduta da un'età felice sulla terra: saranno rovesciati gli stati che si fondano sull'ingiustizia e sullo sfruttamento dei deboli, e verrà un regno terreno di Dio, in cui i poveri, i derelitti, i maltrattati vedranno esaudite le loro speranze e riconosciuti i loro diritti. Questa speranza, cosiddetta millenaristica, che credeva in un concreto cambiamento delle condizioni di vita sulla terra, prima e più che nelle ricompense celesti del paradiso, era assai diffusa nel Cristianesimo degli ambienti più umili e rispondeva a precise esigenze sociali.
Se come teorico Commodiano è quantomeno confuso, anche come polemista mostra qualche limite. Ha l'irruenza e la forza di un Tertulliano, e come lui è capace di trovare improperi popolari e pesanti per i pagani e per i giudei, ma gli manca la fantasia e la capacità retorica dell'avvocato cartaginese: le ripetizioni sono piuttosto frequenti, le volgarità scontate e poco efficaci. I tratti più incisivi sono il rigoroso moralismo, la profonda convinzione di essere dalla parte giusta, lo scontro con le morenti istituzioni classiche. L'ardore con cui sono presentate le visioni apocalittiche, e le speranze rivoluzionarie in esse riposte, fa sì che Commodiano sia stato definito l'ultimo dei profeti; l'unico che si sia espresso in lingua latina. Distinguere quanto ci sia, nei carmi, di genuinamente popolare, riconoscere quando invece vengono orecchiate, in maniera anche demagogica, rivendicazioni non sentite personalmente, è cosa senz'altro difficile; e in questo senso, la lettura di Commodiano lascia sempre inceni e sconcertati: ci si domanda se uno scrittore, comunque un uomo di cultura, poteva veramente arrivare a certi livelli di primitivismo, o se invece ci troviamo di fronte ad una posa, all'esibizione affettata di appartenere ad una classe cui si aderisce solo in maniera ideologica e con finalità di provocazione letteraria, religiosa e politica.
Il verso di Commodiano colpisce per la sua anomala prosodia, completamente diversa da quella classica. L'esametro non è più una successione regolare di sillabe brevi e sillabe lunghe, ma una riga composta di un certo numero di sillabe (non più di diciassette e non meno di dodici); è l'andamento degli accenti tonici delle parole, non l'alternanza quantitativa, a garantire la «poeticità» dell'insieme.
Questa novità si mescola con un lessico elementare e ripetitivo, con una sintassi semplificata ai limiti del possibile, con una logica sommaria e a volte assurda nella sua partigianeria. Ne risulta, come dicevamo, l'immagine di una figura atipica e stimolante: uno scrittore che non ignora completamente i classici e le tradizioni, ma li riprende in forme banalmente scolastiche o estremamente modificate, involgarite, popolareggianti; un poeta che si presenta come portavoce degli emarginati, con tutte le loro spinte irrazionali, violente, ma anche con una sete di giustizia confortata dalla promessa divina; un polemista che alterna le piccole meschinità dell'invettiva personale contro l'avversario a vasti affreschi cosmici sul ritorno del Cristo e il fuoco che brucerà i malvagi, risparmiando i pochi onesti che ci sono a questo mondo.
- Altri scrittori cristiani del III secolo
Fra gli scrittori cristiani del III secolo ha una certa importanza Novaziano. Nato attorno al 200, fece parte dell'alto clero romano. Nel 251, venne eletto papa Cornelio, rappresentante di un atteggiamento di apertura nei riguardi dei lapsi.
Novaziano, che era in proposito rigorista, a capo di una consistente fazione e sostenuto dagli scismatici della Chiesa cartaginese, si fece a sua volta consacrare vescovo, dando origine a uno scisma caratterizzato da grande severità in materia penitenziale. La setta dei «Novaziani», con le sue dottrine ispirate all'ideale di una Chiesa di alta purezza e nobiltà, continuò ad avere seguaci fino al VI secolo, agevolata dalla tradizione — probabilmente attendibile — che Novaziano fosse morto martire durante la persecuzione di Valeriane (257-8).
Novaziano è il primo grande scrittore e al contempo il primo teologo in lingua latina del clero di Roma. Tuttavia, forse a causa delle polemiche relative al suo scisma, la tradizione delle sue opere risulta turbata e confusa fin dall'antichità. Vengono ormai concordemente assegnati a Novaziano, oltre ad alcune lettere, un De Trinitate (il suo capolavoro) e un De cibis ludaicis, erroneamente tramandati sotto il nome di Tertulliano.
Vittorino, vescovo della città di Poetovio in Pannonia (oggi Pettau), è il primo commentatore biblico in latino a noi noto. Morì martire nella persecuzione di Diocleziano (attorno al 304). Sappiamo che commentò vari libri dell'Antico e del Nuovo Testamento, ma a noi rimangono solo un frammento da quello al vangelo secondo Matteo riguardante la settimana della creazione e il Commento all'Apocalisse. Gli appartengono inoltre con ogni probabilità il trattatello Adversus omnes haereses e l'omelia De decem virginibus, opere falsamente per-venuteci sotto i nomi, rispettivamente, di Tertulliano e di Girolamo.
Sugli Atti e le Passioni dei santi, come sul problema delle traduzioni bibliche, si è già detto l'essenziale più sopra. Si potrà aggiungere che ci sono pervenuti vari testi "minori" che risalgono a fine III o inizi IV secolo, relativi per lo più all'ultima grande persecuzione sotto Diocleziano, specialmente di ambiente africano.
Gli anni dalla seconda metà del IV secolo al sacco di Roma sono, complessivamente, uno dei momenti più felici nella produzione letteraria latina, sia per la quantità delle opere, sia per la loro ricchezza culturale, sia per l'eleganza della forma; ma c'è soprattutto un campo di una fertilità veramente prodigiosa, ed è quello della patristica. Padri della Chiesa sono chiamati gli scrittori cristiani di questo periodo, sia greci sia latini, i quali compirono l'operazione di fusione tra la cultura classica e quella cristiana, e portarono l'analisi dei problemi etici e religiosi a sottigliezze e profondità mai raggiunte fino allora. Si può dire — ed è stato detto — che nell'epoca antica ci furono due momenti fondamentali per la definizione dell'uomo, delle sue caratteristiche sociali e culturali: il V e il IV secolo a.C., in Grecia, ed il IV e V secolo d.C. per il pensiero cristiano.
Il mondo latino continua ad essere, almeno in parte, debitore di quello greco, come attestano le numerose traduzioni, ma riesce anche a produrre figure di primissimo piano, sotto l'aspetto della politica ecclesiastica, della catechesi, dell'analisi dottrinale, e soprattutto è vivificato da una fitta trama di intellettuali per cosi dire intermedi, i quali si assumono con buoni esiti il compito di trasmettere ai fedeli le elaborazioni dei grandi pensatori, di orientarli nelle difficili controversie tra dottrina ufficiale ed eresie, di rendere sempre più capillare e funzionante la rete organizzativa della Chiesa. Fra tutti svettano però i nomi di tre grandi Padri, che per diversi aspetti hanno condizionato tutta la storia del Cristianesimo occidentale, Ambrogio, Girolamo e Agostino.
- Ambrogio
Nacque intorno al 339-340, a Trèviri, una delle principali città della Germania, dove suo padre risiedeva come prefetto del pretorio per la Gallia. Di importante famiglia senatoria, già cristianizzata (imparentata con la potente gens Aurelia, di cui facevano parte i Sìmmachi, pagani), Ambrogio seguì gli studi tipici dei giovani di buona famiglia destinati a fare carriera nell'amministrazione pubblica, frequentando le migliori scuole di Roma.
AMBROGIO
Santo Ambrogio di Milano, mosaico in oro nella basilica di sant’Ambrogio, V secolo.
Poco più che trentenne fu inviato a Milano intorno al 370 come consularis Ligurìae et Aemiliae, in pratica come governatore di tutta l'Italia settentrionale, guadagnandosi la stima e l'affetto dei cittadini, e risolvendo anche situazioni difficili. Dopo la morte (374) del vescovo di Milano Aussenzio, che era ariano, riuscì a sopire i conflitti e le violenze recipro-che tra ariani e Cristiani ortodossi tanto che la sola via d'uscita da uno scontro altrimenti insolubile fu di nominare vescovo proprio lui, nonostante fosse catecumeno, e non avesse quindi neppure ricevuto ancora il battesimo. Mantenne la carica fino alla morte (397), e per oltre vent'anni la sua vita si intreccia con le principali vicende dell'Impero e della Chiesa, alle quali Ambrogio partecipò sempre con l'abilità del grande politico, ma anche con battagliera veemenza. Ebbe un ruolo fondamentale nel concilio di Aquileia del 381, che sancì la sconfitta dell'arianesimo in Occidente; contrastò Sìmmaco nella disputa sull'altare della Vittoria in senato; intervenne sui problemi della Chiesa orientale; fece pressioni su Teodosio per una politica rigorosamente antigiudaica; minacciò di scomunica l'imperatore e gli impose pubblica penitenza dopo un intervento di polizia contro la città di Tessalonica. Ambrogio fu, di fatto, una delle principali autorità dello stato, e il suo ruolo fu assai più incisivo di quello di molti papi, messi in secondo piano dalla sua vigorosa personalità.
