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Le Argonautiche: Viaggio alla ricerca del vello d’oro
Il mio viaggio inizia con Apollonio Rodio e le sue Argonautiche, quindi con
una delle tematiche principali del mondo greco: il “viaggio”.
Il tema del viaggio, sin dall’antichità aveva fornito alla Grecia, ai suoi
filosofi, poeti, intellettuali, materia di riflessione, creando un grande
patrimonio al quale attingere e al quale rifarsi.
Apollonio Rodio tiene presente l’immensa eredità ricevuta da Omero,
arricchendola ulteriormente con nuovi spunti e tematiche relative
all’epoca in cui vive.
Il motivo del viaggio rispondeva alle intenzioni artistiche di Apollonio
sotto diverse prospettive: era fecondo di implicazioni geografiche,
etnologiche, religiose e culturali, onomastiche; consentiva, quindi, un
largo sfoggio di notizie erudite, in particolare a sfondo eziologico, come
piaceva al gusto alessandrino.
Inoltre l’universale notorietà della vicenda consentiva, da una parte un
gioco di allusioni e anticipazioni, dall’altra i riferimenti critici degli altri
autori, e in particolare ad Omero.
Gli Argonauti giungono nelle tappe in cui la tradizione collocava le
peripezie di Odisseo e rivisitava luoghi e personaggi dell’opera del poeta di
Chio.
Nel tracciato dell’itinerario di ritorno di Giasone, però, si rispecchiano le
nuove conoscenze geografiche acquisite dai Greci durante le numerose
esplorazioni di nuovi mondi e culture cui erano spinti da un’inesausta ed
endemica ansia di sapere.
Le Argonautiche non rappresentano solo un viaggio di tipo “spaziale”.
Si tratta anche di un viaggio metaforico, le cui tappe sono rappresentate
dal progredire di un amore (quello di Medea per Giasone) visto non
nell’assolutezza temporale di una passione ormai esclusiva, ma nella sua
progressione maturata attraverso stadi diversi.
Questi vanno dall’ estatica contemplazione del primo incontro alle
esitazioni e ai pentimenti, dalle ansie alla consapevolezza
dell’irrevocabilità del sentimento. La scena dell’incontro tra Medea e
Giasone è intessuta da un gioco di velate allusioni. Il dialogo è
contrappuntato di silenzi: da una parte c’è Medea ormai vinta dall’amore
dall’altra la seduzione calcolata di Giasone, che alla fine del colloquio
raggiunge “lieto” i suoi compagni, già dimentico della promessa d’amore,
mentre Medea resta sola, nell’estasi di una felicità che presto cede il passo a
nefasti presagi. In questo passo, l’autore allude all’atroce conclusione, che
vedrà Medea abbandonata dal proprio uomo e assassina dei figli.
Il futuro delle predizioni si incrocia col passato, in cui si svolge la vicenda, e
col presente, da cui il poeta osserva lo svolgersi degli avvenimenti.
Lo schema apparentemente cronologicamente lineare del racconto, che alla
Superficie segna la successione degli avvenimenti, cela un’elaborata
tridimensionalità. Da ciò deriva un movimento interno che varia di continuo gli
angoli prospettici, esprimendo una concezione del tempo che raccorda il
periodo del mito con quello della storia.
In tal modo, l’epos si trasforma in un’ opera che si presenta nel suo farsi, nel
suo attualizzare ed avvicinare il mito al presente della scrittura. Ciò si realizza
attraverso la trasformazione del narratore, che da entità invisibile di fa funzione
esplicita: si tratta di una rinuncia alla visione oggettiva e onnisciente del
narratore omerico per privilegiare una visione personalizzata, in quanto
rimanda alla figura del poeta a alla sua posizione culturale e ideologica.
Apollonio, testimone delle istanze del proprio tempo e degno erede della
Tradizione che lo precede, si rivela un poeta autentico, capace di un’indagine
e di una ricerca psicologica che saranno ulteriormente approfondite dalle
Metamorfosi di Apuleio.
