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LE ORIGINI DELLA LETTERATURA EUROPEA
LANGUE D’OC E LANGUE D’OIL
Nel De vulgari eloquentia (I, VII) Dante indica le tre lingue letterarie contemporanee a lui più prossime col nome della rispettiva particella affermativa: chiama quindi lingua d'oil (l'attuale oui) il francese, lingua d'oc il provenzale e lingua di sì il volgare italiano. Il nome "lingua d'oil" è impiegato attualmente per indicare la fase antica della lingua francese (dalle prime attestazioni nel IX secolo fino alla metà del Trecento). Nel medioevo questa lingua veniva parlata in un territorio più ristretto rispetto a quello attuale della Francia, di cui copriva solo le regioni del centro e del nord (esclusa la Bretagna) lungo una linea di demarcazione linguistica estesa da Amiens a Lione. Ai linguisti moderni è possibile distinguere e descrivere le varietà dialettali che compongono la lingua d'oil, tutte documentate da una ricca letteratura (in particolare i romanzi dei cicli cortesi) e da un'abbondante produzione documentaria: riconosciamo quindi, da ovest a est e da nord a sud, normando, piccardo, vallone, angioino, franciano, dialetto della Champagne, lorenese, dialetto della borgogna, mentre il pittavino a occidente e soprattutto il francoprovenzale a oriente presentano elementi linguistici di trapasso al provenzale. Alle varietà della lingua d'oil occorre aggiungere l'anglo-normanno, introdotto in Inghilterra dalla conquista normanna (1066) come lingua letteraria e dell'amministrazione
L'occitano (nell'originale: occitan) o lingua d'oc (da dove Linguadoca) è una lingua, o un gruppo di idiomi, appartenente al galloromanzo meridionale e parlata in alcune zone del sud della Francia. Dialetti occitani sono parlati anche in Spagna (Val d'Aran in Catalogna), nel Principato di Monaco e in Italia nelle Valli Occitane (Piemonte e Liguria) e in Calabria a Guardia Piemontese (CS). In queste ultime zone l'occitano è lingua minoritaria riconosciuta e tutelata dalle leggi locali; diversa la situazione in Francia dove l'occitano non gode di nessuna o di pochissima tutela. A parlare l'occitano sarebbero circa due milioni di persone, mentre si stima in circa sette milioni il numero di persone che ne avrebbero una conoscenza passiva. La denominazione occitano deriva dalla parola occitana òc che significa sì. Questo criterio distintivo venne usato da Dante Alighieri, che descrisse le lingue occitana, francese e italiana in base alle loro rispettive particelle affermative: òc, oïl (antenato del moderno oui) e sì. Mentre la parola òc deriva dal latino hoc, la parola oïl deve la sua origine al latino hoc ille. Il termine lingua occitana deriva da òc e apparve nei testi amministrativi latini verso il 1300. Eppure, fino al secolo XX, la lingua occitana non era nota frequentemente con questo nome e veniva chiamata per lo più lingua d'oc (da cui Linguadoca) o provenzale.
Un evento molto importante per la nascita del volgare italiano, soprattutto in campo letterario e po- tico, è quello che si produce nel sud Europa, in Francia, nell'area geografica della Provenza, dove si sviluppa la letteratura in una lingua definita lingua d’OC o lingua Occitana. Ancora oggi, sembra che due milioni di persone parlino occitano nella Francia meridionale e in alcune aree del Piemonte, della Valle d’Aosta e della Liguria. Il termine "oc" indica il modo specifico in cui in Provenza si diceva il "si", mentre al nord della Francia il "si" veniva pronunciato “oil” e la lingua corrispondente del Nord sarà dunque chiamata lingua d'Oil.
Mentre al Nord la cultura della lingua d'Oil si manifesta sul piano letterario attraverso i poemi epici e i canti cavallereschi i cui testi sono centrati sulle figure di grandi eroi come Orlano e Artù, al Sud della Francia, invece, la letteratura della lingua d'Oc si manifesta attraverso la poesia, la cosiddetta “poesia cortese”.