Nonostante gli impegni politici ed ecclesiastici, Ambrogio compose un numero notevole di scritti, anche se non tutto quello che ci è pervenuto sotto il suo nome va attribuito con certezza a lui. Novantuno lettere, inni famosissimi (ma quelli sicuramente suoi sono soltanto quattro), prediche, discorsi funebri o polemici. Le sue prediche sono state a volte rielaborate e riunite insieme a formare nuove opere. Così è per l'Hexàmeron (sei libri contenenti nove discorsi sulla creazione), per il De sacramentis, per molte delle sue opere sulla verginità (De virginibus, De virginitate, Exhortatio virginitatis, De institutione virginis, ecc.). La teologia trinitaria è affrontata nel trattato De fide, in tre libri, e in vari altri scritti; sul peccato e la grazia è il De paenitentia. Tra le opere più note è il De officiis ministrorum, in tre libri, che elenca i doveri dei sacerdoti e fornisce ad essi, ma anche a tutti i Cristiani, dei precetti di vita; interessante è anche il De Nabùthe sul problema della proprietà e sul rapporto fra i ricchi e i poveri. Numerosissimi i commenti a libri e passi dell'Antico e del Nuovo Testamento, tra cui alcuni Salmi, e il Vangelo di Luca.
La figura di Ambrogio è molto ricca e complessa: risale almeno in parte a lui quel fenomeno di secolarizzazione della Chiesa che la portò ad interessarsi sempre più delle vicende del mondo, ed a sostituirsi progressivamente alle decadenti istituzioni politiche; ma anche a lui, alle sue prediche, si deve la conversione di Agostino e l'acquisizione al Cristianesimo di uno degli spiriti più sottili e capaci di affrontare problemi di altissima teologia e filosofia.
Se la grandezza di Ambrogio come figura storica è senz'altro fuori discussione, più controversa è la valutazione di Ambrogio scrittore. Unanime è, comunque, il giudizio assai positivo sugli inni: l'autenticità di Aeterne rerum conditor, il più noto, iam surgit hora tertia, Deus creator omnium, Veni redemptor gentium è garantita dalla testimonianza di Agostino.
Queste vivaci composizioni (in dimetri giambici catalettici) che hanno condizionato il canto e la musica cristiana, hanno una storia interessante, raccontata dallo stesso Ambrogio nel Sermo contro Auxentium, un discorso antiariano: nel 386 il vescovo era riuscito a strappare agli eretici tutte le chiese di Milano, e quando l'imperatrice Giustina decise che almeno una, la Porziana, fosse destinata alle esigenze del cultodella componente ariana, che fino a pochi anni prima rappresentava la metà del popolo cristiano, Ambrogio andò ad occuparla insieme con una massa di fedeli, per impedire l'entrata delle forze dell'ordine che avevano il compito di restituirla agli ariani.
Per intrattenere gli occupanti durante le lunghe giornate trascorse nella chiesa assediata dall'esercito ed infiammare sempre più i loro animi,Ambrogio pensò di far cantare questi testi dal facile ritmo e dai contenuti edificanti; il successo che ebbero presso i fedeli e il positivo esito della battaglia per la Porziana fecero sì che gli inni entrassero stabilmente nella liturgia milanese e poi in tutta la liturgia cristiana.
Assai efficace è anche l'epistolario, che alterna lettere familiari e lettere ufficiali, espressioni di affetto e di tenera attenzione per il gregge a lui affidato e severe minacce di punizioni divine. Si tratti di fondamentali vicende della storia dell'Occidente romano, o dei doveri dei Cristiani, Ambrogio dimostra una raffinata eleganza nel raccontare e una brillante capacità di presentare tutte le questioni sempre nella luce a lui più favorevole. Fra i temi ricorrenti c'è naturalmente lo scontro con gli ariani, che Ambrogio condusse non solo nelle massime assise della Chiesa, come nel concilio di Aquileia del 381, ma anche in mezzo al popolo, con molteplici iniziative edificanti come il grande risalto dato al ritrovamento dei corpi dei santi Gervasio e Protasio, allora molto famosi a Milano; nelle lettere di Ambrogio è anche l'eco dell'ultima battaglia contro il paganesimo, la più volte ricordata disputa sull'altare della Vittoria, che i senatori volevano ricollocare nella Curia: Sìmmaco, come abbiamo visto, preparò un elegantissimo e convincente discorso in questo senso, ma due lettere durissime di Ambrogio dissuasero l'imperatore dal prestare ascolto alle richieste dei pagani. Con un frequente uso di citazioni bibliche, ma anche con un latino chiaro e perfino elegante, l'epistolario tratteggia il ruolo del vescovo — o almeno di un grande vescovo — nella tarda antichità: i suoi impegni spirituali e temporali, i suoi doveri verso la diocesi e verso la Chiesa tutta.
Ai doveri degli ecclesiastici Ambrogio era particolarmente attento, fino a dedicare loro un'intera opera: il De offìciis ministrorum che già nel titolo e nel numero dei libri, tre, rinvia al ciceroniano De offìciis. Del mondo antico si recuperano tutti i valori e i comportamenti compatibili con la nuova etica cristiana: le virtù cardinali, il concetto di diritto naturale, il primato dei diritti della collettività su quelli dei singoli; ma la tesi del libro è che questi princìpi raggiungono la loro completa attuazione solo all'interno di un sistema fondato sulla fede cristiana. Nel continuo confronto fra le idee classiche e quelle moderne Ambrogio opera più o meno consapevolmente degli aggiustamenti e dei travisamenti di concetti e posizioni, e non c'è soltanto una cristianizzazione del pensiero antico: altrettanto evidente è la «classicizzazione» del Cristianesimo, peraltro del tutto coerente con il progetto di integrazione fra Chiesa e Impero di cui Ambrogio era il principale sostenitore.
Come altri scritti, il De offìciis ministrorum nacque da alcuni discorsi tenuti ai sacerdoti della diocesi. Da una serie di omelie per la settimana santa trasse origine anche l'opera esegetica più famosa, L’Hexàmeron, che, come dice il titolo, commenta i sei giorni della creazione, e quindi il libro veterotestamentario della Genesi. L'Hexàmeron è in sei libri, e risente senza dubbio di analoghi scritti di autori cristiani greci. Forse qui più che nelle numerosissime altre opere esegetiche Ambrogio riesce a dare gradevolezza letteraria alla sua scrittura: sa porsi dinanzi al mondo creato con l'ingenuo stupore dell'uomo che vede la natura per la prima volta, ma anche descriverla con una raffinata esposizione che utilizza al meglio le figure retoriche tradizionali
Un tema ripreso in varie opere è quello della ricchezza e della proprietà privata, che Ambrogio condanna quando comporti inammissibili differenze tra ricchi e poveri. Soprattutto nel De Nabùthe (la storia del povero Naboth privato della sua piccola vigna e ucciso dal prepotente re Achab) ma anche nel De Tobia, le accuse contro l'avarizia, strettamente connessa con la passione per il possesso, sono molto forti; anche nel De officiis ministrorum ritornano osservazioni sulla necessità di considerare la terra e i suoi beni come patrimonio di tutti.
Ad Ambrogio sono state attribuite, nei secoli, anche molte opere che certamente non gli appartengono; per alcune di queste (un commento alle Lettere di Paolo) si suole individuare l'autore col nome di Ambrosiaster — cioè falso Ambrogio — che gli fu dato dagli umanisti.
- Girolamo
Sofronio Eusebio Girolamo nacque a Stridòne in Dalmazia intorno al 347:venne a Roma nel 354, studiò nelle migliori scuole della città, avendo per maestri vittorino e Donato, e per compagno il suo futuro nemico Rufino. Viaggiò molto soprattutto in Oriente dove apprese il greco e fu ordinato sacerdote, e trascorso anche tre anni di vita monastica nel deserto della Càlcide (ma non fu favorevolmente colpito dai monaci, troppo dediti alle controversie teologiche). Nel 382 tornò a Roma, dove ebbe un grande successo: il papa Dàmaso lo scelse come suo segretario, e molte nobili dame lo elessero a proprio consigliere spirituale, costituendo un circolo che si ispirava al suo insegnamento. Alla morte di Dàmaso (384) l'autorità e il prestigio di Girolamo caddero rapidamente, e si diffusero pesanti critiche sugli eccessi del suo ascetismo; nel 385 lasciò quindi la città per l'Oriente seguito da alcune delle matrone che si erano affidate a lui. Per sua iniziativa furono fondati conventi maschili e femminili, uno dei quali nel 389 a Betlemme, dove Girolamo trascorse l'ultimo periodo della sua vita e dove mori, nel 419 o nel 420.
