Letteratura italiana del Trecento

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Letteratura italiana del Trecento

Amor Profano


La Letteratura italiana del Trecento


Nel Trecento la figura dello scrittore cambia radicalmente, giacché comincia a diventare un professionista al servizio dei grandi signori, i quali offrono all'artista protezione e un'esistenza dignitosa in cambio delle loro opere. In questa situazione si assiste ad un crescente disimpegno politico da parte degli scrittori che concentrano la loro attenzione sul tema amoroso. Si assiste in particolare alla formazione di una élite aristocratico-borghese caratterizzata dalla diffusione d’opere artistiche sempre più raffinate, ma nell'ambiente cortigiano vi è anche un’elaborazione latina destinata soprattutto ad un uso personale di pochi dotti, soprattutto nelle epistole. In questo periodo si ha la nascita di nuove correnti letterarie che approfondisce il tema dell’amore. La “scuola” siciliana, nata alla corte di Federico II, lo intende come schiavitù nei confronti della donna amata. Nello Stil Novo, invece, la donna diviene creatura angelica, il tramite attraverso cui l’uomo raggiunge la salvezza.
La supremazia del fiorentino assicurata da Dante nei primi due decenni del Trecento è riconfermata per tutta la restante parte del secolo da Petrarca e dal Boccaccio, i quali con le loro opere rappresentano un valido punto di riferimento per gli autori posteriori. Tuttavia non vi è ancora un processo d’unificazione della lingua letteraria, nonostante la diaspora degli autori toscani contribuisca a diffondere il dialetto fiorentino in altre parti d'Italia. Con questi tre autori la letteratura italiana ha una tradizione tale da potersi porre come modello anche per scrittori stranieri.
Possiamo identificare in Guido Cavalcanti il primo esponente del tema dell’amor profano inteso come fascino inquietante della creatura terrena. Nato nel 1250 a Firenze si schiera dalla parte dei Guelfi Bianchi e partecipa intensamente alla politica della sua città. Nelle sue opere lo stile è dolce e in esse tratta degli effetti sconvolgenti dell’amore. Nel sonetto “Voi che per li occhi mi passaste ‘l core” Cavalcanti analizza gli effetti distruttivi dell’amore concepito come una forza cieca che genera angoscia e dolore nell’amante. Il testo è strutturato in due quartine e due terzine. Nelle prime troviamo un’esposizione narrativa in cui il poeta tratta del cuore dell’uomo trafitto dagli sguardi della donna e dell’allegoria amorosa che prende le sembianze di una guerra con lo scopo di conquistare una fortezza nella quale gli spiriti vitali, i difensori, fuggono sbaragliati lasciando l’uomo privo di forze. Nelle due terzine è narrata la stessa vicenda con un cambio di personaggi: la virtù d’amore uscendo dagli occhi della donna distrugge l’amante gettandogli un dardo nel suo fianco; a questo punto l’anima si riscuote tremando e vede il suo cuore morto nel lato sinistro. In questo sonetto Cavalcanti attua un’oggettivazione dei moti interiori trattando non una vicenda autobiografica ma un’esperienza svincolata da ogni riferimento strettamente personale. Conseguenza di ciò è l’annullamento della personalità, ossia la morte dell’io che si risolve in cupa e paurosa disperazione.