Le Metamorfosi: Viaggio alla ricerca dell’identità perduta
Come Apollonio, anche Apuleio si serve dell’archetipo omerico del “viaggio”,
per costruire l’unico romanzo latino giunto a noi per intero: le Metamorfosi.
Si tratta di una storia che cela (sotto un aspetto apparentemente ludico, di tono
scanzonato, caratterizzato dall’inserzione di elementi erotici, piccanti e magici
tipici della fabula milesia) il viaggio iniziatico di uno spirito alla ricerca di se
stesso. Apuleio si serve di dati e motivazioni del racconto popolare, il
“romanzo”, per narrare il travaglio del giovane Lucio, appassionato di
incantesimi e prodigi, che, per via di un fatale scambio di filtri magici, si
trasforma in un asino e solo dopo tormentate peripezie, riuscirà a ritrovare il
suo aspetto umano grazie all’intervento divino di Iside.
L’opera racchiude un significato profondo, non molto distante dal simbolo
Tragico per eccellenza: Edipo. Come per Edipo, la vera colpa della catabasi di
Lucio è la sua smania di sapere, quella curiositas che lo spinge ad agire (anche
ingenuamente) e non lo fa arretrare di fronte ai pericoli. Ciò che Lucio vuole
imparare con la magia, in realtà è dominare le forze dell’occulto, asservire al
proprio potere le forze degli Dei e degli Inferi. Questa volontà è la più tragica
hybris nella quale possa incorrere una creatura umana. E, come Edipo dovrà
pagare la superiore intelligenza con “l’accecamento” e il lungo viaggiare e
vagabondare senza patria, Lucio, in una chiara legge del contrappasso, deve
imbestialirsi nel corpo e nel destino dell’animale più stupido e al tempo stesso
caparbio: l’asino. Lucio, uomo dedito allo spirito, conoscerà le esperienze
terrene più degradanti, che lo porteranno a conoscere una realtà di violenza,
dolore e perversione. Le peripezie dell’asino Lucio costituiscono al contempo
una punizione e il possibile dono di una più adulta maturità: perché il mondo
che egli deve attraversare nelle sue faticose peregrinazioni, mondo dominato
dalla crudeltà e dall’inganno, e dove tutto viene rappresentato in dimensioni
allegoriche e ingigantite, altro non è che la realtà vera dell’esistenza.
Il protagonista impara per la prima volta cosa sia la vita vera, la quotidiana
lotta per la sopravvivenza dell’uomo comune. Il compito espiatorio di Lucio
consiste proprio nella necessità di riconoscere come non si possa arrivare al
mondo dello spirito se prima non si è fatta esperienza di quello empirico e
quotidiano. Analizzare quest’ opera come un percorso di formazione spirituale,
è lo stesso Apuleio a suggerirlo, inserendo nella parte centrale del romanzo la
bella Favole di Amore e Psiche, il cui significato si può interpretare come una
sintesi poetica e favolistica del messaggio generale del romanzo. Il simbolo
della terribile prova da superare per raggiungere l’oggetto amato, allude ancora
una volta all’obbligo di portare a compimento la propria formazione attraverso
le dure prove empiriche della realtà e a non frammentare il proprio “io”, ma ad
equilibrarlo nella serena accettazione delle antinomie che necessariamente lo
compongono. Psiche, ossia l’anima, deve, per completarsi, comprendere in sé
anche gli aspetti concreti, carnali dell’esistenza. Cupido, il “desiderio fisico”,
deve scoprire i valori dello spirito per innalzarsi alla sua frenetica cecità.
Dall’ unione di questi due elementi può nascere la “voluttà” intesa come
Piacere intelligente e penetrazione della vita e dell’amore, in cui le due istanze
(quella spirituale e quella fisica) si armonizzano nella pienezza di una
percezione del “sé” finalmente in equilibrio.