L'opera principale di Girolamo, che ha condizionato tutta la cultura occidentale, è la traduzione in latino della Bibbia, la cosiddetta Vulgata. Di lui abbiamo anche un ricco epistolario; tre vite di monaci eremiti; commenti a libri dell'Antico e del Nuovo Testamento; testi di polemica religiosa, come l’'Apologià adversus libros Rufini in tre libri e il Contra lohannem Hierosolymitanum episcopum, sulla controversia origeniana; l'Adversus lovinianum, sull'ascetismo e la verginità; \'Adversus Vigilantium, sul culto dei martiri; il Dialogus adversus Pelagianos, in tre libri, contro l'eresia di Pelagio; traduzioni dal greco di autori cristiani. Per gli studi di letteratura sono particolarmente importanti due scritti: il Chrònicon, che traduce ed amplia l'opera dallo stesso titolo dello scrittore greco Eusebio, con morte importanti notizie sugli autori latini antichi, e il De viris illustribus, con 135 biografie di scrittori cristiani, da S. Pietro allo stesso Girolamo.Se non come uomo di lettere, almeno come uomo di Chiesa, Girolamo mostrò in più occasioni un carattere decisamente difficile: e ciò può rendere conto delle molte inimicizie che si creò ai suoi tempi, e dei giudizi spesso molto severi degli studiosi moderni. Caratteristica da questo punto di vista è soprattutto la sua aspra polemica con Rufino: Girolamo aveva a lungo condiviso il suo entusiasmo per Orìgene e per il suo metodo di interpretazione della Bibbia fondato sulla lettura allegorica, per cui i vari passi non andavano intesi in senso letterale, ma ricercando un più profondo significato nascosto; Girolamo anzi era stato il promotore della diffusione di Orìgene e delle sue teorie in Occidente, con molte traduzioni latine delle opere del pensatore greco: fu perciò assai discutibile il voltafaccia del 395, quando, preoccupato di possibili aspetti poco ortodossi del pensiero origeniano, egli scrisse un duro attacco contro il vescovo di Gerusalemme, Giovanni, che non condivideva la sua nuova posizione, ed era invece un sincero sostenitore di Orìgene. All'attacco a Giovanni rispose Rufino, ma in toni distesi e abbastanza sereni, dichiarando di non condividere il ripensamento di Girolamo, e di voler anzi continuare l'opera di lui, proseguendo nelle traduzioni dei testi di Orìgene: la risposta fu il violento scritto di Girolamo contro Rufino del 402-403, dove si evita qualsiasi discussione sulle idee e sui problemi religiosi che sarebbero dovuti essere al centro del dibattito, e si sceglie la via dell'invettiva personale e dell'improperio.
Su questo piano Girolamo ricorda la violenza di un Tertulliano; ma la sua aggressività è molto meno giustificata, perché sono profondamente cambiati i tempi e il Cristianesimo non è più minacciato dalle persecuzioni;
inoltre all'origine si avvertono motivazioni personali non sempre disinteressate, piccole e grandi ambiguità, gli eccessi di chi vuole rimediare a posizioni precedentemente assunte presentandosi poi come il più sicuro sostenitore delle tesi opposte.
Del carattere aspro di Girolamo è testimone anche l'epistolario: a parte le numerose lettere che hanno direttamente per argomento la polemica origeniana, dalla lettura dell'epistolario emerge netta la figura di un uomo brillante, affascinante, pieno di ingegno, ma anche violentemente emotivo, condizionato dal desiderio di primeggiare, non disposto ad accogliere serenamente le obiezioni o a tollerare pareri diversi dal suo.
Alcune lettere sono divenute famose, soprattutto quelle in cui Girolamo affronta il problema del rapporto fra Cristianesimo e tradizione classica; notissimo è il sogno da lui narrato e avvenuto durante il primo soggiorno in Terrasanta: Girolamo aveva portato con sé nel deserto alcuni classici, e continuava a leggerli alternandoli ai testi di fede, finché una notte gli comparve in sogno il giudice divino, che lo rimproverò e gli domandò chi fosse; alla risposta di Girolamo «Sono cristiano», Dio replicò “Ciceronianus es, non Christianus”, e questo convinse Girolamo ad una solenne abiura del classicismo e alla promessa di non prendere più in mano un autore latino.
Ma la promessa non fu certamente mantenuta, e i rapporti di Girolamo con Roma e la sua cultura furono comunque più intensi di quanto forse lo scrittore stesso avrebbe voluto: in un'altra lettera, successiva al sacco di Roma del 410, egli esprime il proprio sbigottimento per la caduta della capitale del mondo e la sensazione che ormai tutto stia cambiando, e che il venir meno delle consolidate strutture politiche e culturali dell'Impero non possa essere privo di conseguenze anche sul piano religioso.
Ma il capolavoro di Girolamo è, come si è detto, la Vulgata. Del testo biblico circolavano già varie traduzioni latine, che proprio per il loro numero e le non poche differenze creavano vari problemi; di qui la necessità di una revisione che stabilisse un testo definitivo e canonico.
Durante il periodo romano Girolamo, su incarico di papa Damaso, allestì la traduzione del Nuovo Testamento e una traduzione dei Salmi, effettuata sul testo greco più diffuso, quello cosiddetto dei Settanta, che traduceva a sua volta l'originale ebraico. Dopo la partenza da Roma, nei lunghi anni di Betlemme Girolamo riprese il lavoro, utilizzando per la traduzione l'edizione della Bibbia preparata da Orìgene (la cosiddetta Esapla) che riportava su sei colonne il testo ebraico, la sua traslitterazione e quattro diverse traduzioni greche; Girolamo si convinse ben presto della necessità di tradurre in latino direttamente dall'originale ebraico, l’Hebraica veritas, senza passare per l'intermediario di un testo greco, e riprese e perfezionò per questo scopo i suoi studi di ebraico. In quindici anni di lavoro costante e fervido, fra il 391 ed il 406, l'opera fu completata.
Con la traduzione di Girolamo la Chiesa d'Occidente ebbe finalmente un testo unitario e abbastanza attendibile, destinato a rimanere praticamente fino ad oggi come unica versione autorizzata circolante in tutti i paesi di lingua latina prima, neolatina e germanica poi.
Il successo della Vulgata non fu però immediato: ci furono in primo luogo problemi pratici, che ritardarono la diffusione del nuovo testo, come la necessità di avere un numero sufficientemente alto di copie circolanti;
ci furono le naturali resistenze dei Cristiani che erano abituati a leggere e a citare i libri sacri in un'altra versione; ci furono soprattutto alcune resistenze di carattere ecclesiale, come quella di Agostino. Questi espresse la sua preoccupazione per il pericolo che un testo latino completamente indipendente da quello greco dei Settanta, perché tradotto direttamente dall'ebraico, potesse provocare un allontanamento della Chiesa d'Occidente da quella d'Oriente, che aveva appunto nei Settanta il suo testo ufficiale. In effetti i rapporti fra Chiesa latina e Chiesa greca, divennero col tempo sempre più difficili; d'altronde le distanze fra le due parti dell'Impero erano destinate a crescere sempre più e per motivi anche più concreti ed ineluttabili. In compenso, la Vulgata rappresentò un fondamentale momento di aggregazione per un Occidente devastato e diviso dalle invasioni dei vari popoli germanici, sicché la sua funzione unificante fu largamente prevalente sulle fratture che potè contribuire a provocare.
Resta da dire del Chronicon e del De viris illustribus. La Cronaca di Eusebio era una breve sintesi di notizie fino al 325, un lavoro preparatorio per le più impegnative opere storiografiche dello scrittore greco, ed era preziosa come repertorio di notizie. Durante il soggiorno a Costantinopoli, nel 381, Girolamo la tradusse in latino, e soprattutto la integrò con le notizie più recenti, dal 325 al 378, e con informazioni sul mondo latino che Eusebio non aveva potuto o voluto registrare. Girolamo è particolarmente attento alle vicende di storia letteraria, per le quali può usare una documentazione assai valida, come quella del De viris illustribus di Svetonio; nonostante le inesattezze, dovute anche alla fretta con cui Girolamo era solito lavorare, il Chronicon è assai prezioso, perché le sue fonti sono per noi tutte perdute.
Da Svetonio trae il titolo l'altra opera storiografica di Girolamo, il De viris illustribus, che appartiene al genere delle biografie, e rielabora in parte materiale desunto dalla Historia ecclesiastica di Eusebio, ma aggiunge molte e interessanti vite di scrittori latini cristiani. Le valutazioni sono molto personali, e risentono di antipatie e simpatie: è chiaro che Girolamo preferisce figure rigorose e ascetiche, come Tertulliano, nel quale si riconosce forse anche per la durezza di polemista, mentre maltratta gli esponenti della «secolarizzazione» della Chiesa, e soprattutto Ambrogio.