LA POESIA PROVENZALE O TROBADORICA
La poesia lirica dei trovatori fiorì nella Francia meridionale e in Provenza tra la fine del secolo XI e i primi due decenni del XIII secolo: dopo la crociata contro gli Albigesi e la pace di Parigi del 1229 conobbe un rapido tramonto. È difficile individuare le origini della poesia lirica provenzale. C’è chi la collega alla tradizione classica latina di poesia erotica e chi invece a quella araba, né manca chi la riconnette piuttosto alla poesia religiosa di esaltazione della Vergine. Ma nessuna di queste ipotesi può ritenersi definitiva. La poesia dei trovatori è una delle espressioni della vita di corte: anche se i poeti possono essere grandi signori e feudatari, come Guglielmo IX d’Aquitania, per lo più provengono dalle fila della piccola nobiltà (sono cavalieri poveri) oppure sono ministeriales, cioè dipendenti non nobili del signore. Essi, in cambio del loro canto di lode e di devozione, chiedono amore o almeno protezione alla moglie del signore. Si va da un massimo di ritualizzazione, astrazione, formalizzazione tipico del trobar clus [poetare “chiuso” e difficile] a un’apertura alla concretezza, all’amabilità e alla levità della vita, ben espressa dal trobar leu [poetare “lieve”]; dal più raffinato e idealizzato amor de lonh [amore da lontano], cantato da Jaufré Rudel, uno dei più noti poeti provenzali, alla descrizione anche sensuale della donna e degli incontri d’amore. Nella poesia, che pure in genere canta il momento di joi [gioia] dato dalla fin’amor [amore perfetto], non manca il motivo della sofferenza d’amore per l’inaccessibilità della donna, provocata dalla sua lontananza o dalla sua superbia. Accanto a questi sentimenti, analizzati con grande sottigliezza psicologica, nel testo lirico si possono incontrare riflessioni sulla poesia stessa, sul rapporto fra tecnica impiegata e teorie dell’amore, con dichiarazioni di poetica che rivelano l’alta coscienza della propria arte che ebbero i poeti provenzali. La forma principale di poesia lirica è rappresentata dalla canzone di 4, 5 o 6 strofe, costruite secondo lo stesso schema, in versi ottosillabici in rima, e una chiusa formata da uno o più congedi. La canzone d’amore è estremamente formalizzata, sia nella struttura metrica che in quella tematica: esordisce con un topos che descrive la natura (mostrando per esempio la corrispondenza tra amore e primavera), poi rappresenta la donna e ne canta le lodi, infine introduce la figura del rivale o dei maldicenti che possono danneggiare l’amante; la chiusura è affidata a un congedo che spesso contiene una decisione dell’innamorato in relazione alla sua vicenda d’amore. Altri sottogeneri tipici della poesia provenzale sono il sirventese, il partimen, il planh, l’alba, la pastorella. Le poesie liriche erano trasmesse per via orale e destinate alla recitazione con accompagnamento musicale. Poiché però il trovatore affidava al giullare un testo scritto che conteneva anche la melodia, ne è rimasta una relativamente ampia documentazione
L’AMOR CORTESE
La base della poesia trobadorica è dunque l'ideale dell'amor cortese («fin amor» in occitano), il cui concetto base è la mezura, cioè la "misura", la distanza tra fuoco passionale e signorilità dei modi nel corteggiamento, o tra carnalità e realtà dei fatti nel caso di un possibile adulterio.
L'essere femminile è non più "moglie", mujer, ma Dompna, "Signora", non solo oggetto d'amore, ma protettrice dei cantori. Tutto ha origine nel valor e nel pretz, cioè nelle qualità della dama. L'amore, nel cuore del trovatore, nasce sì dalla contemplazione della bellezza della sua signora, ma anche dalla considerazione delle sue doti intellettuali e spirituali.
Nello stesso tempo il poeta ha coscienza della sua inferiorità nei confronti della dama e, per avvicinarsi, si impegna in un melhorament che gradualmente otterrà.
Fondamentale nel concetto di amor cortese, di "cortesia", è la mezura, cioè la capacità di controllare gli impulsi, gli istinti. In amore la "misura" consiste nel provare alla Signora che ella non è solo oggetto di desiderio, e che l'amore è anche sentimento.In tal modo il poeta sarà ammesso all'intimità della Domina.
L'amore trobadorico non si limita a dar forma al rapporto a due, ma intende educare la società alla convivencia, l'arte di vivere insieme nel rispetto, nella caritat e nella largeusa (generosità): questo affinché l'amore elevi il tono dei rapporti interpersonali.
La pratica dell'amor cortese viene a svilupparsi nella vita di corte di quattro regioni: Aquitania, Provenza, Champagne e Borgogna, pressappoco al tempo della prima crociata (1099) dall'Aquitania, Eleonora portò gli ideali dell'amor cortese prima alla corte di Francia, poi in Inghilterra, dove fu regina di due re. Sua figlia Maria, contessa di Champagne portò il comportamento cortese alla corte del conte di Champagne. L'amor cortese trova la sua espressione nelle poesie liriche scritte dai trovatori, come Guglielmo IX, duca d'Aquitania
I poeti adottarono così la terminologia del feudalesimo, dichiarandosi vassalli della donna e rivolgendosi a lei con l'appellativo lusinghiero di midons (mio signoren.b. al maschile), una specie di nome in codice in modo che il poeta non ne rivelasse il nome. Questo nuovo tipo di amore vedeva la nobiltà non in base alla ricchezza e alla storia della famiglia, ma nel carattere e nelle azioni, e quindi faceva appello ai cavalieri più poveri che vedevano così una strada aperta per progredire. Poiché a quel tempo il matrimonio aveva poco a che fare con l'amore,[4] l'amor cortese era anche un modo per i nobili di esprimere l'amore non trovato nel loro matrimonio.[5] Gli "amanti" nel contesto dell'amor cortese non facevano riferimento al sesso, ma piuttosto all'agire emotivo. Questi "amanti" avevano brevi appuntamenti in segreto, che si intensificavano mentalmente, ma mai fisicamente Le regole dell'amor cortese vennero codificate in quell'opera altamente influente del tardo secolo XII che è il De Amore di Andrea Cappellano.