Un altro esponente del fascino inquietante della creatura terrena è Petrarca nato nel 1304 e definito padre dell’umanesimo sia per la scientificità del suo lavoro filologico sia per l’amore verso i classici dovuto al disagio verso il proprio tempo. Il rapporto di Petrarca con la politica è caratterizzato dalla lontananza dal comune trasformato in signoria e dagli universalismi di papato e impero; vi è poi il richiamo alla classicità e il rapporto conflittuale con le corti. “Erano i capei d’oro e l’aura sparsi” è uno dei sonetti di Petrarca formato da due quartine e due terzine d’endecasillabi. Nel sonetto la descrizione della donna segue i canoni stilnovisti ma nei primi due versi la figura angelica non è presente. Infatti i capelli sciolti al vento donano alla donna un aspetto sensuale poiché all’epoca i capelli erano sempre raccolti e composti; quindi questa caratteristica suggerisce una particolare intimità e la presenza del vento fa pensare ad un paesaggio campestre fuori della casa signorile. Petrarca ha quindi esaltato la sensualità terrena della bellezza mettendo da parte l’aspetto spirituale. Nel sonetto vi è la presenza della figura retorica del senhal: il sostantivo “l’aura” suggerisce il nome dell’amata “Laura” figura femminile evocata dal passato (i verbi che la descrivono sono all’imperfetto e al passato remoto) con la quale il poeta identifica lo scorrere del tempo come continua consumazione (gli occhi che perdono la loro limpidezza). Petrarca esprime quindi nostalgia nel rievocare ciò che fu e che ora non è più come una ferita che rimarrà aperta inesorabilmente. Il sonetto si sviluppa sull’alternanza passato – presente.
Il testo forse più famoso di Petrarca è “Chiare fresche e dolci acque” una canzone di cinque strofe d’endecasillabi e settenari. Il tema presente è il vagheggiamento amoroso nel quale il poeta immagina il dolore e il pentimento dell’amata che l’ha respinto nell’apprendere la notizia della sua morte per amor suo. Nella IV strofa il paesaggio diviene qualcosa di paradisiaco dove la donna appare come una figura divina; da ciò si capisce come il poeta vuole interrompere la tradizione aggiungendo elementi di sensibilità nuovi. Anche in questo testo è presente la rievocazione nostalgica del passato e quell’angosiosa del presente e del futuro. Lo stile utilizzato da Petrarca ci colloca in una dimensione illusoria, come in un sogno rappresentato dal paradiso. Nel descrivere la donna egli esce fuori dei canini stilnovisti analizzando l’aspetto sensuale (il bel fianco, le belle membra, il seno…).
Un altro sonetto molto noto di Petrarca è “Pace non trovo, e non ò da far guerra” che esprime un forte disagio psicologico. Nell’animo di Petrarca persiste un incessante conflitto tra speranza e delusione sulla conquista dell’amata Laura. Nella lirica Petrarca si analizza interiormente anziché descrivere e lodare la donna. La passione d’amore non si manifesta in suggestioni di sensualità ma nella drammaticità di una sofferenza interiore e terrena. Per quanto riguarda la struttura e l’organizzazione è forse il sonetto più sofisticato. Le quartine hanno uno schema argomentativo. Il primo verso funge da tesi esprimendo la condizione psicologica e l’argomento, mentre la restante parte della strofa descrive quello stato d’animo attraverso antitesi. Le due terzine hanno un ordine diverso e presentano un gioco d’ossimori quindi l’assurdità dell’accostamento sintattico; il dissidio interiore diviene paradossale e quasi fisico. Nel sonetto troviamo un verso chiave dove l’autore spiega come l’amore verso un’altra persona lo induce ad odiare se stesso. È questo il contrario dello Stilnovismo poiché l’amore non eleva spiritualmente.