- Agostino
Aurelio Agostino nacque a Tagaste, una città della Numidia, in Africa settentrionale, nel 354; la madre, Monica, era una fervente cristiana. Studiò dapprima a Madaura, poi a Cartagine, dove, giovanissimo, ebbe un figlio illegittimo; a 19 anni la lettura dell' Hortensius di Cicerone gli causò una profonda crisi spirituale, che lo portò ad accostarsi alla dottrina del manicheismo, la quale tentava di conciliare le esigenze di trascendenza proprie di ogni religione con aspetti di razionalismo assai stimolanti per un intellettuale. Insegnò a Tagaste, poi a Cartagine, infine (nel 384) a Roma. Grazie alla raccomandazione di Sìmmaco, il capo del gruppo senatorio pagano, ottenne la cattedra di retorica a Milano, e qui insegnò dall'autunno del 384. A Milano gli stretti rapporti con i circoli neoplatonici della città, l'ascolto delle prediche di Ambrogio, la presenza della madre, che lo aveva raggiunto col figlio, lo portarono alla definitiva conversione. Lasciato l'insegnamento e ricevuto il battesimo (387) tornò in Africa (sulla via del ritorno gli morì la madre), e qui si dedicò alla vita monastica. Nel 391 fu ordinato prete ad Ippona (oggi Bona, in Algeria), di cui divenne vescovo nel 395.
Agostino
Come capo della diocesi combattè contro varie sette ed eresie, soprattutto contro i manichei, i donatisti ed i pelagiani, ma si preoccupò anche dei problemi concreti dei suoi fedeli, sempre più gravi e pressanti man mano che le strutture dell'Impero cedevano dinanzi alle invasioni. Morì nel 430, mentre Ippona era assediata dai Vandali che, guidati da Genserìco, stavano procedendo alla conquista dell'Africa settentrionale.
Secondo un calcolo del suo amico e discepolo Possidio, Agostino fu autore di 1030 scritti; non tutti ci sono pervenuti, e alcuni possono essere riuniti in raccolte, come i Sermoni o le Lettere, ma si tratta comunque di un numero di opere così alto che non si può ragionevolmente pensare di indicarle tutte. Esse coprono un arco di cinquant'anni, dai primi lavori composti a Cartagine intorno al 380 fino ai trattati databili agli ultimi anni di vita. Una suddivisione tradizionale le raggruppa in: 1) opere autobiografiche; 2) opere filosofiche; 3) opere apologetiche; 4) opere dogmatiche; 5) opere polemiche; 6) opere morali; 7) opere esegetiche; 8) lettere; 9) sermoni; 10) opere poetiche.
Alle opere autobiografiche appartengono le Confessiones, l'opera più nota e diffusa, in tredici libri. Il titolo non fa tanto riferimento ad una confessione dei propri peccati, ma significa piuttosto «lode, esaltazione di Dio». Scritte nei primi anni di vescovato, fra il 397 e il 400, nei primi nove libri raccontano le vicende di Agostino dalla nascita alla morte della madre, nel X affrontano il problema del tempo, e negli ultimi tré contengono un commento al testo biblico della creazione. Allo stesso gruppo si possono assegnare le Retractationes, due libri composti nel 426-427, in cui Agostino riesamina e corregge tutte le sue opere precedenti, eccetto i Sermoni e le Lettere che non fece in tempo a rivedere.
Tra le opere filosofiche, alcune delle quali sono perdute, vanno ricordati almeno i Dialoghi di Cassiciaco (386-387), tre opere in forma dialogica (tre libri Contra Academicos, un De beata vita, due libri De ordine), che riportano le discussioni del gruppo di intellettuali che si era ritirato con lui in una villa di Cassiciaco presso Milano durante la crisi spirituale che precedette la conversione, e i Soliloquia, in due libri, con il dialogo fra Agostino e la Ragione sulla conoscenza di Dio e dell'anima. A questo gruppo si possono assegnare anche il De musica in sei libri, dove si sostiene che l'armonia musicale è fondata su precise norme matematiche, e riflette la divina armonia del creato; e il De magistro, un dialogo col figlio sui metodi e i limiti dell'insegnamento scolastico.
Opera apologetica è il De civitate Dei, in ventidue libri, scritti fra il 413 e il 427; è, con le Confessioni, uno degli scritti di maggiore importanza, destinato ad avere grande diffusione tra i contemporanei e successo fra i posteri. Dopo il sacco di Roma del 410 i pagani accusavano i Cristiani di aver provocato lo sfaldamento e la caduta dell'Impero; Agostino risponde ribadendo gli errori del paganesimo, e teorizzando quindi l'esistenza di due città, la città terrena, del diavolo, e la città celeste, di Dio; i confini delle due città non coincidono con confini politici, anzi, esse coesistono addirittura all'interno di ogni singolo. Gli stati, espressione della città terrena, sono destinati a morire, ma la città di Dio è eterna.
Fra le opere dogmatiche la principale è il De Trinitate, quindici libri che impegnarono Agostino per 20 anni, dal 399 al 419: in essi è affrontato il problema della Trinità sulla base di citazioni bibliche e di speculazioni filosofico-teologiche.
Le opere polemiche si oppongono alle dottrine dei manichei, come ad esempio i tré libri De libero arbitrio, completati ad Ippona, in difesa di quella libertà di scelta che i manichei negavano, o soprattutto i trentatre libri Contra Faustum Manichaeum, del 397-400, con la definizione del rapporto tra fede e ragione;contro i donatisti sono i sette libri De baptismo del 400-401 e il Post conlationem centra Donatistas, del 412, con la difesa della validità dei sacramenti, indipendentemente dalle condizioni di grazia del sacerdote, e contro forme di contestazione violenta che mescolavano rigorismo religioso e istanze di giustizia sociale, costituendo bande di infatuati come i circumcelliones che andavano devastando le grosse proprietà; alla disputa contro i pelagiani appartengono il De spiritu et littera del 412 e il De praedestinatione sanctorum, del 428-429, per chiarire il ruolo della grazia divina nella salvezza, e l'impossibilità che l'uomo si salvi con le sue sole forze. Altri scritti si occupano dell'arianesimo e di altre eresie.
Del gruppo delle opere morali fanno parte scritti contro la menzogna, sulla verginità, sul matrimonio e più in generale sul comportamento da tenere in vari casi della vita. A questo gruppo appartengono anche il De opere monachorum, del 400, sulle attività a cui debbono dedicarsi i monaci, ed il De doctrina Christìana in quattro libri, un altro degli scritti di maggior importanza, iniziato nel 397 e completato solo nel 426. In esso Agostino si occupa di come debbano essere tenute le prediche, e soprattutto di come debbano essere interpretati i testi biblici;
particolarmente importante è il IV libro, che analizza i rapporti fra la retorica classica e la retorica cristiana, e quindi fra la tradizione culturale greco-latina
e le nuove esigenze di una fede che non vuole operare selezioni di classe o di istruzione.
Tra le opere esegetiche sono molto numerose quelle che riguardano i primi libri dell'Antico Testamento, e in particolare la Genesi. Sul Nuovo Testamento vanno ricordati, fra gli altri, i quattro libri De consenso evangelistarum, scritti intorno al 400, che esaminano e tentano di risolvere le contraddizioni fra le quattro narrazioni evangeliche, e i vari lavori sul testo di Giovanni.
Le lettere sono oltre 200, di vario argomento e di diversa estensione, e insieme con quelle di Agostino ci sono state tramandate anche alcune epistole dei suoi corrispondenti. Si va da semplici biglietti a veri e propri trattati o a relazioni stenografiche di sedute del clero di Ippona; tra i destinatari più noti sono Girolamo, a cui Agostino scrive su problemi di esegesi biblica, e Paolino di Noia.
I Sermoni sono più di 500, anche se non tutti quelli attribuitigli sono veramente suoi. A volte esaminano passi biblici, altre volte hanno per argomento le vicende di martiri e di santi, altre volte prendono spunto da problemi morali e di comportamento o da particolari ricorrenze. Si distinguono sempre per la chiarezza dell'esposizione e per l'efficacia della nuova retorica cristiana a cui sono ispirati, quella teorizzata nel De doctrina Christiana.
Pochissime le composizioni in versi: in pratica merita di essere ricordato sor tanto il carme Psalmus contra partem Donati del 394.
- le Confessioni
Agostino è il più ricco e originale dei pensatori latini, e al tempo stesso uno scrittore elegantissimo, che sa dare alle sue profonde elaborazioni da un lato una chiarezza ammirevole, dall'altro un'efficacia emotiva che fa capire al lettore di trovarsi dinanzi ad idee di portata poderosa. Le sue teorie hanno dominato gran parte del Medioevo, anzi si può dire che ne siano state all'origine; ma quando la società occidentale affrontò il nuovo cambiamento epocale, dal Medioevo all'età moderna, fu ancora a lui che la Riforma protestante fece ricorso per trovare i fondamenti teorici delle proprie dottrine. Le sue argomentazioni filosofiche sono sottilissime e straordinariamente moderne; si pensi alla scoperta della relatività del tempo, che non è una categoria assoluta, ma esiste solo nella storia del creato, ed assume aspetti diversi a seconda dei diversi soggetti che se ne servono: il passato, in quanto tale, non è più, il futuro non è ancora, il presente è il fugace momento di passaggio fra questi due non essere, sicché è più opportuno parlare di una memoria presente del passato, di un'aspettativa presente del futuro, di una consapevolezza presente del presente. E non meno sottili e fertili di sviluppi sono le sue considerazioni sul rapporto fra destino, grazia divina, peccato originale e libero arbitrio, che lo portano ad una complessa dottrina che respinge contemporaneamente sia le posizioni manichee, più rigidamente deterministiche, che privavano l'uomo di qualsiasi possibilità di intervento, sia quelle più seducenti del pelagianesimo, che accentuavano lo spazio di autonomia dell'uomo, e garantivano la salvezza per i soli meriti individuali.