L'amor cortese si basa sul concetto che solo chi ama possiede un cuore nobile. L'amor cortese del trobador è un sentimento capace di nobilitare e affinare l'uomo.Nasce come un'esperienza ambivalente fondata sulla compresenza di desiderio erotico e tensione spirituale. Tale "ambivalenza" è detta mezura, cioè la "misura", la giusta distanza tra sofferenza e piacere, tra angoscia ed esaltazione.
Per questa ragione, anche, esso non può realizzarsi dentro il matrimonio, e l'amor cortese è quindi adultero per definizione. Si instaura fra la dama e l'amante un rapporto d'amore esclusivo, così come il poeta deve rivolgersi ad una sola dama, essa deve accettare al suo servizio non più di un amante. Nel caso in cui una delle due parti trasgredisse, allora il rapporto può cessare.
Per l'amante il marito non è assolutamente un pericolo, mentre per questi un pericolo si rivela quella cerchia di uomini che si trovano nella sua stessa posizione di "amante cortese", poiché essi tenteranno in ogni modo di infangarlo.
Gli elementi caratterizzanti l'amor cortese sono:
Il culto della donna, vista dall'amante come un essere sublime, irraggiungibile. In certi casi anche divino.
L'inferiorità dell'uomo rispetto alla donna amata, l'amante si sottomette completamente e obbedisce alle volontà della donna. Tale rapporto fra i due sessi è definito "servizio d'amore". L'amante presenta il suo omaggio alla donna e resta in umile adorazione di fronte a lei.
L'amore inappagato,cioè l'amante non chiede nulla in cambio dei suoi servigi. Non si tratta però di amore spirituale, platonico, anzi si presenta con note sensuali.
La gioia, o meglio una forma di ebbrezza ed esaltazione, di pienezza vitale, formata dall'amore impossibile, che però genera insieme anche sofferenza, tormento.
▪ L'amore adultero, che si svolge al di fuori del vincolo coniugale: addirittura, si teorizza che nel matrimonio non possa esistere veramente "amor fino". Il matrimonio, infatti, spesso era un contratto stipulato per ragioni dinastiche o economiche. Il carattere adultero dell'amore esige il segreto, che tuteli l'onore della donna: per questo il suo nome non viene mai pronunciato dai poeti.
▪ Il conflitto tra amore e religione, scaturito dal culto per la donna divinizzata con il culto per Dio; inoltre la Chiesa condanna notoriamente il peccato dell'adulterio.
La definizione originaria dell'amour courtois ("amor cortese") venne data da Gaston Paris[1] nel suo articolo del 1883, "Études sur les romans de la Table Ronde: Lancelot du Lac, II: Le conte de la charrette", un trattato che esamina il Lancillotto o il cavaliere della carretta (1177) di Chretien de Troyes. Paris afferma che l'amour courtois era un'idolizzazione e una disciplina nobilitante. L'amante (idolatra) accetta l'indipendenza della sua amante e cerca di rendersi a lei meritevole, agendo con coraggio e con onore (nobilmente) e facendo tutto ciò che è in suo potere per realizzare i desideri di lei. La soddisfazione sessuale, dice Paris, non può essere una meta o un risultato da conseguire, in quanto l'amore non può essere interamente platonico, dato che si fonda sull'attrazione sessuale.
Sia il termine che la definizione di Paris vennero presto ampiamente accettati e adottati. Nel 1936 C. S. Lewis scrive The Allegory of Love consolidando ulteriormente l'amor cortese come UN
Anche se il termine "amor cortese" appare solo in una unica poesia provenzale esistente (come cortez amors in una lirica del tardo secolo XII secolo di Peire d'Alvernhe), esso è strettamente imparentato con il termine fin'amor, che appare di frequente nel provenzale e nel francese, come pure in tedesco (tradotto come hohe Minne). Per di più, altri termini e frasi associati a "cortesia" e ad "amore" sono comuni in tutto il periodo medievale. Anche se Paris usava un termine che aveva scarsa approvazione da parte della letteratura contemporanea, esso non era un neologismo e torna utile comunque nella descrizione di una particolare concezione dell'amore e incentrandosi inoltre sulla cortesia che ne era la sua essenza.[1]
La pratica dell'amor cortese viene a svilupparsi nella vita di corte di quattro regioni: Aquitania, Provenza, Champagne e Borgogna, pressappoco al tempo della prima crociata (1099) dall'Aquitania, Eleonora portò gli ideali dell'amor cortese prima alla corte di Francia, poi in Inghilterra, dove fu regina di due re. Sua figlia Maria, contessa di Champagne portò il comportamento cortese alla corte del conte di Champagne. L'amor cortese trova la sua espressione nelle poesie liriche scritte dai trovatori, come Guglielmo IX, duca d'Aquitania (1071–1126), uno dei primi poeti trovatori.