Matteo Maria Boiardo anch’esso affronta il tema dell’amore inteso come fascino inquietante della creatura terrena. Nato nel 1441 a Scandiano presso Reggio Emilia, partecipò a qualche missione diplomatica al seguito dei duchi ed impiegò il resto del suo tempo negli studi e nella caccia. Divenne poi governatore e morì nel 1494. “L’apparizione di Angelica” descrive come la ragazza ammalia tutti i presenti di un banchetto con il suo arrivo. Nell’opera vi sono caratteri epici e iperbolici di Gradasso e la descrizione di Parigi durante il banchetto. L’apparizione di Angelica è teatrale: la scena è la “sala bella”, il corteo è costituito da quattro “giganti grandissimi e fieri” e “da un sol cavalliere”. La descrizione della donna segue i canoni cortesi e grazie all’uso dell’iperbole viene accentuato il suo fascino, espresso con l’immagine tradizionale del fiore. Angelica è la donna che sa sfruttare a proprio vantaggio la sua bellezza; è donna calcolatrice, astuta e accorta. Quest’aspetto legato alla seduzione, fa di Angelica un personaggio nuovo rispetto a quello della donna – angelo; appare quindi chiaro che il nome della donna non rispecchia le aspettative del lettore. Boiardo diverte il pubblico descrivendo l’imbarazzo dei cavalieri, cristiani e pagani, di fronte alla bellezza della donna e si sofferma in particolare sui sentimenti di Orlando. Il meccanismo strutturale è quello dell’entrelacement che serve per operare un cambiamento della scena e introdurre il successivo momento narrativo.
L’ultimo autore del fascino inquietante è Ludovico Ariosto nato nel 1474 a Reggio Emilia. Una delle sue opere più importanti è “La fuga di Angelica”. Il racconto di Ariosto è strutturato attorno alla fuga d’Angelica. Ella è costretta a fuggire e mette in campo tutto le sue umane virtù: è angosciata, ma allo stesso tempo riflette, calcola e decide. Angelica è una metafora e rappresenta la sorte, il caso, l’occasione: essa si offre inaspettatamente ma nessuno la sa cogliere. Gli uomini “microcosmo” si rivelano in realtà pedine di un gioco incomprensibile, l’uomo è solo all’inseguimento dei propri sogni. Intorno ad Angelica aleggiano sconfitte umane. Il primo sconfitto è Orlando che si è comportato secondo gli ordini cavallereschi. Orlando è l’ironico simbolo del destino umano, tanta fatica per non stringere nulla. Mentre Angelica scappa si affrontano crudelmente altri due cavalieri, Rinaldo e Ferraù, che essendosi accorti della fuga della donna salgono a cavallo e la inseguono. Con questo il poeta sembra affermare che l’importante non è conquistare ma inseguire. Abbiamo infine l’ultimo sconfitto, Sacripante al quale il poeta assegna un particolare destino, tragico – comico. Tragico perché lo scacco è profondo, comico perché pur avendo la preda in mano, è impossibilitato a ottenerla.  Sacripante ha avuto tutte le fortune poiché ha potuto esprimere i suoi sentimenti ad Angelica; ma alla fine la fortuna gli volge le spalle e gli assesta una serie di fieri colpi.                            
Nel 300 l’amore è inteso anche come sensualità e troviamo in Torquato Tasso uno dei maggiori esponenti. Nato nel 1544 a Sorrento scrisse “La scoperta del desiderio”, un brano suggestivo nella descrizione della perdita dell’innocenza infantile da parte di Aminta che ha avuto un contatto fisico con Silvia desiderando un suo bacio. Non riuscendo a confessare il suo desiderio la trae in inganno con la puntura dell’ape e più volte bacia la “semplicetta” Silvia. Da qui scaturisce in Aminta la contraddizione d’amore: gioia e tormento. Nuova è la sensualità che Tasso introduce, la sottile scoperta del desiderio fisico. Nella favola è presente un gruppo di pastori che commenta il senso delle azioni e in qualche modo esprime il parere dell’autore su quale sia la morale da trarre dagli avvenimenti.