Riuscire a tracciare in breve un quadro sia pure del solo aspetto letterario dell'immensa produzione di un uomo capace di raggiungere le parti più nascoste della sua anima e di scriverne usando magistralmente tutti gli artifizi formali della retorica è un'impresa disperata: Agostino ha sempre qualche sorpresa, qualche balzo improvviso, che rendono precarie e discutibili tutte le sistemazioni. Si pensi alla drammatica introspezione delle Confessioni, nelle quali l'autobiografia giunge a livelli di analisi psicologica mai raggiunti in precedenza e difficili da trovare anche in opere di epoche successive: l'angoscia per il peccato, oppressivamente presente nelle descrizioni dell'infanzia e della fanciullezza; i drammatici travagli delle crisi; la famosa scena della conversione con la voce infantile che ripete tolle et lege, «prendi e leggi», Agostino che apre a caso la Bibbia e trova nella lettera di Paolo ai Romani le parole che segnano il suo passaggio dalla vita mondana all'ascesi del Cristianesimo; sono tutti quadri di grande effetto, per l'abilità di enfatizzare il sentimento, di mescolare al pathos un linguaggio lirico forte di coloriture poetiche, in cui anche le frequenti reminiscenze bibliche forniscono un'atmosfera di commossa sacralità.
Ci si trova davanti ad uno scritto esemplare anche per quanto riguarda le novità introdotte dal Cristianesimo nei canoni dei generi letterali antichi:
il protagonista non è un personaggio eccezionale per il ruolo che ricopre o per le sue vicende, ma un comune peccatore, che per volontà di Dio ha trovato la strada della salvezza, come tanti altri prima e dopo di lui; gli avvenimenti non sono eccezionali o meravigliosi in sé, ma diventano tali solo per la presentazione che ne fa l'autore, per la sua capacità di ingrandire a dismisura il più piccolo particolare, di dare dignità a fatti che la letteratura tradizionale passava sotto silenzio o riduceva al solo registro del comico
Eppure un'opera così dichiaratamente autobiografica, anche se di biografìa intcriore, di storia di un'anima, si chiude con quattro libri che il lettore moderno trova difficoltà a legare con i primi nove, ed anche l'ipotesi che il passaggio dalla biografia individuale al commento allegorico della Genesi serva a sottolineare il rapporto fra uomo e natura, il ruolo di Dio creatore, e l'opportunità di cantargli le lodi, sembra un filo ancora insoddisfacente per un progetto che nella mente dell'autore doveva forse essere più complesso e significativo.
Anche lo stesso titolo è poco chiaro: non si tratta della confessione nel senso che le diamo noi moderni, anche se Agostino dichiara pubblicamente tanti suoi peccati e se ne accusa per chiedere perdono a Dio; c'è piuttosto la testimonianza resa a Dio, il ringraziamento per avergli indicato la strada attraverso il peccato, e insieme la lode per la meravigliosa architettura della creazione: le Confessioni sono in tutta la loro estensione un'unica, immensa preghiera a Dio, una contemplazione del bene da comprendere e conseguire dopo essere passati attraverso la sua negazione.
Ogni volta che le Confessioni, nella storia millenaria della loro fortuna, s'incontreranno con la passione per il dialogo inferiore, con la forma dell'indagine introspettiva, con il gusto per la letteratura dei ricordi, troveranno sempre ammiratori pronti a lasciarsene suggestionare; il modello sarà attivamente operante (o almeno presupposto, qualche volta in polemica) in un umanista pronto alla confessione come Petrarca, nell'ardore religioso di Luterò e Calvino, nell'empito contemplativo dei mistici spagnoli, nella pacata riflessione di Montaigne, nei giansenisti e soprattutto in Pascal, fino a che la «poesia della memoria» farà di Agostino giovane un eroe romantico.
- La città di Dio
E così è anche per l'altro grande capolavoro, la Città di Dio: qui la grandezza dell'idea di fondo, che la storia non deve essere più storia delle nazioni, ma storia dell'umanità, e il fondamentale contributo che essa reca all'edificazione di un sistema ideologico del Cristianesimo, debbono fare i conti con problemi di inquadramento per noi ancora irrisolti, e resi più complessi dalla pubblicazione avvenuta per gruppi di libri via via che la stesura procedeva. Questo può spiegare le ripetizioni e qualche contraddizione, m» non basta a chiarire le difficoltà nello stabilire il rapporto fra Chiesa e città di Dio, fra città terrena e stato pagano-temporale, che a volte sembrano identificarsi, a volte invece avere ruoli ben distinti.
Certo, nella vasta produzione di Agostino, la Città di Dio è l'operi non solo più imponente per impegno e mole (l'autore stesso la definiva «un grande e arduo lavoro», magnum opus et arduum) ma anche la più consapevole che egli abbia mai scritto: si trattava di contrastare definitivamente la forza della grande intellettualità pagana, di respingere la minaccia insiti nel neopaganesimo letterario e filosofico che ancora cercava di imporre " proprio primato culturale. Non si trattava solo di opporsi a conservato" intransigenti ma singolarmente isolati, quanto invece di impedire che l'aristocrazia intellettuale — coscientemente e coerentemente organizzata — temprasse contro la diffusione del Cristianesimo la prestigiosa tradizione pagana Vista in questa luce, la Città di Dio e l'ultimo atto di un lungo dramma:scritta da un antico protetto di Sìmmaco (l'autorevole campione del «partito» pagano), essa doveva sancire il definitivo ripudio del paganesimo da parte di un'aristocrazia che aveva preteso di dominare la vita intellettuale della sua epoca.
Agostino2
Basterà ripensare ai Saturnali di Macrobio per riconoscere chiaramente i gusti di questo ambiente di conservatori: un libro di conversazioni immaginarie che ritrae i grandi tradizionalisti romani al tempo del loro apogeo (intorno al 380). In queste conversazioni possiamo cogliere qualcosa di più che non l'aristocratico godimento di un grande passato: è tutta una cultura che lotta per sopravvivere. La Vecchia Tradizione, la vetustas, deve adesso essere «sempre venerata». Ci troviamo di fronte a un curioso fenomeno, quello della conservazione nel presente di tutto un sistema di vita, che si cerca di salvare trasfondendo in esso l'inviolabile sicurezza di un passato venerato. Ma non era tutto: questi uomini erano anche profondamente religiosi; potevano gareggiare con i Cristiani nella loro solida credenza in premi e pene dopo la morte. Si può anzi ricordare che Macrobio aveva scritto anche un commento al Sogno di Scipione in cui si mostrava come «le anime di coloro che hanno ben meritato dalla società umana lasciano il corpo per ritornare al Cielo a godervi una beatitudine eterna». A questi uomini il Cristianesimo appariva come una religione disgiunta dagli assunti naturali di tutta una cultura. A loro, anzi, i grandi platonici dell'epoca. Piotino e Porfirio, potevano offrire una visione profondamente religiosa del mondo, in cui confluiva del tutto naturalmente una tradizione antichissima e profondamente radicata. Le asserzioni dei Cristiani, all'opposto, mancavano di fondamenti intellettuali, mancavano di conoscenze razionalmente conquistate.
È insomma a questa (anzi, contro questa) aristocrazia colta pagana che si rivolge Agostino nella Città di Dio: e mentre mira a costruire un fondamento intellettuale del Cristianesimo, non manca di demitizzare il grande passato dei Romani, rifugio idealizzato in cui la cultura pagana cercava scampo contro l'amara realtà del presente. Con ironia appassionata egli sa mostrare che la storia romana non è affatto piena di exempla morali; che disastri di ogni tipo erano gravi e frequenti nel passato come nel presente; che questi non erano se non i segni della peccaminosità umana; che nulla contavano vizi o virtù dei Romani; che i Romani, anzi, non erano ne migliori ne peggiori di altri popoli; che l'Impero romano, lungi dall'essere l'oggetto privilegiato della Provvidenza Divina, era del tutto inessenziale per la salvazione dell'umanità, era semmai un fenomeno storico destinato col tempo a scomparire. Ogni punto della sua argomentazione necessitava di esemplificazioni e discussioni storiche: il pubblico cui Agostino si rivolgeva era abituato a pensare in termini di storia romana. Così il De civitate Dei, e specialmente i primi libri, è tutta una lunga polemica minuta contro fatti, persone, credenze, pratiche culturali e religiose della storia di Roma (particolarmente del periodo repubblicano): in essa Agostino mostra una straordinaria conoscenza degli storici classici e dei più recenti epitomatori. La sua filosofia della storia raggiunge orizzonti inusitati per ampiezza di tempi e di spazi: da sempre e in tutto l'universo la Divina Provvidenza guida e regge meravigliosamente tutte le cose e tutti gli eventi, preparando la salvezza dell'umanità. Agostino dichiara che gli uomini non sono sempre esistiti e non sono destinati ad esistere sempre; che la giustizia sociale in questo mondo (nella civitas mundi) non è mai raggiunta e compiuta. Le due città (quella terrena e quella divina) hanno avuto il loro principio, avranno i loro progressi e la loro fine. Le due città hanno caratteri opposti anche se esse di fatto convivono intrecciate e mescolate in ogni uomo. Il futuro dell'umanità è che l'inseparabile mescolanza delle due realtà diventi alla fine separazione; con lo sguardo della sua speranza Agostino separava quello che egli ancora vedeva unito e mescolato nella realtà del mondo: al di là delle apparenze egli vedeva appunto due popoli, i fedeli e gli infedeli.