I poeti adottarono così la terminologia del feudalesimo, dichiarandosi vassalli della donna e rivolgendosi a lei con l'appellativo lusinghiero di midons (mio signore), una specie di nome in codice in modo che il poeta non ne rivelasse il nome. Il modello trobadorico della donna ideale era la moglie del suo "datore di lavoro" o signore, una donna di un rango più elevato, di solito la ricca e potente padrona del castello. Quando il marito era lontano per la crociata o altri affari, lei gestiva gli affari amministrativi e culturali; talvolta questo succedeva anche quando il marito era a casa. La donna era ricca e potente e il poeta dava così voce alle aspirazioni della classe cortigianesca, in quanto solo coloro che erano nobili potevano cimentarsi nell'amor cortese. Questo nuovo tipo di amore vedeva la nobiltà non in base alla ricchezza e alla storia della famiglia, ma nel carattere e nelle azioni, e quindi faceva appello ai cavalieri più poveri che vedevano così una strada aperta per progredire.
Poiché a quel tempo il matrimonio aveva poco a che fare con l'amore l'amor cortese era anche un modo per i nobili di esprimere l'amore non trovato nel loro matrimonio.[ Gli "amanti" nel contesto dell'amor cortese non facevano riferimento al sesso, ma piuttosto all'agire emotivo. Questi "amanti" avevano brevi appuntamenti in segreto, che si intensificavano mentalmente, ma mai fisicamenteLe regole dell'amor cortese vennero codificate in quell'opera altamente influente del tardo secolo XII che è il De Amore di Andrea Cappellano, dove si legge per es. che...
- "il matrimonio non è una vera scusa per non amare",
- "colui che non è geloso non può amare",
- "nessuno può essere legato a un doppio amore" e
- "quando si rende pubblico un amore raramente dura
Molte delle convenzioni in merito all'amor cortese possono essere rintracciate in Ovidio, attraverso Andrea Cappellano, ma non è plausibile che possano tutte essere riconducibili a questa origine. Nel periodo moderno, considerazioni riguardanti l'amor cortese spesso fanno capo all'ipotesi araba, posta in qualche modo quasi dall'inizio del termine "amor cortese". Una fonte proposta per il confronto è rappresentata dai poeti arabi e dalla poesia della Sicilia e della Spagna musulmane e dal contatto più esteso dell'Europa con il mondo islamico Dato che pratiche simili all'amor cortese erano già in auge in al-Andalus e altrove nel mondo islamico, è molto verosimile che queste influenzassero gli europei cristiani. Guglielmo d'Aquitania, per esempio, era coinvolto nella prima crociata e nella Reconquista in corso in Spagna, talché egli avrebbe avuto un contatto decisamente esteso con la cultura islamica.[senza fonte]
Secondo G. E. von Grunebaum, ci sono diversi elementi che si sviluppano nella letteratura araba.[senza fonte] Le nozioni dell'"amore finalizzato all'amore" e dell'"esaltazione della donna amata" vengono fatti risalire alla letteratura araba del IX e X secolo. La nozione dell'amore come "potenza che nobilita" viene sviluppata nell'XI secolo dallo psicologo persiano e filosofo, Ibn Sina (conosciuto come "Avicenna" in Europa), nel suo trattato Risala fi'l-Ishq (Trattato sull'amore). L'elemento finale dell'amor cortese, il concetto di "amore come desiderio che non può mai essere appagato", era a volte implicito nella poesia araba, ma viene per la prima volta sviluppato in forma dottrinale nella letteratura europea, in cui tutti e quattro gli elementi dell'amor cortese venivano ad essere presenti
Secondo un argomento delineato da Maria Rosa Menocal, in Il ruolo arabo nella storia della letteratura medievale, nella Spagna dell'XI secolo sarebbero apparsi un gruppo di poeti girovaghi i quali andavano di corte in corte, talvolta giungendo nelle corti cristiane della Francia meridionale, una situazione strettamente rispecchiante ciò che sarebbe successo nella Francia meridionale quasi un secolo più tardi. I contatti tra questi poeti spagnoli e i trovatori francesi erano frequenti. Le forme metriche usate dai poeti spagnoli erano simili a quelle usate successivamente dai trovatori.
A volte, la donna potrebbe essere una princesse lointaine ("principessa lontana") e qualche storia racconta di uomini che si innamorarono di donne che non avevano mai visto, solamente ascoltando la descrizione della loro perfezione, ma in genere non erano così distanti. Diventando l'etichetta dell'amor cortese più complicata, il cavaliere avrebbe potuto indossare i colori della sua donna: dove l'azzurro o il nero erano talvolta i colori della fedeltà; verde, probabilmente un segno di infedeltà. La salvezza, precedentemente relegata nelle mani del clero, adesso proviene dalle mani della donna a cui ci si lega. In alcuni casi, ci furono anche donne che componevano, le trobairitz, le quali esprimevano lo stesso sentimento per gli uomini.
Un punto di controversia in corso sull'amor cortese è in che misura esso fosse sessuale. Tutto l'amor cortese era erotico in un certo senso, e non puramente platonico — i trovatori parlano della bellezza fisica delle loro donne e dei sentimenti e desideri che queste suscitano in loro. Tuttavia, non è chiaro ciò che un poeta dovrebbe fare: vivere una vita di desiderio perpetuo incanalando le sue energie per fini più alti, o dedicarsi alla soddisfazione fisica. Gli studiosi considerano entrambe le opzioni.