La salvazione finale che Iside opera su Lucio- Edipo- Psiche- Amore, è il
segno che il lungo viaggio è giunto al termine e che l’uomo non può arrivare al
principio divino, allo spirito, senza l’intervento di una divinità e della magia.
“Magia” che diviene, dunque, come potenziamento delle proprie possibilità
umane, “magia” usata come mezzo per disciplinare nella ricerca l’indisciplina
dello spirito.
Fenomenologia dello Spirito: Viaggio alla ricerca delle origini della coscienza
Lo spirito, il soggetto razionale, il cammino della coscienza è altresì l’oggetto
specifico della filosofia moderna che da Cartesio ha posto la soggettività al
centro della sua indagine metafisica. E’ interessante notare il parallelismo
rovesciato che intercorre tra il viaggio empirico di Lucio per raggiungere il
sapere, l’Assoluto, e quello del viaggio metafisico, che la coscienza compie per
scoprirsi spirito, sostanza razionale del mondo; quale emerge da una delle
opere filosofiche più suggestive di tutti i tempi, “La fenomenologia dello
Spirito” del filosofo idealista tedesco Hegel. Essa ricalca i moduli tipici del
romanzo di formazione e costituisce, proprio come le Metamorfosi di Apuleio,
un iter di formazione filosofica. La coscienza hegeliana nel corso del viaggio
ripercorre, prendendo su di sé, tutte le tappe o figure che sono già state
percorse dal resto dell’umanità; la coscienza arriva infine a chiarire a se stessa
di essere la realtà, l’unico soggetto concreto della storia stessa.
La Fenomenologia si presenta, quindi, come un momento propedeutico, un
gradino necessario prima di addentrarsi nella scientificità filosofica, dato che
viene esplicitato l’itinerario da compiersi per il raggiungimento della piena
consapevolezza dello Spirito.
Lo Spirito, per Hegel, rappresenta la totalità della realtà; è uno Spirito che si
autogenera, generando la propria determinazione (negazione) e superandola
pienamente. In questo, possiamo leggere il guadagno hegeliano rispetto alla
speculazione di Fichte (l’io fichtiano non giunge mai a compimento, in quanto
il limite viene rimosso e allontanato all’ infinito, ma mai interamente superato)
e quella di Schelling (per cui l’identità originaria di io e non-io deduce e non
giustifica i contenuti, appiattendoli sotto un manto di identità astratta).
Lo Spirito è caratterizzato da un movimento a spirale, in cui il particolare è
risolto nell’ universale, il reale nel razionale. Nel sistema hegeliano non
sussiste, dunque, differenza fra il piano ontologico e quello logico; ogni
momento del reale, infatti, è momento indispensabile dell’ Assoluto perché
esso si realizza pienamente in ciascuno di questi momenti.
Il movimento a spirale è movimento triadico del riflettersi dell’Assoluto in se
stesso secondo i momenti dell’essere in sé, l’Idea, oggetto della Logica;
l’essere fuori di sé, oggetto della Filosofia della Natura; ritorno in sé dell’Idea
oggetto della Filosofia dello Spirito.
Momento della sintesi è quello dell’affermazione del positivo, che si realizza
mediante il negativo e quindi è una negazione del positivo ad un più alto livello,
è il momento dello speculativo, il vertice cui perviene la ragione, è la
dimensione dell’Assoluto.
Come si legge nella Fenomenologia, di questo Assoluto la filosofia è
conoscenza in due sensi: ha l’Assoluto come oggetto e l’Assoluto come
soggetto, in quanto essa è l’Assoluto che si conosce; quindi l’Assoluto è sia
fine che motore di questa ricerca.
L’uomo è coinvolto tanto quanto l’Assoluto perché non esiste un finito stacato
dall’infinito, l’uomo non è separato dallAssoluto ma ne è parte strutturale
perché l’infinito si fa tramite il finito.
Ecco chiaro, quindi, come la Fenomenologia è, si, la via che conduce la
coscienza finita all’Assoluto, ma coincide con la via che l’Assoluto compie per
giungere a sé.