“Il giardino di Armida” è un altro brano di Tasso che fa parte del genere della sensualità. Il testo mette chiaramente dinnanzi le due anime di Tasso: da una parte il fascino rinascimentale della bellezza, dall’altra il carattere ingannevole e peccaminoso di quest’ultimo. La sensualità lussuriosa è la cornice della magia e del peccato che rende quella bellezza ancora più tentatrice: il fascino del proibito. Il canto del pappagallo richiama i luoghi letterari; nuova è la sensualità che Tasso vi diffonde. Troviamo scene sensuali di baci fra gli amanti. Nei versi è presente una vena di malinconia che pervade la suggestiva descrizione del giardino di Armida collocato fuori del tempo, sede della rosa che rappresenta l’incorruttibile bellezza. Nella realtà invece il tempo passa e la rosa appassisce. In conclusione, anche in questo brano Tasso manifesta la sua duplicità: da una parte ci sono la cornice magica e la coppia di cavalieri salvatori che condannano il sensuale giardino; dall’altra si trova una descrizione che cattura Tasso e i lettori in un languido e malinconico rimpianto per delizie che si possono solo immaginare.
La corrente amorosa comprende anche il tema dell’amore e della morte inteso come passione. Dante Alighieri è uno dei poeti di questo genere. Nella sua celeberrima opera “La divina commedia” ci presenta nel V canto i due cognati innamorati, Paolo e Francesca, che vinti dalla passione peccano carnalmente nei confronti del marito della ragazza che indignato li uccide. Per questo sono collocati nel II cerchio dell’Inferno dove i lussuriosi sono condannati ad essere sbattuti continuamente da una violenta raffica di vento. In questo modo sono costretti a ricordare eternamente il turbine della passione che li travolse. Dante si presenta come un visitatore smarrito e appena sente nominare fra i dannati le donne e i cavalieri antichi è preso da pietà. Dante ascolta la tragica vicenda narrata da Francesca mentre Paolo piange ricordando la loro felicità nel dolore della vita, e si immedesima nella storia dei due amanti riconoscendo in questa un proprio dramma passato. Così travolto da tanta pietà, sviene.
Un altro autore dell’amore e morte è Boccaccio che scrisse la sua opera più importante, il Decameron. È un’opera pubblicata nel 1200 ed è un racconto nel racconto: vi è un gruppo di sette fanciulle e tre giovani che per passare il tempo durante la grande epidemia di peste del 1348, decide di narrare delle storie e di eleggere ogni giorno un re o una regina che scelga il tema del racconto. L’opera racchiude in se un proemio generale, cento novelle (dieci per ogni giornata), dieci ballate (una alla fine di ogni giornata), una conclusione generale. In un primo momento i ragazzi si riuniscono nella Chiesa fiorentina di S. Maria Novella, successivamente in una villa alle porte di Firenze fuori del mondo e dai suoi pericoli. La narrazione ha un “effetto terapeutico” poiché rappresenta l’evasione dai propri mali e delle proprie angosce dando emozioni ai lettori. L’opera destinata principalmente alle donne poiché affronta argomenti amorosi. Boccaccio considera l’amore come una forza naturale che coinvolge con la stessa intensità l’uomo e la donna. Della passione amorosa tratta vari aspetti fra cui quello dell’amore e della morte vista, quest’ultima, come tragico evento cui si giunge quando gli uomini contrastano la forza naturale dell’amore.
“Lisabetta da Messina” è una delle novelle narrate nel Decameron che ruota intorno all’intensità dell’amore di Lisabetta. Questa si dona a Lorenzo contrastata dai tre fratelli che, morto il padre, hanno il compito di tutelarla. Il ragazzo, che non era un borghese, è ucciso e sotterrato dai tre fratelli della ragazza in un luogo solitario per fare in modo che nessun’infamia ne seguisse. Danno spiegazioni della scomparsa di Lorenzo con l’inganno assicurando che presto tornerà. Lisabetta prega e piange ogni notte; una volta il ragazzo le appare in sogno e le mostra il luogo in cui è stato seppellito dai fratelli. Lisabetta, il giorno dopo, disseppellisce il corpo, ne spicca la testa e la conserva in un vaso di basilico su cui dolorosamente piange non provando, però, odio verso coloro che hanno ucciso l’amato e distrutto il suo sogno. La ragazza è allo stesso tempo fragile e forte. Fragile perché dominata dalla passione d’amore che non respinge e che anzi manda avanti, forte perché questo sentimento la trasforma in una figura eroica.