All'interno del corpus poetico trobadorico vi è un'ampia possibilità di atteggiamenti, anche attraverso le opere dei singoli poeti. Alcune poesie sono fisicamente sensuali, e a volte anche oscene, mentre altre altamente spirituali ai limiti del platonico.Un punto risulta controverso in merito al fatto se l'amor cortese fosse puramente letterario o di fatto praticato nella vita reale. Non vi sono fonti storiche che offrano prova della sua presenza nella realtà. Lo storico John Benton non trova nessuna evidenza documentale nei codici giuridici, casi giudiziari, cronache o altri documenti storici Tuttavia, l'esistenza del genere non-fantastico dei libri di cortesia fornisce forse la prova della sua pratica. Per esempio, secondo il libro di cortesia di Christine de Pizan chiamato Libro delle Tre Virtù (1405 ca.), nel quale viene espressa la disapprovazione dell'amor cortese, la convenzione veniva sfruttata per giustificare gli amori illiciti. L'amor cortese probabilmente trovava espressione nel mondo reale nei costumi del tempo quali l'incoronazione delle Regine di Amore e Bellezza ai tornei. Filippo il Buono, nel suo "Banquet du Voeu du Faisan" del 1454, fa affidamento sulle parabole ricavate dall'amor cortese per incitare i suoi nobili a giurare di partecipare ad una crociata anticipata, mentre anche nel XV secolo numerose convenzioni sociali e politiche di fatto erano ampiamente basate su formule dettate dalle "regole" dell'amor cortese
POESIA PROVENZALE
Nel XIII secolo, i testi sono stati poi raccolti in canzonieri contenenti anche vidas e razos. Il primo poeta provenzale fu Guglielmo IX duca d’Aquitania. Di lui ci sono rimaste dieci poesie in cui si incontrano temi realistici, sensuali e burleschi, ma anche un’ispirazione cortese volta a cantare la fin’amor. Rientra in questo secondo tipo la canzone Ab la dolchor del temps novel [Per la dolcezza della nuova stagione], che è una delle più belle poesie medievali e che costituisce un modello cui si rifarà tutta la poesia provenzale. Fra i poeti successivi, la differenza che separa il trobar clus e il trobar leu è bene espressa dall’opposizione fra Raimbaut d’Aurenga, che segue la prima tendenza, e Bernart de Ventadorn, servo d’amore di Eleonora d’Aquitania, il quale segue invece la seconda. Entrambi sono attivi fra il 1150 e il 1180. I due presentano tesi opposte anche sull’amore cortese: Raimbaut lo esalta nei suoi aspetti antimatrimoniali giungendo a proporre l’inganno nei confronti del marito e a prendere come modello Tristano, Bernart lo respinge, arrivando a rifiutare la propria condizione di amante, giacché l’amore gli si presenta solo come sofferenza e negatività assoluta. La generazione seguente è rappresentata soprattutto da Bertran de Born (poeta guerriero, canta soprattutto la guerra), Guiraut de Bornhel e Arnaut Daniel, maestro del trobar clus. Tutti e tre, attivi negli ultimi decenni del secolo XII e all’inizio del XIII, sono ammirati da Dante (nella Commedia si parla sia di Bertran sia di Arnaut)
Appartiene a questa generazione anche Raimbaut de Vaqueiras, il quale reagisce al convenzionalismo che rischiava di rendere accademica la poesia provenzale e anticipa così l’analogo atteggiamento di Folquet de Marseille (anch’egli presente nella Commedia di Dante) e di Peire Cardinal, entrambi attivi fra il 1210 e il 1250. Il fatto che la poesia provenzale sia stata così ben conosciuta da Dante non deve stupire: i poeti provenzali influenzarono profondamente sia la poesia lirica tedesca dei Minnesänger, sia quella gallego-portoghese della penisola iberica, sia infine quella italiana dalla Scuola siciliana allo Stil novo sino, appunto, a Dan
LA SCUOLA SICILIANA
La Scuola Siciliana fu una corrente filosofico-letteraria che si sviluppò in Sicilia nella prima metà del XIII secolo, presso la corte di Federico II di Svevia. L'impianto non fu accademico, nel senso che non si trattò di una Scuola in senso istituzionale, assumendo piuttosto i contorni di un movimento culturale. In Sicilia, Federico II, imperatore e re di Sicilia, aveva creato uno stato ordinato e pacifico. La sua corte fu operosa tra il 1230 e il 1250, anni in cui si sviluppò la Scuola Siciliana. Qui nacquero grandi poeti che componevano in lingua provenzale e che andavano di corte in corte cantando l'amore, la bellezza femminile e le imprese coraggiose dei cavalieri. I poeti siciliani presero i provenzali come modello e si ispirarono a loro per comporre poesie d'amore. Non si occuparono, invece, di temi legati alla guerra, poiché Federico II garantiva pace e serenità all'interno del suo regno. I poeti di questa corrente poetica narravano la completa sottomissione che si rende alla donna, proprio come un vassallo verso il suo padrone.