Hegel parte dagli avvenimenti quali appaiono ai nosri sensi, osservando i quali
ci si accorge che l’essere diviene con un processo dialettico.
Partendo dalla coscienza che conosce il mondo come altro da sé, passando
all’autocoscienza attraverso la quale impara a sapere cosa sia attraverso la lotta
per la vita e la morte (ricordiamo la celeberrima figura della distinzione
padrone-servo), si giunge alla ragione in cui la coscienza acquisisce la certezza
di essere ogni realtà.
Lo spirito è la ragione che si osserva nella sua eticità; la religione è già
autocoscienza dell’Assoluto ma non anora perfetta, solo il superamento della
rappresentazione fa giungere al puro concetto, con il sapere Assoluto.
Dal piano guadagnato dalla Fenomenologia parte la Logica, intesa da Hegel
come lo studio della struttura dell’intero ma anche l’autostrutturarsi dell’intero;
è la scienza del pensiero, dell’Idea pura.
Ma l’Idea, quando si aliena, si dispiega nell’esteriorità, dando origine alla
Natura, che ha lo stesso essere dell’Idea, perché tutto è Idea nell’Idea.
La Filosofia dello Spirito è il momento in cui lo Spirito ritorna in sé dalla sua
alterità; come momento dialetticamente conclusivo, come risultato del
processo-autoprocesso, lo Spirito è la più alta manifestazione dell’Assoluto.
Tutto il pensiero posteriore a Hegel può essere visto come una
“gigantomachia” contro il panlogismo assolutistico hegeliano, una “distruzione
della Ragione”, dove per Ragione deve intendersi quella che Hegel ha tentato
di imporre a tutti i livelli in maniera davvero totalitaristica.
Ed era fatale che in questa operazione di “distruzione” si andasse oltre i giusti
limiti. Molte forme dell’irrazionalismo successivo hanno questa genesi: la
speculazione di Nietzsche è da leggersi come lo smarrimento totale della
razionalità. Distruggendo la presunta tirannide della ragione e della morale
tradizionale, Nietzsche avrebbe voluto coprire i valori veri su cui si regge
l’esistenza umana: avrebbe voluto, cioè, liberare l’uomo, che lui vedeva
soggiogato dalla forza della ragione e dal peso della storia.
La sua filosofia è stata, però, strumentalizzata da alcune ideologie esaltanti la
volontà di potenza della nazione tedesca, come il nazismo ed i regimi totalitari
europei del primo Novecento.
Viaggio nell’irrazionalità dell’uomo
La deformazione di tali ideologie presto condusse alla nascita e alla legittimazione
degli Stati totalitari.
La nascita e l’instaurarsi al potere di dittature totalitarie in molti Paesi d’Europa (nel ’36 la Spagna fu teatro di un violento scontro civile con esiti dittatoriali sotto la figura del generale Franco), fu reso possibile anche dalla paura di una rivoluzione proletaria sul tipo di quella sovietica.
Il modello di quei regimi assoluti, antidemocratici e reazionari fu fornito dal fascismo italiano di Benito Mussolini che, impadronitosi del potere parlamentare con l’avallo del re Vittorio Emanuele III, dopo la cosiddetta marcia su Roma dei suoi squadristi, nell’ottobre 1922, eliminò ogni libertà parlamentare e democratica.
Una volta al potere, Mussolini e il fascismo rimasero alla guida del Paese per oltre vent’ anni, distruggendo progressivamente le strutture dello Stato liberale uscite dalle lotte del Risorgimento, per sostituirle con strutture di carattere tipicamente dittatoriale e totalitario, attraverso la soppressione dei partiti ad eccezione di quello fascista, il soffocamento di ogni forma di lotta di classe a tutto vantaggio dei gruppi capitalistici, l’eliminazione anche fisica di qualsiasi oppositore (è il caso di ricordare il delitto Matteotti) e l’abolizione di ogni libertà d’espressione.