Nella novella “Guglielmo Rossiglione”  la tragedia d’amore abbandona il mondo borghese immergendoci nella realtà feudale. I due cavalieri ,Guglielmo Rossiglione e Guglielmo Guardastagno, sono veri signori: hanno ciascuno il proprio castello feudale e fra loro regna una perfetta amicizia cavalleresca tra compagni d’arme. In questo rapporto così perfetto entra in gioco l’amore: la castellana, moglie di Guglielmo Rossiglione, e l’amico del marito s’innamorano. Nel testo non troviamo il rito del corteggiamento e Boccaccio da per scontata la loro pratica d’amore. Il marito tradito scopre la tresca fra i due amanti e indignato uccide l’amico strappandogli il cuore che poi, una volta cucinato, fa mangiare alla moglie. Dopo il pasto crudelmente il marito chiede alla donna se le è piaciuto da morto ciò che ha tanto amato da vivo. La donna, sconvolta dal dolore, si uccide gettandosi nel vuoto dai bastioni del castello. Boccaccio nella tragedia ci presenta due figure eroiche: il cavaliere crudele che fa dell’onore la sua ragione di vita per il quale è capace delle azioni più brutali e la donna che ignora le regole d’onore ammettendo quelle dell’amore. Boccaccio dimostra simpatia verso l’eroina che, sentendosi l’unica colpevole del tradimento, aggiunge all’amante ucciso la sua volontaria morte. In questa novella l’autore ci dimostra che contrastare l’amore è fonte di tragedia.
Un altro aspetto dell’amor profano è quello dell’ira d’amore. Ritroviamo questa caratteristica in Dante nell’opera “Così nel mio parlar voglio esser aspro”, dove il poeta descrive gli effetti devastanti dell’amore passionale non realizzato. L’amore diviene perverso e tiene Dante “disteso a riverso” tanto da far anche apparire il tema della morte. Proseguendo nella lettura ci accorgiamo che l’autore utilizza un lessico più aspro per invocare Amore a far vendetta di sé e a far soffrire la donna Petra, così come lei fa con lui. Infine, nelle strofe di chiusura, Dante sembra voler provocatoriamente unire due peccati (la gola e la lussuria) e dare sapore carnale al suo desiderio.     
Sempre occupandoci dell’ira d’amore troviamo Matteo Maria Boiardo con il brano “Il duello di Orlando e Agricane”. Questo episodio mette in evidenza sia le caratteristiche cavalleresche, sia quelle più specificamente culturali dei duellanti. Agricane, vedendo le proprie schiere in difficoltà, decide di attirare Orlando lontano dalla mischia, sicuro di poterlo sconfiggere. Vinto il nemico, tornerà a combattere con i suoi. Finge allora di fuggire e Orlando lo insegue. Nel suo complesso la vicenda semplifica l’ideale cavalleresco rivissuto dal Boiardo e dalla società a cui appartiene. La forza motrice della narrazione è l’amore, infatti di fronte alla passione ogni altra idealità cavalleresca passa in secondo piano.
“La follia d’Orlando” è l’opera di Ludovico Ariosto, autore che abbiamo già incontrato con “La fuga di Angelica” per quanto riguarda il fascino inquietante della creatura terrena, l’inaffidabilità dell’oggetto del desiderio. “La follia d’Orlando” è un’opera che tratta il tema dell’ira d’amore infatti il racconto si snoda lungo un crescendo di tensione che oscilla tra il tragico e l’ironico finché non esplode la Follia Furiosa. La ragione perde se stessa nel tentativo di salvarsi; a ciò si aggiunge l’inanellarsi di fortuite circostanze che rafforzano il perverso meccanismo dell’auto inganno. La causa che provoca la furia di Orlando è la visione dei nomi di Angelica (donna da lui amata) e di Medoro incisi su un albero. Ariosto non ritiene che la follia abbia una dimensione d’incontro con il diabolico e il divino ma che questa accompagni l’avventura umana in quanto ogni uomo insegue il suo sogno irraggiungibile. Ma per vivere con questa mancata conquista si autoinganna e, una volta capito d’aver perso l’oggetto del suo desiderio, diviene furioso.