Federico II di Svevia era un sovrano illuminato, capace di alternare distensione e comprensione del punto di vista altrui (anche assecondando la presenza di più espressioni religiose all'interno del suo regno), con il pugno di ferro, che non esitava ad esercitare quando necessario, secondo le abitudini dell'epoca in cui si svolse la sua esperienza umana. È rimarchevole che sia riuscito a compiere una crociata, la sesta, senza combatterla, grazie a un sistema di ambasciate che scongiurarono lo scontro con il sultano al-Malik al-Kamil e che, trasformandosi in un incontro tra filosofi, condusse gli occidentali all'introduzione dello zero (per il tramite del dialogo tra gli esponenti della corte di al-Kamil e Leonardo Fibonacci, matematico pisano della corte di Federico II).
Fu un uomo molto colto: parlava infatti il tedesco, il francese (poiché aveva madre normanna e padre svevo), conosceva il greco, il latino, l'arabo, il volgare siciliano che egli stesso volle valorizzare, e l'ebraico. La sua inestinguibile curiosità intellettuale gli fece guadagnare l'appellativo di "Stupor Mundi", ovvero meraviglia del mondo. Fu molto tollerante verso le altre religioni; fondò una scuola retorica a Capua, una medica a Salerno e un'Università a Napoli.
Federico II, incoronato imperatore a Roma da Onorio III (1220), non mantiene subito il primo impegno. Federico aveva infatti prestato giuramento di imbarcarsi per la Terra Santa nel 1217, ma successivamente si tira indietro e Onorio rinvia ripetutamente la data di inizio della spedizione. Prima di indire la crociata, egli vuole compiere nel regno di Sicilia un vasto programma di riforma politica.
Per stroncare le pretese dei baroni feudali, abbatte i castelli costruiti senza autorizzazione e ne innalza di propri, su tutto il territorio; protegge l'economia locale dalle speculazioni dei genovesi; crea l'Università di Napoli (famosa per gli studi giuridici) e quella di Salerno (prima per la medicina); finanzia gli studenti, obbligandoli però a iscriversi alle sue università; ferma la repressione dei musulmani e li trasferisce nella colonia musulmana di Lucera, dove sono lasciati liberi, purché a lui fedeli. Nel 1231, promulga una raccolta di leggi (le costituzioni di Melfi), con cui dà ordine al regno e controlla i poteri amministrativo, legislativo e giudiziario. Ne risulta una nuova forma di Stato, laico, accentrato, burocratico che anticipa la struttura dei futuri Stati europei.
Sulla mentalità di Federico II, un altro rilievo che può dare un'indicazione importante sul suo temperamento e la sua lungimiranza è il progetto di riforma delle proprietà terriere, che fu realizzato dal capuano Pier delle Vigne. Infine, va ricordato che fu letterato egli stesso, autore di un trattato di falconeria De arte venandi cum avibus, che è anche un libro simbolico e filosofico, e di alcuni componimenti poetici, ritrovabili nelle raccolte della Scuola siciliana.
I testi della Scuola Siciliana
I componimenti dei poeti della scuola siciliana ci sono arrivati prevalentemente attraverso il manoscritto Vaticano Latino 3793, che è stato compilato da un copista toscano. Sebbene non ci sia motivo di ritenere che vi siano stati scarti notevoli, è da rilevare però che il copista ha adattato dal volgare siciliano al volgare toscano: così non si dispone di una perfetta testimonianza della vera lingua utilizzata dai poeti della corte di Federico II. Degli originali, si è salvato soltanto un componimento intero, Pir meu cori alligrari di Stefano Protonotaro, e tre spezzoni: le ultime due stanze (versi 43-70) della canzone di Re Enzo S'iu truvassi Pietati, la stanza iniziale (versi 1-12) della canzone "Gioiosamente canto" di Guido delle Colonne e un frammento di "Allegru cori plenu" di Re Enzo; tutto ciò grazie ad una trascrizione dell'erudito emiliano Giovanni Maria Barbieri, che nel '500 disse di aver trascritto questi versi da un manoscritto di cose siciliane, oggi perduto.
Seguendo l'ordine dato dal manoscritto, gli esponenti della scuola siciliana furono: Giacomo da Lentini, considerato anche il caposcuola e largamente noto perché a lui è attribuita l'invenzione della forma metrica del sonetto, Ruggieri d'Amici, Odo delle Colonne, Rinaldo d'Aquino, Arrigo Testa, Guido delle Colonne, Pier della Vigna, Stefano Protonotaro, Filippo da Messina, Mazzeo di Ricco, Jacopo Mostacci, Percivalle Doria, Re Enzo, Federico II e Giacomino Pugliese. A questi vanno aggiunti Cielo d'Alcamo, Tommaso di Sasso, Giovanni di Brienne, Compagnetto da Prato, Paganino da Serzana e Folco di Calavra.
Diversi componimenti si distaccano già dalla poesia provenzale nella forma e nello stile, presentando già anticipazioni di esiti stilnovistici (Segre: 1999). La terminologia cavalleresca francese è tuttavia rivisitata e non copiata pedissequamente, attraverso il conio di nuovi termini italiani mediante anche nuovi sistemi di suffissazione in -za (<fr.-ce) e -ière (< -iera), novità linguistica notevole per quest'epoca.