Il modello fascista italiano fu presto esportato anche in altri Paesi europei.
In Germania, i marasmi economici, finanziari e sociali che travagliavano il Paese l’indomani della fine della Prima guerra mondiale dalla quale era uscita sconfitta e umiliata, resero possibile, nel 1933, l’ascesa di Hitler, che poté contare sull’appoggio compiacente dei magnati dell’industria e di larghe masse di scontenti.
La brutalità del suo regime, giustificata da una presunta superiorità della razza germanica, può essere sintetizzata da due soli dati: l’eliminazione di milioni di ebrei e di “diversi”, di migliaia di oppositori e il suo aggressivo e folle militarismo, che creò le premesse di un nuovo conflitto mondiale.
Mentre la Germania di Hitler scatenava la sua feroce persecuzione razziale, l’Italia di Mussolini si lanciava in un’antistorica operazione coloniale che approdò, attraverso una guerra contro l’Etiopia, alla formazione di un effimero impero coloniale.
Alla fine degli anni Trenta, il nazismo tedesco, con il suo militarismo e con la sua logica brutale di sopraffazione e di dominio, scatenò un nuovo conflitto che avrebbe presto assunto dimensioni mondiali. Nella guerra, scoppiata nel 1939, intervenne, nel 1940, anche l’Italia, che si schierò dalla parte della Germania, contro l’Inghilterra e la Francia e poi gli Stati Uniti e la Russia.
Il conflitto ebbe fine solo nel 1945 con la resa della Germania, dell’Italia e del Giappone, che a queste di era alleato. La resa del Giappone fu determinata da un evento militare del tutto inedito e assolutamente inconcepibile: il massacro di intere popolazioni causato dall’utilizzo, per la prima volta, di due bombe atomiche sulle città di Hiroshima e Nagasaki.
La creazione dell’ordigno nucleare, segno della follia distruttiva dell’uomo novecentesco, è presagito con grande capacità di analisi da Italo Svevo; nel finale del suo romanzo più famoso, La Coscienza di Zeno, viene profetizzato proprio questo evento apocalittico.
La Coscienza di Zeno: “il primo viaggio” alla ricerca dell’inconscio
L’irrazionalità, la follia distruttiva che pervade l’uomo intorno al Novecento, porterà alla creazione di un ordigno nucleare: la bomba atomica.
Tale avvenimento è presagito con grande capacità di analisi da Italo Svevo; nel finale del suo romanzo più famoso, La Coscienza di Zeno, viene profetizzato proprio questo evento apocalittico. Zeno, alter ego di Svevo, osserva con amara ironia se stesso, la sua malattia e quella dell’umanità: la nevrosi. E pensa fra sé e sé: “ci sarà un uomo, fatto anche lui come gli altri, ma degli altri un po’ più ammalato che inventerà, nel segreto di una stanza un esplosivo capace di riportare la terra alla nebulosa primordiale”.
La lucida riflessione di Zeno sulla guerra e sui suoi nefasti effetti, avviene per effetto della guarigione dalla sua malattia: la nevrosi. Paradossalmente, ciò avviene grazie all’accettazione della malattia stessa, dei propri limiti e di quelli dell’uomo.
Vorrei iniziare il viaggio che Zeno fa a ritroso nella sua memoria, parlando della Coscienza, vera protagonista del libro, che si qualifica come un viaggio di esplorazione dell’inconscio. Il romanzo narra della crisi del concetto tradizionale di “coscienza”. La coscienza coincide, ora, con il tentativo, da parte dell’intelligenza, di comprendere il flusso vitale. Tra la coscienza e la vita esiste, nella civiltà contemporanea, un distacco, in quanto esiste un forte iato tra la falsità dei valori costituiti e la realtà dell’esistenza. La trama del romanzo non procede per episodi, non segue la libera successione dei ricordi. I vari episodi non presentano un nesso temporale, ma tematico e si configurano come libero scorrere del flusso di coscienza.