II bisogno di salvare la propria identità di cittadino del Ciclo è, pertanto, il centro di gravita della concezione agostiniana, del suo modo concreto di intendere i rapporti tra la città di Dio e la città del mondo. L'ordinaria società umana deve far posto a un gruppo di uomini consapevoli di essere diversi, a una civitas peregrina, una comunità di cittadini che siano «stranieri in patria». Il peregrinus, lo straniero-pellegrino, dovrà compiere il suo viaggio per uscire dal mondo in cui si trova ad esistere, e raggiungere la città di Dio: egli è appunto peregrinus in quanto è uno «straniero» che temporaneamente risiede nel mondo perché non può rifiutare un'intima dipendenza dalla vita che lo circonda. È questa forse la più affascinante lezione agostiniana: la consapevolezza che l'uomo, anche il Cristiano, è realmente legato a questo mondo, è legato da vincoli che già solo per essere umani sono in qualche modo necessari e mai del tutto ricusabili; questi vincoli impongono doveri comuni che vanno accettati. Cosi, in ultima analisi, la Città di Dio non sarà un libro che propone la fuga dal mondo: resterà un ardente invito a vivere dentro il mondo, ma allo stesso tempo distaccati dal mondo.
II complicato itinerario individuale di Agostino lo ha arricchito di una quantità di tematiche e di spunti, che non hanno forse trovato una definitiva collocazione sistematica, ma proprio per questo esercitano un fascino ancora più grande soprattutto su quelle epoche che, come la presente, rifuggono da costruzioni ingenuamente integrali. Maestro di scuola, si è formato sui testi della tradizione classica, e da essi ha appreso i migliori prodotti della cultura greca e latina; manicheo, è venuto in contatto con le elaborazioni di una setta tra le più vivaci e stimolanti dell'epoca, la cui importanza sul piano del pensiero antico è ora oggetto di attente analisi e rivalutazioni;
neoplatonico, ha approfondito la lezione di quello che per lui è il più grande filosofo dell'antichità. Platone, e al tempo stesso ha partecipato alle elaborazioni filosofiche dell'ultima corrente di pensiero del paganesimo; africano, ha sempre vissuto il suo rapporto con l'Impero in un complicato intreccio di amore per una cultura di cui si sente comunque partecipe e odio verso un potere centrale che dalla periferia si avverte lontano e disattento; raffina intellettuale, ha scelto di cimentarsi con le problematiche più complesse che da tempo travagliavano i pensatori più agguerriti, ed ha addirittura messo a fuoco nuove questioni, non meno angosciose e difficili delle precedenti. uomo di Chiesa, riteneva suo dovere raggiungere il più debole e incolto do suoi fedeli, e si sforzava di scrivere per tutti e non soltanto per una élilte di studiosi. Personalissimo è anche lo stile, fatto di frasi composte di brevi elementi, musicalmente disposti all'interno del periodo secondo precise corrispondenze di durata, rime ed assonanze; uno stile che presuppone una lettura a voce alta, come era quella degli antichi, e perde molto della sua efficacia con la nostra lettura silenziosa, anche se non può comunque sfuggire l'eleganza della costruzione, a volte fin troppo artificiosa, che riesce ad inglobare le numerosissime citazioni bibliche in un discorso continuo senza far avvertire sgradevoli salti di tono.
Agostino si presta alle letture più svariate: ci si può compiacere di individuare le tecniche di costruzione del discorso, restando gratificati nell'individuare un rassicurante sistema di perfetti equilibri, che garantiscono la stabilità dell'insieme; si possono seguire i difficili percorsi del suo pensiero, affannando dietro un ingegno che tende ad alzarsi verso Dio lungo strade ardue tracciate da una logica sottile e spietata; si può a volte gettare lo sguardo negli abissi profondi che cingono queste strade, o verso le cime che a volte si intravedono, anche se ci si rende conto che non si può reggere a lungo a queste tensioni. Con Agostino si sono cimentati i maggiori ingegni di tutti i tempi, ma non è facile trovare chi abbia saputo interpretare e comprendere, senza immiserirla, tutta la sua vitale problematicità.
8) La Chiesa e la cultura greco-romana
Gli scrittori cristiani ebbero inizialmente nei confronti dell'elaborazione intellettuale della società pagana una posizione di rifiuto.
Tuttavia, poiché essa costituiva in Occidente un patrimonio conoscitivo insostituibile. il cui possesso era necessario per la diffusione stessa del messaggio della Chiesa, sorse assai presto l'esigenza, contraddittoria, di giustificarne l'uso.
Si delinea dunque già nel IV secolo, con Gerolamo e Agostino, un atteggiamento che vedremo prolungarsi, tra caute accettazioni e ricorrenti rigetti, nei secoli successivi. Alla cultura profana si guarda sempre con diffidenza,ma essa è accettata per gli "strumenti (di linguaggio e di pensiero) che fornisce.
Si giustifica la lettura di scrittori non cristiani attribuendole la funzione di preparazione allo studio delle sacre Scritture o ammettendo che in essi si trovino anticipazioni della verità non ancora rivelata.
Furono infatti trascritti e utilizzati soprattutto poeti e moralisti: docili all'interpretazione allegorica, utili per le figure retoriche e per le massime che se ne potevano estrapolare.
Il tatto fondamentale è che, nella mutata concezione del mondo, il sapere non è più considerato valore in sé; esso è subordinato alla Rivelazione, cui si attribuisce la qualità di « vera » conoscenza.
Questo processo di assimilazione pratica e insieme di rifiuto dottrinale, cioè di snaturamento del mondo antico, si svolse contemporaneamente al complessivo arretramento culturale che ebbe nei secoli VI e VII una fase di caduta particolarmente grave. Matura in questi secoli la separazione tra mondo latino-occidentale e mondo greco-bizantino; si perde in Occidente la conoscenza della lingua greca, e con essa la possibilità di leggere direttamente quelle opere che erano state il fondamento del pensiero filosofico e scientifico nell'antichità.
9) Testi
- Tertulliano
Questo brano ci porta, sull'onda della foga oratoria di Tertulliano, nel cuore della contrapposizione fra la mentalità religiosa dei pagani e quella dei cristiani. Dopo aver confrontato le dottrine cristiane con quelle di filosofi e poeti della tradizione pagana, Tertulliano si volge in un appassionato discorso a rispondere con tono sostenuto alle irrisioni con cui i pagani dicevano beffardi di esaudire l'aspirazione cristiana al martirio. Passa in lunga rassegna i casi dei noti esempi di virtù pagana e contrappone loro l'autentico eroismo ora deriso nei cristiani: i pagani si illudono di poter così sopprimere la verità, mentre il sangue versato dai cristiani è invece il seme di sempre nuove conversioni (semen est sanguis Christianorum).
"Queste sono le credenze, che nel nostro caso soltanto vengono chiamate pregiudizi, mentre nel caso dei filosofi e dei poeti sono conoscenze sublimi e meravigliose scoperte. Quelli saggi, noi inetti;quelli degni di onore, noi di derisione, anzi, ancor più, di punizione.
Siano pur false le credenze che noi difendiamo, e a ragione siano ritenuti pregiudizi; tuttavia sono necessario. Siano pur inette; ma sono utili, se coloro i quali vi credono sono portati a divenir migliori, per timore della condanna eterna e nella speranza dell'eterna felicità. Non giova dunque a nulla dichiarar false e ritenere inette delle credenze che vi è tutta la convenienza a ritener vere. E perciò non è lecito condannare, senza eccezione per qualsiasi motivo, delle credenze che giovano. E dunque dalla parte vostra il pregiudizio: condannate una dottrina utile. Tanto più che se anche fossero false ed inette, non sono certo nocive per alcuno; perché sono simili a molte altre, per le quali non prevedete nessuna condanna, anche se vane e favolose, e che voi non accusate, tanto che rimangono impunite, come non nocive. In tal genere di cose, del resto, se assolutamente si dovessero condannare, ciò dovrebbe essere al ridicolo, non già alla spada, al fuoco, alle croci, alle belve; della quale iniqua crudeltà non solo il cieco volgo esulta e insulta, ma anche alcuni fra di voi, che cercano di cattivarsi il favor popolare con tali iniquità, se ne gloriano, come se tutto ciò che voi potete su di noi non dipendesse dalla nostra libera scelta.