L'esperienza politica, filosofica e letteraria della Scuola Siciliana
La Scuola Siciliana si sviluppò tra il 1230 ed il 1250 presso la corte itinerante di Federico II di Svevia, imperatore del Sacro Romano Impero e re di Sicilia. Egli stabilì la sua corte in Sicilia, luogo di incontro e fusione di molte culture per la sua centralità nel Mediterraneo, dove creò una scuola di poeti ed intellettuali che ruotavano intorno alla sua figura, ed erano parte integrante della sua corte. I poeti Siciliani contribuirono in modo significativo al patrimonio letterario italiano. Federico II, uomo di grande cultura anche linguistica, intendeva avvalersi di ogni possibile mezzo per stabilire la sua supremazia sull'Italia, e in Europa. A questo fine attuò una politica strumentale, anche nel campo culturale. Con la Scuola Siciliana egli volle creare una nuova poesia che fosse laica, e si potesse così contrapporre al predominio culturale che la Chiesa aveva nel periodo, non municipale, da opporsi alla produzione poetica comunale (l'imperatore era in lotta con i comuni) e aristocratica, che ruotasse, cioè, intorno alla sua figura.
I poeti di questa corrente letteraria appartenevano all'alta borghesia, ed erano tutti funzionari di corte, o burocrati, che lavoravano presso la corte di Federico. Importante rilevare che tutti erano impegnati in attività e funzioni di organizzazione, di cancelleria, di amministrazione. La produzione poetica era riservata alla libertà dello spirito e non costituiva un lavoro o una funzione. In questo senso, la Scuola Siciliana fu un tentativo di realizzare una cultura universale e spirituale, nel rispetto delle religioni manifestate ma senza condizionamenti né, tanto meno, subordinazione. Non a caso uno dei castelli più importanti della casa di Svevia è il nome da cui deriva l'etimologia del termine "ghibellino".
La lingua in cui i documenti della Scuola Siciliana sono espressi è il Siciliano Illustre, una lingua nobilitata dal continuo raffronto con le lingue auliche del tempo: il latino ed il provenzale (lingua d'oc, diversa dal francese che si chiama invece lingua d'oil).
I poeti della Scuola sono riconducibili al numero di venticinque, i cui componimenti trovarono realizzazione nel ventennio compreso tra il 1230 ed il 1250, con un chiaro influsso sulla produzione culturale delle città ghibelline dell'Italia centrale (come per esempio Bologna, città dove visse Guido Guinizzelli, padre del Dolce Stil Novo, influenzato dalla scuola Siciliana).
La Scuola Siciliana fu travolta dal sistema di congiure e di complotti che fu ordita contro il sistema di governo di Federico II, eccessivamente illuminato per il suo tempo e forse, soprattutto, per la paura che lo Stato Pontificio aveva della possibilità che Federico II riunificasse la corona di Sicilia con quella di Germania, circostanza che avrebbe costretto il papato nella morsa del regno di Hohenstaufen. Della congiura di cui fu accusato Pier delle Vigne nei confronti di Federico II dà monumentale testimonianza Dante Alighieri (D.C., Inferno XIII), peraltro asserendo l'estraneità di Pier delle Vigne alle accuse. Dopo la morte di Federico, la Scuola ebbe un rapido tramonto.
Importanza linguistica della scuola siciliana
Meno forte dunque nei contenuti, la poesia lirica dei Siciliani (come li chiamava Dante) contiene in sé un linguaggio sovraregionale, qualitativamente e quantitativamente ricco rispetto ai dialetti locali, data anche la sua capacità di coniare parole nuove per neologismo e sincretismo, assimilando rapporti dialettali italiani e francesi (è dimostrata la stretta relazione tra i siciliani e la Marca Trevigiana, con cui Federico aveva stretti contatti) alle lingue d'oltralpe. Tale ricchezza fu dovuta anche alle caratteristiche intrinseche alla "Magna Curia", che spostandosi al seguito dell'irrequieto imperatore nel corso delle sue campagne politico-militare, non poteva per forza di cose prendere a modello della nuova lingua un singolo dialetto locale. Limitandoci solo al discorso sui dialetti, vi sono già differenze (non troppo marcate) tra la parlata catanese e palermitana, e a queste dobbiamo aggiungere alcune influenze continentali, ma non esclusive, alla zona della Puglia.
Grazie all'arrivo presso la corte siciliana di Federico II dei poeti trobadour provenzali, che esiliati, trovarono rifugio presso la corte del re di Svevia, i poeti siciliani iniziarono a leggere ed a frequentare questi poeti e si accinsero a scrivere nella stessa maniera. Ecco La novità di questa scuola, che grazie anche al suo modello provenzale, fu peraltro un passo per avvalolare il volgare. La nuova poesia diede l'opportunità al volgare, che fino ad allora era usato solo in qualche canto plebeo o giullaresco (come nel caso di Cielo d'Alcamo), di diventare pregevole e di essere degna della poesia (come discuterà poi Dante nel 'De Vulgari Eloquentia'). La scuola siciliana ha anche il credito di aver introdotto un sistema metrico nuovo e rivoluzionario, il Sonetto, che finirà per essere il sistema canonico per eccelenza per fare poesia (Petrarca infatti userà questo sistema, mettendo in rilievo la praticità e musicalità che questa forma poetica dimostra).