Inoltre, compare la tecnica del monologo interiore, che si presenta come una trascrizione immediata di ciò che si agita nella coscienza.
Il racconto, infatti, è svolto in prima persona: l’io narrante è lo sdoppiamento dell’io vissuto. Questo fa sì che la ricostruzione del passato avvenga in maniera disordinata: i ricordi che affiorano dalla coscienza, evolvono, mutano, creando qualcosa di diverso rispetto alla realtà realmente vissuta.
Zeno rivive il suo passato (deformandolo a suo piacimento) e stende le sue memorie per obbligo terapeutico, seguendo le prescrizioni del suo perfido psicanalista, il Dottor S., iniziale che cela Simun Freud, padre della psicanalisi. Questo riferimento non è casuale: è in questo periodo che vedono la luce le teorie psicanalitiche, teorie che vedono l’ “io” dell’uomo come un insieme di istanze psichiche, sublimazione soprattutto delle pulsioni sessuali (complesso edipico). Tali istanze, con la rimozione dei desideri ritenuti inadeguati alla morale, provocano dei traumi nell’inconscio già nella primissima infanzia.
Gli studi delle patologie dell’inconscio e dei traumi che ne derivano, aprirono una prospettiva del tutto diversa della realtà e apportarono nuove cognizioni sulle problematiche inerenti le relazioni tra gli uomini. Infatti,se è vero che le rimozioni agiscono a livello inconscio, esse, in realtà governano gli agiti, i pensieri, i sentimenti dell’uomo, portandolo alla nevrosi.
Sul piano culturale, l’attenzione alla nevrosi, fa sì che Svevo tracci la figura di un uomo che è la risultanza di queste rimozioni: l’inetto.
Si tratta di un individuo bloccato in una condizione infantile che gli impedisce di “agire”, determinando la fuga in una realtà compensatoria. Si crede una potente “macchina geniale in costruzione” e non ha la lucidità di vedersi nella sua mediocrità.
Si crea una maschera da “genio” per rimuovere l’oscura percezione della propria inettitudine e della propria impotenza sociale.
La psicanalisi diventa la ricerca di un’auspicata soluzione a questa inettitudine, a questa impotenza. E la singolare terapia che dovrebbe porsi come rimedio ai continui fallimenti del proposito di fumare “l’ultima sigaretta”, si pone, in realtà come una ricerca. Ricerca di stabilità tra malattia e salute, tra coscienza e menzogna, tra chiusura e necessità del mondo esterno, nella consapevolezza che l’equilibrio non potrà mai essere raggiunto.
Da dove veniamo?Cosa siamo?Dove andiamo?
Viaggio alla ricerca dell’ “anima primitiva”
L’equilibrio, la ricerca del vero scopo dell’esistenza, sarà la spinta propulsiva della vita di Gauguin.
Il pittore francese, concretizzerà ciò che molti sognano… “l’evasione” da una realtà che non li soddisfa, evasione da una società nella quale non si riconoscono, dove non riescono a realizzare la loro intima essenza.
Nel 1883, già trentacinquenne, decide di abbandonare la vita borghese fino ad allora condotta con lo scopo di dedicarsi interamente alla pittura, e parte verso l’ignoto di terre lontane, verso il mito della purezza incontaminata del “buon selvaggio”.
Senza curarsi della miseria, della famiglia, egli viaggia, si spinge sempre più lontano: Panama, Martinica, Tahiti… decidendo infine di stabilirsi nelle isole Marchesi.
In questo luogo, prima di morire, solo, deluso e disperato, dipinge il suo quadro forse più significativo: Da dove veniamo? Cosa siamo? Dove andiamo?
Da quest’ opera si evince chiaramente come la sua pittura debba essere analizzata non solo per i suoi valori pittorici e che il tema è dettato dall’istinto visionario dell’artista.