La piena accettazione del profano è un altro modo d’intendere l’amore e Boccaccio ce ne offre un esempio con la novella tratta dal Decameron, “Monna Sigismonda”, dove l’ingegno della donna domina incontrastato. Dapprima la donna tradisce il marito ma poi, scoperta, capovolge la situazione mettendo in atto una serie di inversioni di ruoli: lei, che è la traditrice, finisce per apparire come la vittima e onesta femmina. Il povero Arriguccio, marito della donna, viene convinto della verità della fantasiosa menzogna di Sigismonda. Il suo ingegno sta tutto nella sua capacità di manipolare la realtà: ciò che era, non è; ciò che non era, è. Lo sbaglio di Arriguccio sta nell’aver preso in moglie una donna di alto rango sociale ma di facili costumi. Il messaggio di Boccaccio è quindi chiaro: non ci si ingentilisce prendendo una moglie nobile ma cambiando il proprio animo e la propria cultura.
“La badessa e le brache” è un’altra novella tratta dal Decameron, una delle più riverenti. Un convento molto severo e la badessa famosa per la sua intransigenza morale diventano un grande bordello e una donna licenziosa. Nella narrazione Boccaccio descrive preti e monache come esseri umani e terreni, con tutti i loro vizi e debolezze. Da parte di Boccaccio individuiamo una critica al moralismo. Infatti le suore per invidia, più che per moralità, decidono di sorprendere Isabetta con l’amante e la badessa è sorpresa con le brache del prete in testa. Di colpo ci si rende conto che è solo un ingannevole modo per opporsi alle forze naturali del piacere. Alla fine la badessa smette di mentire a se e agli altri e dichiara che è vano resistere alla natura, è meglio assecondarla. La badessa, quindi, decide di cancellare ogni inganno e di guardare in faccia alla realtà senza celare i suoi peccati.                           
La ballata “Trionfo di Bacco e Arianna” di Lorenzo de’ Medici è stata scritta per fare d’accompagnamento sonoro con musica ai carri che sfilavano per Firenze, durante il carnevale. Il canto è dedicato a Bacco, la divinità del vino e del piacere, ed esalta il godimento della vita e dei sensi contro ogni visione ascetica che induca alla rinuncia dei beni del mondo. Nella ballata sono presenti altri personaggi mitologici alla ricerca del piacere, poiché dominati dal sentimento dello scorrere del tempo e della caducità dei beni terreni. Il ritornello è dominato dall’alternarsi parallelo di versi che alludono, rispettivamente, alla bellezza e alla gioia da un lato, al fuggire della giovinezza e alla precarietà del futuro dall’altro.
L’ultimo tema amoroso è quello del vagheggiamento dell’amor profano di cui fa parte il brano “Il libero amore nell’età dell’oro” di Torquato Tasso. Il messaggio dell’autore è che l’età dell’oro è bella e da rimpiangere sia per l’assenza della fatica, sia per la generosità della natura, ma soprattutto perché non vi è nessuna regola al libero amore eccetto l’accondiscendenza, cioè il piacere nel fare ogni cosa. A ciò Tasso contrappone la società cortese del suo tempo. Da una parte come regola morale che impone pudicizia e vergogna, dall’altra come norma sociale che determina la vita delle corti. Tasso ironizza su queste regole d’onore pur essendovi perfettamente immerso.

 

Fonte: http://www.luigisaito.it/appunti/amor_profano.doc

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