JACOPO DA LENTINI
Madonna ha in se vertute con valore
Madonna ha in se vertute con valore
Più che null' altra gemma preziosa;
Chè isguardando mi tolse lo core;
Cotant' è di natura vertudiosa,
Più luce sua beltate e dà splendore,
Che non fa 'l sole, nè null' altra cosa:
Di tutte l' altre ell' è sovrana e fiore,
Che nulla appareggiare a lei non osa.
Di nulla cosa non ha mancamento,
Nè fu, ned è, nè non serà sua pare,
Nè in cui si trovi tanto complimento;
E credo ben, se Dio l' avesse a fare,
Non vi metrebbe si su' intendimento,
Che la potesse simile formare.
L’amore è un desio che vien dal core
Amor è uno desio che ven da core
per abondanza di gran piacimento;
e li occhi in prima generan l'amore
e lo core li dà nutricamento.
ben è alcuna fiata om amatore
senza vedere so'namoramento,
ma quell'amor che stringe con furore
da la vista de li occhi ha nascimento:
ché li occhi rappresentan a lo core
d'onni cosa che veden bono e rio,
com'è formata naturalemente;
e lo cor, che di zo è concepitore,
imagina, e li piace quel desio:
e questo amore regna fra la gente.
L'amore è un desiderio che viene dal cuore, per una sovrabondanza di piaceri, e gli occhi prima generano l'amore e il cuore gli dà nutrimento.E' vero che c'è qualche volte qualche innamorato che nn ha visto l'oggetto del suo amore.
ma quell'amore che stringe con furore nasce dalla visione della donna amata.Gli occhi dimostrano al cuore le qualità buone e cattive di ogni cosa che vedono, così com'è in natura.E il cuore che accoglie ciò, immagina e gli piace il desiderio che ne scaturisce.E' questo l'amore che regna tra gli uomini
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La tradizione posteriore
Alla morte di Manfredi nel 1266, la scuola siciliana cessa di esistere. Grazie alla fama che aveva già ricevuto in tutta Italia e all'interesse dei poeti toscani, tale tradizione venne per così dire ripresa, ma con risultati minori, da Guittone d'Arezzo e i suoi discepoli, con cui fondò la cosiddetta scuola neo-siciliana. A quel punto, però, i poeti toscani lavoravano già su manoscritti toscani e non più su quelli siciliani: furono infatti i copisti locali a consegnare alla tradizione il corpus della Scuola Siciliana, ma per rendere i testi più "leggibili" essi apportarono modifiche destinate a pesare sulla tradizione successiva e quindi sul modo in cui venne percepita la tradizione "isolana".
Non solo vennero toscanizzate certe parole più aderenti al latino nel testo originale (cfr. gloria > ghiora in Jacopo da Lentini), ma per esigenze fonetiche il vocalismo siciliano fu adattato a quello del volgare toscano. Mentre il siciliano ha cinque vocali (discendenti dal latino nordafricano: i, è, a, o, u), il toscano ne ha sette (i, é, è, a, ò, ó, u). Il copista trascrisse la u > o e la i > e, quando la corrispondente parola toscana comportava tale variazione. Alla lettura, quindi le rime risultarono imperfette (o chiusa rimava con u, e chiusa con i, mentre anche quando la traduzione permetteva la presenza delle stesse vocali, poteva accadere che una diventava aperta, l'altra chiusa). Mentre questo errore fu considerato una licenza poetica da Guittone e poi dagli Stilnovisti, alla lunga contribuì probabilmente a svalutare i pregi metrico-stilistici della scuola, soprattutto nell'insegnamento scolastico. Pochi, infatti, sono i manoscritti siciliani originali rimastici: quelli di cui disponiamo sono solo copie toscane.
È ormai quasi certa per tutti gli studiosi l'ascrizione della paternità del sonetto vero e proprio a Giacomo da Lentini, nella forma metrica ABAB - ABAB / CDC DCD. Il sonetto avrà nei secoli una fortuna costante, mantenendo inalterata la forma classicamente composta da due quartine e due terzine di endecasillabi (variando invece a livello di schema rimico): una fondamentale raccolta di sonetti è l'opera non teatrale di William Shakespeare. Il sonetto è stato ampiamente utilizzato da Charles Baudelaire. Ancora nel Novecento, infatti, dopo la parentesi negativa di Leopardi che nell'Ottocento aveva rifiutato questa forma, grandi poeti come Giorgio Caproni, Franco Fortini e Andrea Zanzotto hanno scritto sonetti. Da non dimenticare le composizioni del portoghese Fernando Pessoa e del catalano Josep Vicenç Foix i Mas.
Fonte: http://www.itctorrente.it/public/classe%202.0/entersorrentino/LE%20ORIGINI%20DELLA%20LETTERATURA%20EUROPEA.doc
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