La grande tela è una sorta di testamento spirituale: Gauguin stesso descrive in varie lettere il quadro (i cui angoli superiori sono gialli e contengono l’uno il titolo, l’altro la firma) come “un affresco su una parete d’oro, con gli angoli rovinati”. L’opera può essere interpretata come una metafora della vita, dall’infanzia alla vecchiaia, ma anche una rappresentazione della natura effimera dell’esistenza e un confronto tra la “natura” e la “ragione”; rappresentata nel dipinto dalle due donne in atteggiamento di riflessione.
Dunque si tratterebbe di un poema figurato, da non intendersi né come una narrazione di fatti, né come un’allegoria evidente. Quale nesso, infatti, intercorre fra il titolo e l’opera? Difficile comprendere il linguaggio criptico del pittore, se non per alcuni riferimenti: il bimbo addormentato che rappresenta la nascita; la fanciulla che coglie i frutti (la vita); la vecchia (la morte). Alle tre inquietanti domande che ogni uomo si pone sul mistero del proprio passaggio sulla terra, sul perché della propria precarietà, sulle proprie origini e sulla propria fine, nessuno è stato capace di dare una risposta universale che esuli dalla propria soggettività.
Gauguin dà una sua risposta compositiva attraverso la solennità delle figure disposte nel paesaggio, con un andamento che ricorda gli affreschi rinascimentali. Il pittore riprende le figure principali dai dipinti precedenti, ma conferisce loro un significato nuovo. La figura dell’anziana donna è attinta dall’Eva bretone del 1889 fin nel particolare delle radici a tentacolo che la sovrastano; il bambino intento a mangiare un frutto è dipinto soltanto un anno prima in Giorni deliziosi; lo stesso vale per il “gatto che lambisce dalla ciotola”.
Quanto alla figura centrale, è una versione allegorizzata del nudo maschile a braccia alzate che compare in uno dei primi dipinti tahitiani: L’uomo con l’ascia.
La tela è una summa dei temi della sua pittura e della sua visione del mondo. Il pittore nella composizione del quadro traduce in forme plastiche ciò che il poeta simbolista Mallarmé sostiene in poesia: la libertà di un poema musicale senza parole: “ho cercato di tradurre il mio sogno in una decorazione suggestiva: è una meditazione che non fa più parte della tela; non titolo, ma firma”.
Nello stesso anno (1897) in cui Gauguin lascia la sua eredità spirituale ai posteri, lo scienziato Thomson scopre, dopo una lunga serie di esperimenti e deduzioni, la prima particella subatomica: l’elettrone.
Gli elettroni: Viaggio di un elettrone nei metalli
Vorrei prendere in esame il “viaggio” degli elettroni, che danno vita a una corrente attraverso un conduttore.
A questo proposito, mi soffermerò brevemente sulla struttura dei metalli e sul perché essi siano i migliori conduttori di corrente elettrica. Ciò che fa di un metallo un ottimo conduttore di corrente è la presenza, al suo interno (nella sua struttura) di elettroni non legati ai propri atomi genitori e quindi liberi di viaggiare attraverso il metallo stesso, in risposta a sollecitazioni esterne.
Questi elettroni, che vengono detti elettroni di conduzione, sono di fatto gli elettroni più esterni dell’atomo di metallo, i quali, oltre ad essere quelli più debolmente legati al nucleo, per una questione di distanza dal nucleo, spesso soffrono anche del cosiddetto effetto schermatura, dovuto a tutti gli altri elettroni. Essi, quindi, si distaccano dagli atomi, che diventano, così, ioni positivi.
Possiamo rappresentarci, quindi, un metallo come una struttura altamente regolare, costituita da un’immensa sequenza ordinata di ioni positivi (detta reticolo cristallino).
Gli elettroni di conduzione, seppure liberi, si limitano ad un moto vibrazionale, legato all’energia termica del metallo.
Gli elettroni iniziano il loro viaggio solo quando si applica ai capi del conduttore un campo elettrico, ovvero una differenza di potenziale.