Certo, se lo voglio, sono cristiano. Allora solamente io sarò condannato, se vorrò esserlo. Dato che ciò che tu puoi contro di me non lo puoi se io non lo voglio, dipende dalla mia volontà ciò che tu puoi, non dal tuo potere. Parimenti anche il volgo esulta vanamente per la nostra persecuzione. Perché parimenti nostra è la gioia, la reclamano per sé coloro che preferiscono esser condannati piuttosto che scostarsi da Dio. Allora coloro che ci odiano dovrebbero dolersi e non rallegrarsi, dato che noi abbiamo raggiunto ciò che desideravamo.
«Dunque», voi dite, «perché vi lamentate, se vi perseguitiamo, dato che desiderate la sofferenza? Non dovreste piuttosto amare coloro che vi consentono di soffrire come voi volete?» Certo, lo vogliamo, ma allo stesso modo della guerra che nessuno sopporta volentieri, per i terrori e i pericoli che reca con sé. Tuttavia si combatte con tutte le proprie forze, e chi si lamentava del combattimento, una volta raggiunta la vittoria ne gode, per la gloria ed il bottino che ha conquistati. Il combattimento è per noi l'essere tratti davanti ai tribunali, dove, col pericolo della nostra testa, combattiamo per il trionfo della verità. Orbene, è una vittoria ottenere ciò per cui si è combattuto. E questa vittoria ha per effetto la gloria di piacere a Dio ed il bottino della vita eterna.
Ma noi soccombiamo! Certamente, dopo aver vinto, però. Perché noi vinciamo, quando siamo uccisi; o, in altre parole, evadiamo quando soccombiamo. Chiamateci pure «gente da sarmenti» e «da palo», poiché voi ci legate ad un palo formato da una mezza asse con un giro di sarmenti allo scopo di bruciarci. Questo è il genere della nostra vittoria, questa la nostra tunica palmata2; su tale cocchio celebriamo il nostro trionfo!
E dunque naturale che noi non torniamo graditi ai vinti, è naturale che ci dichiarino disperati e pazzi. Ma questa disperazione e questa pazzia, presso di voi, quando si tratta della gloria e della fama, fanno innalzare lo stendardo del coraggio. Muzio volontariamente lasciò la sua destra sull'ara3; oh, che sublime animo! Empedocle diede tutto se stesso alle fiamme dell'Etna4 che animo coraggioso! Una certa fondatrice di Cartagine sfuggì a un secondo matrimonio col rogo: o glorificazione della castità e del pudore! [...]
Oh, gloria permessa, perché soltanto umana, che ne a un pregiudizio smodato ne a una credenza disperata viene imputata, nonostante il disprezzo della morte e le atrocità di ogni genere! Soltanto per la patria, per il territorio, per l'impero, per l'amicizia, è permesso di soffrire quanto non è concesso per Dio! E tuttavia a tutti costoro erigete delle statue, dedicate dei ritratti, incidete delle iscrizioni per immortalarli! In quanto vi è, beninteso, concesso da tali monumenti, assicurate a costoro una specie di resurrezione. E colui che attende quella vera da Dio, se per Dio soffre, è un insensato!
Ma suvvia, buoni governatori, molto più stimati dal popolo se gli immolate dei cristiani; crocefiggeteci, torturateci, condannateci, schiacciateci: la prova della nostra innocenza sta nella vostra iniquità! E per questo che Iddio soffre che noi soffriamo queste cose. Perché anche recentemente condannando la cristiana al lenone piuttosto che al leone, voi avete confessato che la perdita della pudicizia per noi è più atroce di qualsiasi condanna e di qualsiasi genere di morte.
Eppure a nulla servono le vostre più ingiuste crudeltà: sono piuttosto un'attrattiva per la nostra setta. Noi diveniamo più numerosi tutte le volte che siamo falciati da voi: il sangue è semente di cristiani! Molti di voi esortano a tollerare il dolore e la morte: così Cicerone nelle Tusculane, Seneca nelle Cose fortuite, Diogene, Pirrone, Callinico, tuttavia le loro parole non trovano tanti seguaci quanti ne trovano i cristiani che insegnano con l'azione. Quella stessa testardaggine che voi ci rinfacciate è un insegnamento. Chi, infatti, alla vista di tale ostinazione non si sente turbato e non ricerca che cosa vi sia al fondo di questo mistero? Chi, quando l'ha scoperto, non si accosta, e quando si è accostato non desidera di soffrire, per acquistarsi intera la grazia di Dio, per ottenere il perdono completo in cambio del proprio sangue? Ogni colpa, infatti, con quel sacrificio è condonata. Ed ecco perché vi ringraziamo per le vostre sentenze. La differenza fra le cose divine e le umane è che, mentre noi siamo da voi condannati, siamo assolti da Dio.
- Minucio Felice
Nel tepore di una bella giornata autunnale, i cristiani Ottavio e Minucio si recano a Ostia per respirare un po' di aria buona. Lì si unisce alla compagnia il pagano Cecilie: da un suo gesto di devozione verso una statua di Serapide nasce un contrasto che, nel corso di una piacevole passeggiata sulla spiaggia, tra ragazzini che giocano coi ciottoli a rimbalzello sulla superficie del mare, barche tirate in secco e l'acqua che disegna arabeschi sulla battigia, si trasforma in un vero e proprio dibattito tra Ottavio e Cecilie, con Minucio in vesti di arbitro. Il brano, di stile fluente e ricercato, introduce nel migliore dei modi il lettore al confronto che seguirà: comunicandogli, soprattutto, un senso di fiducia nell'uomo e nelle cose belle della vita. Era venuto a Roma per affari e per rivedere me, lasciando la casa, la sposa, i figli, e figli che erano ancora nell'età dell'innocenza (la più cara) e spiccicavano ancora le parole a mezzo, in un frasario tutto loro che lo stesso impaccio della lingua inesperta rendeva più delizioso. Non posso esprimere a parole quale gioia prorompente mi avesse fatto vibrare al suo arrivo: aumentava la mia letizia soprattutto il fatto che un così prezioso amico fosse apparso all'improvviso. Pertanto, trascorsi due giorni, quando già il continuo stare insieme aveva soddisfatto l'ansiosa brama di rivederci e a furia di raccontare eravamo venuti a sapere ciò che, a causa della lontananza, ignoravamo l'uno dell'altro, decidemmo di recarci ad Ostia, piacevolissima residenza: che ivi, per mezzo dei bagni di mare, trovavo una cura blanda e appropriata per asciugare gli umori del corpo; per di più, nell'imminenza della vendemmia, le ferie avevano rallentato l'urgenza dei processi. Eravamo infatti nel tempo in cui, cessati i calori, l'autunno si avviava alla sua normale temperatura moderata. Un giorno, mentre di buon mattino ci dirigevamo alla marina per passeggiare lungo la spiaggia, sì che l'arietta, soffiando leggermente, abituava le membra alla sua frescura e la sabbia, ispirandoci un sottile brivido di piacere, ci faceva sentire la sua leggerezza, perché i nostri piedi lasciavano su di essa solo una tenue orma, Cecilio, scorto un simulacro di Serapide, avvicinò la mano alle labbra e vi impresse un bacio, come suoi fare il volgo degli sciocchi credenti.
Allora Ottavio disse: «Non è da uomo degno di lode, fratello Marco, lasciare che un amico il quale ti sta sempre a fianco in casa e fuori rimanga impigliato nella cecità dell'errore volgare a tal punto che, nella piena luce del giorno, tu permetta che egli intoppi nei sassi, sia pure scolpiti e unti e inghirlandati, pur sapendo che il biasimo di questo errore ridonda su tè non meno che su lui». Mentre egli così diceva, avendo attraversato il centro della città, eravamo già arrivati alla zona aperta della spiaggia. Colà l'onda, fluendo lieve, rassodava l'estremità sabbiosa della riva, quasi a disporla, ben battuta, come pista da passeggio. E siccome il mare, anche quando il vento non soffia forte, non è immobile, benché in quel momento non s'abbattesse sulla terra con flutti di bianca spuma, pure ci infondeva un gran diletto con le sue increspature e le volute capricciose del suo ondeggiare, dato che noi bagnavamo le piante proprio sul limite, che di volta in volta l'acqua ora spingeva scherzosamente fino ai nostri piedi, ora ritraen-dosi e cancellandone il tracciato riassorbiva in sé. Procedendo con calma e lentezza lungo il limite della spiaggia capricciosamente incurvata ingannavamo il cammino coi piacevoli discorsi fatti da Ottavio che ci intratteneva sul suo viaggio per mare. Ma avendo percorso un tratto di strada sufficiente ad esaurire quest'argomento, ritornavamo sui nostri passi e, giunti a quel punto in cui le barche tirate in secco stavan ferme, sollevate a mezzo di paranchi dal terreno inclinato e sdrucciolevole, scorgemmo alcuni fanciulli che si divertivano a scagliare a gara sassolini nel mare. Questo gioco consiste nello scegliere sulla spiaggia un ciottolo rotondo, levigato dall'urto delle onde, e, tenendolo dalla parte del palmo e ruotandolo, scagliarlo nell'acqua, stando inclinati in avanti e quanto più si può verso terra, in modo che quella specie di dardo, nel cadere con calcolato impeto, rada la superficie del mare e rimanga a galla, e nel saltellare dalla cima di un'onda all'altra, continui ad essere visibile nei suoi balzi sfiorando la sommità dei flutti. Si riteneva vincitore tra i fanciulli quello il cui sasso giungesse più lontano e compisse un maggior numero di rimbalzi.