Essi, ovviamente, in quanto cariche di segno negativo, si dirigeranno presso la polarità positiva del campo elettrico applicato.
Come tutti i viaggi, anche quello degli elettroni che vengono a costruire la corrente elettrica, non è privo di asperità. Infatti, sotto l’azione di campo elettrico, gli elettroni di conduzione iniziano ad accelerare acquisendo energia, ma dopo brevi frangenti, essi vengono a collidere con gli ioni del reticolo cristallino, che, oltre a deviarli dal loro percorso ideale, rallentando la loro corsa.
La probabilità che ha un elettrone di collidere con uno ione, aumenta con l’aumentare della temperatura del conduttore, in quanto il moto vibrazionale degli ioni attorno alla loro posizione di equilibrio, è proporzionale ad essa.
Possiamo dire, dunque, che il viaggio di un elettrone attraverso il conduttore non sarà lineare, bensì avrà uno sviluppo a zig-zag, con continue accelerazioni e decelerazioni.
La Luna: Viaggio verso nuovi mondi
La medesima spinta propulsiva che indusse uomini come Giasone, Gauguin e Lucio verso l’ignoto, verso la ricerca inesausta delle proprie origini, porterà l’uomo del ventesimo secolo a varcare addirittura i confini del proprio pianeta e a compiere nella realtà quel viaggio che Jules Vernes aveva immaginato come fantascientifico: il viaggio verso la Luna.
L’uomo, da sempre, ha guardato la Luna come a qualcosa di infinitamente lontano e irraggiungibile: filosofi, poeti, pensatori, fin dall’antichità più remota, si sono rivolti ad essa attribuendole significati metafisici e allegorici.
Per queste ragioni, il raggiungimento fisico della Luna rappresentò una vera e propria conquista che permise di acquistare conoscenze di ordine scientifico su questo sconosciuto a affascinante satellite. Il 20 luglio del 1969, Luis Armstrong poggia piede sulla Luna: “è un piccolo passo per un uomo, ma è un grande passo per l’umanità”.
La missione dell’ Apollo 11 ha permesso di identificare sulla Luna mari, ovvero aree piatte formate da polveri scure; rilievi, costituiti da rocce chiare: vere e proprie catene montuose con cime molto alte come i monti Leibnitz; crateri e cerchi formati dalla caduta di meteoriti e durante il consolidamento della Luna.
La Luna, è l’unico satellite della Terra privo di luce propria. Le sue caratteristiche sono: massa e dimensione. La sua superficie è un ottantunesimo di quella terrestre. Ha la forma di un ellissoide (ha una forma sferica leggermente schiacciata ai poli). Ha tre assi con il diametro maggiore rivolto verso la Terra. La sua gravità è un sesto rispetto a quella terrestre a causa delle sue dimensioni.
La Luna, probabilmente a causa del basso valore di gravità, è priva di atmosfera, non essendo riuscita a trattenere le particelle di gas che hanno raggiunto la velocità di fuga di 2,4 Km/s e si sono perse nello spazio. L’assenza di atmosfera provoca anche l’assenza di fenomeni crepuscolari.
Il potere riflettente (albedo) è pari allo 0,07%, solo il 7% della luce solare viene rinviata presso di noi, mentre il restante 93% viene assorbito dal suolo lunare trasformato in calore e trasmesso per irraggiamento.
Per concludere, la sua densità è pari a 3,3 gr/cm3.
Le fasi lunari sono quattro:
Rivolge alla Terra la faccia non illuminata.
La conquista della Luna non ha comunque esaurito l’ansia del conoscere.
La “curiositas” dell’uomo, da Ulisse ad Armstrong, ha portato l’umanità a superare i propri limiti, superando le Colonne d’Ercole e spingendosi fino ai confini dello Spazio…
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Fonte: http://www.scuolazoo.com/wp-content/uploads/2009/06/maturita_il_viaggio.doc
Sito web da visitare: http://www.scuolazoo.com
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