In quella, mentre tutti eravamo attratti dalla piacevolezza di questo spettacolo, Cecilie mostrava di non fare attenzione e di non divertirsi alla gara, ma, rimanendo separato da noi in un angoscioso silenzio, recava dipinto sul volto un segreto rammarico. Io allora: «Che cosa c'è? Non riconosco, Cecilie, la tua ben nota vivacità e ricerco invano quell'allegria che ti brilla negli occhi anche nelle questioni serie». Ed egli: «Da un po' mi turbano e mi rimordono quelle parole con cui il nostro Ottavio, apostrofando tè e facendo mostra di accusarti di negligenza, ha voluto in realtà lanciare contro di me l'accusa, ben più grave, di ignoranza. Perciò non lascerò la cosa a mezzo: tant'è, il mio dissenso da Ottavio è completo, e va esaminato sino in fondo. Se vi aggrada che io, uomo proprio di quella setta di ignoranti, mi metta a discutere con lui, dovrà constatare che è più facile mettersi a sproloquiare fra compagni di setta che porre a serio confronto gli effetti della propria saggezza con quelli della saggezza altrui. Però mettiamoci a sedere su questi frangiflutti di pietra posti in fila verso l'alto mare, a protezione dei bagnanti; così potremo a un tempo ristorarci del cammino fatto e discutere più posatamente». Alle sue parole ci mettemmo a sedere in maniera che io rimasi in mezzo fra gli altri due postisi ai miei fianchi: ed essi lo fecero non per rispetto al mio ceto o alla mia carica, dato che l'amicizia o è stretta fra uguali o rende uguali quelli fra i quali è stretta, ma perché io, quale arbitro della disputa, potessi prestare più comodamente orecchio all'uno e all'altro, stando a fianco di entrambi, e, rimanendo in mezzo fra i due contendenti, li tenessi separati.
Il trattato De doctrina christiana, composto da Agostino nei primi decenni del V secolo, fissò i criteri su cui si sarebbe fondata, nei secoli successivi, la lettura degli autori pagani. Ne riportiamo una pagina.
Mi sembra che si possa insegnare utilmente ai giovanetti studiosi e ricchi d’ingegno, timorati di Dio e in cerca della vita beata, che non s'arrischino a seguire, per acquistare la felicità, nessuna di quelle dottrine che: si professano al di fuori della Chiesa di Cristo ma che invece le esaminino sobriamente e diligentemente. E se ne troveranno alcune istituite dagli uomini, diverse per la diversa volontà dei fondatori o ignorate per i sospetti suscitati da coloro che in esse si smarriscono, soprattutto quelle che hanno attinenza coi demoni attraverso patti ed accordi basati sull’uso di certi segni, le ripudino del tutto e le detestino e distolgano pure lo studio dai superflui e sregolati principi degli uomini. Ma non trascurino quei principi umani che sono utili alla comunità, secondo la stessa necessità di questa vita. Quanto alle dottrine che si riscontrano presso i pagani, oltre LA storia delle cose, del passato o del presente, riguardanti la vita materiale, con cui sono collegati anche esperimenti ed ipotesi di discipline che si riferiscono al corpo, e oltre la tecnica della disputa e del calcolo, non vi e nulla, a mio giudizio, che sia utile. E in tutte queste cose occorre applicare il
Nulla di troppo
Soprattutto in quelle pertinenti la vita materiale, evolvono col tempo e si collocano in luoghi determinati. Ma se per caso quelli che vengono chiamati filosofi dissero alcune cose vere e in armonia con la nostra tede, e soprattutto i Platonici, non solo tali cose non debbono essere temute, ma anzi debbono essere loro sottratte a nostro uso come se fossero in mano di ingiusti possessori. Gli Egizi per esempio non avevano solamente idoli e gravi oneri che il popolo d'Israele detestava e fuggiva, ma anche vasi e ornamenti d'oro e d'argento e vesti, tutte ricchezze che quel popolo, lasciando l'Egitto, di nascosto rivendicò a sé con l'intenzione di farne un uso migliore, non d'autorità propria ma per ordine di Dio, mentre gli Egizi inconsapevolmente tornivano quelle cose che non usavano appropriatamente. In modo analogo tutte le dottrine dei pagani non solo hanno simulate e superstiziose finzioni e gravi carichi di soverchia fatica,che ciascuno di noi, uscendo dalla comunità dei pagani sotto la guida di Cristo deve detestare ed evitare, ma contengono anche discipline liberali adeguate al profitto della verità e alcuni utilissimi precetti morali,e si trovano presso di loro i principi, di verità che attengono anche al culto di un solo DIO così come l’oro e l’argento che essi non inventarono, ma che, per così dire, scavarono da certe miniere della provvidenza divina, che è diffusa per ogni dove. Ciò invece di cui fanno abuso perversamente e ingiuriosamente in ossequio ai demoni, il cristiano deve portarglielo via, quando si allontana moralmente dalla loro misera società al giusto scopo di predicare la buona novella. Anche le loro vesti,cioè quelle istituzioni degli uomini adeguate al consorzio umano, di cui non possiamo far senza in questa vita, sarà lecito riceverle e possederle, per convertirle in uso cristiano.
Uno studioso di filologia romanza, Aurelio Roncaglia, ha definito con la formula « reiezione dottrinale e assimilazione pratica » l'atteggiamento della Chiesa dei primi secoli nei confronti della tradizione classica. Si studiavano i classici per potersene servire e se ne rifiutavano tuttavia i valori filosofici, morali, estetici. All'interno di questo atteggiamento si ebbero tuttavia oscillazioni e contraddizioni tra posizioni rigoriste e altre più concilianti. Ce ne danno un esempio le dichiarazioni di Gregario magno nei due testi seguenti (fine del VI secolo).
« Lo studio dei libri profani..., se di per se stesso non giova alle sante battaglie dello spirito, quando però sia congiunto allo studio delle Sacre Scritture ha per effetto una più penetrante conoscenza delle Scritture stesse. Perciò appunto si devono apprendere le arti liberali: per conseguire attraverso il loro studio preparatorio una più penetrante intelligenza della parola divina. Questo desiderio 5 d'apprendere tolgono dal cuore di taluni gli spiriti maligni: perché ignorino gli elementi della cultura profana e non giungano a toccare le vette della cultura spirituale.. I diavoli infatti sanno benissimo che, istruendoci nelle lettere profane, ne conseguiamo aiuto alle spirituali... Dio ha posto innanzi a noi questa scienza profana per fornirci a salire una scala, la quale dovesse innalzarci all'altezza io della divina Scrittura. E volle mettercela innanzi per prima proprio per insegnarci a passare su di essa alle cose dello spirito.'Per questa ragione Mosè stesso, che bandi a noi i primi principi della parola divina, non li apprese per primi, ma per poter capire ed esprimere le cose divine cominciò con l'istruire l'anima ancora rozza in tutte le scienze degli antichi Egizi... E così Paolo, il vaso d'elezione, 15 s'istruì sotto Gamaliele prima d'essere rapito in paradiso e di venir sollevato all'altezza del terzo cielo: e forse proprio per questo sovrasta per dottrina agli altri apostoli, perché apprese studiosamente le dottrine terrene prima che le divine ».
« L'esserci riferite molte lodi della vostra cultura ha generato nel nostro cuore tal gioia, che punto non potremmo negare quanto la vostra fraternità aveva chiesto le fosse concesso. Ma dopo ciò giunse a noi notizia, quale non possiamo rammentare senza vergogna: che la tua fraternità insegna a taluni gli elementi della 5 letteratura. Questa notizia ci ha procurato tanto dolore e sdegno da farci volgere in lamento e tristezza i precedenti sentimenti, perché non possono coesistere sulle stesse labbra le lodi di Cristo con le lodi di Giove. E considera tu stesso quanto grave e nefando sia che un vescovo canti quel che non converrebbe neppure a un semplice fedele laico. E benché il nostro dilettissimo figlio, il sacerdote Candido, sopravvenuto di poi e opportunamente interrogato in proposito, abbia negato ciò ed abbia cercato di scusarvi, tuttavia l'impressione non ha potuto ancora dileguare dal nostro animo, che quanto più certe notizie riguardanti un sacerdote riescono esecrabili, tanto più accuratamente e con solide prove occorre sapere se tali notizie sian vere o no. Dunque, se dopo ciò risulterà con evidenza che quanto ci è stato riferito è falso, e che voi non vi dedicate allo studio sciocco delle lettere profane, ne rendiamo sin da ora grazie a Dio, il quale non permise che il vostro cuore si macchiasse con lodi blasfeme d'oggetti nefandi, e passeremo tranquilli e senza esitazione a trattare la concessione di quanto chiedete ».
Fonte: http://www.latinitas.altervista.org/doc/001.doc
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